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Discorsoni / Analisi

Silvano Cacciari – Nell’intreccio della guerra. Ordine e caos della crisi globale

Shock energetico, scarsità di materie prime, inflazione galoppante, recessione annunciata, riarmo massiccio: «È l’economia di guerra, bellezza, e tu non puoi farci niente, NIENTE!».

È il coro unanime scandito a reti e firme unificate che in questi giorni, dalle televisioni ai giornali, passando per i social, comincia a essere ripetuto da giornalisti, opinionisti, politici e ministri con molta chiarezza. Economia di guerra: siamo in guerra, quindi? Dichiarata da chi e in nome di chi, per quanto riguarda l’Italia, ancora non è altrettanto chiaro – in apparenza, nella forma: sappiamo benissimo che le decisioni ratificate a Roma vengono prese a Bruxelles, e prima ancora imposte da Washington e Londra, oltre che pagate da noi.

Delle tendenze di ristrutturazione dell’economia, delle catene del valore e degli scenari geopolitici della crisi ne abbiamo parlato a Modena il 2 aprile, alla giornata di discussione sul mondo di domani, la guerra in Europa e il destino della globalizzazione. Dopo quello di Raffaele Sciortino, presentiamo allora la trascrizione dell’intervento di Silvano Cacciari, autore su «Codice Rosso» e che a breve uscirà in libreria con La finanza è guerra, la moneta è un’arma (per La Casa Usher).

L’intervento ci regala una grande dimostrazione di metodo. Attraverso l’analisi materiale di diversi indicatori, offre una fotografia mossa del presente, in cui linee tendenziali e traiettorie di possibile sviluppo vanno formandosi, permettendo una possibile anticipazione, appunto, del mondo di domani – che, come vediamo, è già oggi. La bussola resta sempre la ricerca, di parte, delle contraddizioni e ambivalenze su cui la prassi militante può (deve) insistere. Nelle righe che seguono, ripercorreremo la storia delle ultime crisi, nelle traiettorie che si sono prevedibilmente disegnate e nei varchi aperti dall’imprevedibile. Il contributo ci è dunque prezioso perché, nella sua ricchezza, dimostra quanto sia ingenuo concepire la teoria come il regno della previsione e la prassi quello dell’inatteso: entrambe devono vivere in entrambi i momenti, pena ridursi a un’analisi astratta o a un’azione senza direzione.

 

Silvano Cacciari

Il testimone che mi avete lasciato dall’analisi che mi ha preceduto è piuttosto gravoso e cercherò di raccoglierlo dando alcune linee di lettura di ciò che sta accadendo. Partiamo però da una premessa generale: se si vuol fare politica, bisogna pensare politicamente. E pensare politicamente è possibile solo a due condizioni: per prima cosa, se si riesce ad avere capacità di previsione; e al contempo se si tiene a mente che fare politica significa fare i conti con la dimensione del rischio e dell’imprevedibile. L’insegnamento viene da Machiavelli. Dobbiamo cavalcare contemporaneamente due tigri, la prevedibilità (che non è così facile da domare) e l’imprevedibilità (che già dal nome di battesimo fa immaginare quanto sia docile). Chiunque si addentri nel sapere e nella pratica politica ne deve tenere conto; dopodiché ognuno farà le proprie scelte. Detto ciò, riallacciandomi alle parole di Raffaele mi concentrerei su un aspetto, che ci fa subito capire in che dimensione la Storia ci ha cacciato. Guardiamola quindi con l’occhio dello storico.

Se noi andiamo ad analizzare la concentrazione globale del capitale a inizio Novecento, vediamo che poco meno del suo 20% era sostanzialmente sulla borsa americana; il 13% su quella che oggi chiameremmo la borsa di Francoforte; e via a seguire. Se la confrontiamo con la situazione alla vigilia della crisi Covid, vediamo che la concentrazione del capitale a Wall Street riguarda il 51% dei capitali globali e tutto il resto è disperso nelle altre borse del pianeta, siano esse ufficiali (cioè borse riconosciute come tali) o non ufficiali (in gergo over the counter). Per esempio, in Germania passiamo dal 13% al 4%. Questo che cosa vuol dire?

Vuol dire che sono passati un secolo e due globalizzazioni, ma soprattutto che il dominio delle borse è sostanzialmente americano, ammesso e anche concesso che quando si parla di Wall Street si parla di Stati Uniti. Messa così, con la fredda logica dei numeri, potremmo tranquillamente parlare di un’egemonia americana sul mondo. È vero, però solo in parte. Perché qui si ritorna alla tigre dell’imprevedibilità. Infatti, nel momento in cui si controllano i capitali, non ci si limita a controllare il mondo, ma si scatenano delle crisi spaventose all’interno di quello stesso capitale che si possiede. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo. Nel momento in cui è avvenuto il processo di globalizzazione – cioè dalla metà degli anni Ottanta, con la libera circolazione dei capitali e la crescita di Wall Street fino a come l’abbiamo conosciuta noi – seguono non soltanto una profonda accumulazione finanziaria e un’estensione spettacolare del peso di Wall Street nella composizione globale delle borse, ma anche una serie di crisi non controllabili dagli stessi Stati Uniti: una catena di effetti devastanti quanto una guerra sul piano dei danni materiali e soprattutto di difficile risoluzione.

Poi c’è una cosa che a noi marxisti piace moltissimo: ogni volta che si è risolta una crisi finanziaria generata da Wall Street, si sono poste le condizioni per una crisi successiva, sempre peggiore. Qui la storia è molto lineare: si va dalla crisi di Wall Street del 1987 a quella del fondo LTCM (che stava per far saltare il mondo nel 1997-98 prima ancora di Lehmann), alla crisi delle Dot-com e ancora alla Lehmann Brothers. Tutto ciò non è controllato, né dalla politica, né dalle banche centrali. A un certo punto, d’improvviso, esplode; resta invece anticipabile l’egemonia americana non solo sul dollaro come ha brillantemente riportato Raffaele, ma soprattutto sulla composizione e sulla forza del mercato di Wall Street (e badate bene, quando parlo di Wall Street non mi riferisco solamente a ciò che conosciamo, essendo Wall Street la punta dell’iceberg di un sistema di borse over the counter a predominio americano).

Come vedete, anche prescindendo dalle vicende ucraine, già lo stesso terreno che abbiamo tratteggiato è caratterizzato da elementi che si conservano e drammatici stravolgimenti. Sia chiaro, drammatici anche per gli stessi Stati Uniti, sebbene siano in una qualche misura abituati strutturalmente a crisi finanziarie e bancarie di questo tipo. Per darvi un’idea, il primo bailout da crisi finanziaria nel mondo è stato quello della Second Bank americana nel 1838. Infatti, se ripercorrete questi due secoli noterete che gli Stati Uniti crescono in una dinamica di spettacolare accumulazione militare, economica e tecnologica, ma anche in una dinamica di continua ripetizione di gravi crisi finanziarie. Ma torniamo ora alle specificità dei “caratteri prevedibili e imprevedibili” del conflitto in corso. Vi porto due esempi, riferendomi per i primi alla storia, e per i secondi alla storia recente.

Partiamo dal prevedibile. A tal fine, permettetemi di raccontarvi in due parole la guerra finanziaria del ’12, cioè il momento in cui si comincia a rompere la vera spina dorsale della globalizzazione: la libera circolazione dei capitali su scala planetaria. Nel ’12 tutto ciò inizia a rompersi quando gli Stati Uniti cominciano a non investire più nei paesi europei. Ne consegue una complessa reazione a catena per la quale si erode la fiducia reciproca tra potenze economiche, e che infine degenera in uno scenario di tensioni globali che viene ricordato come “guerra finanziaria”. Attenzione però: questo ’12 non è il 2012, è il 1912. È il primo effetto della crisi borsistica del 1907-1908. Tutto ciò impone a JP Morgan di fare pressioni sul Congresso per fondare la Federal Reserve. Siamo nel 1913. A cosa conduce questa situazione? Alla Prima guerra mondiale.

Se noi torniamo a guardare (con occhi clinici e non troppo emotivi) i giorni nostri, vediamo un quadro molto simile a quello di 110 anni fa. Assistiamo per l’appunto a un tentativo di controllo della circolazione dei capitali (perché le sanzioni sono questo) e allo stesso tempo a una crisi economico-militare che è sì di livello internazionale, ma per il momento limitata sul campo. Badate bene, non voglio minimizzare alcunché. Voglio solamente mostrare il passaggio da un secolo all’altro e che si cerca di risolvere le crisi con una guerra finanziaria di tipo limitato (per estensione dei capitali coinvolti) e con una guerra sul campo di tipo regionale. Ciò indica due importanti elementi per questo genere di analisi.

Il primo è che è passato un secolo, un secolo contrassegnato da profondo tentativo (nel mondo occidentale e soprattutto dove circola il denaro) di sterilizzazione dei processi bellici, per cui si tende a limitarli sul terreno materiale e a estenderne le conseguenze a lungo termine. Il secondo riguarda il contenimento degli effetti su di essi della guerra finanziaria. Vi faccio un esempio banalissimo: se la Federal Reserve alzasse sul serio i tassi, si produrrebbe una crisi finanziaria di vastissime proporzioni perché il processo, in questo caso, sarebbe ingestibile. Quindi, che cosa voglio dire? Voglio dire che rispetto a 110 anni fa, abbiamo dinamiche che si ripetono, però in forma differente, in una scala tecnicamente più ridotta; per cui i danni ci sono, i morti ci sono, per carità, sebbene non siamo di fronte a ciò che è accaduto 110 anni fa. Resta tuttavia un problema, quello che Raymond Aron chiamava «il naso di Cleopatra»: le guerre sono incontrollabili. Nel momento in cui si apre un processo che si vuole limitato, non è affatto scontato che lo rimanga. A un certo punto le premesse possono evolvere a delle proporzioni veramente devastanti. E qui mi rifaccio a chi mi ha preceduto.

Un altro indice dell’imprevedibilità della situazione di cui stiamo parlando riguarda quanto è accaduto in Ucraina nel 2008. Ora, chi è stato attento alla storia recente dell’economia ucraina, sa molto bene che tutta questa storia è cominciata con la crisi del sistema economico e finanziario ucraino dovuto al grande botto di Lehmann Brothers. Il motivo è semplice: molte banche ucraine erano in varia misura – sia che lavorassero direttamente, sia che fossero mere mandatarie, sia che avessero appaltato servizi finanziari o persino nascosto denaro sporco – comunque legate a quei circuiti, erano la periferia di un mondo finanziario che gli è esploso in faccia. Tutte queste banche sono saltate (determinando, fra le tante cose, una grossa perdita anche per alcune banche italiane) e l’Ucraina si è trovata in una crisi economica disastrosa. Meno 15% di Pil ogni anno. Ora, se recuperiamo cosa dicevano gli analisti della crisi ucraina del 2008, leggiamo che il mondo che stiamo vivendo non era affatto previsto. Nelle previsioni del 2008 sugli anni successivi, certo, si parlava di rientro del debito, di prestiti ponte, un po’ di disoccupazione, ma tutto ciò che è accaduto dopo – l’Ucraina spaccata in due, una guerra civile, l’economia ucraina che di fatto non si è ancora ripresa dal 2008 e poi la guerra russo-ucraina – neanche Nostradamus sarebbe riuscito a immaginarla con i criteri, gli strumenti e con la capacità di analisi di ormai quindici anni fa.

Insomma, nel momento in cui si innesca, come la chiamava Raffaele, una crisi sistemica è più che lecito prevedere dei tentativi istituzionali di pervenire a una sua soluzione attraverso dei conflitti limitati, sia sul piano bellico che finanziario. Vi faccio un altro esempio: se l’Europa decidesse di fare dazi di importazione verso la Russia sul gas e sul petrolio, si avrebbero delle ripercussioni molto più pericolose di tutte quelle scatenate dalle misure che sono state adottate fino a oggi. Se la Banca centrale americana andasse fino in fondo sulla questione del sequestro delle divise americane detenute dai russi e depositate presso le banche statunitensi, la guerra finanziaria sarebbe veramente un big shot, come lo chiamano loro. In definitiva, per adesso ci troviamo sul crinale di una crisi che per lungo tempo farà danni sul piano economico e sociale, e che tuttavia non è ancora il grande incendio che qualcuno pensa. Sia chiaro, non intendo tranquillizzare nessuno: siamo davanti a una crisi decisamente seria, ma che non ha ancora raggiunto il parossismo di quelle che l’hanno preceduta.

A questo punto vorrei proporvi alcune chiavi di lettura. Prima però bisogna capirsi su un fatto fondamentale: quando diciamo – e sono d’accordo con i compagni che hanno organizzato questo incontro – quando diciamo che niente sarà più come prima, è vero; ma ciò non significa che stiamo osservando il passaggio da un ordine politico-economico-finanziario a uno successivo. Stiamo virando invece da un piano di complessità a un altro piano di complessità. E quando intendiamo piano di complessità intendiamo un contesto dove convivono (in un intreccio straordinario, perlomeno da un punto di vista teorico) enormi livelli di ordine ed enormi livelli di caos.

Bisogna tenerlo a mente, perché molto spesso nelle ricostruzioni, quando riusciamo a capire dove sta il livello di ordine, si pensa veramente di avere di fronte una sorta di monolite politico-teorico storico. Per esempio Vestfalia [l’ordine politico europeo moderno, originato dall’omonimo Trattato del 1648 a conclusione delle Guerre dei Trent’anni, ndr] era tutto meno che una situazione ordinata o anche solo stabile, e ciononostante per gli storici della politica è l’Ordine. E così via il Dopoguerra, e tutta una serie di “fasi epocali”. Se si vuole agire e pensare politicamente, si deve essere capaci di capire che stiamo passando da un livello di complessità – dove convivono livelli di ordine e di caos – a un altro livello di complessità. E nel nostro caso gli Stati Uniti rappresentano tutto questo, perché stabiliscono il livello di ordine con il governo commerciale da parte del dollaro, e contemporaneamente si ritrovano a un livello di caos per le crisi finanziarie. Così funzionano le cose.

Ora, io mi sono segnato alcuni campi in cui si sta giocando la crisi dei prossimi anni e vi invito a leggerli sempre in quest’ottica, cioè con le lenti dell’analisi che cerca di comprendere dove si sta depositando il livello di ordine e dove si sta depositando il livello di caos. Allora, il primo fattore importante è che siamo di fronte (le statistiche non sono mie, ma di diversi istituti internazionali) alla più grande crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale in poi. Ho letto report attendibili che descrivono un flusso di popolazione da Est verso Ovest almeno 15 volte superiore rispetto a quello generato dalla crisi jugoslava e largamente superiore persino alla crisi dei rifugiati del 2015. Questo, badate bene, cambia molte cose. Basti pensare a come ha cambiato la Germania l’ondata dei profughi del 2015 per rendersi conto che siamo di fronte a una rivoluzione demografica e sociale.

Noi non ce ne rendiamo conto – e spesso l’analisi dei compagni accusa un po’ questa mancanza oppure la riduce alla sola questione dell’accoglienza –, ma noi siamo un paese di vecchi. Viviamo in paesi a declino demografico. Se le previsioni sono queste, ovvero un volume di profughi 15 volte superiore alla guerra jugoslava, evidentemente siamo di fronte a un fenomeno che potrebbe cambiare realmente la morfologia delle città, e in ogni caso io non ho mai visto un’ondata migratoria di questo tipo non provocare comunque degli effetti (positivi o negativi che siano) che ti cambiano la faccia della società.

La seconda questione l’avete incontrata tutti i gironi e soprattutto quando andate a pagare le bollette: cambiano forzatamente le politiche energetiche. Ora non ve la sto a menare sul rapporto tra politiche energetiche e speculazione finanziaria perché altrimenti mi metto a sbadigliare anch’io, però questo è un punto nodale. Il nostro paese sta già facendo piani di contingentamento delle risorse energetiche per il prossimo autunno. È una faccenda importante, che non riguarda solamente il presente, ma soprattutto il posizionamento dell’energia nel futuro. Quando il ministro della Transizione ecologica dice che «la transizione ecologica non sarà un pranzo di gala» facendo ovviamente rivoltare nella tomba il povero Mao, dice in primo luogo una cosa: che, se usiamo un linguaggio militante, le politiche energetiche saranno un modo di praticare la lotta di classe sotto altre forme. Perché badate bene, le politiche energetiche saranno pagate dalle famiglie, dalle strutture sociali più basse, dalle piccole e medie imprese, insomma dalla struttura grassrootdella società. Politicamente questo è un altro grosso problema.

Un altro problema, forse poco valorizzato in queste settimane (dopotutto, non si possono scoprire tutte le contraddizioni in un colpo solo) è la sicurezza alimentare. La Russia è il principale esportatore di materiale per fertilizzanti del pianeta, e non è poco. Se la situazione resta critica, si dovranno ripensare le politiche di sicurezza alimentare. Per fare un esempio, la fragilità dell’importazione del grano è molto seria, sebbene si sia fatta sentire in maniera ridicola – avete visto anche meglio di me quelle aziende che strombazzavano «noi abbiamo spaghetti 100% grano italiano» fare delle pubblicità struggenti dicendo «scusate, ma con la crisi del grano ucraino siamo costretti a aumentare i prezzi». Ad ogni modo, la rogna non è solo il contingentamento, ma anche e soprattutto i prezzi. Tanto più ciò che gli americani chiamano food security è sull’agenda politica, tanto più lievitano i prezzi degli alimentari; e, a sua volta, quanto più lievitano i prezzi degli alimentari, e tanto più si producono pesanti criticità sociali. Ricordo qui che le primavere arabe sono un frutto di uno dei quantitative easing della Federal Reserve americana che rese insostenibile il prezzo del grano e del frumento come materie prime.

Ora, c’è un altro aspetto importante. Ne ho già toccati tre, più legati a una sfera biopolitica – la questione demografica, l’energia, il cibo –, ma accanto a questi c’è l’altra faccia della medaglia, emersa in tutta la sua drammaticità nelle ultime settimane: è l’aumento spettacolare dei prezzi delle commodities, cioè delle materie prime. Questo ha due effetti fondamentali. Il primo è di natura ovviamente economica, cioè la ripercussione di questa situazione sulle gerarchie di potere a livello geopolitico e globale. Però ce n’è un altro a mio avviso ancora più determinante, che riguarda la maniera in cui si è scatenata in queste settimane la guerra finanziaria sulle materie prime.

Chi ha avuto la pazienza di leggere su «Codice Rosso» sa che nei giorni scorsi mi sono messo ad osservare un po’ di cose, soprattutto un settore, a mio avviso, benchmark per queste dinamiche: il nichel. Il prezzo del nichel è impazzito. Si è gonfiato fino ad arrivare al 93% di aumento in due giorni, poi il nichel non è stato più trattato alla borsa di Mosca per un paio di settimane proprio perché stava salendo a prezzi vertiginosi. Ora, questo logicamente ha grosse ricadute sui prezzi delle materie prime di diverse componenti; però crea anche un altro problema. Sembrerà assurdo da un punto di vista empirico, ma un volume così alto di prezzo per questo tipo di materie prime mette in difficoltà le stesse compagnie finanziarie che fanno servizi e prodotti finanziari per le materie prime. Almeno tre di esse, secondo alcuni analisti americani, sono considerabili a rischio di esplosione pari a quelle del 2008. Quindi come vedete, da una parte le materie prime sono un problema immediato; dall’altra sono un problema di equilibrio sistemico, perché se la Federal Reserve non trova il modo di salvare queste agenzie come ha fatto per le compagnie dei mutui nel 2007-2008, il rischio è serio. Come vedete lo scenario si fa effervescente.

