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Troppo fuorismo / Inchiesta

Un punto di vista autonomo dalle fabbriche. Intervista a un operaio

Quella che segue è una chiacchierata che abbiamo fatto con un lavoratore di un’azienda metalmeccanica della nostra città. Una specie di “carotaggio atipico” su quello che si muove nelle fabbriche e nella composizione operaia “tradizionale” che per la maggiore caratterizzano il nostro territorio. Il nostro interlocutore è una figura mediana, politicizzata, che incorpora saperi e attitudini sedimentati dalla vicinanza o partecipazione a cicli di lotta ed esperienze politiche esauriti, ma che al contempo non è inquadrata in percorsi all’interno di sindacati, organizzazioni partitiche o strutture specifiche. Proprio per questo ci ha interessato la “sua versione” liminale, che evita da una parte quella distanza ideologica o quei filtri (sia “politicisti” che “sindacalisti”) che spesso dividono l’attivista, il delegato o il funzionario da uno sguardo lucido sul livello di massa, e dall’altra quell’aderenza al punto di vista dell’interesse generale che è il senso comune delle classi dominanti. Crediamo che queste parole possano essere utili per approfondire un’analisi di fase e di tendenza oltre gli slogan e le semplificazioni, per “misurare la temperatura” in determinati settori e per dare un punto di vista alternativo – o elementi per un ragionamento – rispetto alla questione della lotta di classe nel suo rapporto con la sindacalizzazione del conflitto. Buona lettura.

 

Ciao. Partiamo questa conversazione chiedendoti di presentarti sommariamente prima di iniziare con qualche domanda più specifica.

Lavoro in una fabbrica metalmeccanica emiliana, di media grandezza, sicuramente non piccola, come operaio, quindi tutto parte da questo mio punto di vista, sicuramente parzialissimo, e da quello che tocco con mano e vedo ormai da diversi anni. Provengo da una famiglia normalissima e faccio una vita normalissima, da operaio appunto, un operaio di trenta e passa anni che ha un lavoro fisso, ancora abbastanza “garantito”, se ha ancora senso questa parola. Sicuramente lo ha, rispetto ad altre situazioni e contesti. Premetto anche a scanso di equivoci che vengo da esperienze politiche, nel senso che ho gravitato qualche anno vicino a quella che una volta si poteva chiamare autonomia, o collettivi autonomi, della mia città. Adesso non credo esistano più, in ogni caso per dire quello che, per un periodo da più giovane, ho masticato e che comunque mi ha lasciato qualcosa, infatti in azienda per un piccolo tempo sono stato delegato sindacale, ma alla fine mi sono rotto il cazzo perché ho capito che non era la mia strada.

 

Come vedi la situazione, oggi, dentro la fabbrica, al tempo della crisi pandemica? Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), presentato dal governo italiano all’Unione europea per sbloccare i finanziamenti del Recovery Fund, è presentato quasi come un nuovo New Deal, sicuramente visto dalle classi dirigenti come un’occasione di ristrutturazione capitalistica. Quali sono secondo te l’impatto e le prospettive sui luoghi di lavoro?

Per partire secondo me bisogna fare qualche passo indietro, andare indietro di qualche anno. Parlare di “Industria 4.0”, del Piano nazionale Industria 4.0, oggi potrebbe risultare, ai più, una roba vecchia, obsoleta, acqua passata. Niente di tutto ciò. Credo infatti che riprendere in mano questo argomento usandolo per analizzare ciò che potrà succedere nel prossimo futuro sia in una qualche maniera determinante. Mi spiego meglio. Di “Industria 4.0” si comincia a parlare all’interno della grande industria e delle multinazionali dell’automotive agli inizi degli anni Duemila come enorme opportunità di cambiamento e innovazione tecnologica del sistema lavoro in Italia, annunciando e preparando, a livello mediatico, quello che sarebbe stato il rinnovamento dei macchinari, degli stabilimenti, delle modalità di lavoro e di conseguenza dei sistemi produttivi all’interno delle fabbriche. Di fatto, chi più chi meno, negli anni seguenti si è fatto proprio questo nei luoghi di lavoro, dove i lavoratori passano gran parte delle loro giornate. Detto questo, è importante secondo il mio punto di vista capire meglio quali sono stati i motivi principali del 4.0 soprattutto, ripeto, in ottica di analisi odierna per quel che ci riguarda come comunisti.

Sicuramente il motivo politico delle associazioni imprenditoriali (Confindustra a tirare le fila) di promuovere, sostenere, espandere e finanziare questo tipo di percorso è stato quello di garantire all’industria italiana la possibilità di lavorare e allinearsi ai sistemi produttivi già presenti al di fuori della penisola. Per sintetizzare il tutto: garantire la competitività dell’industria italiana, e quindi il sempre più incerto posizionamento del paese, nel sistema Europa a trazione tedesca e più in generale nei rapporti della globalizzazione, nelle cosiddette catene globali del valore.

Alla pari della scelta politica, c’è poi sicuramente la scelta economica, ovvero l’enorme possibilità e opportunità offerta ai padroni per rinnovare i propri impianti e produzioni attraverso l’uso di fondi, sgravi, bonus e tutta una serie di canali preferenziali garantiti dallo Stato. Da qui certamente, anche l’occasione di maggiori profitti generati dal rinnovamento e dal cambio di passo strutturale della propria realtà aziendale.

Mi sono soffermato su questi due macro motivi perché la questione, per me, diventa interessante, nel senso che se uno legge tra le righe capisce che dietro alla questione politica c’è una volontà di “pianificare” del capitale volta a rinsaldarsi, entro una certa area, attraverso la standardizzazione dei processi produttivi, per competere magari con altri soggetti concorrenti nelle relazioni intercapitalistiche o avversarie (mi riferisco ovviamente alla Cina), e nel secondo aspetto, quello economico, c’è tutta la questione odierna e futura di quello che ormai sentiamo chiamare dappertutto come “welfare”. Mondo, quello del welfare, in cui si aprono innumerevoli canali di spesa economica privata in cui le aziende si rendono promotrici di tutta una serie di servizi, privati, “al servizio” del lavoratore. Soldi che paiono regalati, donati, dalle aziende ai lavoratori, ma che di fatto sono somme economiche già incanalate per essere spese in modo vincolato. Questione quella del welfare che fa gola ai padroni dal momento che qualche soldo gli torna indietro e fa gola ai lavoratori perché vengono venduti come soldi puliti, detassati.

Deep Padania visual classic.

Puoi dirci di più su come si è articolato dentro le fabbriche, sui luoghi di lavoro, tra gli operai, questo primo “Piano nazionale” che sembra anticipare, quasi spianare la strada al Pnrr?

Dal convincimento dei padroni nel dare seguito alle parole delle proprie associazioni rappresentative con i fatti, è iniziato un vero e proprio percorso all’interno delle aziende: corsi di formazione e aggiornamento su tutti i fronti e soprattutto puntando su competenze, saperi e caratteristiche di tipo “umanistico” per quel che riguarda tutte le figure lavorative. Per “umanistici” intendo corsi di insegnamento all’uso delle parole, del dialogo, delle modalità di comportamento e quindi della costruzione di un sistema dove deve regnare la collaborazione tra i lavoratori e i quadri per un unico fine, un unico scopo: fare e dare il massimo all’azienda e perseguire tutti gli obiettivi aziendali e padronali.

Mi spiego meglio. I padroni in questi anni attraverso tali corsi hanno prodotto, insegnato, diffuso un lessico – che è loro – ai lavoratori, hanno diciamo lavorato per avvicinare i due lessici, quello del lavoratore comune e quello del quadro dirigenziale, in modo tale che anche l’operaio si sentisse un dirigente al servizio dell’azienda. Questa costruzione umanistica dei lessici, degli usi, dei modi è stata usata per spazzare via tutte quelle criticità che nascono nel lavoro quotidianamente tra figure diverse all’interno della stessa azienda, con discussioni che vanno oltre il mero aspetto lavorativo, che riguardano proprio l’approccio mentale, il punto di vista. Si è voluto standardizzare i modi tra chi taglia il ferro in officina e chi fa programmazione annuale di vendita in ufficio, per esempio: avvicino le due figure, che sono distanti nella gerarchia, nel salario, nell’attitudine, e le faccio lavorare in comune per l’azienda. La costruzione di una pace sociale e di una “pace mentale” comune con lo scopo di andare in un’unica direzione: quella del lessico dei padroni, ovvero quella della “produttività”, del “fatturato”, dell’“efficienza”, della “presenza”, dell’“amore” e la “cura” per l’azienda – che non è neanche una cosa del tutto negativa, ma se diventa amore e cura per il profitto del padrone diventa tutta un altro paio di maniche –… in questo senso i corsi formativi umanistici sono serviti a standardizzare e portare sulla linea padronale il lavoratore comune, l’operaio che viene a lavorare per farsi le 8 ore e basta per portarsi a casa la pagnotta un altro giorno ancora. No, il lavoratore deve metterci qualcosa in più, qualcosa di sé, quelle 8 ore devono dare qualcosa in più al padrone, devono dare efficienza, collaborazione e produttività. Standardizzare le parole, i modi e gli usi di un operaio a un quadro dirigenziale vuol fare sentire il lavoratore padrone e dirigente nel proprio reparto di lavoro, creargli quella sensazione di essere padrone del suo reparto, di essere coinvolto direttamente nell’efficienza del reparto, nella responsabilità del reparto: il lavoratore non è più quello che timbra, mette i pezzi sulla macchina, segna i pezzi, va in pausa, mangia, ricomincia fino a quando finisce il turno e torna a casa, ma quella persona che deve sentirsi direttamente coinvolto nell’efficienza, nella produttività, negli obiettivi dell’azienda, e quindi della dirigenza. Queste parole di merda che cominciano a girare tra gli operai.

Per farvi un esempio, nella mia azienda questo corso è stato fatto così: per un periodo è stato tenuto diviso in due parti nella giornata, alla mattina gli operai d’officina, magazzino, montaggio, quelli del manuale diciamo, al pomeriggio i quadri dirigenziali e quadri di reparto. Hanno fatto così per qualche tempo, poi hanno mescolato le persone ed esposto quello che era uscito precedentemente, iniziando una discussione condivisa su come risolvere i problemi, le criticità, le difficolta… trovando insieme la soluzione che andasse bene a tutti, sia all’operaio che al quadro. La responsabilità lavorativa è stata molto sottolineata, ancora più che la produttività o l’efficienza: responsabilità di reparto, della propria mansione, di gestire i problemi, responsabilità economica di tutela aziendale sui fatturati e sui risultati. Insomma, tutta questa roba da risorse umane alla fine mi sembra quello a cui aspirano, in fin dei conti, i sindacati, soprattutto confederali, in cambio di qualche contentino da parte dei padroni. Quando hanno cominciato nella mia azienda sono andato al primo corso, ho ribattuto alla ragazza che lo teneva su alcune questioni, non mi ricordo nello specifico, ma solo che dissi «No piano, aspetti un attimo…» e un po’ dei miei colleghi in quel momento mi sono venuti dietro. Poi non mi hanno fatto più andare (ride).

Oltre a questo percorso, con “Industria 4.0” ci sono state assunzioni a tappeto di consulenti aziendali che hanno avuto tempo, modo e relazioni per cogliere tutto ciò che doveva essere cambiato, modificato, tolto o aggiunto all’interno delle produzioni; poi accordi e progetti spesso sottoscritti dai padroni direttamente con la propria associazione di categoria per la gestione delle contabilità, delle assunzioni di nuova forza lavoro tramite le centinaia e centinaia di agenzie interinali (o cooperative, a seconda del settore) presenti in ogni dove; poi relazioni nuove con fornitori di macchinari fino a quel momento sconosciuti o mai presi in considerazione e quindi anche nuove relazioni che hanno poi portato anche a nuove commesse e a maggiori possibilità di fatturato per come dicevo poco fa.

Insomma, tutta una serie di questioni e azioni padronali fatte in diversi ambiti e ognuna mirata al proprio singolo obiettivo, ma coordinate e direzionate verso lo stesso risultato, lo stesso “sistema lavoro”.

Modena, Pyongyang, Potsdam, Caracas, Bengasi, Perm’…

Quali sono state le reazioni dei lavoratori a questo processo, e che ruolo hanno avuto – se hanno avuto un ruolo – i sindacati?

È proprio in questo momento che si è aperta un’ulteriore fase che oggi pesa come un macigno in quelli che sono gli equilibri di fabbrica, ma soprattutto per quelle che sono le rivendicazioni all’interno del mondo del lavoro: sto parlando della cogestione. Vero e proprio anello di raccordo mancante tra comando d’impresa e forza lavoro, è con essa che si fonde il punto di saldatura tra di loro. C’è chi si dice da sempre contrario tra i lavoratori e all’interno dei sindacati sia confederali che di base, c’è chi sostiene invece che si tratta di un’enorme possibilità nel capire e intervenire su tutta quella che è la parte decisionale dei padroni nei confronti dei lavoratori, soprattutto i sindacati confederali. Certo è che, sicuramente, i lavoratori si sono trovati impreparati al confronto e non hanno saputo gestire questo tipo di relazione con le parti dirigenziali aziendali. Quello che sarebbe, forse, potuto diventare un cavallo di troia per i padroni, si è invece palesato nelle fabbriche come vero e proprio modello di falsa cogestione dai risultati davvero sconfortanti per quel che riguarda, come ho dentro sopra, il conflitto operaio dentro e di conseguenza anche fuori dalle fabbriche.

Si è trattato di una fase in cui si è costruita intorno alla figura del “lavoratore”, un lavoratore generico, tutta una dimensione in cui si sono affidati incarichi, compiti, doveri lavorativi praticamente a costo zero; semplicemente facendolo sentire parte di qualcosa in fabbrica così come fosse a casa sua. Sono nate finte relazioni dove si è messo da parte tutto (tutto ciò che è extra a dove il lavoratore passa la sua giornata lavorativa, sono messe da parte discussioni riguardanti le proprie vite fuori dalla fabbrica, condivisioni di tempo, relazioni e spazi familiari esterni alla fabbrica in cui i lavoratori discutono delle proprie forze, delle proprie idee politiche e anche dei loro obiettivi, e da qui anche il come arrivare ai propri obiettivi, alle proprie esigenze di vita e di sostegno economico della stessa) a fronte delle questioni puramente lavorative (si parla solo di lavoro e ormai viene naturale parlare solo di lavoro) attraverso le parole d’ordine, gli indirizzi e le modalità di chi comanda; e i lavoratori hanno bevuto, sono stati travolti da quest’onda già alta, forte, che ti spazza via portandoti con sé, che ben che vada riesci ad emergere per riprendere fiato.