Un’altra questione ancora è il cambiamento della catena di fornitura, la supply chain. Il covid e la guerra hanno messo a “seria capacità di resilienza” le catene di fornitura globali. Ora, si è vero, da una parte vediamo che Amazon funziona. Poi, se volessimo capire cosa stia veramente mutando e dove va la globalizzazione, potremmo andare a vedere le tariffe, l’efficienza, i costi, la benzina, il petrolio, eccetera; ma soprattutto, se vogliamo capire se la globalizzazione funziona o meno o si sta trasformando, dovete andare a vedere una cosa sola: cosa accade nel mondo dello shipping, della navigazione. Non ve lo dico perché sto in una città di porto, ma perché è una realtà nella quale le mutazioni della globalizzazione trovano un grande elemento di misura. Non è un caso che chi sta cercando di cambiare la globalizzazione, la prima idea che si è messo in testa – e verso il finale ci ritorno – sia dire “restringiamo ruolo e peso dello shipping”. Non è poco. Perché? Perché la nuova supply chain, che ha nello shipping un elemento per tante merci decisivo, ha rimesso in discussione forza e importanza di questo mondo. Allo stesso tempo, se il mondo dello shipping tornerà a prosperare, allora probabilmente tante analisi sulla deglobalizzazione sono destinate ad essere più facilmente messe in archivio rispetto ad altre.

Vi è poi un ulteriore un processo particolarmente pericoloso, che abbiamo visto in questi anni e che con la guerra ucraina si sta accentuando: la separazione degli standard, ovvero la regionalizzazione o (peggio ancora) nazionalizzazione degli standard tecnologici di molti prodotti. Qualcosa di questa dinamica ce lo fa capire la guerra sul 5G, che si è chiusa durante il Covid. È evidente che un mondo dove le tecnologie non si parlano, per cui quello che si usa in una parte del mondo non si può usare da un altro, è un mondo più incline alla deglobalizzazione di altri.

Prima di chiudere toccherei altri tre punti veloci.

Per prima cosa, noi abbiamo visto che le multinazionali hanno un peso politico più forte che in passato. Nel momento in cui Goldmann Sachs, McDonald’s e Amazon lasciano la Russia, è evidente che riconoscono di detenere un’influenza politica e che intendono esercitarla.

C’è poi la ripresa massiccia della vecchia, “sana” spesa militare. Un aspetto direi ineludibile di queste crisi è che comportano da una parte la proliferazione dei prodotti finanziari di rischio, e dall’altra la moltiplicazione degli investimenti per la guerra sul campo. Sono questi gli indicatori con i quali possiamo misurare ciò che sta accadendo, e che ci suggeriscono dove effettivamente si annidano le trasformazioni degli equilibri e gli spostamenti di potere.

Io so bene che la domanda, la vexata quaestio, è: ma stiamo andando verso un processo di globalizzazione o verso un processo di deglobalizzazione? A tal proposito, io starei attento a una cosa. Ci sono due criteri, che nomino innanzitutto per chiudere quest’intervento, ma anche per capire quello che accade. Il primo è la circolazione dei capitali: finché c’è libera circolazione di capitali non c’è deglobalizzazione che tenga. Cioè, forse non è così per chi è abbonato a servizi di tossicità mentale come «Repubblica», «la Stampa» e compagnia cantante – ragazzi, io ho letto cose in questi giorni che se avessi lavorato in una redazione di questo tipo avrei buttato via la tessera da giornalista; quelle che un tempo venivano chiamate “marchette” erano dignità e rispetto a quello che si vede oggi –, ma comunque finché c’è libera circolazione dei capitali c’è comunque globalizzazione. È sempre stato così.

Il secondo parametro per capire effettivamente dove va la globalizzazione, è capire quali sono i device tecnologici che la interpretano. E qui chiudo su un dettaglio che credo essenziale. Nel 2016, poco prima della vittoria di Trump – ora, non mi dite che Trump e Biden sono uguali: ve lo dico subito, per me Trump era enormemente più simpatico, e poi viene dal tipo di cultura televisiva trash in cui sono nato, quindi ho un cuore anche io – nel dibattito economico-militare e nelle riviste del Ministero della Difesa statunitense si apre una discussione sulla deglobalizzazione legata a quei device che semplificando possiamo chiamare stampanti 3D. I reparti militari americani e il Ministero della Difesa cominciano a dire: «Noi possiamo intraprendere una deglobalizzazione nel momento in cui i device industriali per la stampa 3D diventano una cosa seria». È un’ipotesi che ha avuto una certa fortuna in un dibattito molto interessante da questo punto di vista.

Allora, per concludere, le questioni sono due: la globalizzazione ci sarà finché c’è libera circolazione dei capitali; secondo, i processi di deglobalizzazione o globalizzazione saranno comunque determinati dagli standard tecnologici industriali correnti. Quindi, a mio modo di vedere sono questi i due i migliori criteri di lettura di questi processi. Ma badate bene, non ho voluto fare il Nostradamus, per carità. Non ho nemmeno la barba.

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Raffaele Sciortino – La temperatura del sistema. Guerra e scongelamento della crisi globale

Il mondo che conoscevamo prima del 24 febbraio 2022, oggi, non esiste più.

È a partire da questo dato di fatto, terrificante nella sua chiarezza, che il 2 aprile abbiamo voluto organizzare un momento di discussione, a Modena, sul mondo di domani, la guerra in Europa e il destino della globalizzazione, di cui oggi cominciamo a riportare gli interventi. Due invitati d’eccezione: Raffaele Sciortino, autore di I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios 2019) oltre che di numerosi altri contributi, e Silvano Cacciari, della redazione di «Codice Rosso» di Livorno e autore di La finanza è guerra, la moneta è un’arma (in uscita a breve per La Casa Usher). Una discussione di alto livello quindi – o tutto o niente, ormai dovreste conoscerci –, per capire quella che è la “temperatura” del sistema capitalistico globale, al netto del riscaldamento climatico e dei “condizionatori spenti”; un “provare la febbre” a una fase che, già prima della precipitazione ucraina, appariva torrida, e che la messa in mora di un nuovo conflitto armato dentro l’Europa, tra attori e potenze mondiali sull’orlo della crisi di nervi, non può che “accompagnare solo” (cit.) al punto estremo di fusione.

Non ci interessa ripetere la cronaca della guerra o dare cristalline indicazioni politiche. Ci muove, per ora, l’urgenza di possedere la complessità di tendenze, traiettorie e scenari. Sebbene questa crisi sia (fino adesso) localizzata in Ucraina, si dispiega infatti su vari livelli – militari, economici, geopolitici – che abbracciano il mondo intero, sia fisico che immateriale; che chiamano in causa l’egemonia del dollaro, l’ascesa della Cina, la decadenza occidentale – anche se ben vedere ci sono tanti Occidenti, e questa crisi mette in luce i diversi loro interessi: l’Europa, dell’Ovest e dell’Est, quella mediterranea, la Russia eurasiatica, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il resto dell’anglosfera, e via discorrendo. Tutti attori che stanno giocando delle partite su vari livelli: partite molto pericolose, dove si gioca indiscriminatamente col fuoco e il ferro, oltre che con il nucleare, sulla nostra pelle.

Riassumendo, il grande tema è capire che ne sarà della globalizzazione che abbiamo visto, e vissuto, circa dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 in poi – per stare mediani tra la crisi degli anni Settanta e quella del 2008. A nostro parere, questa crisi è anche uno degli aspetti lunghi di questa dissoluzione, una delle sue conseguenze lunghe, approfondita dalla frattura del 2008 e che il Covid non ha fatto altro che accelerare. E quindi, cosa ne sarà del mondo che abbiamo abitato fino a oggi? È per questo che abbiamo voluto mettere in relazione la guerra – che dopo decenni ha l’Europa come epicentro (anche se in verità c’era già negli anni Novanta con la guerra nei Balcani, sebbene si tenda un po’ a dimenticarlo), ma che può veramente escalare e diventare mondiale – con il destino del sistema globale, che è il grande punto interrogativo.

L’unica cosa certa, a nostro avviso, è che andiamo verso un nuovo disordine mondiale. L’abbiamo chiamata, non a caso, una nuova “età dei torbidi”. Sta a noi comprenderla, e riuscire ad anticipare il mondo di domani da una prospettiva di parte, o quantomeno autonoma dalle narrazioni dominanti, dalle propagande, dagli “interessi generali” che si si condensano quotidianamente attraverso redazioni, giornali, talkshow, bombardandoci – metaforicamente, s’intende, ma con proporzionale devastazione delle nostre capacità e soggettività. Sempre mossi da cattive intenzioni, con la nostra parte ancora tutta da costruire. Buttiamo, quindi, senza paura lo sguardo nell’abisso: è solo questione di tempo prima che l’abisso guardi noi.

 

Raffaele Sciortino

Cercando di non essere troppo lungo, oggi nominerei tre punti, tre considerazioni, e ne approfondirò sostanzialmente uno: qual è la temperatura del sistema mondo da un punto di vista in primo luogo economico, e quindi anche geopolitico e sociale. Le altre due considerazioni sono invece le seguenti: la prima penso che sia di fondo condivisa dai presenti ed è la sovradeterminazione di questo conflitto – che vede ovviamente nell’avanscena la Russia e l’Ucraina – da parte degli Stati Uniti. Permettetemi dunque un breve preambolo.

Mi è capitato di leggere ultimamente Günther Anders, il suo testo L’uomo è antiquato. Riflettendo sulla cecità dell’umanità uscita dalla Seconda guerra mondiale rispetto all’apocalisse possibile, cioè la bomba e l’autodistruzione nucleare, a un certo punto l’autore fa una riflessione, che butta un po’ lì. Dice che la forza di un una concezione non sta tanto nelle risposte che dà, quanto nelle domande che soffoca, che non lascia venire fuori. Ora, se al posto di “concezione” mettiamo “soft power statunitense” – e cioè uno degli effetti fondamentali dell’egemonia imperiale statunitense negli ultimi decenni – mi pare piuttosto che, sebbene embrionalmente, in maniera contraddittoria, per così dire soffocata, stiano venendo fuori numerose domande. Non solo fuori dall’Occidente, dove la cosa è abbastanza evidente, ma anche in Occidente e tra la gente comune (non c’è bisogno qui di parlare di soggettività politica). E la domanda che ci si fa è: qual è il ruolo degli Stati Uniti in quello che sta succedendo? E non è forse che questo ruolo sia fondamentale, se non prioritario? Questa è la prima considerazione che rimando a voi per la discussione che seguirà.

Il secondo punto è quello che toccherò, ovvero la temperatura complessiva del sistema mondo e quindi la gravità di questa situazione. Ancora una volta non possiamo sapere in che misura, ma siamo sicuramente di fronte a un punto di svolta, come si diceva prima. E una terza domanda che vi rilancio è come sia possibile, a quali condizioni, su che basi costruire un movimento contro la guerra. In altri termini, quali sono le difficoltà (anche, ma non in primo luogo soggettive) che derivano dalla situazione che cercheremo cogliere nel suo insieme.

Voglio qui approfondire con voi – approfondire è una parola grossa; diciamo articolare – un ragionamento sul fatto che la guerra ucraina è il precipitato di una situazione più complessiva che, come si notava prima, rimanda quantomeno allo scoppio della cosiddetta crisi finanziaria del 2008. Ora, per essere il più sintetico possibile e spero non troppo didattico, direi che la crisi scoppiata nel 2008 con l’epicentro negli Stati Uniti, e che solo in superficie è una crisi finanziaria, è una crisi in realtà sistemica.

A partire dalle risposte che le sono state date dal sistema finanziario statunitense, dallo Stato statunitense e poi a cascata da tutti gli altri attori globali, è stata sostanzialmente congelata. Congelata però non senza aver innescato due processi fondamentali, di cui oggi vediamo una prima precipitazione forte a livello geopolitico. Il primo processo è quello che l’«Economist» (la Bibbia del capitalismo mondiale da metà Ottocento in poi) ha chiamato la slowbalization, da slow, lento. La globalizzazione ascendente, dell’ultimo trentennio perlomeno, anche prima della caduta del Muro di Berlino, non ha subito interruzioni perlomeno nei suoi tre indici fondamentali, ovvero nel commercio mondiale rispetto al prodotto netto globale prodotto in un anno, nella costituzione di filiere globali della produzione e chiaramente della logistica, e negli investimenti esteri. Non c’era e non c’è stato finora un arresto vero e proprio, ma osserviamo sicuramente un rallentamento degli indici di crescita. Quindi appunto una slow-balization, una globalizzazione che rallenta.

Contestualmente a livello produttivo e più in generale a livello di capacità di rimettere in moto l’accumulazione capitalistica e quindi la macchina dei profitti, con alti e bassi e in situazioni ovviamente differenziate, per quanto riguarda l’Occidente (diverso il discorso per l’Asia orientale e in particolare per la Cina) noi abbiamo assistito a una sostanziale stagnazione. Il termine non è precisissimo perché appunto le situazioni sono differenziate sia tra l’Europa e gli Stati Uniti, sia internamente all’Europa; ma diciamo fondamentalmente una crescita asfittica e ancor più un’incapacità di lanciare l’accumulazione di capitale. Il che è andato insieme, come effetto-che-diventa-causa, con un indebitamento crescente impulsato (proprio per bloccare gli effetti dirompenti economici, e poi sociali e politici della crisi globale) dalle banche centrali, in particolare dalla Federal Reserve e poi a cascata dalla Banca centrale giapponese, britannica e poi, da ultima, dalla Bce allora guidata da Draghi.

Un indebitamento che non ha pari nella storia del capitalismo e che si è ampliato ulteriormente durante la crisi pandemica. I bilanci delle banche centrali hanno raggiunto indici impensabili, per esempio quello appunto della Banca centrale statunitense (adesso non ricordo precisamente la cifra) che si aggira tra i cinque e i sette trilioni di dollari, che equivale a una cifra tra un terzo e la metà del prodotto interno lordo statunitense. Il che – e non è un punto che possiamo approfondire – ovviamente non è senza ripercussioni su quel fenomeno scattato nell’ultimo annetto e mezzo (nel cosiddetto “rimbalzo” postpandemico) che è l’inflazione.

Beh, già solo il nominare questi macro-processi ci indica che quella che è stata la globalizzazione negli ultimi trenta-quarant’anni non può non essere andata incontro a delle incrinature, se non a delle vere e proprie brecce – anche tenuto conto del fatto che in questi dieci anni tra il 2008 e lo scoppio della crisi globale, la Cina è intervenuta se non a salvare l’economia mondiale e l’Occidente, comunque ad agire come una valvola di sfogo delle difficoltà dell’economia. Ma andiamo per gradi e facciamo un passo indietro.

Cos’è stata la globalizzazione? O meglio, cos’hanno costituito – sul piano geopolitico, sul piano sociale e della lotta di classe, sul piano strettamente economico – quegli assemblaggi che hanno dato come risultato la globalizzazione a guida statunitense?

Alla base ci sono almeno tre grandi processi. Il primo è processo geopolitico, che descrive il riavvicinamento Stati Uniti-Cina, avvenuto a partire dall’inizio degli anni Settanta nel passaggio da Mao a Deng, ossia nel momento in cui gli Stati Uniti stavano subendo una grossissima crisi anche a causa della sconfitta in Vietnam e delle lotte sociali del “lungo Sessantotto”.

Sul piano strettamente economico e monetario, è cruciale lo sganciamento del dollaro dall’oro nel 1971, il che ha dato il via alla fluttuazione delle monete senza una base fisica, per così dire. Sintetizzando, nel regime di Bretton Woods post-Seconda guerra mondiale il legame stretto, fisso, tra dollaro e oro e su cui si innestavano tutte le altre monete, aveva fatto del dollaro la moneta di riserva mondiale e il mezzo di pagamento internazionale. Dal ‘71 in poi, invece, il dollaro segue una traiettoria e una dinamica “a fisarmonica”: nel senso che lo sganciamento dall’oro permette alla Banca centrale statunitense di stampare moneta a volontà, a seconda delle esigenze geostrategiche degli Stati Uniti, ora stampando, ora tirando le redini e stringendo. Nel primo caso, scambiando con il dollaro la produzione mondiale, ci si permetteva attraverso di esso un controllo, un comando su una buona fetta del valore prodotto globalmente; per converso nel secondo caso, in situazioni mutate, si chiudeva la fisarmonica, per riattirarlo negli Stati Uniti, di contro a un dollaro che se troppo inflazionato rischia di perdere valore (e perdeva valore). Una tattica abituale consisteva, per esempio, nell’alzare i tassi e quindi riattirare negli Stati Uniti i capitali che rischiavano di volarsene su altri lidi. Ovviamente la questione è molto più complessa di quello che sto dicendo qui, ma è giusto per dare un’idea di come è andata a costituirsi dagli anni Settanta quello che possiamo chiamare (e che è un fenomeno inedito nella storia del capitalismo mondiale) l’imperialismo finanziario del dollaro.

Governare attraverso il dollaro vuol dire anche governare i flussi di valore globali attraverso l’indebitamento. Perché un dollaro liberamente fluttuante, ora inflazionato ora deflazionato a seconda delle vicende geopolitiche ed economiche interne ed internazionali, ha permesso agli Stati Uniti di accumulare un enorme deficit interno e un disavanzo commerciale delle partite correnti con l’estero altrettanto enorme. In breve, per la prima volta abbiamo un soggetto egemone che comanda il mondo attraverso il debito, il suo debito. Ricordo solo che dalla Prima e poi ancor più dalla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti invece erano usciti come primi creditori di quelle che erano le potenze forti di allora, quelle europee e su tutte la potenza egemone di allora, la Gran Bretagna.

Il terzo macrofenomeno che ha contribuito alla nascita della globalizzazione senza che ci sia stata, come dire, una regia condivisa – cosa che nel capitalismo è impossibile, a meno di abbracciare teorie complottiste – è stata la lotta del “lungo Sessantotto” e il suo assorbimento. A tal proposito è importante una precisazione. Non è che sia stata semplicemente una sconfitta della lotta di classe in Occidente per come si era mossa dagli anni Sessanta agli anni Settanta. C’è stato semmai un suo affievolirsi e anche delle sconfitte importanti, ma soprattutto un assorbimento delle istanze del Sessantotto – quelle istanze libertarie e di ricerca di autonomia che in parte si erano rivolte anche contro la dipendenza dal lavoro salariato – che in qualche modo la globalizzazione ascendente era riuscita ad assorbire portandole e declinandole sul proprio terreno, cioè a favore di una ripartita dell’accumulazione capitalistica.

Ora, questo ci spiega anche, o può spiegare e plausibilmente secondo me, anche un altro fenomeno. Cioè il fatto che essendo accidentale il nuovo tipo di dominio che gli Stati Uniti hanno instaurato sul mondo dopo gli anni Settanta, nella fuoriuscita dalla crisi del lungo Sessantotto – un dominio, attenzione, che ha avuto necessariamente come altro pilastro (ovviamente in termini asimmetrici, di potenze e di profitto) la Cina, cioè l’apertura dei mercati occidentali (statunitensi in primis) all’esportazione cinese, il che ha permesso l’internazionalizzazione delle produzioni, la costituzione di filiere globali della produzione che hanno permesso alla Cina di fare quell’incredibile ascesa, in trent’anni sostanzialmente, che gli altri paesi a capitalismo maturo hanno fatto in cento, centocinquant’anni, però sempre con una posizione, ovviamente, asimmetrica, non di predominio comunque quella cinese – ebbene, dicevo, è evidente che in questa architettura, in questo assemblaggio globale – grazie a contraddizioni proprie quali la cosiddetta finanziarizzazione, cioè il fatto che gli Stati Uniti non abbiano deindustrializzato completamente la propria ossatura produttiva, spostandosi piuttosto su segmenti “alti” della tecnologia, mentre il peso dell’economia finanziaria e speculativa cresceva in maniera immane, e attraverso questo controllo della moneta e della finanza che abbiamo descritto – gli Stati Uniti sono riusciti a captare, a catturare una buona parte dei flussi globali di valore, subordinandoli in maniera nuova, inedita. Inedita perché negli anni Settanta si pensava a un declino inesorabile degli Stati Uniti, e non è stato così.