Hanno mandato giù senza nemmeno rendersene conto e senza sentirne l’odore di marcio e oggi, in piena accelerazione della ristrutturazione produttiva dovuta alla pandemia, sono completamente nel caos sia mentale che pratico. Mille idee, mille scazzi, mille parole di battaglia, ma poi anche una sorta di atteggiamento che li frena, li fa sentire troppo e quindi talvolta sbagliati al cospetto del proprio padrone che fino a pochi anni fa credeva fosse magicamente diventato suo padre o semplicemente il suo nuovo migliore amico da gratificare ed elogiare. Si sentono sbagliati nel pensare di essere contro al padrone, e quindi inopportuni nel mettersi contro e pensare diversamente diventando contestatori del padrone.

 

Con l’avvento di questa fase determinata dalla pandemia, com’è cambiata la situazione in fabbrica? E come hai visto il ruolo di Confindustria?

Un blocco totale, quello dei lavoratori, che poco più di un anno fa si è acutizzato “grazie” alla pandemia da Covid-19, nonostante ci fosse stata qualche prima avvisaglia di scioperi spontanei, a marzo 2020, all’inizio di tutto il casino che poi è seguito.

Ma altrettanto particolare ed interessante da analizzare è che l’avvento della pandemia avviene pure nel momento storico in cui i padroni hanno la “tavola apparecchiata” per una totale gestione dello spazio lavorativo e dove avevano già tutto preparato, apparecchiato appunto, per fare bottino, un pieno di commesse e di fatturati in un 2020 in cui tutti gli elementi e tutta la situazione faceva presagire un anno davvero florido e prosperoso per loro, forse addirittura il primo vero anno “buono” post crisi del 2008 e post Industria 4.0! Avevano all’orizzonte un inizio di ciclo produttivo, probabilmente lungo svariati anni, davvero favorevole in cui nemmeno la presenza sindacale li avrebbe messi in difficoltà e anzi, con un minimo di rapporto pregresso e con altrettanto tatticismo avrebbero cogestito la situazione con loro sia dal punto di vista dei contratti interni, ma anche di tutte le questioni economiche che si sarebbero presentate dal 2020 in avanti.

Diciamo che è in questo momento che i padroni devono ricalibrare un po’ la loro linea tracciata precedentemente ed ecco che si trovano ad affrontare la pandemia in due situazioni parallele, ma che corrono alla stessa velocità.

La prima è sicuramente quella della gestione del virus all’interno degli stabilimenti. Le commesse previste nel portafoglio ordini ci sono, la forza lavoro è pronta quindi non ci si può assolutamente permettere il fermo degli stabilimenti!

La seconda è sicuramente quella contrattuale. Avere contratti aziendali in scadenza e dover affrontare, durante la pandemia, questioni ed eventuali problematiche legate ai contratti di secondo livello diventa sicuramente una preoccupazione in più e bisogna trovare una soluzione diversa, alternativa.

Ed ecco il grande ritorno in pompa magna di Confindustria “nazionale”, vero motore strategico padronale e di fatto figura politica di peso a livello istituzionale.

Come fare a non fermare le produzioni? Come fare a non fare entrare il virus dentro agli stabilimenti? E come fare, nel caso in cui riesca ad entrarci, a fare in modo che non diventi un problema, una difficoltà per il padrone? La strada sicura, maestra, e perfetta per dare risposta a queste domande diventa la cogestione nazionale del problema.

Dopo una stagione in cui la cogestione aziendale aveva funzionato per i padroni (pur non “funzionando”, evidentemente, nel pratico dalla parte dei lavoratori, oltre le belle parole), quale miglior occasione, per Confindustria, di rilanciarla con governo e segreterie nazionali dei sindacati confederali?

Il primo, il governo Conte-bis all’epoca – uscito dall’esperimento sovranista con la Lega ancora sotto il controllo salviniano – definito di centro-sinistra per l’alleanza giallo-rossa tra Movimento 5 Stelle, Partito democratico e Leu, a trazione anteriore all’insegna dei patti, degli accordi e delle intese con le parti. Un governo politico sempre “populista” ma in qualche modo smanioso di smarcarsi dalla precedente rete e di riprodurre, far vedere di tenere in mano, i meccanismi di mediazione. I secondi, i confederali, “tirati dentro” nel mucchio col ricatto (o, a essere sinceri, nemmeno col ricatto, nel senso che hanno capito la mossa anche senza esserci stato alcun ricatto) per non sparire definitivamente da tutto e da tutti, per non perdere l’ultimo senso della loro esistenza che gli è rimasto, quello di stare dentro i giochi come cinghia di trasmissione verso il basso in cambio dei finanziamenti statali che li fanno rimanere in piedi. In un momento storico sindacale confederale (ma non solo) difficilissimo e ai minimi termini soprattutto dentro alle fabbriche in termini di conflitto e rappresentanza vera, attiva tra i lavoratori, il tavolo ministeriale governativo ha rappresentato per i sindacati il bastone su cui reggersi per stare in piedi, per continuare a camminare zoppicando.

E da qui, l’intesa sul protocollo di gestione sanitaria all’interno degli stabilimenti lavorativi. Vero e proprio baluardo mediatico per governo e sindacati; vero e proprio strumento utile per i padroni per gestire a livello normativo la questione dentro alla fabbrica senza interrompere il flusso produttivo.

Le ragioni di quello che ho appena detto non sono altro che il risultato di ciò che è avvenuto nei mesi successivi all’intesa sul protocollo sanitario, perché di fatto i padroni hanno chiuso i propri perimetri produttivi, hanno deciso in autonomia come comportarsi in caso di difficoltà sanitarie presenti nei propri stabilimenti e, ultima questione che vi dà anche la misura della debolezza sindacale e dei lavoratori, gli accordi aziendali tra parti sociali e imprenditori si contano sulle dita di una mano.

Ma poi, di pari passo, ci sono le questioni contrattuali di secondo livello, quelle aziendali, che non devono e non possono rappresentare un problema, uno scoglio da dover superare. Migliaia e migliaia di contratti di secondo livello che per i lavoratori, nella maggior parte dei casi, valgono di più di un contratto nazionale.

E allora è proprio in questo momento che si arriva a capire la bontà e l’efficacia soprattutto del percorso formativo, aggregativo e “umano” di Industria 4.0 fatto dai padroni ai lavoratori. Eh si, perché, se è vero che si è aperta mesi fa una stagione nazionale contrattuale in cui vengono sottoscritte le intese più importanti in Italia (come ad esempio il contratto nazionale Federmeccanica o come quello del settore alimentare, per citarne solamente due tra i più), questo non sarebbe bastato ai padroni che i lavoratori pre-4.0 stessero comunque tranquilli, che si sentissero con le spalle coperte e rinunciando alle loro giuste rivendicazioni, anche contrattuali. E invece…. Bingo! Il lavoro di costruzione di cultura aziendale fatto dai padroni verso i lavoratori ha permesso ciò che ho detto. Un deciso cambio di passo “culturale” per andare a modificare l’atteggiamento e il comportamento dei lavoratori all’interno della fabbrica.

Da una parte le produzioni che vanno avanti, i fatturati che riprendono quota e il tempo perso del 2020 che viene recuperato dalle aziende. Dall’altra il “blocco” del lavoratore con un solo grande pensiero che passa nella sua testa: continuare a lavorare facendo passare i giorni che lo dividono dalla pensione, stando il più possibile tranquillo, senza problemi, senza rotture di coglioni. Un pensiero che lo porta e lo schiaccia alla solitudine, all’individualismo e all’esclusione totale da ciò che lo potrebbe aiutare per quelle che sarebbero le sue giuste rivendicazioni.

Zona industriale della Crocetta, Modena, anni Sessanta.

Parliamo di quello che è successo e succede fuori dalle fabbriche, dal punto di vista di chi sta dentro. Il totale capovolgimento della situazione data dalle ultime elezioni politiche, con la caduta del “Governo del cambiamento”, e l’arrivo di un “tecnico” del calibro di Draghi, che simbolicamente ha messo fine a una fase decennale che qualcuno ha chiamato “momento populista”. Quali elementi si stanno muovendo e cosa sta cambiando, in relazione alle riforme “strutturali” che il “governone nazionale” guidato dall’ex presidente Bce ha messo in conto di attuare?

Be’, ovviamente abbiamo visto il cambio di governo; l’avvento di Draghi e della sua missione da svolgere in Italia in funzione europeista e atlantica. Un momento storico in cui, dopo rotture parlamentari e di palazzo che hanno avuto il sapore di tutto tranne che del politico, Conte cede la poltrona a l’uomo “capace”, l’uomo “giusto”, quello che rappresenta la svolta epocale per l’Italia e per gli italiani. Colui che è sicuramente in grado di gestire al meglio i fior di quattrini in arrivo dall’Europa. Il governo dei “competenti”, dei “migliori”.

Che la motivazione sostanziale e principale del cambio Conte-Draghi sia stata proprio la gestione e la distribuzione del malloppo Recovery Fund erogato di fatto dalla Germania questo ormai è chiaro a tutti, anche ai muri.

Che il governo Conte fosse già traballante da tempo forse era stato meno chiaro alla gente, ma per quel che mi riguarda ero sicuro di questo nel momento in cui lo stesso Conte aprì quella famosa polemica con Meloni e Salvini in una delle sue uscite serali di spiegazione del Dpcm, in cui fece i famosi “nomi”. Una polemica che mi sembrò strana o comunque non coerente con la figura istituzionale che Conte aveva mantenuto fino a quel momento.

Detto questo, dopo i primi mesi di Draghi e del suo arrivo, sicuramente una questione di spicco è stata certamente quella della formazione del governo e dei vari ministri incaricati, ma anche su questo ormai si è scritto tanto e sinceramente non vedo più, ad oggi, una grande indignazione da questo punto di vista.

Certo è che il motivo principale per cui Draghi ha “dovuto” attuare questa assegnazione, questo scambio fatto con il bilancino da manuale, con i vari partiti dell’arco parlamentare è perché questi, da adesso fino a quando l’Italia tornerà ad elezioni, hanno bisogno assolutamente che i loro galoppini di fiducia vadano nei comuni, nelle province, nelle regioni per stringere accordi, raccogliere voti e favoritismi elettorali. È in quegli ambienti che si farà scambio di favori, poltrone e voti con i soldi del Recovery Fund.

Draghi arriva in Italia e porta con sé, stretta stretta, la sua agenda dei lavori, delle riforme.

La riforma degli organismi e apparati statali, della pubblica amministrazione, come prima questione, centrale; ed eccola già fatta. Un “serrate i ranghi” dove si dà ai lavoratori statali una parvenza di contratto nazionale con qualche centinaia di euro in più e forse qualche mezzo diritto che neanche verrà usato o rivendicato; in cambio la garanzia che questi lavorino, producano e gestiscano ciò che dovranno gestire nei prossimi mesi.

E qui il grande insegnamento dato dalla precedente gestione del reddito di cittadinanza e di Quota 100. Due riforme dall’alto profilo elettorale e propagandistico che, data anche l’impreparazione degli enti statali e delle camere del lavoro, non funzionarono nei mesi immediatamente successivi alla loro entrata in vigore; errore che non si deve commettere certamente stavolta. Oggi, che ci sarà da gestire, tra le altre, le pratiche dei licenziamenti di massa una volta sbloccati e degli ammortizzatori sociali (quelle che vengono chiamate come “politiche attive”), tutto dev’essere pronto, agile e sicuro per il popolo che ne avrà bisogno!

Parlavo prima della cogestione nazionale, del cambio di governo, della gestione del malloppo europeo e parlavo infine di riforme. Ecco, tutti e quattro i momenti si muovono nella stessa direzione, con un comune denominatore: la pace sociale.

Quella stessa pace sociale creata, oliata e perfettamente funzionante nelle fabbriche, ormai stabilmente presente in esse e che di fatto è perfetta per i padroni e per le loro produzioni. Pace sociale che deve per forza, dal loro punto di vista oggi, metterli nelle condizioni di decidere tutto quel che c’è da decidere senza ostacoli o rallentamenti, con nulla che li possa indicare come “cattivi”, ovvero controparte, nemici, o far vedere, per come li chiamo comunque io, padroni; anche per quella che sarà la fase dei licenziamenti.

Una fase nuova, voluta e cercata da anni che va ben oltre la gestione della forza-lavoro attuata con le false cooperative, i contratti degli appalti e subappalti o tutta la galassia “contrattuale” spuria e interinale esistente in Italia; siamo oltre, ben oltre. Qui si parla della fabbrica che adesso è in grado di reggere perfettamente i ritmi e i cicli produttivi odierni e dei prossimi anni (non solo nazionali) ed ecco il motivo per cui sono partito da Industria 4.0 all’inizio della mia carrellata cronologica degli eventi.

Una nuova fase di licenziamenti e di ammortizzatori sociali che si sarebbe aperta comunque e non per il fatto che esiste la pandemia. Non c’entra nulla la pandemia per come ci vogliono far credere! La pandemia ha avuto “solo” la malaugurata funzione di accelerare questo tipo di “percorso riformista” e viene usata in ambito lavorativo come strumento puramente riformista, dalla parte dei padroni. Ciò che potevano significare il virus e la pandemia sanitaria quale grossissimo problema per gli industriali e il sistema produttivo italiano è diventato invece un elemento di slancio, di innovazione, diretto e profondo, per gli stessi.

Un cambio di passo, quello pandemico, che non ha fatto altro che ampliare in quest’ultimo anno tre aspetti sociali diversi tra di loro.