Dunque, è chiaro che questa complessa architettura che ho giusto tratteggiato – spero in maniera non troppo confusa – nel 2008 ha iniziato a mostrare le sue crepe, sia per contraddizioni interne, ma anche perché la Cina a un certo punto è servita a instaurare questo nuovo dominio statunitense, però ha fatto la sua ascesa economica e quindi – sia con l’aumento dei redditi, dei salari, sia con le lotte di classe interne in Cina – ha iniziato in qualche modo, se non a pretendere, comunque ad aspirare a una fetta maggiore di profitti globali.

Che cosa ha comportato tutto ciò? Sul versante cinese, la consapevolezza nelle élites, nei vertici del partito-Stato, di questo rapporto asimmetrico, sbilanciato, eccessivamente sbilanciato, che vuole e voleva sostanzialmente dire fondare la sua ascesa tutta sulle esportazioni per il mercato occidentale. Con la crisi del 2008 questa strategia si rivelava tuttavia una scommessa precaria, il che ha sorpreso la dirigenza cinese, e in un qualche modo hanno subito dovuto farci i conti. Per ovviare alla crisi, la Cina quindi è intervenuta con un’emissione di liquidità pazzesca nel 2009, e in questo modo ha anche aiutato l’Occidente. Ma il suo modello di sviluppo economico non può trapassare a un indebitamento continuo, che creerebbe una bolla simile a quella dell’Occidente e destinata prima o poi a scoppiare, lasciando morti e feriti in un percorso come quello degli ultimi trent’anni che è stato sì eccezionale, ma che comunque è pieno di contraddizioni, economiche sociali e politiche.

Dunque la Cina, a partire grossomodo dall’indomani della crisi globale, ha messo in campo un piano, una politica industriale, una politica economica finalizzata risalire le catene del valore. Per farla breve, si tratta di un ribilanciamento dell’economia interna e del rapporto della sua economia con l’esterno. In termini concreti questo significa dipendere meno dalle esportazioni, incentivare il proprio mercato interno, essere meno esposti agli impulsi finanziari occidentali e proiettarsi all’esterno con le cosiddette Vie della Seta. Ovviamente, in tutto ciò diviene fondamentale per la Cina salire a delle produzioni tecnologicamente più avanzate, soprattutto in un campo in cui è decisamente indietro che è quello dei microchip. Si noti come l’attenzione venga rivolta non tanto e non solo alla produzione digitale per il consumo di massa, quanto al design, alla produzione e alla progettazione dei circuiti integrati che ne stanno alla base (la base poi anche, ovviamente, delle tecnologie militari).

Questo piano di ribilanciamento cinese, se riuscisse, sarebbe per le multinazionali statunitensi e occidentali in generale – e soprattutto per il controllo statunitense attraverso il dollaro – non dico la fine, perché non è questa l’intenzione e neanche la capacità, considerando i rapporti di forza che abbiamo in Cina, ma comunque un serio colpo. È esattamente questa ipotesi che ha scatenato la reazione statunitense, già abbozzata nel corso dell’amministrazione Obama e poi lanciata con la cosiddetta guerra commerciale di Trump. Ricordiamo che la guerra commerciale non ha tanto come vero obiettivo quello di riequilibrare la bilancia commerciale tra Cina e Stati Uniti, perché come dicevo prima non è questo il problema. Gli Stati Uniti dominano il mondo tranquillamente facendo debito. Il problema è mantenere la priorità e il predominio del dollaro, e impedire alla Cina di risalire tecnologicamente a stadi più elevati di accumulazione capitalistica.

E infatti noi vediamo che c’è una perfetta continuità tra l’amministrazione Trump e l’amministrazione Biden. Biden non ha fatto altro che affinare questa strategia che ha preso la forma del cosiddetto decoupling tecnologico selettivo. Con decoupling si intende lo sganciamento della Cina dall’accesso a capitali e tecnologie elevate occidentali, in un contesto internazionale in cui gli Stati Uniti consapevolmente impongono gli stessi meccanismi anche ai paesi dell’Occidente e agli alleati dell’Asia (Giappone e Taiwan). “Selettivo” perché ovviamente per rompere del tutto con la Cina sarebbe per gli Stati Uniti come uccidere la gallina dalle uova d’oro, il che non è, almeno attualmente, né nei piani né fattibile. Contemporaneamente sul piano geopolitico gli Stati Uniti si sono riorientati verso l’Asia orientale e hanno varato una strategia di accerchiamento, di nuovo contenimento, della Cina, il cui fulcro sono il Mar Cinese (settentrionale e meridionale) e Taiwan. Per questo hanno voluto, se non “abbandonare”, almeno rilassare la presenza in Medio Oriente, e allo stesso tempo lasciare l’Afghanistan e buttarsi su quel nuovo versante.

Ora, cosa c’entra la Russia, l’Europa orientale e l’Asia Centrale in tutto questo?

C’entra innanzitutto perché di lì passano alcune direttive strategiche delle Vie della Seta, che per la Cina sono fondamentali perché, essendo stretta sui mari (da cui dipende, per esempio, per l’arrivo del gas, del petrolio e tutta l’esportazione di merci), cerca di spostarsi via terra passando attraverso il centro-Asia e l’Asia meridionale. La Russia è cruciale già solo per questo, e la stessa Ucraina è uno snodo, previsto, fondamentale delle Via della Seta. Ma anche perché da un punto di vista politico e geopolitico è evidente che la Russia ha nella Cina una sponda fondamentale per resistere alla pressione delle Nato e degli Stati Uniti; e a sua volta la Cina ha nella Russia sia una sponda geografica sia una sponda complementare da un punto di vista economico. La Russia esporta principalmente materie prime agricole e minerarie, e la Cina è l’officina del mondo. È intorno a questo rapporto – non un’alleanza ma comunque una partnership strategica – che possono orbitare tutte quelle aree e quei bacini territoriali che non vogliono sottostare completamente al diktat di Washington.

Ora – e vado verso la conclusione – qui emerge la contraddizione di fase che ci accompagnerà ovviamente per qualche decennio se non esploderà prima. La contraddizione di fase sorge dal bisogno, speculare e insieme opposto, per Cina e per Stati Uniti di conservare la globalizzazione; e dalla necessità al tempo stesso di mettere in atto delle strategie che minino la globalizzazione stessa, che quindi tendano verso una sua crisi e poi, eventualmente, verso addirittura un rinculo, una deglobalizzazione.

Cosa voglio dire?  La Cina necessita della globalizzazione perché è in mezzo a un guado. Necessita di continuare ad esportare merci, di importare materie prime da mezzo mondo, ma soprattutto di accedere a tecnologie e capitali che ancora non possiede. Il problema è che la Cina vorrebbe una globalizzazione meno asimmetrica, potremmo dire più multipolarista, multilaterale. “Un’altra globalizzazione”, come si diceva vent’anni fa nel movimento noglobal; il che però produce chiaramente la reazione durissima degli Stati Uniti, di cui però abbiamo visto e stiamo vendendo solo l’inizio. Gli Stati Uniti infatti sono costretti a rispondere con il decoupling, quindi cercando di sganciare e di separare la Cina dal contesto globale (via sanzioni, via dazi, via quello che vedremo), ma al tempo stesso è chiaro che qui il rischio per gli Stati Uniti è di darsi la zappa sui piedi. Cioè di troncare, di interrompere quei flussi, quelle catene del valore che in buona sostanza sono la fonte del dominio mondiale del dollaro e quindi della sua egemonia imperiale mondiale.

Quindi, la contraddizione sta proprio nel produrre effetti che contraddicono quelle che sono le condizioni, ripeto, speculari e opposte per la Cina – una globalizzazione alternativa e meno asimmetrica, meno occidentocentrica, meno dollaro-centrica – e per gli Stati Uniti – interrompere i flussi con la Cina, che però intanto è diventata l’officina globale, senza i quali, come abbiamo visto anche durante la pandemia, si rischiano di bloccare le filiere globali del valore. Contestualmente, e qui veramente vado a chiudere, il problema di fondo è anche quello che, nel frattempo, a ridosso della crisi si è arrivati, attraverso l’indebitamento e ad altri meccanismi, alla creazione di una bolla di capitale fittizio e speculativo enorme che, se l’accumulazione deve riprendere, in qualche modo deve essere sgonfiata, e deve essere sgonfiata anche violentemente. E guardate, con fenomeni come l’inflazione, le guerre (con le distruzioni che comportano, di capitali e ovviamente di esseri umani) e probabilmente passando attraverso una stagflazione (cioè stagnazione produttiva insieme a un’inflazione), si arriverà di nuovo a una grande recessione o comunque una recessione consistente.

Per quanto riguarda l’Europa, leggevo in questi giorni i dati sulla Germania: l’Europa chiaramente è la più colpita da questa crisi ucraina (ma anche gli Stati Uniti non stanno benissimo quanto a inflazione) e be’, tecnicamente è quasi già recessione, soprattutto se confrontiamo i dati con il pre-pandemia, con il 2019. Si avrebbe quindi una grande recessione che comporterebbe svalorizzazioni di capitali, chiusura di aziende, licenziamenti, distruzione: e la distruzione è la conditio sine qua non di una ripresa dell’accumulazione globale. Solo che nel frattempo questo avviene con crisi, guerre, e dove ogni attore a partire dagli Stati Uniti vorrebbe e cercherà di scaricare i costi di questa svalorizzazione sugli altri. Ma lo stiamo già vedendo nella crisi attuale: vediamo chiaramente l’atteggiamento degli Stati Uniti – proseguire la guerra, l’Ucraina deve vincere – e i danni – sia a livello di prezzo dell’energia, ma in generale, con tutto quello che sta rischiando l’Europa – scaricati appunto sull’alleato.

Quindi, e chiudo, può essere (ce lo dirà il futuro, magari anche prossimo) che la guerra in Ucraina sia un primo punto di svolta della situazione; un punto di sblocco, di scongelamento della crisi che ho cercato, forse un po’ male, di descrivere. Un’inversione del ciclo nel quale, non a caso, assistiamo a una politica della Federal Reserve che segna una deviazione (per adesso non proprio a 180 gradi, ma potrebbe comunque arrivarci) rispetto al “denaro facile” di tutti questi anni. Sta infatti innalzando i tassi per ridare forza al dollaro e riattirare capitali negli Stati Uniti: è ancora una volta quell’effetto fisarmonica del dollaro di cui parlavamo prima. Parimenti lo stesso aumento dei prezzi dell’energia danneggia pesantemente l’Europa come fu già nella crisi energetica del 1973; ma a misura che l’energia viene acquistata e scambiata in dollari non penalizza gli Stati Uniti (o non li penalizzerebbe nella stessa misura se non fosse per l’inflazione concomitante). Ripeto, a misura che il dollaro rimanga moneta di scambio internazionale.

E qui, con quello che sta facendo la Russia (per esempio chiedendo di pagare in rubli nel commercio delle materie prime energetiche) e con quello a cui sta puntando la Cina (cioè a sganciarsi un minimo dal dollaro e via discorrendo) per la prima volta, anche se non si arriverà ovviamente alle estreme conseguenze subito, per la prima volta il tabù è nominato, il tabù è infranto. Qualcuno sta pensando a un’economia mondiale non più sottomessa al dollaro, cioè sta pensando a processi di dedollarizzazione. Ora, che cosa ne verrà fuori nessuno lo sa, ma è evidente che il materiale è esplosivo. Tra crisi della globalizzazione e possibile incipiente di deglobalizzazioni, reazione durissima degli Stati Uniti, processi (o comunque intenzioni, strategie) di dedollarizzazione, è evidente – e qui vi lascio – che la crisi ucraina è la precipitazione di un grumo di contraddizioni che sono ormai sistemiche.

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Gli arsenali dei padroni. Geopolitica, sinistra e realtà

La parola del nostro tempo è «geopolitica».

Per anni vituperata a queste longitudini politiche, ritenuta appannaggio dei sogni bagnati di bruni più o meno rossi e materia di opachi funzionari d’apparato, oggi talmente sdoganata da essere spettacolarizzata. Merce di intrattenimento mainstream, quotata nel mercato in espansione delle piattaforme, venduta e inflazionata da uno stuolo di commessi e analisti con laurea in Scienze politiche e partita iva – «è la Barberizzazione, bellezza» –, è disciplina per eccellenza degli «interessi generali», quindi dell’organizzazione collettiva della classe dominante, la forma-Stato.

Può esistere una geopolitica di parte, la nostra? Quesito cruciale. Se di «uso operaio» della geopolitica non si può ancora parlare, parliamo allora di un punto di vista che della geopolitica può, e deve, avvalersi.

Tagliamo quindi corto. Oggi più che mai – molto più che nell’epoca ordinata dalla guerra fredda, e della breve parentesi di incontrastata potenza unipolare statunitense degli anni Novanta – vediamo come geopolitica e movimenti di classe, della composizione politica di classe, siano in rapporto, legati a doppio filo. Influenzandosi vicendevolmente in maniera sempre più diretta. Quello che succede nell’alto della geopolitica, oggi, precipita nel basso della composizione sociale sempre più velocemente e pesantemente, con strutture di mediazione e contenimento logore o inefficaci, determinando comportamenti, direzioni, scarti: spazi di intervento soggettivo. Quello che succede nel basso, nei processi di ascesa e declino dei ceti medi, nelle stratificazioni sociali, nella ristrutturazione della composizione di classe, ha invece un riflesso non secondario, quanto meno indiretto, verso l’alto. I due livelli, per chi volesse comprendere lucidamente, anticipare tendenze e dismettere i panni di spettatore passivo per farsi attore, collettivo, di parte, vanno quindi tenuti insieme. Il punto di vista militante deve posizionarsi alla mediana di questo rapporto.

Geopolitica operaia. Nel suo primo numero del settembre 1969, in pieno autunno caldo, «Potere Operaio» pubblica in paginona centrale la mappa di Mirafiori. Sono indicate le porte, i reparti, il numero di addetti per ognuno (totale 50 mila), le officine. Dalle 32 e 54, il Fiatnam.
Nel n. 4, da Mirafiori il punto di vista operaio si alza e abbraccia l’Europa occidentale. È la geopolitica delle lotte di classe. Baricentro tra i due termini, sempre in rapporto, l’analisi della composizione – tecnica e politica – di classe. Una postura da recuperare.

«In una società nemica non c’è libera scelta dei mezzi per combatterla. E le armi per le rivolte proletarie sono state sempre prese dagli arsenali dei padroni». Sul numero di «Limes» che ha accompagnato l’incipit della guerra in Ucraina, due interventi ci hanno solleticato. Indicativi del discorso sulla e della guerra. Fotografia dello spettro politico e della sua ridefinizione. Uno di un’accademica della Sapienza, l’altro di un generale in congedo. Punti di vista a confronto.

Ucraina Limes Europae è la tesi dell’accademica. Ucraina prima (o ultima?) trincea d’Europa. Huntington e Brzezinski citati già nella prima riga, niente di nuovo. Indicativo invece altro: come la professoressa assuma e utilizzi esplicitamente il linguaggio, che qua conosciamo bene, della sinistra “di movimento” occidentale – generalmente libertaria e verbosamente radicale – per usarlo in senso fortemente nazionalista, per promuovere, richiedere e giustificare l’intervento della Nato nel conflitto, con tutto ciò che ne conseguirebbe. «La società ucraina ha espresso una grande capacità di autorganizzazione» per decidere, coesa e determinata, di entrare nell’Unione Europea e nella Nato, dopo la «rivoluzione della dignità» di Euromaidan; un «movimento dal basso pronto a difendere la Nazione e i suoi valori», un «movimento dei volontari», di attivisti – come Pravy Sektor, i gruppi paramilitari banderisti e il battaglione Azov? – che hanno contribuito alla «coesione sociale» – o etnica, con il massacro alla Casa dei sindacati di Odessa – in questa decisione, con un «potere costretto ad ascoltare la società» – e soprattutto gli Stati Uniti, gli oligarchi e le frange ultranazionaliste integrate nello Stato post- Maidan e nell’esercito – contro il «terrorismo di Stato» russo. Sono gli ucraini «istruiti e professionalmente competenti», quindi di ceto medio urbano, occidentalizzati, «immuni dai richiami obsoleti e ideologici del mondo (ex) sovietico», considerato povero, ignorante, puzzolente, quindi proletario, che rigetterebbero ogni compromesso.

Cos’è questo se non la rappresentazione plastica della cooptazione di tutto un ciclo politico, nato dalla sconfitta delle rivolte proletarie, nell’arsenale dei padroni? Una convergenza dei residui ideologici movimentisti nella sinistra imperiale, subordinata all’agenda dell’imperatore e dei suoi vassalli, in nome di un interventismo idealista, liberal, democratico che riabilita il nazismo dal volto umano, di un pacifismo peloso intriso di molti sentimenti ed emozioni, ma poca lucidità politica e capacità di analisi, con cui tanti compagni, più o meno consciamente, in odio allo zar di Russia sono finiti a lavorare per il re di Prussia.

Poche, chiare, semplici parole. Striscione davanti al Polo Leonardo, Modena.

La via verso il disastro. Il generale in congedo, con realismo, la vede chiaramente in questa guerra. Perché sono i militari che la guerra, organizzata dalla politica, la devono poi materialmente fare. In tale contesto spesso esprimono posizioni più lucide, e quindi più radicali – che vanno alla radice. C’è poco spazio, qui, per la retorica e l’ideologia. Molto per il materialismo. Rapporti di forza. Equilibri geopolitici. Analisi storica delle contraddizioni. Gli errori – deliberati – compiuti dalla Nato a partire dalla dissoluzione dell’Urss. «L’Ucraina è oggi lo specchio di ciò che gli Stati Uniti, la Nato e l’Europa hanno fatto alla Serbia in e per il Kosovo». Gli interventi in Iraq e Libia a seguire. L’espansione sconsiderata, cieca, provocatoria, verso Est, a detrimento della sicurezza collettiva, globale. Fino a toccare la linea rossa. Fino al punto di non ritorno. E l’ipocrisia arrogante dell’idealismo liberal, che ci vende l’interesse geopolitico degli Stati Uniti, «in galoppo da soli verso la perdita di controllo sul mondo», come guerra di civiltà. Termonucleare. Il prezzo per soffocare la Cina nel suo sbocco europeo – guarda caso, l’Ucraina – della Nuova via della seta. Se la responsabilità militare di aver avviato la guerra non può che essere di Putin, la responsabilità politica della destabilizzazione della pace e della creazione, cosciente, delle condizioni per la guerra sono evidentemente della Nato – in particolare delle potenze anglosassoni, Stati Uniti e Inghilterra.

Siamo arrivati al punto che ci tocca assentire con un generale. E la tragedia, oltre a ciò, è che «tutta questa vicenda era evitabile». La catastrofe umanitaria, sociale, politica che ha luogo in Ucraina, nuova Siria d’Europa, si poteva prevenire.

Non lo si è voluto fare. Lo si è perseguito. Ne pagheremo anche noi, insieme alla gente ucraina e russa, tutto il prezzo.