Il primo è sicuramente quello di aver diffuso e portato alle orecchie del “popolo” le parole vittimistiche, il lamento, il dolore dei padroni nei confronti dei propri fatturati, delle proprie ambizioni imprenditoriali e questo è stato ed è tutt’ora un altro aspetto determinante al blocco conflittuale e rivendicativo dei lavoratori. Il fare vittimistico dei padroni ha fatto sì che il lavoratore si sentisse in dovere di sostenere le difficoltà imprenditoriali, pensando anche al futuro del proprio posto di lavoro e del proprio stipendio, mettendo da parte ciò che invece dovrebbe interessargli maggiormente e cioè il miglioramento delle sue condizioni di lavoro, del suo salario e di quel rapporto di forza nei confronti del padrone all’interno del sistema produttivo e della società. Nel sostenere il padrone, si crea e si è creato questo blocco rivendicativo e di riflesso anche conflittuale del lavoratore. Non la definirei nemmeno una tregua, nel senso che è qualcosa di più radicato all’interno della mente del lavoratore e quindi non si tratta di qualcosa che ha un tempo di inizio e di fine. È qualcosa di profondo dove si è lavoratori, ma allo stesso tempo per continuarlo ad esserlo ci si concede senza problemi al vittimismo imprenditoriale.

Il secondo è, senza dubbio, il concetto di farci sentire tutti sulla stessa barca. Partendo nel dire che nessuno è escluso si è creato quel tipo di immaginario sociale dove sembra che tutti abbiano gli stessi soldi, gli stessi privilegi, le stesse possibilità, le stesse difficoltà nell’affrontare la situazione pandemica italiana quando in realtà non è affatto così.

Terzo ed ultimo aspetto, determinante e avvilente da un certo punto di vista, il mettere al centro il lavoro, il dovere di lavorare e il “piacere” di lavorare per guadagnare, per avere nelle proprie tasche i soldi utili a vivere e sopravvivere al periodo delle chiusure, delle restrizioni a scacchiera, della crisi. Dico avvilente da un certo punto di vista perché come lavoratori dovremmo rivendicare soldi da un’altra parte e non vedere la strada vincente nel reperirne dallo stesso “popolo”. Si tratta della strada più semplice, più facile, ma che di fatto toglie da ogni responsabilità lo Stato, il sostegno che dovrebbe dare e ciò che dovrebbe restituire nel momento in cui al “popolo” servono soldi, risorse. Se il “popolo” sceglie invece di tornare a guadagnare ciucciando dalle tasche di se stesso direi che ci sia qualcosa che non va e che giri male…

Futuro anteriore. Che cosa vuole oggi la classe operaia?

Andando a finire, come vedi la prossima fase, che si prospetta dure e sarà determinata dallo sblocco dei licenziamenti? Sia dal punto di vista operaio, di quello che senti e tocchi con mano in fabbrica, che da quello delle varie organizzazioni sindacali che si candidano a gestirlo o a resistergli.

Riprendendo quello che dicevo poco fa, la pandemia ha accelerato la nuova fase dei licenziamenti. Ora, non so e non ho la bacchetta magica per dire che lo sblocco dei licenziamenti avverrà alla fine di giugno come per il momento sembra, però che avverrà ne sono praticamente certo. Come sono praticamente certo che non reggerà, in questo senso, il fatto che si partirà a licenziare chi oggi è assunto col Jobs act, ma che davvero tutti i lavoratori saranno uguali, messi sullo stesso piano, in quella fase. Probabilmente la questione Jobs Act e vecchio contratto sarà tutto nutrimento per le sigle sindacali che in un qualche modo andranno a trovare accordi nel momento in cui nelle fabbriche si procederà a licenziare; ma per il resto, lì penso che saremo davvero tutti sulla stessa barca (lo dico essendo lavoratore).

E i lavoratori saranno in gran parte spiazzati, apriranno le loro bocche senza sapere cosa dire o pensando solo in quel momento a cosa dire senza aver costruito una loro posizione precedente, ma come al solito arrivando lunghi, lunghissimi.

Lo dico perché, ad oggi, anche e soprattutto per quello che dicevo in precedenza dei rinnovi contrattuali nazionali, nelle fabbriche ci si sente sicuri, protetti, vincenti e dello sblocco dei licenziamenti non se ne parla. Non se ne parla nelle fabbriche metalmeccaniche, in quelle siderurgiche, dentro a quelle alimentari e nemmeno in quelle logistiche.

Tutti ambiti diffusissimi sul territorio nazionale italiano e tutti in costante cambiamento negli ultimi dieci-quindici anni. Un po’ per tutte le varie regolamentazioni che via via si vanno costantemente a modificare, un po’ per tutte le certificazioni che ognuno deve rispettare a livello non solo nazionale, ma riferite a quel mercato globale che ormai si è evoluto ed espanso e poi anche per quel che riguarda tutto il circuito di commercio online che è letteralmente esploso durante la pandemia.

Mi riferisco dunque al comparto logistico, dove centinaia e migliaia di lavoratori ormai da anni movimentano tonnellate e tonnellate di merce da consegnare in tutte le città, in tutte le strade italiane. Un ambito, quello logistico, in continua espansione e costruzione. Non c’è ormai città o regione italiana dove non ci sia un grande polo logistico epicentro di smistamento merci. Ambiente, quello logistico, dalle caratteristiche certamente diverse dalla maggior parte del resto delle realtà lavorative italiane in cui, per effetto di altrettante situazioni lavorative diverse, ha visto negli ultimi tempi forti circostanze conflittuali, rivendicative da parte di un’avanguardia di lavoratori. Rivendicazioni, da parte dei lavoratori, che negli anni hanno certamente avuto un’impronta marcata di resistenza allo sfruttamento durante la propria lunga ed estenuante giornata lavorativa e rivendicazioni, da parte sindacale, di rappresentanza all’interno degli stabilimenti.

Lo dico in modo trasparente e rimarco la differenza tra di loro perché è importante in questa fase capire e dare una fotografia il più possibile chiara e assente da sentimentalismi o mitizzazioni di come si sono evolute queste due “linee” rivendicative.

Non voglio assolutamente arrivare a dire che lavoratori e sindacati siano due figure distanti o comunque staccate gli uni dagli altri, però in quello che è stato l’inizio, il percorso rivendicativo e poi anche gli obiettivi (dichiarati e non) le differenze ci sono eccome.

Provo a spiegarmi meglio.

Il comparto logistico è stato l’ambito lavorativo in cui sono emerse enormi criticità dal punto di vista delle condizioni lavorative e contrattuali, e di conseguenza criticità all’interno dei sistemi produttivi adottati e presenti negli stabilimenti di riferimento. Luoghi di lavoro, questi, contraddistinti all’inizio da bassa tecnologia e dall’utilizzo massiccio di manodopera immigrata e poco specializzata, dove l’elemento dell’utilizzo di “cooperative spurie” – come giornali e media le hanno chiamate per distinguere delle sedicenti “cooperative buone” da quelle “cattive” – è dilagato e ha assunto di fatto un ruolo centrale all’interno dei processi lavorativi e dell’inquadramento della forza-lavoro. Da qui, le mobilitazioni dei lavoratori e le loro rivendicazioni in merito a turni, paghe orarie, caporalato e tutto quel che ne consegue in termini di diritti e tutele. Mobilitazioni operaie molto forti, effettivamente raccolte da alcuni sindacati di base e dalla loro dirigenza, che hanno avuto una fase esplosiva e di forte radicalità, espansione, allargamento, dopo un primo innesco a partire dal 2008, nel periodo che va circa dal 2011 al 2014/2015, ciclo di massima tensione e ascesa soprattutto qua in Emilia.

E da qui, come dicevo anche sopra, tutto il percorso di progressivo allargamento e stabilizzazione negli anni successivi, in cui da una parte continuano le mobilitazioni e la partecipazione alle vertenze, scioperi, picchetti degli operai e aumenta quindi la repressione sui lavoratori attivi e più esposti come avanguardie (qualcuno mi ha sempre insegnato che se la repressione aumenta vuol dire che si sta andando nella direzione giusta o che comunque si sta facendo male alla controparte) e dall’altra la battaglia intrapresa, e che si sta portando avanti, da parte sindacale di base per contare qualcosa, per essere riconosciuti e accettati nei tavoli di trattativa locali e nazionali.

È chiaro a tutti come, col passare di qualche anno, da quel picco di esplosione a oggi, anche il ruolo e la modalità conflittuale dei sindacati di base in questione siano mutati. È innegabile ed è sotto gli occhi di tutti come siano entrate a far parte del loro lessico tante parole che all’inizio non venivano usate o addirittura non volevano essere usate, a partire dagli stessi operai, in modo così costante e significativo. Parole quali “democrazia”, quali “rappresentanza interna”, quali “tavolo in Prefettura” e quindi il valore numerico di chi è tesserato e chi no.

Non mi stupisco e penso sia “normale”, legittimo, perché alla fine l’organizzazione-sindacato funziona così, nei fatti, che sia di base o confederale poco importa. È una strada di fatto obbligata, quella della “moderazione”, non nel senso delle forme di lotta ma più nel senso della compatibilità degli obiettivi, del dove si vuole andare, del rientrare nel recinto, per qualsiasi sigla sindacale per avere tutte le carte in regola alla partecipazione di tavoli contrattuali, e di conseguenza ad accordi contrattuali, che sono il pane per il mondo sindacale. Gli ultimi esempi di Piacenza, ma anche alcune situazioni e circostanze nel modenese, sono nitidi, palesi.

Una gara democratica di chi è più corretto, più rappresentativo e più legittimo a trattare, quella tra sindacati confederali e di base, che ha visto un confronto anche diretto tra rispettivi iscritti davanti ai cancelli o alle camere del lavoro.

Situazione, questa, che alla lunga non farà altro che mettere in crisi i lavoratori e la possibilità e opportunità di creare, generalizzare conflitto dentro e fuori dalla fabbrica, di portare fuori dalla vertenza singola o il settore singolo la lotta contro la presa per il culo che è questo modo di vita, questa società e come ce la vendono fatta e finita, immodificabile. Uno spazio, quello del conflitto dei lavoratori nella propria autonomia di interessi, bisogni, prospettive, che si assottiglia sempre più e che si schiaccia, si smorza, forse, in tavoli di discussione contrattuale, di accordi istituzionali e di tesseramento per uno o per un altro sindacato.

Un passaggio da sindacato a sindacato, che non farà altro che far perdere tempo ai lavoratori, alle loro vite, alle necessità che li accomunano rispetto magari alla diversità di “colori”, appartenenze, tessere o ideologie, ma che gonfierà il petto delle rispettive dirigenze sindacali che avranno la penna e il microfono facile per rappresentare la loro sigla come quella giusta, più pura e più vicina ai lavoratori. Insomma, più legittimata, accettata a sedersi a un tavolo con il padrone. Che è il mestiere dei sindacati, dei funzionari, certamente e su questo non ci piove, ma non dei militanti politici o dei comunisti, come vogliamo chiamarli non importa. Ecco, da operaio e comunista – l’emblema del disagio uno potrebbe dire –, be’ quel tavolo vorrei ribaltarlo…

«Oooh-issa! Oooh-issa! Oooh-issa!»
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Troppo fuorismo / Inchiesta

Che cresca una generazione pronta a spazzarvi via

Gira un video, da ieri.
Centro di Modena, via Emilia, sotto i portici.
Due pattuglie di Polizia fermano un ragazzino, un minorenne. Non si sa perchè, non si sa per come. Ma sono in quattro a prenderlo con la forza. Intorno qualche passante, altri ragazzini, forse suoi amici, paralizzati dal panico.
I quattro energumeni di via Divisione Aqui gli mettono le mani addosso, lo bloccano, gli storcono le braccia. Lui urla, cerca di divincolarsi, gli fanno male. Lo trascinano verso la volante, violentemente, in quattro contro uno. Chi fa il video chiede spiegazioni a un poliziotto. «Lo lasci stare! Cos’ha fatto? Non ha fatto niente! Perchè lo state portando via?» Cercano di allontanarlo. «Lo state menando! Lo state menando! Ha sedici anni, lo state menando!» Si vede del trambusto. Il ragazzino è spinto dentro la macchina della polizia, probabilmente a calci e pugni. È portato via, mentre i poliziotti non rilasciano dichiarazioni.
Un fotogramma del video del violento fermo del ragazzo minorenne in via Emilia centro, Modena. «Non aveva i documenti».
Oggi. Piazza Grande. La testimonianza raccolta da sua madre.
Hanno fermato mio figlio. Aveva lasciato i documenti a casa. È uscito dalla questura con la faccia gonfia. «Mi hanno pestato». Un occhio nero, lividi sulle braccia e sulle spalle. Al Pronto soccorso quindici giorni di prognosi.

A Modena la violenza poliziesca di una questura fuori controllo dilaga. Il governo, sfruttando la pandemia, non ha fatto altro che lasciare ancora più carta bianca, ancora più impunità.
Amicizie tra digos e padroni e scioperi repressi con teste spaccate, lacrimogeni e denunce a centinaia di operai come a Italpizza.
Una strage nel carcere di S.Anna a marzo ancora senza una verità se non quella di 9 morti, tutto insabbiato.
Pestaggi sotto casa durante il primo lockdown in centro.
Decine e decine di tifosi costretti fino ad oggi ad affollarsi per firmare inutilmente durante partite deserte solo per rendere ulteriormente difficile la vita.
Militarizzazione, coprifuoco, soprusi, multe a non finire a modenesi già vessati dalla paura di finire in ospedale, di perdere il lavoro, di non poter più riaprire, di non poter più curarsi, di non avere qualcosa da mettere sulla tavola il giorno dopo.
E adesso arresti per strada e violenze contro ragazzini, finiti come da testimonianza con pestaggi in Questura.
Noi lo sappiamo bene cosa fa la polizia italiana, “fatica e non si stanca, di giorno manganelli, di notte Uno Bianca”. Di notte, in via Emilia centro e in via Divisione Aqui, anche quello che è successo a questo ragazzino. Che potrebbe essere tuo amico, tuo figlio, la persona accanto a te. E la prossima volta potresti essere tu.
Per questo speriamo che i suoi amici, gli amici degli amici, i giovani dei parchetti, delle compagnie, dei lavoretti, dei senza futuro, che oggi più stanno pagando questo mondo di merda, abbiano visto bene, sentito quella rabbia che a noi non riesce ad andare via, e ricordino. La custodiscano. Per, un giorno, ricacciaverla in faccia.
Che cresca una generazione pronta a spazzarvi via.
Firenze.
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Troppo fuorismo / Inchiesta

«Dal prologo in cielo alle avventure sulla terra». Appunti per organizzare il contagio del conflitto