Lo ribadiamo, a scanso di equivoci. Non con Lui – e i suoi utili idioti, che a Modena conosciamo bene, come Terra dei Padri e fascistume euroasiatico vario – ma contro di Voi. A questi, i nemici della pace più vicini a noi, il nemico in casa nostra, va chiesto il conto. E forte. Perché «le guerre non si vincono più, perché non finiscono mai». Lo dice un generale. E allora prendiamone atto. E organizziamo la guerra ai guerrafondai.

Nel nostro piccolo, cominciando a rompere lo schema di una narrazione della guerra che si fa insieme propaganda e intrattenimento. Costruendo un punto di vista lucido, realistico, autonomo. Un punto di vista di parte.

Quello dei banditi.

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Discorsoni / Analisi

Tranquilli, è solo il primo mese di guerra. Poi peggiora

La guerra ha legato tra loro, con catene di ferro, le potenze belligeranti, i gruppi contendenti di capitalisti, i “padroni” del regime capitalistico, gli schiavisti della schiavitù capitalistica. Un grosso grumo di sangue: ecco che cos’è la vita sociale e politica dell’attuale momento storico.

Lenin, Lettere da Lontano.

 

I democratici antifascisti per il battaglione Azov.

I razzisti sovranisti per la denazificazione.

I tecnocratici europeisti per il presidente comico e populista.

Gli anarchici per i sacri confini dello Stato ucraino.

I comunisti per l’Impero zarista di tutte le Russie.

I nazionalisti per l’Eurasia da Lisbona a Vladivostok.

Gli indipendentisti per l’imperialismo anglosassone Nato.

I pacifisti per la guerra mondiale.

I generali per la pace tra i popoli.

Giletti in diretta da Odessa, con «l’occhio della madre», «la carrozzella col bambino», «gli stivali dei soldati».

E il liberatorio grido fantozziano, «È una cagata pazzesca!», bollato come ignobile propaganda putiniana.

Scusate, sbagliato tempolinea.

Ed è solo il primo mese di una guerra che, lungi dal concludersi brevemente e dal considerarci non coinvolti, vedremo ulteriormente peggiorare, prima di migliorare.

Sempre se potrà migliorare. Per i morti, per i caduti, la guerra è già finita. Per tutti gli altri, continua la danza macabra, sconsiderata, sull’abisso: dell’escalation globale, della mutua catastrofe assicurata. «Siamo pronti a ogni sacrificio», ha annunciato alle Camere il premier-tecnico Mario Draghi all’inizio del conflitto. «L’Italia farà la sua parte». Scrosci di applausi. Sedicenti rappresentanti del popolo italiano a ratificare l’ora delle decisioni irrevocabili, prese altrove: Washington, Londra, Bruxelles. Senza che nessuno avesse, o abbia ancora chiesto, se veramente gli italiani siano disposti a questo sacrificio. L’ennesimo. Il più estremo. Dopo due anni, stremanti, di pandemia. Dopo dieci, durissimi, di crisi, stagnazione, emigrazione, impoverimento. Ci stanno chiedendo il sangue. Questa volta, anche quello vero.

O Kiev o tutti accoppati! L’ora delle decisioni irrevocabili. Ma chi pega?

L’Italia è in guerra, così è stato deciso. Per ora combatte con sanzioni finanziarie, commerciali, economiche, che stravolgeranno irrimediabilmente una già fragile economia – non solo nazionale, ma globale. La finanza come momento della guerra – un avvertimento alla Cina, ma lo sapevamo già – oggi più che mai ibrida. Condotta su più livelli. La globalizzazione che abbiamo conosciuto a partire dal 1991 non sarà più la stessa. E armi agli ucraini, puntualmente arrivate nelle mani di reparti – non più milizie – di neonazisti, come quelli di Azov. «In alcune città, è più facile ottenere una mitragliatrice che il pane», raccontano compagni ucraini che non sentirete nei talk-show, ma che vi traduciamo. «I militari e i gruppi fascisti prendono in ostaggio le popolazioni di Kharkiv, Kiev e Mariupol, usando la gente come scudi umani». A difesa «dei nostri valori», si intende: democratici, inclusivi, occidentali, contro la «barbarie orientale» di sempre. Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia: cancellati in un sol colpo. Tutte le geopolitiche sono uguali, ma la mia è più uguale delle altre. È la Siria 2.0, alle porte di casa, con arsenali atomici e fratricidio di popoli. Una tragedia non solo russa, ma europea.

Questo meme è offerto dalla strutturale tendenza alla guerra del sistema capitalistico nella sua fase suprema, l’imperialismo.

A Ovest già si preparano gli eserciti. Le licenze sono revocate. Gli arsenali si riempiono. I fucili vengono oliati, mentre si trincera il fronte interno. È caccia al “putiniano”, al “russo”, al “traditore”. O con Noi, o con Lui. Se questa non è già guerra… almeno risparmiateci la retorica democratica.

Per questo: non con Lui, ma contro di Voi.

Contro il nemico in casa nostra: l’imperialismo Nato, la tecnocrazia europea, il governo della crisi trasformata in guerra.

Contro il nemico che marcia alla nostra testa: la sinistra imperiale, la sua chiamata alle armi, che soffia sul fuoco appiccato alle nostre porte.

L’unica posizione possibile, da qui dove stiamo.

Dario Fabbri può accompagnare solo. Chi non viene è Giletti bombardato a Odessa da fuoco amico.
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Discorsoni / Analisi

Grigio capannone. Due parole su meme, Cina e transizione ecologica

Communism : r/ADVChina
Sui social sta girando molto, negli ultimi giorni, questa foto delle olimpiadi invernali di Pechino. Ritrae un impianto per sci allestito nel sito delle acciaierie Shougang, oggi spento per obsolescenza e riconvertito – così dicono: noi non siamo di Pechino.
L’immagine è sicuramente suggestiva: stuzzica non poco le sensibilità distopiche e catastrofiste di un certo immaginario contemporaneo, attratto al contempo sia dal weird sia dalla sci-fi. Diciamo di “un certo” perché, come sappiamo, la struttura delle piattaforme dove esso si può saggiare non può che produrlo in bolle, spesso incomunicanti tra loro. Un’immagine che per una bolla ha significato, per la bolla a fianco può non averne.
In questo caso, la forza dell’immagine sta proprio nel riuscire a forare più bolle, e trovare un senso mediano tra esse, quando anche di segno opposto. Soprattutto tra le fasce giovanili istruite, millennial e Z, è già diventata meme. E in quanto tale strumento del meme warfare, uno dei tanti campi di battaglia dove si prepara, combattendolo già, il conflitto principe che informa i nostri tempi (per non parlare degli spazi, non solo politici): quello degli Stati Uniti contro la Repubblica popolare cinese – Occidente contro Oriente, sai che novità.
Nel tempo dell’immagine, la guerra si fa in particolar modo iconografica, lo sanno bene le agenzie statali e private predisposte a condurla. L’immagine dello scivolo bianco per sci olimpionico alle acciaierie Shougang, un puntino brillante sommerso dallo squallido grigiore industriale circostante, un’isola di luce circondata dalla plumbea cappa dell’inverno carbonfossile, in candido contrasto con il territorio avvelenato, violentato e deturpato dalla velocità – e potenza “novecentesca” – dell’impetuoso sviluppo cinese, si presta bene a convergere nella narrazione propagandistica della “Transizione ecologica”, indirizzo politico della ristrutturazione capitalistica postpandemica, in particolare europea.
L’arruolamento delle sensibilità ambientali ed ecologiste trasversali, ma soprattutto progressiste, predominanti appunto tra le generazioni di venti-trentenni più istruite, in funzione anticinese è lo specchio della ridefinizione delle grammatiche e del riposizionamento dei campi politici in corso, un’anticipazione di quali saranno i fronti per cui si combatterà (già si combatte) la guerra per determinare la forma della globalizzazione uscita dalla pandemia.
«Guardate, la distopia totalitaria cinese. Il paese che inquina più di tutti nel mondo. Nemico della Transizione ecologica. Rischiamo l’estinzione come specie. Se non smette di portare la terra al collasso, qualcuno dovrà costringerla a fermarsi…» Non sappiamo voi dove vivete, ma, a parte lo scivolo, questa foto è letteralmente Sassuolo…
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Kultur / Cultura

La fabbrica sistemica. Sviluppo e ristrutturazione del «modello emiliano»

Partiamo da una premessa. Resta per noi ancora valido un vecchio assunto, che indicava nel medio raggio la collocazione del militante. Quel «livello intermedio tra l’alto e il basso, tra la teoria e la pratica, tra l’astrazione determinata del comando e la determinazione astratta della vita quotidiana». È sul medio raggio che il militante va a verificare le proprie ipotesi politiche verso il basso e a correggerle verso l’alto, determinando in questo modo linea politica e linea di condotta. Il medio raggio, quindi, è il livello fondamentale dell’agire politico, perché è l’unico nel quale la ricerca militante può anticipare, scommettendo, su ambivalenze dei soggetti e tendenze dei conflitti a venire, restando ancorata ai processi reali.

Con questo crediamo che il terreno per ogni sperimentazione politica lo si debba ricercare intorno alla nostra collocazione. Si tratta quindi di scandagliare il quotidiano finché questo non disegna una ragnatela di contraddizioni, abbastanza qualitative da prefigurare possibili conflitti, quanto più prossimi a noi per restare direttamente percorribili. Un’analisi storica, per esempio, ci offre strumenti pratici se e soltanto se ci vieta di vagabondare tra nostalgie del passato e fantasie dell’apocalisse. Allo stesso modo, una mappatura geografica dei rapporti di forza contemporanei che non ipotizzi punti specifici di intervento rischia di condurre a una sterile contemplazione della complessità universale, a un litigio con le stelle. E noi sappiamo che la complessità va posseduta, non ammirata.

Una prima fonte di informazioni e strumenti interpretativi più che compatibili con questa prospettiva l’abbiamo trovata in Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali (Deriveapprodi 2021), una raccolta di saggi rivolti alla descrizione dei cambiamenti nel tessuto produttivo dell’Italia settentrionale intercorsi negli ultimi vent’anni. Certo, nel libro non si avanza un progetto politico vero e proprio, se non con vaghi cenni a una volontà di riequilibrare il rapporto tra flussi di capitale e i luoghi di vita, una prospettiva riformistica che – è inutile dirlo – non ci compete, lasciandola volentieri ad altri. Ciononostante, il repertorio analitico ci pare decisamente chiaro, approfondito ed efficace nel riassumere processi multiformi, e quindi a facilitare quell’indispensabile lavoro di inchiesta che i militanti conducono (o dovrebbero condurre) nei propri spazi d’azione.

Il libro si compone, oltre che di un’introduzione di carattere generale, di studi focalizzati su singole aree transregionali – la superficie lombarda, il Nordest, i circuiti economici emiliano-romagnoli e il Piemonte postfordista – che si ritrovano accomunate tra loro per il fatto di reagire a trasformazioni capitalistiche in corso attraverso una medesima macro-traiettoria. Per quanto i contorni della fase a venire siano necessariamente indefiniti e in questi processi abbondino le specificità locali, possiamo riassumere l’attuale congiuntura nella centralità che assume il triangolo produttivo tra la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna (convenientemente soprannominato LO.VE.R), che in parte sostituisce il precedente trinomio Genova-Milano-Torino. A differenza dal precedente, infatti, il nuovo triangolo non fa affidamento ai suoi vertici, situati sulle grandi imprese dei capoluoghi, bensì ai suoi lati, tracciati da grappoli di imprese in evoluzione e poli metropolitani che attraggono risorse qualificate e servizi avanzati. Una diffusione territoriale, dunque, di logiche di valorizzazione industriali.

In questo contesto, sono le città di medie dimensioni a svolgere il ruolo di testa di ponte di tali dinamiche. Intorno ad esse si è infatti stabilita un’ossatura di attività terziare in continua espansione, che garantisce sia un collante tra provincia e grandi flussi di capitale, sia il rinnovamento selettivo delle vecchie città-distretto (a sua volta una momentanea risposta alla crisi del fordismo, ma costretta in ambiti manifatturieri non più all’altezza degli attuali livelli tecnologici o catene del valore), sia un parziale assorbimento di una popolazione in età lavorativa altrimenti eccedentaria. Le città medie si ritrovano quindi ad affrontare il compito di organizzare reti di connessioni per attrezzare i territori di canali di impiego e valorizzazione all’altezza di questo periodo confuso di transizione. A tal fine diventa indispensabile moltiplicare le traiettorie che conducano a stabilire delle clientele robuste internamente ed esternamente, facendo leva su una reale o presunta specificità territoriale. Per questo motivo grosse moli di investimenti monetari e umani sono state indirizzate non solo alla ristrutturazione delle attività manifatturiere locali, ma anche e soprattutto all’assorbimento e all’(iper)industrializzazione (concetto di Romano Alquati) di forme della riproduzione sociale, dell’abitare, della partecipazione cittadina e della vita pubblica che apparentemente sembrerebbero agli antipodi rispetto all’industria.

La fabbrica diffusa, il territorio-fabbrica, si disegna quindi come un reticolato interconnesso ed eterogeneo di poli produttivi, università, ospedali, utility, fiere, piattaforme digitali, grandi progetti di riqualificazione: insomma, come insieme di cluster economici attivi nelle sfere della riproduzione, dall’organizzazione del consumo e giù fino alle infrastrutture che garantiscono le condizioni della vita personale. Una volta ristabilita quale cuore nevralgico della struttura cittadina, questa circolazione di valore reindirizza a monte la produzione tradizionale di beni. È opportuno quindi sottolineare come non si stia parlando di un mero utilizzo opportunistico di retoriche progressiste o ecologiste da parte capitalistica (pinkwashing, greenwashing e simili), ma dell’integrazione reale di elementi chiave della socialità e della qualità della vita (dalla condizione abitativa e la salute alla salvaguardia naturale) come fulcro del rilancio del sistema capitalistico nelle sue forme più internazionalizzate e finanziarizzate. Ma questa ripresa ha il suo prezzo.

Accanto a questi agglomerati produttivo-residenziali in ascesa, si notano infatti un folto numero di coni d’ombra produttivi e di aree di fragilità demografica, che solo a fatica riescono a mantenere un ruolo attivo in una congiuntura di tal fatta, ritrovandosi comunque sempre sull’orlo del declino. Nonostante la fanfara mediatica dei mesi di lockdown, che starnazzava le virtù del ritorno ai borghi e la fuga dalle città, permane il rischio di marginalizzazione e spopolamento per mancanza di sbocchi impiegatizi e di servizi nei comuni appenninici o nella nebulosa di aree a mancata transizione industriale come la Bassa, favorendo l’insorgere di sensazioni e paure di proletarizzazione in pezzi di ceto medio che progressivamente paiono procedere verso un “secondo tempo” del momento populista (apparentemente) lasciatoci alle spalle. Il pendolarismo risulta sempre meno una risposta adeguata a fronteggiare questi deserti lavorativi e abitativi, e il ventaglio delle soluzioni alternative si assottiglia. Tuttavia, anche internamente a questi settori di progressivo svantaggio si osservano disomogeneità e tendenze ambigue.

In alcuni contesti, l’arretramento verso la marginalità e la retrocessione verso forme di lavoro arcaiche risultano compatibili o persino funzionali all’innesto dei canali di verticalizzazione transnazionali – come dimostrato dall’esempio ormai abituale dell’apertura dei magazzini Amazon (a Piacenza, Scandiano, Spilamberto, ecc.) nei comuni con tassi di disoccupazione a crescita più rapida – , mentre altrove si rilevano scenari di netta crisi, collocata nel punto di intersezione tra due diversi campi di forze capitalistiche. Da una parte, un reticolo di imprese locali moribonde, segnate da difficoltà decennali e ormai croniche; dall’altro le dinamiche delle economie globali. Ne derivano continue tensioni tra tendenze alla razionalizzazione o all’automazione e la presunta natura “sociale” e “umana” del capitalismo di territorio. Dove sfuma la possibilità di inserirsi in circuiti più ampi (i quali, inevitabilmente, imporranno le loro traiettorie), intere sezioni di lavoro e imprese sono semplicemente lasciate morire di stenti. Le frizioni si complicano poi ulteriormente osservando che se nel Nord metropolitano – grazie al quale si alimentano i grandi processi delle economie immateriali – la pandemia ha pesato nella maniera più tragica, nelle aree interne e interstiziali questa ha gravato proporzionalmente di meno, ma ha probabilmente accelerato processi di declino antropico e di isolamento.

Come si è visto, una volta adottata una lente temporale e spaziale di medio-raggio diviene possibile seguire più agilmente i contorni dei presenti squilibri nella conformazione urbana e nella composizione sociale, in un contesto nel quale il capitale tenta di sopravvivere alle proprie crisi mostrandosi pronto, dove necessario, a “mangiare se stesso”. Ma cosa vediamo nei nostri luoghi di vita e d’azione, vale a dire l’Emilia centrale e la provincia modenese?

Qui sono due i pilastri su cui si regge la ristrutturazione della produzione: l’innovazione pianificata dall’alto, sostenuta da specifiche policies regionali, e il continuo intreccio di coalizioni tra imprese e corpi intermedi locali in basso. Il meccanismo risulta qui particolarmente rodato, considerando la storia della regione “rossa” e ricordando i tre vettori che hanno costituito il cosiddetto “modello emiliano”, almeno nelle sue ultime fasi: a) forti politiche regionali tese alla costruzione di un ecosistema dell’innovazione tecnologica, collegata soprattutto all’export; b) la progressiva estensione e depoliticizzazione del terzo settore e del volontariato come erogatore di welfare; c) l’enfasi sulla dimensione “civica” e “partecipativa” della vita urbana quale strumento per una governance della crescita. Tuttavia, nel corso degli ultimi venti anni questo blocco amministrativo ha incontrato difficoltà e rallentamenti, che hanno favorito l’affermazione di sfidanti all’egemonia amministrativa tradizionale, M5S e Lega su tutti. Allo stesso tempo però, come hanno indicato le passate elezioni, si ipotizza una ripresa delle élite cittadine classiche, la cui agenda pro-crescita e pro-green potrebbe trovarsi consolidata nei prossimi anni, tenendo presente le parole d’ordine e la via tracciata dal Pnrr.

Molti indicatori fanno infatti ipotizzare un tentativo di ri-creazione di un nuovo ceto medio di “competenti”, tardo-giovanile, a cultura tecnica e civile, messo a valore politico come spina dorsale della ristrutturazione degli assetti economico-gestionali dei territori (post)pandemici. Il frutto di tale progressiva sinergia e organicità tra università e imprese leader, ricerca e servizi avanzati attivi nella digitalizzazione o nella sostenibilità ambientale sarà quindi una fabbrica sistemica, diretta alla qualificazione selettiva delle filiere e all’istituzionalizzazione delle reti collaborative collettive, che presume anche la ristrutturazione stessa della forza-lavoro: la formazione di una classe operaia 4.0 per un’industria 4.0 per la quale il ruolo di Istituti tecnici ed enti formativi regionali diventerà baricentrale. Si prelude quindi a un salto di scala, non soltanto per l’intensità della capitalizzazione, ma anche e soprattutto per l’espansione della fabbrica diffusa come organismo di gestione urbana, e la conseguente produzione capitalistica di nuove soggettività. Citando il volume, si tratta di

un modello di policy che punta ad accompagnare la creazione di esternalità e a incorporare nelle filiere sapere tecnoscientifico nelle culture e modelli produttivi attraverso la formazione condivisa tra imprese e istituzioni di nuove leve di operai, tecnici, quadri, manager, una sorta di “cervello sociale” costituito non solo da saperi astratti e R&S, ma da etica del lavoro, passione collettiva, qualità della vita urbana, servizi, infrastrutture collettive pubbliche e private, start-up e nuova composizione sociale. Un ecosistema/piattaforma che sostiene processi trasversali e che funziona come meccanismo di traduzione di tutte queste risorse sociali in forza competitiva. Una industria che si alimenta non solo di macchine, ma di fattori immateriali, di qualità culturali. Il nucleo motore del “modello emiliano” oggi risiede in primo luogo in una visione progressista e di nuovo umanesimo industriale nel senso della produzione di capitale umano di nuovo tipo, a sostegno di una industria che incorpori la questione del limite ambientale, in cui la crescita industriale equilibrata consiste nel promuovere sistemi industriali diffusi più che singoli settori, e le capacità collettive di produrre “teste ben fatte” e capitale territoriale. (p. 158).