Militanti, untori

1. Partiamo da un’evidenza. La pandemia di Covid19 ha cambiato la fase. Ha sparpagliato le carte in gioco a livello complessivo, ci troviamo di fronte a un quadro mutato. Non nelle sue strutture portanti, certo, ma a livello dei suoi intimi processi e contraddizioni. Processi già da lungo avviati si sono visti accelerare inesorabilmente, contraddizioni aperte in tempi non sospetti si sono viste acuire. Nella trama complessiva dei rapporti economici, politici, sociali; non solo nello scontro tra classi, ma dentro le stesse classi; non solo nella competizione tra diversi blocchi sovranazionali di interessi capitalistici, ma all’interno di essi. In qualche modo, rispetto al mondo di prima, le condizioni di quello di oggi si sono potenzialmente avvicinate di un “passettino” a un punto di rottura. A sparpagliare le carte, d’altronde, il banco può saltare. Ma come? È l’interesse strategico dei militanti: la ricerca, la preparazione, l’assunzione soggettiva di questa possibilità di rottura. Esprimerne tatticamente la sua attualità, alle condizioni date. Praticarne rigidamente la prospettiva, dentro la tendenza. Strappare la rottura al piano inclinato dell’innovazione capitalistica, per ribaltarla in rottura autonoma, di parte. Trasformarla, quindi, in rivoluzione.

2. Come è ovvio, ciò che accade nella trama oggettiva della realtà si riflette nelle sue cristallizzazioni soggettive. Lo sconvolgimento causato dalla pandemia non poteva che ripercuotersi anche sulle soggettività politiche. Crediamo che, come militanti, l’atteggiamento, la postura, il punto di vista che dobbiamo sforzarci di praticare in tale nuovo quadro sia questo: quello che era, o quanto meno sembrava, valido prima, adesso non lo è più. Non lo può più essere. Il discorso si fa ancora più stringente se guardiamo all’inadeguatezza che già da prima sostanziava i nostri – usiamo un «noi» molto largo, ma che ci riguarda direttamente – ruoli, percorsi, stili assodati. La nostra forma di militanza, di elaborazione di pensiero politico, di produzione di controsoggettività, e quindi di organizzazione del conflitto. Se non eravamo all’altezza della «normalità», ci verrebbe da dire, figurarsi dell’«eccezione». Arriviamo, infatti, a quello che sembra un «appuntamento con la storia» evidentemente impreparati. Impreparati non solo a livello oggettivo, ma soprattutto a livello soggettivo ad affrontare in modo adeguato tutto ciò che comporterà la nuova fase che si sta schiudendo.

3. Per la prima volta da più di un decennio, la pandemia di Covid19 ha portato direttamente all’esperienza di massa fenomeni, nodi e limiti di lungo corso per molto tempo mistificati o nascosti dalla «normalità» della riproduzione capitalistica, della riproduzione del comando, della riproduzione sistemica, tanto a livello geopolitico che a livello microfisico della quotidianità collettiva: dalla fragilità intrinseca dell’economia globalizzata dei flussi alla destrutturazione sistematica dei sistemi di welfare occidentali; dalla contraddizione lacerante tra diritto alla salute e necessità di un salario ai radicali sconvolgimenti – tanto sistemici quanto negli stili di vita di massa – che sarebbero urgentemente necessari per mitigare (almeno) gli effetti catastrofici del riscaldamento globale. Che qualcosa di fondamentale non andasse già da prima, oggi, è diventato una percezione maggiormente condivisa. Che siano in corso grandi manovre, che decideranno sulle nostre vite senza che noi possiamo averne voce, è sotto gli occhi di molti di più. Che ci siano dei responsabili di tutto ciò, con i propri interessi da garantire a dispetto di quelli collettivi, sta diventando un sentire in espansione. Non è davvero poco, non è davvero scontato, a pensarci bene, rispetto solo a qualche mese fa. Il re non è nudo, ma neppure più celato. Inoltre, anche il capitale e la sua governance sono in difficoltà rispetto alla gestione dell’emergenza e alla nuova fase che si è aperta, non solo noi. Si naviga a vista, in balia dei marosi. Entro la classe dominante e le sue strutture di comando è in corso uno scontro tra fazioni di capitale per l’egemonia sui processi di ristrutturazione e innovazione. Una guerra di tutti contro tutti, che ha risvolti sulla conduzione schizofrenica, contraddittoria e pasticciata degli interventi, e riflessi, a scendere, sui ceti a essa collegati, verso cui il tritacarne si fa ancora più violento. Il virus, infatti, è riuscito dove noi, finora, non abbiamo visto, abbiamo fallito o siamo stati inefficaci. In un’economia dei flussi, dove tutto è connesso e interdipendente e si muove just in time, se viene a mancare, si blocca, o viene sabotato un nodo della rete globale, a cascata tutto il resto della trama rischia di saltare, o viene messo in serie difficoltà. Il nemico politico, per questo, non è il virus. Il virus ha fornito un modello di efficacia di attacco significativo, dal quale dovremmo prendere appunti. Attaccare dove? Quali nodi? In che modo e con quale potenza? Le lotte dell’operaio-massa negli anni Sessanta e poi Settanta riuscirono a mettere in crisi il sistema mondiale fordista uscito dalla Seconda guerra mondiale perché incuneate nel cuore pulsante di quel modello capitalistico: la catena di montaggio. In modo ambivalente, dove il capitale raggiungeva il massimo di sfruttamento, alienazione e soggezione dell’operaio, ma dove l’operaio poteva organizzare, accumulare e colpire con più forza perché il capitale era maggiormente fragile. Non fu un fattore di quantità, ma di qualità dell’attacco, che costrinse il capitale a ribaltare la possibilità della rivoluzione nella sua prosaica innovazione per poter sopravvivere: distruggendo quella classe operaia, decentrando la fabbrica in Asia e polverizzando la catena di montaggio nella società, rendendosi via via sempre più immateriale. Da quelle lotte non si è mai più ripreso. Il processo che hanno innescato è stato il battesimo del mondo di oggi, dove esso giace in uno stato di ultima putrefazione. Il problema che abbiamo di fronte, allora, non è quello di inseguire uno sterile innovazionismo delle lotte scimmiottando quello del capitale, o rinchiuderci in confortevoli posizioni resistenziali di conservazione della propria marginalità. Bisogna prendere congedo da questa «normalità» che chiamiamo impropriamente «movimento». Il problema va oltre: ricercare che tipo di soggettività baricentrale – capace di esprimere forza dal dentro di nodi cruciali della macchina di riproduzione capitalistica – intercettare e organizzare dentro e contro la crisi. Una crisi inedita con esiti imprevedibili. Che è anche crisi delle soggettività antagoniste. Bisogna ragionare dentro queste due crisi.Il contesto generale: nuovi scenari globali