Il capitolo sull’Emilia, scritto da Simone Bertolino e Albino Gusmeroli, a nostro modo di vedere espone in maniera eccellente le sfaccettature di questi processi, descrivendo dettagliatamente le trasformazioni nella cooperazione pubblica e nelle mediazioni istituzionali, nel mecenatismo delle imprese e nella progettualità sociale; ma il merito maggiore resta quello di aver ben evidenziato l’altra faccia dello sviluppo. Come già negli anni Settanta i ricercatori raccolti intorno ai «Quaderni del Territorio» avevano dimostrato, lo sviluppo industriale e tecnologico di alcune aree si determina in funzione di retrocessione e sottosviluppo di altre aree. Per dirla in altri termini, non si comprende fino in fondo cosa comporti il modello delle “valley” (Motor Valley, Food Valley, Data Valley ecc.) strettamente collegato alle catene del valore globali (e tedesche) né la loro trasversalità rispetto alle classiche partizioni tra manifatturiero, terziario, agroalimentare, ICT e reti urbane se non si tiene sullo sfondo il costante decadimento delle aree marginali, interne e appenniniche, segnate da spopolamento crescente, alti tassi di disoccupazione e rarefazione delle risorse comunitarie di base. Le ripercussioni sociali di questi andamenti sono difficili da anticipare, ma già ora sollevano grosse domande.

Potremmo ipotizzare, ma non ci spingiamo più oltre, che la recente ondata di femminicidi, omicidi-suicidi familiari e violenza cruenta nelle retrovie delle “province ricche” sia almeno in parte leggibile in questo contesto. Come spesso accade, chi non vede un domani davanti a sé, e non cerca la trasformazione dell’esistente, può cercare il tramonto, il tramonto tout court. Se poi teniamo presente che, in questi luoghi, insieme allo sfaldamento comunitario si dirada sempre più una militanza complessiva che tenga insieme anticapitalismo e questione di genere, o anche solo che le risorse per case delle donne diventano sempre più inadeguate e che la cura della salute mentale retrocede nelle agende cittadine, appare evidente la dimensione strutturale del fenomeno, che eccede di lungo gli steccati quietistici della cronaca locale. 

Sospendiamo per un momento le ipotesi, e ritorniamo su dati ormai sicuri. Infatti, non dobbiamo dimenticare che anche le aspettative coltivate nel processo di costruzione di questo possibile nuovo ceto medio, legato alle possibilità di rilancio dell’accumulazione capitalistica e dello sviluppo (post)pandemico, saranno con ogni probabilità infrante. Non solo su episodi di forte frustrazione e di nero disincanto una volta addentato il frutto dell’ipocrisia progressista e civica su temi come la partecipazione, l’inclusione o l’ambiente. Anche allargando lo sguardo, in un contesto geopolitico e geoeconomico in forte tensione e segnato per i prossimi anni dal Pnrr – vale a dire uno sfondo interamente segnato dalla ristrutturazione della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, dal peso immane di un debito ormai difficilmente quantificabile e senza alcun margine per far ripartire cicli stabili di accumulazione, per non parlare del collasso ecologico – non si vedono garanzie per la tesaurizzazione dei risparmi o per un moto complessivo di ascesa sociale. Non a caso vari indicatori sottolineano fin da adesso un graduale divario tra le aspettative crescenti di fasce lavorative giovanili (si veda la “Great Resignation”, l’epidemia di dimissioni e di interruzioni volontarie da contratti di lavoro a tempo indeterminato, specialmente impiegatizi o del terziario) e le serie conseguenze a breve termine della ristrutturazione su questi settori (per esempio, l’aumento costante e generalizzato dei prezzi delle soluzioni immobiliari rivolte a ceti riflessivi “cool” e al lavoro autonomo giovanile, come i trilocali in area urbana).

Per concludere. Se queste ipotesi saranno verificate, ci domandiamo se la scommessa da lanciare non sia allora quella di inchiestare, oggi, le ambivalenze di soggettività baricentrali per il tentativo di rilancio sistemico dell’accumulazione capitalistica postpandemica, e anticipare lo scoppio di queste contraddizioni, per iniziare sin da ora un lavoro di medio periodo che consenta di inseguire una possibile, futura, nuova qualità del conflitto ed essere collocati nel vivo dei processi per non accodarcisi una volta manifestati, piuttosto che rincorrere soggetti della marginalità entro cui difficilmente si potrà perseguire una prospettiva qualitativa della rottura. Conviene investire sugli “obsoleti”, i “non rappresentati” di oggi – in cerca di nuova integrazione piuttosto che di inimicizia e sovversione – o i “delusi”, i “traditi” di domani, cioè i soggetti che recano su di sé l’esperienza della trasformazione del medio-raggio? È una pista che soltanto la prassi potrà saggiare, mettere a verifica e valutare. Nulla dunque da dare per scontato.

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Discorsoni / Analisi

Sindacati pagliacci da licenziare!

GKN a Firenze, Gianetti a Monza, Timken a Brescia. Sono solo le ultime e più note fabbriche che hanno chiuso nella notte, di nascosto, scappando come ladri.

Centinaia di operai e operaie che si ritrovano senza lavoro da un giorno all’altro, con una mail e tanti saluti dall’Amministratore delegato. Che si vanno ad aggiungere alle migliaia di lavoratori interinali, delle cooperative, precari lasciati a casa dai padroni, che siano italianissimi industriali, multinazionali o fondi speculativi.
Si scrive ristrutturazione, si legge macelleria. Ed è solo l’inizio. Sono le conseguenze dello sblocco dei licenziamenti voluto da Confindustria, appoggiato dal governo Draghi – e da tutti i partiti dal PD alla Lega, dai Cinquestelle alla Meloni – e sottoscritto dai sindacati senza colpo ferire.
Padroni e politici fanno il loro lavoro: profitti e poltrone, a ogni costo necessario. Ma i sindacati? Gli stessi sindacati che oggi si dicono dalla parte dei lavoratori ma che giusto ieri erano al tavolo con governo e Confindustria per concordare, tutti insieme appassionatamente, la macelleria che viene. Che oggi s’indignano per le «modalità non corrette» dei licenziamenti (per le mail!) e non per le intere comunità, le famiglie e i lavoratori prima usati e poi gettati nei rifiuti. I sindacati che prima si accordano per licenziare, e poi dopo i licenziamenti fanno sciopero… di due ore. Che prima lo mettono in culo ai lavoratori, e poi si presentano ai cancelli della fabbrica con i moduli dell’esubero e degli ammortizzatori da firmare (ovviamente previa tessera!). Una presa in giro a cui è arrivato il momento di dire BASTA.
E allora questi sindacati vanno sanzionati. E gli va ricordato quello che sono: pagliacci da licenziare. Perché non fanno i nostri interessi ma solo quelli dei padroni: che è la pace sociale, l’accettazione, la gestione della crisi attraverso deleghe, tavoli, burocrazia e accordi mentre passano sulle nostre vite. Un costo che, arrivati a questo punto, non possiamo più permetterci di sostenere.

Oggi non abbiamo bisogno di delegare qualcuno per piagnucolare e mettersi al tavolo di chi ci sfrutta e di chi ci comanda. Oggi abbiamo bisogno di organizzarci per lottare, qui e ora, con tutti coloro che sono senza riserve. Per riprendere in mano le nostre vite, per riprendere il potere di decidere.

Quel tavolo, noi, abbiamo solo bisogno di ribaltarlo.

Riprendiamoci tutto! Kamo Modena

Modena, sede CISL.
Modena, sede UIL.
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Kultur / Cultura

«Bestemmiare nelle risse per aumentare il nervoso». Una lettura di “Salario, prezzo e profitto” di K. Marx

I militanti non si trovano in natura, vanno prodotti. E su questo siamo tutti d’accordo. Il difficile viene quando siamo a misurarci con la qualità di questa produzione, più che con la quantità – che già, bene o male, è insufficiente. Proprio per tale motivo crediamo che l’ambito della formazione (o autoformazione) militante sia strategico per una soggettività politica collettiva, soprattutto nelle fasi dove l’esercito è ancora tutto da costruire, e più che andare all’assalto si preparano le battaglie a venire. «Bisogna ripartire dall’alto, bisogna ricostruire élite. Allora cerchiamo di creare i migliori. Per un certo periodo è necessario». Sono le parole di un cattivo maestro, che riprendono il filo di una tradizione rivoluzionaria antica. «Creare i migliori», in questo senso, per noi significa la formazione di quadri, avanguardie, militanti politici (chiamateli come più vi è congeniale) capaci di attrezzarsi progettualmente per cambiare i rapporti di forza e di potere, esprimendo uno scarto qualitativo. La ricerca di tale scarto, attraverso cui si misura la potenza politica di un progetto, crediamo sia una strada che debba muovere le nostre buone – ovvero cattive – intenzioni. Per questo pubblichiamo qualche appunto e piste di lettura presi in occasione di un nostro momento di autoformazione di qualche tempo fa su Salario, prezzo e profitto del vecchio Moro di Treviri (edizione di riferimento: Ombrecorte 2019, traduzione di Adelino Zanini), sperando possano essere utili anche fuori da qui.

 

«Il ruolo dei comunisti è, quindi, in ultima istanza, bestemmiare nelle risse per aumentare il nervoso». Cit.

 

1. Per cominciare, un po’ di inquadramento storico, per capire dove si inserisce il testo che oggi andremo a leggere e commentare. Salario, prezzo e profitto, scritto nel 1865, è una risposta di Marx alle tesi dell’owenista John Weston nel Consiglio generale della prima Internazionale: quindi una polemica contro il socialismo utopico, il riformismo, un preciso atteggiamento e punto di vista insiti dentro il movimento operaio dell’epoca. Si parte quindi dalla contrapposizione, da uno scontro, dall’antagonismo dentro la propria stessa parte contro ogni istanza di compatibilità, accomodamento, mediazione con la controparte. Il nemico, a quanto pare, ha articolazioni perfino dentro il nostro movimento. Marx parte dall’agire una cesura con esse.

2. Salario, prezzo e profitto è un saggio divulgativo che sintetizza le prime tre sezione del Capitale. L’invito non è tanto a concentrarsi sugli aspetti economicisti, ma sull’atteggiamento, l’angolo visuale, lo sguardo attraverso cui Marx osserva salari, prezzi e profitti e li piega ai propri fini di parte, rivolti quindi al conflitto tra una forza potenziale che lui vede ‒ la classe operaia – e il capitale.

3. Il punto centrale di Marx, che è un punto di metodo antagonista, e quindi comunista, è quello di trasformare una relazione economica ‒ non ci interesse se effettivamente vera o concreta o scientificamente provata nei termini in cui la traduce ‒ in un rapporto politico.

4. Dall’economico al politico: è questa l’operazione di Marx. Portare la questione del salario, quindi la questione dei rapporti di forza e di potere tra operai e capitale, dal terreno del capitale – l’economia – al terreno operaio – la politica. Non si vince sul terreno scelto dall’avversario dove esso detta legge, dove esso è la legge. Gli operai possono vincere – qui la questione del potere – solo sul terreno della politica, che è conflitto, organizzazione, organizzazione del conflitto e conflitto tra organizzazioni, quella operaia (il partito) e quella dei capitalisti (lo Stato).

5. È in questo senso che va letto Marx, che va letta la sua necessità di critica dell’economia politica per piegarla a sostegno di fini di parte, politici. Usare le armi del nemico, invadere il suo campo per strappargli quello che ci può servire per sconfiggerlo sul nostro terreno di battaglia. L’importanza di confrontarsi con un nemico alto, da pari a pari, forza contro forza, politica contro economia, operai contro capitale, è quello che ci manca proprio oggi. Da qui l’impasse nostra, ma anche del nostro nemico, che per sconfiggere la forza antagonista operaia ha dovuto nei fatti annientare il motore che lo tiene in vita: e di qui la crisi di valorizzazione del capitale che va avanti dagli anni Settanta, dopo la distruzione di quella composizione politica di classe che, con le sue lotte, aveva inceppato la catena di montaggio sociale.

6. Il salario quindi va usato come una questione politica, perché è indice dei rapporti di forza tra operai e capitale. Trasformare il salario da variabile dipendente dai profitti a variabile indipendente da essi è stato la meta delle lotte degli anni Sessanta e Settanta che hanno infatti messo in crisi il capitale (si veda rapporto Trilaterale del 1973). È stato uno scontro di potere sul piano economico, che ha fallito però perché non è stato in grado di uscire dalle fabbriche e generalizzarsi nella società, non è riuscito quindi a trasformarsi in scontro politico dispiegato, quindi per il potere, in costruzione di contropotere politico rivoluzionario in grado di conquistare le posizioni del nemico, ovvero gli apparati della riproduzione e del comando sociale del capitale, lo Stato. È fallito ‒ sia per limiti oggettivi ma anche soggettivi ‒ il passaggio dalla fabbrica alla società, dal potere dentro la fabbrica al potere fuori dalla fabbrica, nelle relazioni sociali e politiche dispiegate. È mancata l’organizzazione verticale – diffusa, in parte e in sufficiente, c’è stata ‒ di questo contropotere comunista, in grado di sostituirsi al potere organizzato dei padroni.

7. Il salario quindi va guardato non secondo una logica economica (i sindacati, i padroni) ma attraverso una lente politica. È quello che fa Marx con la categoria del salario relativo contro salario assoluto owenista, della forza lavoro contro il lavoro, del valore del lavoro contro il profitto. Il passaggio è quello dal guardare un rapporto (il salario) secondo l’occhio del padrone, del capitale, che è l’interesse generale, di tutti gli attori in gioco, quindi dove vince il più forte, che è il capitale, a quello del guardarlo secondo un punto di vista di parte, partigiano, irriducibile, che è quello dell’operaio, quindi uno sguardo che porta con sé inevitabilmente una prassi di rottura dell’equilibrio delle forze in gioco per fini sovversivi, una prassi di ribaltamento delle carte in tavolo.

8. Introduzione, pagina 17. Marx parte da una presa d’atto: «Sul continente, regna oggi una vera e propria epidemia di scioperi e richiesta generalizzata di aumento dei salari». Parte da un’osservazione concreta della realtà concreta dei comportamenti della composizione di classe, dall’osservazione delle lotte, degli atteggiamenti di rifiuto, dei conflitti, delle parole operaie che emergono sul salario. Lotte non ancora organizzate, evidentemente portatrici anche di istanze mistificate, conflitti spuri nati sull’onda della spontaneità ma con al centro una questione materiale che mobilita e porta allo scontro con le condizioni esistenti, con lo status quo, contro i padroni: il salario.

«Quando la teppa studia – si agisce la teoria». La banda Bellini.

9. Capitolo 1, pagina 22: «La volontà del capitalista consiste certamente nel prendere quanto più possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non è parlare della sua volontà, ma indagare la sua forza, i limiti di questa forza e il carattere di questi limiti». Dopo aver cominciato la polemica, Marx si concentra sulle categorie con cui il punto di vista riformista guarda la realtà operaia, del salario, per sovvertirle. Qui l’indicazione di metodo di Marx: non concentrarsi sulla volontà del capitalista, in modo astratto, non guardare quello che vogliono i padroni per determinare se è giusto o sbagliato in modo morale, etico, filosofico. Di questo non ce ne frega niente, a noi interessa un’altra cosa del capitale: «indagare la sua forza, i limiti di questa forza e il carattere di questi limiti». Ovviamente, per combatterli, per vincere! Importante indicazione di metodo. Conoscere il proprio nemico, strappare la nostra forza dalle sue debolezze. Lo si può fare solo odiando il nostro nemico, conosce solo chi odia, chi si contrappone, chi si scontra.

10. Andiamo avanti, al capitolo 2. Non concentriamoci sugli aspetti economicisti, numerici, matematici della dissertazione. Ascoltiamo quello che Marx invece ci dice: qua ci dice di rifiutare l’oggettivismo, il considerare le leggi economiche capitaliste come lo stato di natura, come leggi naturali, immutabili, non trasformabili. Qua Marx ci dice che il salario che noi operai prendiamo non è retto da leggi naturali. È una questione non di oggettività, ma di soggettività, nello specifico di soggettività-contro. «Non c’è nulla di necessario in esso. [Il salario] può venire modificato dalla volontà del capitalista e può quindi essere modificato contro la sua volontà». La soggettività operaia non è una questione sociologica, ma una questione di conflitto. Senza lotta di classe non c’è classe operaia. La classe è quella che lotta. I soggetti che lottano.

11. Sempre nel capitolo 2, a pagina 24, c’è una bella metafora, quella della zuppiera: ciò che impedisce agli operai di prendere più zuppa (salario) dalla zuppiera (prodotto nazionale), non è la piccolezza della zuppiera (poco sviluppo dei mezzi produttivi), né la scarsità del suo contenuto (poca produzione), ma la piccolezza dei loro cucchiai. Ovvero, la loro debolezza, la loro non-forza. Attingere alla zuppa per l’operaio non è una questione regolata da fattori oggettivi, ma è una questione soggettiva, è una questione di forza, di rapporti di forza, di quanto la forza operaia riesce a strappare al capitale, attraverso gli unicisuoi strumenti (il cucchiaio), ovvero l’organizzazione, di attacco e non di difesa.

12. La prima parte del libro, fino al capitolo 6 su valore e lavoro, serve a Marx per smontare il punto di vista oggettivista del riformismo, puntandogli contro le sue stesse contraddizioni. Quello che vuole fare è delegittimarlo di fronte agli operai, dire che è fallace, combattere l’economia con argomenti dell’economia. È guerra del pensiero, lotta di classe sul livello della produzione intellettuale, a livelli alti. Anche questo è un campo di battaglia, che non va slegato dal movimento complessivo.

13. Andiamo dunque al capitolo 6, pagina 53. Valore e lavoro. In che cosa consiste il valore di una merce? Le merci nell’economia capitalista sono prodotti della cooperazione sociale, lavoro sociale realizzato, cristallizzato. Qual è la misura del valore delle merci? Il lavoro degli operai. Marx qui comincia a sferrare il contrattacco, dall’economia alla politica. Osservate l’operazione. Ricordate, siamo sul terreno economico, il terreno delle leggi del capitale. Ma mettere al centro il lavoro degli operai è un’operazione politica. Perché vuol dire mettere al centro la soggettività, quindi la possibilità della lotta. Marx vede una forza. Fa venire quindi prima l’operaio, poi il capitale. Prima una parte, poi il tutto. Mette a punto le condizioni stesse del conflitto. Indicazione di metodo. Punto di vista. Prassi del pensiero che diventa prassi.

14. Il valore relativo di una merce (attenzione: non prezzo, che è espressione monetaria del valore) si misura con quanto lavoro è fissata in essa. Come si misura la quantità di lavoro fissata? Con il tempo. Il tempo che l’operaio ci mette a produrla. Il tempo della propria vita che vende al capitalista. Che il capitalista ci ruba per estrarre pluslavoro, plusvalore. Ma questo si vede meglio avanti. Qua mettiamo in risalto la questione del tempo come misura del lavoro. Come questione centrale in rapporto al salario. Marx mette il tempo dell’operaio al centro del proprio discorso perché è sui tempi che si combatte la battaglia tra operai e capitale. Il tempo della propria vita quanto vale? Quale prezzo? È questo un nodo centrale politico, di lotta politica. Lottare per riprenderci il tempo di vita al maggior prezzo possibile. Meno lavoro, più salario. Il programma di lotta al centro dell’autunno caldo degli anni Sessanta e Settanta. La questione del tempo è strettamente collegata alla questione delle macchine. Valore, tempo, macchine. Intreccio centrale per ogni analisi odierna, al tempo del livello più alto di sviluppo globale della tecnologia (si veda la Cina), che va approfondita senza cadere in ideologie idiote come l’“accelerazionismo”, la “piena automazione” in regime capitalista, che non sono altro che riesumazioni di ideologie del progresso delle socialdemocrazie della Seconda internazionale fatte uscire dalla porta nel Novecento e rientrate oggi dalla finestra attraverso critical theory alla moda tra il ceto medio riflessivo.

15. Lasciamoci dietro queste ultime derive pagliaccesche, di cui non occorre proprio dire altro, e andiamo al capitolo 7, pagina 65, dove Marx fa un’importante distinzione tra lavoro e forza-lavoro: la forza-lavoro è quella che l’operaio vende al capitalista. È una merce. Ma non come tutte le altre. È una merce speciale. È una potenza in possibilità, in carne e ossa. È quindi appunto soggettività. «La forza-lavoro di un uomo consiste unicamente nella sua individualità vivente». Anche questa è un’operazione politica di Marx. Fa sbilanciare il rapporto operai-capitale su una parte precisa. La soggettività è la potenzialità di un’autonomia. «Il valore della forza-lavoro è determinato dalla quantità di lavoro della sua produzione». Qua entra in gioco la questione della riproduzione della forza-lavoro, le condizioni specifiche e storicamente determinate attraverso cui la forza-lavoro operaia, la soggettività, si crea, “ricarica” dopo essersi consumata, logorata, e i suoi costi. Un nodo politico. Costi da scaricare sul padrone o sull’operaio? Chi li paga? Anche questo è un terreno di lotta da politicizzare. E quali sono i terreni della riproduzione? I costi, monetari e di tempo, del trasporto per andare al lavoro che avvantaggiano il capitalista; l’istruzione e la formazione che servono a preparare l’operaio a lavorare (la scuola, l’università, tirocini, stage, corsi), gli svaghi del tempo libero e la cultura, gli affetti, la cura e il lavoro domestico delle donne nella società patriarcale. Qua si apre un mondo. Qual è oggi il peso complessivo della riproduzione per il capitale? È maggiore di quello della produzione stessa?

16. Andiamo avanti. Capitolo 8, sulla produzione del plusvalore, pagina 71. Il plusvalore (si veda definizione che ne dà Marx) è il prodotto del pluslavoro (idem per definizione) di cui si appropria il capitalista comprando la forza-lavoro dell’operaio per un determinato tempo. Il plusvalore è quindi incorporato dal capitalista rubando all’operaio il suo tempo. «È su questa sorta di scambio tra capitale e lavoro che la produzione capitalistica o il sistema salariato si fondano e riproducono, costantemente, l’operaio come operaio e il capitalista come capitalista». Passaggio molto importante. Qua Marx ci dice che il capitale non è tanto o solo una forma determinata di produzione (il capitalismo), ma è nella sostanza un rapporto sociale. Una ri/produzione di soggettività («l’operaio come operaio, il capitalista come capitalista») plasmata da determinati rapporti di forza e di potere. È su queste basi che il compito basilare dei militanti comunisti è quello di produrre, plasmare, costruire controsoggettività, a partire dai conflitti e dalle contraddizioni intrinseci che il rapporto di capitale porta con sé. Dentro il rapporto che tutto ingloba, e contro il rapporto, che è generale, per fini di parte, autonomi. Costruire quindi delle fabbriche di controsoggettività è la sfida più importante per un militante comunista. Dove si costruiscono? In che modo? Con che forma? Dal dentro dei processi o è solo possibile dall’esterno? Con quali soggetti? Attraverso quali comportamenti? È il nodo, sempre irrisolto, dell’agire militante attraverso l’organizzazione della parte nel e per il conflitto. Il nodo del partito, della ricomposizione di classe, del loro rapporto. Il nodo dell’autonomia, di classe e organizzata. Il partito, l’organizzazione, come fabbrica di controsoggettività autonoma, in lotta non solo contro il capitale, ma contro se stessa come soggettività prodotta dal capitale. L’operaio che rifiuta di farsi operaio per il capitale. Che lotta contra il lavoro, come sistema non solo di sfruttamento ma di produzione, appunto, di soggettività capitalista. Il grande compito a cui si è ritrovato a rispondere Lenin dopo l’Ottobre è stato appunto quello di costruire, allargare, far durare (la durata è sinonimo di istituzioni: la parte operaia ha bisogno di istituzioni operaie) la controsoggettività prodotta dalla rivoluzione. L’uomo e la donna sovietici: non uomini e donne nuovi, ma differenti. Un compito di portata antropologica.

I barbari.

17. Il capitolo 9 è importante. Qua Marx descrive come lo squilibrio nello scambio tra capitale e operai sia mascherato da un contratto. Entra quindi in gioco la storia, il portato dei processi umani che si sedimentano nel tempo. L’Inghilterra, dalla Magna Charta alla nascita del capitalismo industriale, la cultura anglosassone, calvinista, dello spirito del capitalismo. Entrano in gioco le istituzioni borghesi, la cultura giuridica liberale, la legge dello Stato che regola, formalizza, dà veste e struttura alle leggi sedicenti naturali dell’economia capitalista. Costruire forme, apparati e culture altre che diano legittimità, struttura e durata al contropotere operaio, al potere comunista, deve essere un compito alto su cui riflettere, senza fare ricette per l’avvenire. Con la priorità, però, di rompere il continuum dello status quo, destituire le forme nemiche. È questa la nostra storia, il nostro compito storico.

18. Capitolo 11, pagina 79. Si parla sempre di plusvalore. Si ripete il metodo. Non ci interessa se è vero o falso quello che Marx dice riguardo all’economia. Non è questo il punto. Marx fa l’operazione politica di mettere al centro del quadro che sta dipingendo gli operai. Li rende protagonisti della storia perché lì ha visto una forza tendenziale in un punto preciso dove loro sono più forti e il capitale è più debole. Una soggettività parziale perno dei processi, in modo che poi possa sovvertirli. «Rendita fondiaria, interesse, profitto industriale sono soltanto nomi diversi per diverse parti del plusvalore della merce, o del lavoro non pagato in essa contenuto, e scaturiscono in egual modo da questa fonte e unicamente da essa», ovvero il plusvalore che il capitalista spreme dagli operai. «Quindi il rapporto fra tale tipo di capitalista e l’operaio salariato è il perno di tutto il sistema salariato e di tutto l’attuale sistema di produzione». Stessa cosa fa per il saggio di profitto. Prima ci mostra cosa è per l’interesse generale, quindi per il capitale, poi ci vedere cosa è per l’operaio, per una parte, il tutto ai fini della lotta, per sobillare e produrre lotta, dare armi non solo concettuali ma indicazioni materiali agli operai di dove andare a colpire. Performatività marxiana del conflitto.

19. Ancora al capitolo 12, pagina 84. Marx parla ancora del valore spartito tra operai e capitale, «quanto più riceve uno, tanto meno riceverà l’altro»: il salario è l’indice dello scontro in atto tra forze contrapposte. Qua Marx ci dice che se i padroni ridono, gli operai piangono, e viceversa. Non ci sono mediazioni, non ci sono terzietà. Il due significa guerra: amico/nemico, la lezione schmittiana. Si lotta per fare male, questo dice il Moro di Treviri. «Se i salari diminuiscono, aumenteranno i profitti; se i salari aumentano, diminuiranno i profitti». Non c’è una via di mezzo, per Marx, per i militanti, per i comunisti. O tutto o niente. Questo è pensiero e metodo del conflitto. È politica, non economia. Semplificare, possedendola, la complessità. Individuare, conoscendolo, il nemico. Chiarificare, allargandolo, lo scontro. Organizzare la forza, di una parte, intorno ad esso. Punto di vista. Metodo. Prassi. Sta tutto qua l’insegnamento che Marx fa ai militanti comunisti.

20. Ci avviciniamo alla conclusione. Siamo al capitolo 13, pagine 92-93. Si parla di operai, tempo e macchine. Ci bastino qua frammenti di appunti. «Gli operai adempiono solamente un dovere verso se stessi e verso la loro razza. Essi non fanno altro che porre dei limiti all’usurpazione tirannica del capitale. Il tempo è lo spazio dello sviluppo umano». Più salario, meno (tempo di) lavoro. Attraverso l’automazione. Rapporto tra operai e macchine (è il capitale. Accelerare vuol dire approfondire il capitale, nient’altro. Eschaton). Macchine contro operai (disoccupazione strutturale/possibilità di liberazione?). Operai contro macchine (luddismo antimoderno, freno allo sviluppo?). Conquistare tempo. Riprenderci il tempo. Prendere tempo (Katechon).

21. Siamo arrivati all’ultimo capitolo, il 14: “La lotta tra capitale e lavoro e i suoi risultati”. Giunti a questo punto è tutto molto più chiaro. Marx non parla di sfruttati, poveri, emarginati e vittime («affamati e disperati», cit.). Marx ha parlato tutto il tempo di sfruttamento, lotta, forza e potere. Il conflitto, la sua possibilità incessante, tra operai e capitale non è separabile dal sistema salariato, è intrinseco al sistema. Il lavoro non è una merce qualsiasi, il suo valore non è comparabile a quello delle altre merci, e non è una grandezza fissa (come i profitti, che nel capitalismo sono variabile indipendente), ma variabile: «La cosa si riduce alla questione dei rapporti di forza tra le parti in lotta». Gli interventi legislativi dello Stato dall’esterno sono determinati dai rapporti di forza tra classi: senza la lotta operaia, non ci sarebbero diritti, Statuti del lavoro, costituzioni. Sono cristallizzazione di quei rapporti di forza, e infatti quando vengono meno le lotte i diritti, le conquiste e le leggi vengono smantellati, con buona pace della sinistra. Ma non è questo infatti che deve competere ai comunisti. Fulcro della loro militanza non è far avanzare in modo progressivo il diritto dentro e fuori la fabbrica, le condizioni di vita e di lavoro, la società nel suo complesso, ma porre la questione del potere e del contropotere, piegare i rapporti di forza sempre più a vantaggio della propria parte, attraverso organizzazione e lotta. Porre la domanda “chi comanda qua?” deve essere a fondamento dell’attività dei comunisti. «È proprio questa necessità di un’azione politica generale che ci fornisce la prova che nella lotta puramente economica il capitale è più forte». Come militanti politici non dobbiamo impantanarci nella sindacalizzazione del conflitto, trasformandoci in rappresentanti, sindacalisti o funzionari (predeterminando una compatibilità attraverso la ricerca di una trattativa, di un accordo, di un tavolo concertativo: lasciamolo fare al sindacato). È quello che abbiamo assistito in questi anni: militanti politici che diventano di fatto funzionari. La direzione del movimento è all’opposto di quello che accadeva, per esempio, negli anni Sessanta e Settanta durante il grande ciclo di conflittualità sociale trainato dalle lotte dell’operaio-massa, quando lo scopo era la soggettivazione politica di lavoratori e avanguardie di lotta verso l’esterno della fabbrica, portare l’autonomia degli operai a rompere gli argini sindacali e organizzarsi su tutto il terreno sociale contro il capitalista collettivo, lo Stato. Oggi invece abbiamo visto il processo contrario, dall’autonomia al sindacalismo. La vertenza è spesso l’inizio di una lotta, ma anche la sua fine. Occorre muoversi con la consapevolezza che mettendo da parte la vertenzialità si rischia di sgonfiare la mobilitazione, ma anche che schiacciandosi, limitandosi, agendo in modo vertenziale si prosciuga il senso politico che deve avere la nostra azione, il nostro compito di militanti, che è quello di allargare e verticalizzare lo scontro, per superare la vertenza, la fase sindacale del conflitto. Che è quello di esprimere e collegare in ogni momento, in ogni anello del nostro agire l’«attualità della rivoluzione». I sindacati passano, ma la lotta di classe resta. I militanti devono essere agenti della radicalizzazione e generalizzazione della lotta di classe dispiegandola sul terreno sociale complessivo come istanza di contro/potere operaio. Altrimenti rimanendo dentro le fabbriche, i magazzini, i posti di lavoro, benché roccaforti e nonostante il relativo potere e miglioramenti materiali conquistati grazie alle lotte, si rimane esposti alla risposta del capitale, che ha tutte le risorse e il tempo che vuole per toglierci il terreno da sotto i piedi, anche a costo di metterci dieci anni, anche a costo di perderci economicamente per una fase, tramite un combinato di ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro e del sistema produttivo, innovazione capitalistica e tecnologica, oltre che di repressione. Vediamo l’operaio massa negli anni Settanta (ma l’esempio potrebbe valere anche per il mondo della logistica oggi): il padrone complessivo ha dovuto aspettare un decennio, ma mancando, non riuscendo o evitando una ricomposizione di classe, una generalizzazione politica delle lotte operaie cucita dai militanti comunisti (è la lezione leniniana, il rapporto tra spontaneità e organizzazione) verso l’esterno, non poteva che esserci l’esito visto, l’introduzione di sistemi di automazione e la ristrutturazione produttiva, che frantumano le concentrazioni di avanguardie, “spacchettano” le roccaforti operaie riallocando geograficamente unità minori dove meno sviluppato e forte è il movimento, dividono, parcellizzano, stratificano, disperdono, isolano ed espellono sempre più forza-lavoro passata per il precedente ciclo di lotte dai luoghi di lavoro, spezzandone progressivamente la resistenza e tornando così, alla lunga, a pacificare i luoghi dello sfruttamento.

22. «Invece del motto conservatore: “Un equo salario per un equa giornata di lavoro!” gli operai devono scrivere sulla loro bandiera la parola d’ordine rivoluzionaria: “Abolizione del sistema del lavoro salariato!”». Qua, in conclusione, tutta l’indicazione di Marx e di questo scritto, che ne esprime lo sguardo di metodo. Il punto di vista della rottura, l’attualità della rivoluzione, della classe vendicatrice, che coglie il tutto dalla parte, che conosce veramente perché veramente odia. Si lotta sempre contro, mai per ‒ e tanto basta per iniziare.

«Ai proletari non è concesso il lusso dell’ignoranza, che è invece privilegio dei borghesi».

 

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Troppo fuorismo / Inchiesta

Un punto di vista autonomo dalle fabbriche. Intervista a un operaio

Quella che segue è una chiacchierata che abbiamo fatto con un lavoratore di un’azienda metalmeccanica della nostra città. Una specie di “carotaggio atipico” su quello che si muove nelle fabbriche e nella composizione operaia “tradizionale” che per la maggiore caratterizzano il nostro territorio. Il nostro interlocutore è una figura mediana, politicizzata, che incorpora saperi e attitudini sedimentati dalla vicinanza o partecipazione a cicli di lotta ed esperienze politiche esauriti, ma che al contempo non è inquadrata in percorsi all’interno di sindacati, organizzazioni partitiche o strutture specifiche. Proprio per questo ci ha interessato la “sua versione” liminale, che evita da una parte quella distanza ideologica o quei filtri (sia “politicisti” che “sindacalisti”) che spesso dividono l’attivista, il delegato o il funzionario da uno sguardo lucido sul livello di massa, e dall’altra quell’aderenza al punto di vista dell’interesse generale che è il senso comune delle classi dominanti. Crediamo che queste parole possano essere utili per approfondire un’analisi di fase e di tendenza oltre gli slogan e le semplificazioni, per “misurare la temperatura” in determinati settori e per dare un punto di vista alternativo – o elementi per un ragionamento – rispetto alla questione della lotta di classe nel suo rapporto con la sindacalizzazione del conflitto. Buona lettura.

 

Ciao. Partiamo questa conversazione chiedendoti di presentarti sommariamente prima di iniziare con qualche domanda più specifica.

Lavoro in una fabbrica metalmeccanica emiliana, di media grandezza, sicuramente non piccola, come operaio, quindi tutto parte da questo mio punto di vista, sicuramente parzialissimo, e da quello che tocco con mano e vedo ormai da diversi anni. Provengo da una famiglia normalissima e faccio una vita normalissima, da operaio appunto, un operaio di trenta e passa anni che ha un lavoro fisso, ancora abbastanza “garantito”, se ha ancora senso questa parola. Sicuramente lo ha, rispetto ad altre situazioni e contesti. Premetto anche a scanso di equivoci che vengo da esperienze politiche, nel senso che ho gravitato qualche anno vicino a quella che una volta si poteva chiamare autonomia, o collettivi autonomi, della mia città. Adesso non credo esistano più, in ogni caso per dire quello che, per un periodo da più giovane, ho masticato e che comunque mi ha lasciato qualcosa, infatti in azienda per un piccolo tempo sono stato delegato sindacale, ma alla fine mi sono rotto il cazzo perché ho capito che non era la mia strada.

 

Come vedi la situazione, oggi, dentro la fabbrica, al tempo della crisi pandemica? Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), presentato dal governo italiano all’Unione europea per sbloccare i finanziamenti del Recovery Fund, è presentato quasi come un nuovo New Deal, sicuramente visto dalle classi dirigenti come un’occasione di ristrutturazione capitalistica. Quali sono secondo te l’impatto e le prospettive sui luoghi di lavoro?

Per partire secondo me bisogna fare qualche passo indietro, andare indietro di qualche anno. Parlare di “Industria 4.0”, del Piano nazionale Industria 4.0, oggi potrebbe risultare, ai più, una roba vecchia, obsoleta, acqua passata. Niente di tutto ciò. Credo infatti che riprendere in mano questo argomento usandolo per analizzare ciò che potrà succedere nel prossimo futuro sia in una qualche maniera determinante. Mi spiego meglio. Di “Industria 4.0” si comincia a parlare all’interno della grande industria e delle multinazionali dell’automotive agli inizi degli anni Duemila come enorme opportunità di cambiamento e innovazione tecnologica del sistema lavoro in Italia, annunciando e preparando, a livello mediatico, quello che sarebbe stato il rinnovamento dei macchinari, degli stabilimenti, delle modalità di lavoro e di conseguenza dei sistemi produttivi all’interno delle fabbriche. Di fatto, chi più chi meno, negli anni seguenti si è fatto proprio questo nei luoghi di lavoro, dove i lavoratori passano gran parte delle loro giornate. Detto questo, è importante secondo il mio punto di vista capire meglio quali sono stati i motivi principali del 4.0 soprattutto, ripeto, in ottica di analisi odierna per quel che ci riguarda come comunisti.

Sicuramente il motivo politico delle associazioni imprenditoriali (Confindustra a tirare le fila) di promuovere, sostenere, espandere e finanziare questo tipo di percorso è stato quello di garantire all’industria italiana la possibilità di lavorare e allinearsi ai sistemi produttivi già presenti al di fuori della penisola. Per sintetizzare il tutto: garantire la competitività dell’industria italiana, e quindi il sempre più incerto posizionamento del paese, nel sistema Europa a trazione tedesca e più in generale nei rapporti della globalizzazione, nelle cosiddette catene globali del valore.

Alla pari della scelta politica, c’è poi sicuramente la scelta economica, ovvero l’enorme possibilità e opportunità offerta ai padroni per rinnovare i propri impianti e produzioni attraverso l’uso di fondi, sgravi, bonus e tutta una serie di canali preferenziali garantiti dallo Stato. Da qui certamente, anche l’occasione di maggiori profitti generati dal rinnovamento e dal cambio di passo strutturale della propria realtà aziendale.

Mi sono soffermato su questi due macro motivi perché la questione, per me, diventa interessante, nel senso che se uno legge tra le righe capisce che dietro alla questione politica c’è una volontà di “pianificare” del capitale volta a rinsaldarsi, entro una certa area, attraverso la standardizzazione dei processi produttivi, per competere magari con altri soggetti concorrenti nelle relazioni intercapitalistiche o avversarie (mi riferisco ovviamente alla Cina), e nel secondo aspetto, quello economico, c’è tutta la questione odierna e futura di quello che ormai sentiamo chiamare dappertutto come “welfare”. Mondo, quello del welfare, in cui si aprono innumerevoli canali di spesa economica privata in cui le aziende si rendono promotrici di tutta una serie di servizi, privati, “al servizio” del lavoratore. Soldi che paiono regalati, donati, dalle aziende ai lavoratori, ma che di fatto sono somme economiche già incanalate per essere spese in modo vincolato. Questione quella del welfare che fa gola ai padroni dal momento che qualche soldo gli torna indietro e fa gola ai lavoratori perché vengono venduti come soldi puliti, detassati.

Deep Padania visual classic.

Puoi dirci di più su come si è articolato dentro le fabbriche, sui luoghi di lavoro, tra gli operai, questo primo “Piano nazionale” che sembra anticipare, quasi spianare la strada al Pnrr?

Dal convincimento dei padroni nel dare seguito alle parole delle proprie associazioni rappresentative con i fatti, è iniziato un vero e proprio percorso all’interno delle aziende: corsi di formazione e aggiornamento su tutti i fronti e soprattutto puntando su competenze, saperi e caratteristiche di tipo “umanistico” per quel che riguarda tutte le figure lavorative. Per “umanistici” intendo corsi di insegnamento all’uso delle parole, del dialogo, delle modalità di comportamento e quindi della costruzione di un sistema dove deve regnare la collaborazione tra i lavoratori e i quadri per un unico fine, un unico scopo: fare e dare il massimo all’azienda e perseguire tutti gli obiettivi aziendali e padronali.

Mi spiego meglio. I padroni in questi anni attraverso tali corsi hanno prodotto, insegnato, diffuso un lessico – che è loro – ai lavoratori, hanno diciamo lavorato per avvicinare i due lessici, quello del lavoratore comune e quello del quadro dirigenziale, in modo tale che anche l’operaio si sentisse un dirigente al servizio dell’azienda. Questa costruzione umanistica dei lessici, degli usi, dei modi è stata usata per spazzare via tutte quelle criticità che nascono nel lavoro quotidianamente tra figure diverse all’interno della stessa azienda, con discussioni che vanno oltre il mero aspetto lavorativo, che riguardano proprio l’approccio mentale, il punto di vista. Si è voluto standardizzare i modi tra chi taglia il ferro in officina e chi fa programmazione annuale di vendita in ufficio, per esempio: avvicino le due figure, che sono distanti nella gerarchia, nel salario, nell’attitudine, e le faccio lavorare in comune per l’azienda. La costruzione di una pace sociale e di una “pace mentale” comune con lo scopo di andare in un’unica direzione: quella del lessico dei padroni, ovvero quella della “produttività”, del “fatturato”, dell’“efficienza”, della “presenza”, dell’“amore” e la “cura” per l’azienda – che non è neanche una cosa del tutto negativa, ma se diventa amore e cura per il profitto del padrone diventa tutta un altro paio di maniche –… in questo senso i corsi formativi umanistici sono serviti a standardizzare e portare sulla linea padronale il lavoratore comune, l’operaio che viene a lavorare per farsi le 8 ore e basta per portarsi a casa la pagnotta un altro giorno ancora. No, il lavoratore deve metterci qualcosa in più, qualcosa di sé, quelle 8 ore devono dare qualcosa in più al padrone, devono dare efficienza, collaborazione e produttività. Standardizzare le parole, i modi e gli usi di un operaio a un quadro dirigenziale vuol fare sentire il lavoratore padrone e dirigente nel proprio reparto di lavoro, creargli quella sensazione di essere padrone del suo reparto, di essere coinvolto direttamente nell’efficienza del reparto, nella responsabilità del reparto: il lavoratore non è più quello che timbra, mette i pezzi sulla macchina, segna i pezzi, va in pausa, mangia, ricomincia fino a quando finisce il turno e torna a casa, ma quella persona che deve sentirsi direttamente coinvolto nell’efficienza, nella produttività, negli obiettivi dell’azienda, e quindi della dirigenza. Queste parole di merda che cominciano a girare tra gli operai.

Per farvi un esempio, nella mia azienda questo corso è stato fatto così: per un periodo è stato tenuto diviso in due parti nella giornata, alla mattina gli operai d’officina, magazzino, montaggio, quelli del manuale diciamo, al pomeriggio i quadri dirigenziali e quadri di reparto. Hanno fatto così per qualche tempo, poi hanno mescolato le persone ed esposto quello che era uscito precedentemente, iniziando una discussione condivisa su come risolvere i problemi, le criticità, le difficolta… trovando insieme la soluzione che andasse bene a tutti, sia all’operaio che al quadro. La responsabilità lavorativa è stata molto sottolineata, ancora più che la produttività o l’efficienza: responsabilità di reparto, della propria mansione, di gestire i problemi, responsabilità economica di tutela aziendale sui fatturati e sui risultati. Insomma, tutta questa roba da risorse umane alla fine mi sembra quello a cui aspirano, in fin dei conti, i sindacati, soprattutto confederali, in cambio di qualche contentino da parte dei padroni. Quando hanno cominciato nella mia azienda sono andato al primo corso, ho ribattuto alla ragazza che lo teneva su alcune questioni, non mi ricordo nello specifico, ma solo che dissi «No piano, aspetti un attimo…» e un po’ dei miei colleghi in quel momento mi sono venuti dietro. Poi non mi hanno fatto più andare (ride).

Oltre a questo percorso, con “Industria 4.0” ci sono state assunzioni a tappeto di consulenti aziendali che hanno avuto tempo, modo e relazioni per cogliere tutto ciò che doveva essere cambiato, modificato, tolto o aggiunto all’interno delle produzioni; poi accordi e progetti spesso sottoscritti dai padroni direttamente con la propria associazione di categoria per la gestione delle contabilità, delle assunzioni di nuova forza lavoro tramite le centinaia e centinaia di agenzie interinali (o cooperative, a seconda del settore) presenti in ogni dove; poi relazioni nuove con fornitori di macchinari fino a quel momento sconosciuti o mai presi in considerazione e quindi anche nuove relazioni che hanno poi portato anche a nuove commesse e a maggiori possibilità di fatturato per come dicevo poco fa.

Insomma, tutta una serie di questioni e azioni padronali fatte in diversi ambiti e ognuna mirata al proprio singolo obiettivo, ma coordinate e direzionate verso lo stesso risultato, lo stesso “sistema lavoro”.

Modena, Pyongyang, Potsdam, Caracas, Bengasi, Perm’…

Quali sono state le reazioni dei lavoratori a questo processo, e che ruolo hanno avuto – se hanno avuto un ruolo – i sindacati?

È proprio in questo momento che si è aperta un’ulteriore fase che oggi pesa come un macigno in quelli che sono gli equilibri di fabbrica, ma soprattutto per quelle che sono le rivendicazioni all’interno del mondo del lavoro: sto parlando della cogestione. Vero e proprio anello di raccordo mancante tra comando d’impresa e forza lavoro, è con essa che si fonde il punto di saldatura tra di loro. C’è chi si dice da sempre contrario tra i lavoratori e all’interno dei sindacati sia confederali che di base, c’è chi sostiene invece che si tratta di un’enorme possibilità nel capire e intervenire su tutta quella che è la parte decisionale dei padroni nei confronti dei lavoratori, soprattutto i sindacati confederali. Certo è che, sicuramente, i lavoratori si sono trovati impreparati al confronto e non hanno saputo gestire questo tipo di relazione con le parti dirigenziali aziendali. Quello che sarebbe, forse, potuto diventare un cavallo di troia per i padroni, si è invece palesato nelle fabbriche come vero e proprio modello di falsa cogestione dai risultati davvero sconfortanti per quel che riguarda, come ho dentro sopra, il conflitto operaio dentro e di conseguenza anche fuori dalle fabbriche.

Si è trattato di una fase in cui si è costruita intorno alla figura del “lavoratore”, un lavoratore generico, tutta una dimensione in cui si sono affidati incarichi, compiti, doveri lavorativi praticamente a costo zero; semplicemente facendolo sentire parte di qualcosa in fabbrica così come fosse a casa sua. Sono nate finte relazioni dove si è messo da parte tutto (tutto ciò che è extra a dove il lavoratore passa la sua giornata lavorativa, sono messe da parte discussioni riguardanti le proprie vite fuori dalla fabbrica, condivisioni di tempo, relazioni e spazi familiari esterni alla fabbrica in cui i lavoratori discutono delle proprie forze, delle proprie idee politiche e anche dei loro obiettivi, e da qui anche il come arrivare ai propri obiettivi, alle proprie esigenze di vita e di sostegno economico della stessa) a fronte delle questioni puramente lavorative (si parla solo di lavoro e ormai viene naturale parlare solo di lavoro) attraverso le parole d’ordine, gli indirizzi e le modalità di chi comanda; e i lavoratori hanno bevuto, sono stati travolti da quest’onda già alta, forte, che ti spazza via portandoti con sé, che ben che vada riesci ad emergere per riprendere fiato.

Hanno mandato giù senza nemmeno rendersene conto e senza sentirne l’odore di marcio e oggi, in piena accelerazione della ristrutturazione produttiva dovuta alla pandemia, sono completamente nel caos sia mentale che pratico. Mille idee, mille scazzi, mille parole di battaglia, ma poi anche una sorta di atteggiamento che li frena, li fa sentire troppo e quindi talvolta sbagliati al cospetto del proprio padrone che fino a pochi anni fa credeva fosse magicamente diventato suo padre o semplicemente il suo nuovo migliore amico da gratificare ed elogiare. Si sentono sbagliati nel pensare di essere contro al padrone, e quindi inopportuni nel mettersi contro e pensare diversamente diventando contestatori del padrone.

 

Con l’avvento di questa fase determinata dalla pandemia, com’è cambiata la situazione in fabbrica? E come hai visto il ruolo di Confindustria?

Un blocco totale, quello dei lavoratori, che poco più di un anno fa si è acutizzato “grazie” alla pandemia da Covid-19, nonostante ci fosse stata qualche prima avvisaglia di scioperi spontanei, a marzo 2020, all’inizio di tutto il casino che poi è seguito.

Ma altrettanto particolare ed interessante da analizzare è che l’avvento della pandemia avviene pure nel momento storico in cui i padroni hanno la “tavola apparecchiata” per una totale gestione dello spazio lavorativo e dove avevano già tutto preparato, apparecchiato appunto, per fare bottino, un pieno di commesse e di fatturati in un 2020 in cui tutti gli elementi e tutta la situazione faceva presagire un anno davvero florido e prosperoso per loro, forse addirittura il primo vero anno “buono” post crisi del 2008 e post Industria 4.0! Avevano all’orizzonte un inizio di ciclo produttivo, probabilmente lungo svariati anni, davvero favorevole in cui nemmeno la presenza sindacale li avrebbe messi in difficoltà e anzi, con un minimo di rapporto pregresso e con altrettanto tatticismo avrebbero cogestito la situazione con loro sia dal punto di vista dei contratti interni, ma anche di tutte le questioni economiche che si sarebbero presentate dal 2020 in avanti.

Diciamo che è in questo momento che i padroni devono ricalibrare un po’ la loro linea tracciata precedentemente ed ecco che si trovano ad affrontare la pandemia in due situazioni parallele, ma che corrono alla stessa velocità.

La prima è sicuramente quella della gestione del virus all’interno degli stabilimenti. Le commesse previste nel portafoglio ordini ci sono, la forza lavoro è pronta quindi non ci si può assolutamente permettere il fermo degli stabilimenti!

La seconda è sicuramente quella contrattuale. Avere contratti aziendali in scadenza e dover affrontare, durante la pandemia, questioni ed eventuali problematiche legate ai contratti di secondo livello diventa sicuramente una preoccupazione in più e bisogna trovare una soluzione diversa, alternativa.

Ed ecco il grande ritorno in pompa magna di Confindustria “nazionale”, vero motore strategico padronale e di fatto figura politica di peso a livello istituzionale.

Come fare a non fermare le produzioni? Come fare a non fare entrare il virus dentro agli stabilimenti? E come fare, nel caso in cui riesca ad entrarci, a fare in modo che non diventi un problema, una difficoltà per il padrone? La strada sicura, maestra, e perfetta per dare risposta a queste domande diventa la cogestione nazionale del problema.

Dopo una stagione in cui la cogestione aziendale aveva funzionato per i padroni (pur non “funzionando”, evidentemente, nel pratico dalla parte dei lavoratori, oltre le belle parole), quale miglior occasione, per Confindustria, di rilanciarla con governo e segreterie nazionali dei sindacati confederali?

Il primo, il governo Conte-bis all’epoca – uscito dall’esperimento sovranista con la Lega ancora sotto il controllo salviniano – definito di centro-sinistra per l’alleanza giallo-rossa tra Movimento 5 Stelle, Partito democratico e Leu, a trazione anteriore all’insegna dei patti, degli accordi e delle intese con le parti. Un governo politico sempre “populista” ma in qualche modo smanioso di smarcarsi dalla precedente rete e di riprodurre, far vedere di tenere in mano, i meccanismi di mediazione. I secondi, i confederali, “tirati dentro” nel mucchio col ricatto (o, a essere sinceri, nemmeno col ricatto, nel senso che hanno capito la mossa anche senza esserci stato alcun ricatto) per non sparire definitivamente da tutto e da tutti, per non perdere l’ultimo senso della loro esistenza che gli è rimasto, quello di stare dentro i giochi come cinghia di trasmissione verso il basso in cambio dei finanziamenti statali che li fanno rimanere in piedi. In un momento storico sindacale confederale (ma non solo) difficilissimo e ai minimi termini soprattutto dentro alle fabbriche in termini di conflitto e rappresentanza vera, attiva tra i lavoratori, il tavolo ministeriale governativo ha rappresentato per i sindacati il bastone su cui reggersi per stare in piedi, per continuare a camminare zoppicando.

E da qui, l’intesa sul protocollo di gestione sanitaria all’interno degli stabilimenti lavorativi. Vero e proprio baluardo mediatico per governo e sindacati; vero e proprio strumento utile per i padroni per gestire a livello normativo la questione dentro alla fabbrica senza interrompere il flusso produttivo.

Le ragioni di quello che ho appena detto non sono altro che il risultato di ciò che è avvenuto nei mesi successivi all’intesa sul protocollo sanitario, perché di fatto i padroni hanno chiuso i propri perimetri produttivi, hanno deciso in autonomia come comportarsi in caso di difficoltà sanitarie presenti nei propri stabilimenti e, ultima questione che vi dà anche la misura della debolezza sindacale e dei lavoratori, gli accordi aziendali tra parti sociali e imprenditori si contano sulle dita di una mano.

Ma poi, di pari passo, ci sono le questioni contrattuali di secondo livello, quelle aziendali, che non devono e non possono rappresentare un problema, uno scoglio da dover superare. Migliaia e migliaia di contratti di secondo livello che per i lavoratori, nella maggior parte dei casi, valgono di più di un contratto nazionale.

E allora è proprio in questo momento che si arriva a capire la bontà e l’efficacia soprattutto del percorso formativo, aggregativo e “umano” di Industria 4.0 fatto dai padroni ai lavoratori. Eh si, perché, se è vero che si è aperta mesi fa una stagione nazionale contrattuale in cui vengono sottoscritte le intese più importanti in Italia (come ad esempio il contratto nazionale Federmeccanica o come quello del settore alimentare, per citarne solamente due tra i più), questo non sarebbe bastato ai padroni che i lavoratori pre-4.0 stessero comunque tranquilli, che si sentissero con le spalle coperte e rinunciando alle loro giuste rivendicazioni, anche contrattuali. E invece…. Bingo! Il lavoro di costruzione di cultura aziendale fatto dai padroni verso i lavoratori ha permesso ciò che ho detto. Un deciso cambio di passo “culturale” per andare a modificare l’atteggiamento e il comportamento dei lavoratori all’interno della fabbrica.

Da una parte le produzioni che vanno avanti, i fatturati che riprendono quota e il tempo perso del 2020 che viene recuperato dalle aziende. Dall’altra il “blocco” del lavoratore con un solo grande pensiero che passa nella sua testa: continuare a lavorare facendo passare i giorni che lo dividono dalla pensione, stando il più possibile tranquillo, senza problemi, senza rotture di coglioni. Un pensiero che lo porta e lo schiaccia alla solitudine, all’individualismo e all’esclusione totale da ciò che lo potrebbe aiutare per quelle che sarebbero le sue giuste rivendicazioni.

Zona industriale della Crocetta, Modena, anni Sessanta.

Parliamo di quello che è successo e succede fuori dalle fabbriche, dal punto di vista di chi sta dentro. Il totale capovolgimento della situazione data dalle ultime elezioni politiche, con la caduta del “Governo del cambiamento”, e l’arrivo di un “tecnico” del calibro di Draghi, che simbolicamente ha messo fine a una fase decennale che qualcuno ha chiamato “momento populista”. Quali elementi si stanno muovendo e cosa sta cambiando, in relazione alle riforme “strutturali” che il “governone nazionale” guidato dall’ex presidente Bce ha messo in conto di attuare?

Be’, ovviamente abbiamo visto il cambio di governo; l’avvento di Draghi e della sua missione da svolgere in Italia in funzione europeista e atlantica. Un momento storico in cui, dopo rotture parlamentari e di palazzo che hanno avuto il sapore di tutto tranne che del politico, Conte cede la poltrona a l’uomo “capace”, l’uomo “giusto”, quello che rappresenta la svolta epocale per l’Italia e per gli italiani. Colui che è sicuramente in grado di gestire al meglio i fior di quattrini in arrivo dall’Europa. Il governo dei “competenti”, dei “migliori”.

Che la motivazione sostanziale e principale del cambio Conte-Draghi sia stata proprio la gestione e la distribuzione del malloppo Recovery Fund erogato di fatto dalla Germania questo ormai è chiaro a tutti, anche ai muri.

Che il governo Conte fosse già traballante da tempo forse era stato meno chiaro alla gente, ma per quel che mi riguarda ero sicuro di questo nel momento in cui lo stesso Conte aprì quella famosa polemica con Meloni e Salvini in una delle sue uscite serali di spiegazione del Dpcm, in cui fece i famosi “nomi”. Una polemica che mi sembrò strana o comunque non coerente con la figura istituzionale che Conte aveva mantenuto fino a quel momento.

Detto questo, dopo i primi mesi di Draghi e del suo arrivo, sicuramente una questione di spicco è stata certamente quella della formazione del governo e dei vari ministri incaricati, ma anche su questo ormai si è scritto tanto e sinceramente non vedo più, ad oggi, una grande indignazione da questo punto di vista.

Certo è che il motivo principale per cui Draghi ha “dovuto” attuare questa assegnazione, questo scambio fatto con il bilancino da manuale, con i vari partiti dell’arco parlamentare è perché questi, da adesso fino a quando l’Italia tornerà ad elezioni, hanno bisogno assolutamente che i loro galoppini di fiducia vadano nei comuni, nelle province, nelle regioni per stringere accordi, raccogliere voti e favoritismi elettorali. È in quegli ambienti che si farà scambio di favori, poltrone e voti con i soldi del Recovery Fund.

Draghi arriva in Italia e porta con sé, stretta stretta, la sua agenda dei lavori, delle riforme.

La riforma degli organismi e apparati statali, della pubblica amministrazione, come prima questione, centrale; ed eccola già fatta. Un “serrate i ranghi” dove si dà ai lavoratori statali una parvenza di contratto nazionale con qualche centinaia di euro in più e forse qualche mezzo diritto che neanche verrà usato o rivendicato; in cambio la garanzia che questi lavorino, producano e gestiscano ciò che dovranno gestire nei prossimi mesi.

E qui il grande insegnamento dato dalla precedente gestione del reddito di cittadinanza e di Quota 100. Due riforme dall’alto profilo elettorale e propagandistico che, data anche l’impreparazione degli enti statali e delle camere del lavoro, non funzionarono nei mesi immediatamente successivi alla loro entrata in vigore; errore che non si deve commettere certamente stavolta. Oggi, che ci sarà da gestire, tra le altre, le pratiche dei licenziamenti di massa una volta sbloccati e degli ammortizzatori sociali (quelle che vengono chiamate come “politiche attive”), tutto dev’essere pronto, agile e sicuro per il popolo che ne avrà bisogno!

Parlavo prima della cogestione nazionale, del cambio di governo, della gestione del malloppo europeo e parlavo infine di riforme. Ecco, tutti e quattro i momenti si muovono nella stessa direzione, con un comune denominatore: la pace sociale.

Quella stessa pace sociale creata, oliata e perfettamente funzionante nelle fabbriche, ormai stabilmente presente in esse e che di fatto è perfetta per i padroni e per le loro produzioni. Pace sociale che deve per forza, dal loro punto di vista oggi, metterli nelle condizioni di decidere tutto quel che c’è da decidere senza ostacoli o rallentamenti, con nulla che li possa indicare come “cattivi”, ovvero controparte, nemici, o far vedere, per come li chiamo comunque io, padroni; anche per quella che sarà la fase dei licenziamenti.

Una fase nuova, voluta e cercata da anni che va ben oltre la gestione della forza-lavoro attuata con le false cooperative, i contratti degli appalti e subappalti o tutta la galassia “contrattuale” spuria e interinale esistente in Italia; siamo oltre, ben oltre. Qui si parla della fabbrica che adesso è in grado di reggere perfettamente i ritmi e i cicli produttivi odierni e dei prossimi anni (non solo nazionali) ed ecco il motivo per cui sono partito da Industria 4.0 all’inizio della mia carrellata cronologica degli eventi.

Una nuova fase di licenziamenti e di ammortizzatori sociali che si sarebbe aperta comunque e non per il fatto che esiste la pandemia. Non c’entra nulla la pandemia per come ci vogliono far credere! La pandemia ha avuto “solo” la malaugurata funzione di accelerare questo tipo di “percorso riformista” e viene usata in ambito lavorativo come strumento puramente riformista, dalla parte dei padroni. Ciò che potevano significare il virus e la pandemia sanitaria quale grossissimo problema per gli industriali e il sistema produttivo italiano è diventato invece un elemento di slancio, di innovazione, diretto e profondo, per gli stessi.

Un cambio di passo, quello pandemico, che non ha fatto altro che ampliare in quest’ultimo anno tre aspetti sociali diversi tra di loro.

Il primo è sicuramente quello di aver diffuso e portato alle orecchie del “popolo” le parole vittimistiche, il lamento, il dolore dei padroni nei confronti dei propri fatturati, delle proprie ambizioni imprenditoriali e questo è stato ed è tutt’ora un altro aspetto determinante al blocco conflittuale e rivendicativo dei lavoratori. Il fare vittimistico dei padroni ha fatto sì che il lavoratore si sentisse in dovere di sostenere le difficoltà imprenditoriali, pensando anche al futuro del proprio posto di lavoro e del proprio stipendio, mettendo da parte ciò che invece dovrebbe interessargli maggiormente e cioè il miglioramento delle sue condizioni di lavoro, del suo salario e di quel rapporto di forza nei confronti del padrone all’interno del sistema produttivo e della società. Nel sostenere il padrone, si crea e si è creato questo blocco rivendicativo e di riflesso anche conflittuale del lavoratore. Non la definirei nemmeno una tregua, nel senso che è qualcosa di più radicato all’interno della mente del lavoratore e quindi non si tratta di qualcosa che ha un tempo di inizio e di fine. È qualcosa di profondo dove si è lavoratori, ma allo stesso tempo per continuarlo ad esserlo ci si concede senza problemi al vittimismo imprenditoriale.

Il secondo è, senza dubbio, il concetto di farci sentire tutti sulla stessa barca. Partendo nel dire che nessuno è escluso si è creato quel tipo di immaginario sociale dove sembra che tutti abbiano gli stessi soldi, gli stessi privilegi, le stesse possibilità, le stesse difficoltà nell’affrontare la situazione pandemica italiana quando in realtà non è affatto così.

Terzo ed ultimo aspetto, determinante e avvilente da un certo punto di vista, il mettere al centro il lavoro, il dovere di lavorare e il “piacere” di lavorare per guadagnare, per avere nelle proprie tasche i soldi utili a vivere e sopravvivere al periodo delle chiusure, delle restrizioni a scacchiera, della crisi. Dico avvilente da un certo punto di vista perché come lavoratori dovremmo rivendicare soldi da un’altra parte e non vedere la strada vincente nel reperirne dallo stesso “popolo”. Si tratta della strada più semplice, più facile, ma che di fatto toglie da ogni responsabilità lo Stato, il sostegno che dovrebbe dare e ciò che dovrebbe restituire nel momento in cui al “popolo” servono soldi, risorse. Se il “popolo” sceglie invece di tornare a guadagnare ciucciando dalle tasche di se stesso direi che ci sia qualcosa che non va e che giri male…

Futuro anteriore. Che cosa vuole oggi la classe operaia?

Andando a finire, come vedi la prossima fase, che si prospetta dure e sarà determinata dallo sblocco dei licenziamenti? Sia dal punto di vista operaio, di quello che senti e tocchi con mano in fabbrica, che da quello delle varie organizzazioni sindacali che si candidano a gestirlo o a resistergli.

Riprendendo quello che dicevo poco fa, la pandemia ha accelerato la nuova fase dei licenziamenti. Ora, non so e non ho la bacchetta magica per dire che lo sblocco dei licenziamenti avverrà alla fine di giugno come per il momento sembra, però che avverrà ne sono praticamente certo. Come sono praticamente certo che non reggerà, in questo senso, il fatto che si partirà a licenziare chi oggi è assunto col Jobs act, ma che davvero tutti i lavoratori saranno uguali, messi sullo stesso piano, in quella fase. Probabilmente la questione Jobs Act e vecchio contratto sarà tutto nutrimento per le sigle sindacali che in un qualche modo andranno a trovare accordi nel momento in cui nelle fabbriche si procederà a licenziare; ma per il resto, lì penso che saremo davvero tutti sulla stessa barca (lo dico essendo lavoratore).

E i lavoratori saranno in gran parte spiazzati, apriranno le loro bocche senza sapere cosa dire o pensando solo in quel momento a cosa dire senza aver costruito una loro posizione precedente, ma come al solito arrivando lunghi, lunghissimi.

Lo dico perché, ad oggi, anche e soprattutto per quello che dicevo in precedenza dei rinnovi contrattuali nazionali, nelle fabbriche ci si sente sicuri, protetti, vincenti e dello sblocco dei licenziamenti non se ne parla. Non se ne parla nelle fabbriche metalmeccaniche, in quelle siderurgiche, dentro a quelle alimentari e nemmeno in quelle logistiche.

Tutti ambiti diffusissimi sul territorio nazionale italiano e tutti in costante cambiamento negli ultimi dieci-quindici anni. Un po’ per tutte le varie regolamentazioni che via via si vanno costantemente a modificare, un po’ per tutte le certificazioni che ognuno deve rispettare a livello non solo nazionale, ma riferite a quel mercato globale che ormai si è evoluto ed espanso e poi anche per quel che riguarda tutto il circuito di commercio online che è letteralmente esploso durante la pandemia.

Mi riferisco dunque al comparto logistico, dove centinaia e migliaia di lavoratori ormai da anni movimentano tonnellate e tonnellate di merce da consegnare in tutte le città, in tutte le strade italiane. Un ambito, quello logistico, in continua espansione e costruzione. Non c’è ormai città o regione italiana dove non ci sia un grande polo logistico epicentro di smistamento merci. Ambiente, quello logistico, dalle caratteristiche certamente diverse dalla maggior parte del resto delle realtà lavorative italiane in cui, per effetto di altrettante situazioni lavorative diverse, ha visto negli ultimi tempi forti circostanze conflittuali, rivendicative da parte di un’avanguardia di lavoratori. Rivendicazioni, da parte dei lavoratori, che negli anni hanno certamente avuto un’impronta marcata di resistenza allo sfruttamento durante la propria lunga ed estenuante giornata lavorativa e rivendicazioni, da parte sindacale, di rappresentanza all’interno degli stabilimenti.

Lo dico in modo trasparente e rimarco la differenza tra di loro perché è importante in questa fase capire e dare una fotografia il più possibile chiara e assente da sentimentalismi o mitizzazioni di come si sono evolute queste due “linee” rivendicative.

Non voglio assolutamente arrivare a dire che lavoratori e sindacati siano due figure distanti o comunque staccate gli uni dagli altri, però in quello che è stato l’inizio, il percorso rivendicativo e poi anche gli obiettivi (dichiarati e non) le differenze ci sono eccome.

Provo a spiegarmi meglio.

Il comparto logistico è stato l’ambito lavorativo in cui sono emerse enormi criticità dal punto di vista delle condizioni lavorative e contrattuali, e di conseguenza criticità all’interno dei sistemi produttivi adottati e presenti negli stabilimenti di riferimento. Luoghi di lavoro, questi, contraddistinti all’inizio da bassa tecnologia e dall’utilizzo massiccio di manodopera immigrata e poco specializzata, dove l’elemento dell’utilizzo di “cooperative spurie” – come giornali e media le hanno chiamate per distinguere delle sedicenti “cooperative buone” da quelle “cattive” – è dilagato e ha assunto di fatto un ruolo centrale all’interno dei processi lavorativi e dell’inquadramento della forza-lavoro. Da qui, le mobilitazioni dei lavoratori e le loro rivendicazioni in merito a turni, paghe orarie, caporalato e tutto quel che ne consegue in termini di diritti e tutele. Mobilitazioni operaie molto forti, effettivamente raccolte da alcuni sindacati di base e dalla loro dirigenza, che hanno avuto una fase esplosiva e di forte radicalità, espansione, allargamento, dopo un primo innesco a partire dal 2008, nel periodo che va circa dal 2011 al 2014/2015, ciclo di massima tensione e ascesa soprattutto qua in Emilia.

E da qui, come dicevo anche sopra, tutto il percorso di progressivo allargamento e stabilizzazione negli anni successivi, in cui da una parte continuano le mobilitazioni e la partecipazione alle vertenze, scioperi, picchetti degli operai e aumenta quindi la repressione sui lavoratori attivi e più esposti come avanguardie (qualcuno mi ha sempre insegnato che se la repressione aumenta vuol dire che si sta andando nella direzione giusta o che comunque si sta facendo male alla controparte) e dall’altra la battaglia intrapresa, e che si sta portando avanti, da parte sindacale di base per contare qualcosa, per essere riconosciuti e accettati nei tavoli di trattativa locali e nazionali.

È chiaro a tutti come, col passare di qualche anno, da quel picco di esplosione a oggi, anche il ruolo e la modalità conflittuale dei sindacati di base in questione siano mutati. È innegabile ed è sotto gli occhi di tutti come siano entrate a far parte del loro lessico tante parole che all’inizio non venivano usate o addirittura non volevano essere usate, a partire dagli stessi operai, in modo così costante e significativo. Parole quali “democrazia”, quali “rappresentanza interna”, quali “tavolo in Prefettura” e quindi il valore numerico di chi è tesserato e chi no.

Non mi stupisco e penso sia “normale”, legittimo, perché alla fine l’organizzazione-sindacato funziona così, nei fatti, che sia di base o confederale poco importa. È una strada di fatto obbligata, quella della “moderazione”, non nel senso delle forme di lotta ma più nel senso della compatibilità degli obiettivi, del dove si vuole andare, del rientrare nel recinto, per qualsiasi sigla sindacale per avere tutte le carte in regola alla partecipazione di tavoli contrattuali, e di conseguenza ad accordi contrattuali, che sono il pane per il mondo sindacale. Gli ultimi esempi di Piacenza, ma anche alcune situazioni e circostanze nel modenese, sono nitidi, palesi.

Una gara democratica di chi è più corretto, più rappresentativo e più legittimo a trattare, quella tra sindacati confederali e di base, che ha visto un confronto anche diretto tra rispettivi iscritti davanti ai cancelli o alle camere del lavoro.

Situazione, questa, che alla lunga non farà altro che mettere in crisi i lavoratori e la possibilità e opportunità di creare, generalizzare conflitto dentro e fuori dalla fabbrica, di portare fuori dalla vertenza singola o il settore singolo la lotta contro la presa per il culo che è questo modo di vita, questa società e come ce la vendono fatta e finita, immodificabile. Uno spazio, quello del conflitto dei lavoratori nella propria autonomia di interessi, bisogni, prospettive, che si assottiglia sempre più e che si schiaccia, si smorza, forse, in tavoli di discussione contrattuale, di accordi istituzionali e di tesseramento per uno o per un altro sindacato.

Un passaggio da sindacato a sindacato, che non farà altro che far perdere tempo ai lavoratori, alle loro vite, alle necessità che li accomunano rispetto magari alla diversità di “colori”, appartenenze, tessere o ideologie, ma che gonfierà il petto delle rispettive dirigenze sindacali che avranno la penna e il microfono facile per rappresentare la loro sigla come quella giusta, più pura e più vicina ai lavoratori. Insomma, più legittimata, accettata a sedersi a un tavolo con il padrone. Che è il mestiere dei sindacati, dei funzionari, certamente e su questo non ci piove, ma non dei militanti politici o dei comunisti, come vogliamo chiamarli non importa. Ecco, da operaio e comunista – l’emblema del disagio uno potrebbe dire –, be’ quel tavolo vorrei ribaltarlo…

«Oooh-issa! Oooh-issa! Oooh-issa!»
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Con le mani quando volete / Antifascismo

Pizzeria Dugin, ovvero di ristoratori e fascisti

Non avevamo ancora finito di scrivere del presidio di sabato organizzato da Terra dei Padri insieme alla campagna #IoApro, di come sempre, quando si accendono le telecamere, i clown, gli sciacalli e la loro sintesi cameratesca salgano sul palco, che ce l’hanno annullato sotto il naso, forse per il nervosismo di Italexit e di alcuni volti della ristorazione a ritrovarsi sotto i riflettori – di nuovo – con i compagni di banco, più intellettualini ma non meno somari, di Casapound…

Sabato, infatti, ci doveva essere in piazza Mazzini il primo tentativo ufficiale di Terra dei Padri – da quando sono iniziate le proteste di ristoratori, palestre, commercianti e partite iva tra ottobre e novembre 2020 («Tu ci chiudi, tu ci apri») – di mettere il cappello da tipici politicanti sulla rabbia e il malcontento di un segmento sociale in forte crisi nella nostra provincia, tra i più colpiti dalla gestione politica dell’emergenza pandemica: non stiamo parlando degli imprenditori della ristorazione, di chi possiede e gestisce svariati ristoranti, locali e imprese e fino a ieri applicava contratti a chiamata, in nero, pagando due spicci il lavoro precario di donne, camerieri, aiutanti, giovani e studenti, di cui non ci frega niente. Stiamo parlando invece di tutti coloro che vivono del proprio lavoro, che si fanno il culo dentro un bar, un pub o un’attività famigliare per pagare le rette ai propri figli, che si autosfruttano dietro un bancone o in un negozio, che si aprono una partita iva per non finire triturati dentro il magico mondo delle cooperative emiliane o dell’infimo precariato postlaurea.

«TUTTO ANNULLATO» annuncia Modena ai Geminiani sulla sua pagina, non prima di aver cancellato questo fantastico testo che prima campeggiava sulla locandina dell’evento: «Modena ai geminiani parteciperà all’evento riportato qui sotto. In nostra rappresentanza interverrà Daniele Berselli, il nostro portavoce. Il suo intervento riguarderà un congegno in grado di purificare l’aria e di eliminare il 99% dei virus [sic!], grazie all’azione dei raggi ultravioletti [doppio sic!]. Ovviamente con questo congegno si potrebbe riaprire in sicurezza, limitando e quasi azzerando il rischio di contagio, maggiori dettagli sulla nostra proposta li trovate qui [segue link al sito di questi “scienziati geminiani”, ndK]».

I camerati casaggìni (casaggesi? casaclown?) ci avevano già provato in precedenza a inserirsi nel loro sacrosanto malcontento, “rubando” alle tartarughe cerchiate il brand delle “Mascherine tricolori”, senza nessun risultato se non l’indifferenza della cittadinanza. Ma tant’è, perché non riprovarci ora che a Roma le telecamere si sono nuovamente accese dopo due scaramucce con la polizia?

“Chiagnere e fottere”. Ovvero, zìgher e cìaver. Questi politicanti di Casaggì, assenti da tutte le precedenti piazze cittadine di ristoratori e partite iva, si erano mossi subito dopo aver fiutato l’affare mediatico del momento. Insieme a Italexit di Paragone – reduce da cenette romantiche con la consigliera nera della Lega De Maio proprio durante la serata di “aperture disobbedienti” di #IoApro – e Modena ai Geminiani – gli scappati di casa di Forza Nuova, passati alla Rete dei Patri(di)oti –, si dovevano presentare in piazza per autonominarsi rappresentanti politici di questo segmento di ceto medio in crisi, per farsi delegare la rabbia e usarla nei giochetti di palazzo istituzionali o tra partiti, per raccattare due tessere per il “circolo” ancora senza sede e far fare il solito comizietto alla consigliera figlia del capo.

Peccato sia andata a finire così.

Perché a noi il logo dei fascisti, di Casaggì, Azione Studentesca e Modena ai Geminiani, ci piaceva di fianco a quelli di aziende come GymFive o delle catene di locali con ristoranti anche negli Stati Uniti. Perché le organizzazioni dei fascisti sono aziende qualunque. Partiti-azienda che senza sprezzo del ridicolo esaltano il «sangue contro l’oro», ma che poi funzionano secondo la stessa logica di una Srl di centri fitness. D’altronde, non è Terra dei Padri una pmi, un’azienda a conduzione famigliare, capace di generare profitti politici e poltrone a 360 gradi? Con il padre, in piazza, a spacciarsi come leader dell’opposizione al governo delle banche, dell’Europa e dei globalisti, e la figlia, nei palazzi, consigliera comunale della Lega, la quale insieme alle banche, agli europeisti e alla sinistra tutta (da Bibbiano all’Anpi) sostiene il governo Draghi dagli scranni della maggioranza.

Scusateci, ma a questo punto preferiamo di gran lunga l’originale, Forza Italia. Berlusconi ultima trincea d’Europa…

Pizze a domicilio.