4. La pandemia si candida a essere un punto di svolta: della globalizzazione – ovvero del sistema-mondo capitalistico – come l’abbiamo vista fino ad oggi, dei regimi politici – democratici o meno – che fino ad ora ne hanno dato struttura, fino ai nostri quotidiani, piccoli ma importanti, stili di vita. Ben più che la crisi del 2007/2008, questo evento sta portando infatti al punto di ebollizione, accelerando e acuendo, a tutti i livelli, processi e contraddizioni già dispiegati precedentemente: il passaggio di testimone sui processi di globalizzazione tra Occidente e Asia, tra Stati Uniti e Cina; la (non) tenuta del progetto unitario europeo, tra divergenza politica e unità monetaria; la disgregazione istituzionale tra Stato centrale e regioni; l’allargamento del divario tra metropoli e periferie, capoluoghi e province, rispetto ai flussi della valorizzazione ma anche del sentire sociale, delle soggettività e delle tendenze del conflitto. Si approfondisce, inoltre, la tendenza alla ricerca e all’attuazione di forme alternative al modello di democrazia liberale rappresentativa per quanto riguarda l’ordinamento politico e istituzionale degli Stati, pur dentro una cornice formale di compatibilità democratica, dove a giocare un ruolo decisivo sono ambiguamente paura e richiesta di sicurezza, non riducibili a xenofobia e securitarismo; solitudine e richiesta di comunità, non riducibili a nazionalismo e sovranismo; debolezza e ricerca di forza, non riducibili ad autoritarismo e fascismo. Il modello di ordinamento politico, economico e sociale occidentale, rappresentato dagli Stati Uniti, ne esce con un’immagine internazionale a pezzi a tutti i livelli. Al contrario della Cina, che con intelligenza tattica ha cominciato a dimostrare la valenza del suo soft power attraverso un messaggio universalista e le sue politiche di aiuti. Non da ultimo, l’elefante nella stanza: lo spettro dello scoppio della bolla finanziaria, già presente diffusamente ben prima dell’insorgere della pandemia globale, si sta trasformando nella realtà, molto materiale, della recessione mondiale dell’economia reale, la depressione più importante del secolo, le cui dimensioni e risvolti sono tuttora impossibili da prevedere. Con tutto ciò che ne conseguirà in termini di disoccupazione, declassamento e devastazione sociale di massa.

5. Se in questi dieci anni la risposta dell’Occidente imperialista (Stati Uniti, Germania) è stata un keynesismo finanziario, ovvero l’enorme immissione di liquidità (Qe, quantitative easing), accompagnato da austerity(tagli salario diretto e indiretto), oggi tuttavia si sta delineando un cambio di passo. Da una parte il nuovo intervento monetario delle banche centrali, con un’immissione straordinaria di liquidità in forme svariate da parte di FED e BCE – più del doppio degli interventi del 2008/2010, in un lasso di tempo concentrato – è servito a tamponare per un primo momento il credit crunch, il blocco del sistema dei pagamenti. Tuttavia è stato insufficiente per eliminare i crolli di borsa: il problema, quindi, si è dimostrato strutturale. Dall’altra, il cambio di passo è stato di interventi massicci nell’economia reale. Dagli Stati Uniti alla Germania, il piano di grandi interventi è servito in primo luogo a salvare le imprese, anche medie e piccole, e ad attutire e tamponare il crollo dell’occupazione con sussidi diretti. La Commissione Europea e la BCE hanno sospeso il patto di stabilità, con la possibilità di sforare i debiti statali: cosa impensabile nella «normalità» pre-Covid19. L’indebitamento, in Italia, è anche servito a tamponare le prime spinte di rivolta sociale che si sono viste a partire dalle fermate spontanee delle fabbriche sul tema della sicurezza, dall’insurrezione delle carceri, dal paventato assalto ai supermercati nel Meridione nelle fasi iniziali della pandemia. Tutto ciò, e qui veniamo al punto, presuppone un ingrossamento della bolla speculativa che si è andata a gonfiare oltre ogni sua sostenibilità in questi anni: quel capitale fittizio che richiede di essere riempito da valore reale, ma che non riesce perché la crisi è della stessa valorizzazione di capitale. Il debito diventerà ingestibile: chi lo paga, a quali condizioni? Torna in una forma drammatica il dilemma che ha lacerato il vecchio continente durante l’Eurocrisi. Un dilemma insolubile, che si può solo rimandare, ma che ben presto tornerà a essere un nodo da sciogliere. E un terreno feroce, potenzialmente trasversale, per quanto riguarda la composizione di classe, di possibilità di organizzazione del conflitto verticale. Chiederci perché abbiamo perso il primo ciclo di lotta all’austerità (2008-2014), riesaminarne alcuni errori, può essere un buon punto di inizio per prepararsi e provare a far meglio.

6. La risposta in Europa è stata disomogenea Stato per Stato, dando respiro ai processi di disgregazione e competizione intraeuropei. In questo contesto, l’Italia – e con lei tutti i soggetti deboli, come la Spagna ma anche in parte la Francia ‒rischia di essere spazzata via industrialmente perché anello fragile della catena europea. La Germania non può permettere un indebitamento più ampio, sostenuto dai paesi del Nord, della periferia meridionale senza mettere a rischio la tenuta del progetto dell’Euro. E dal punto di vista della Germania la crisi non sarà passeggera: se dal 2007/2008 la domanda di beni tecnologici ad alto valore aggiunto della Cina ha permesso la tenuta del paese, questa volta non sarà così, perché lo stesso Dragone orientale è immerso nella crisi. La frattura tra Nord e Sud si approfondisce. La Germania è già in recessione produttiva, i rapporti con gli Usa sono già competitivi. L’aut-aut è molto più serrato rispetto al 2010. Fino a che punto l’area tedesca può salvarsi e mantenere l’euro, conservando questa conformazione dell’Unione Europea? Fino a che punto, per salvare se stessa, la Germania sarà costretta a non permettersi più di restare agganciata all’Unione Europea e all’Euro? E che fenomeni di destabilizzazione, ricadute sociali e conflittualità metteranno in moto questi processi? In prospettiva, con una recessione che si approfondirà e potrebbe diventare una depressione all’orizzonte, non sembrano esserci molte alternative per l’Italia: buona parte del poco apparato produttivo che si era salvato nel 2008 questa volta, probabilmente, salterà. Ma in teoria c’è un’altra strada, che potrebbe rimettere in gioco assetti geoeconomici e geopolitici su scala nazionale ed europea. La variabile dell’attivazione sociale: la prospettiva della lotta di classe dentro le forme di un movimento «neopopulista» alla Gilet Jaune. Siamo quindi davanti all’inizio del secondo tempo della crisi globale innescatasi nel 2007/2008. Ma, questa volta, il terreno è molto più fragile, le dinamiche più centrifughe più sporche e le fratture più difficilmente ricomponibili. Si approfondisce la crisi di una civiltà, quella occidentale a egemonia statunitense, in un vortice sempre più instabile, precario e accelerato: la tendenza, a livello geopolitico, è lo scontro. Il trend generale non è verso un assetto globale multipolare equilibrato, ma una prospettiva di aggressiva competizione multipolare lanciata tendenzialmente verso il conflitto generalizzato.

7. La pandemia di Covid19 ha sconquassato quello che sembrava, anche per noi, il «normale» procedere delle cose del capitale. Ci trova, per questo, diffusamente impreparati, confusi, impotenti. Ma non dobbiamo cadere nel tranello di pensare che dall’emergenza si darà un blocco definitivo dei processi capitalistici visti finora, che per comodità chiamiamo neoliberali. Una discontinuità che, magicamente, calerà dal cielo attraverso un rinnovato interventismo statale, oscillante tra le sue accezioni socialiste, con un keynesismo fuori tempo massimo da una parte, e fasciste, con il ripresentarsi del decisionismo della comunità organica dall’altra. All’equazione manca infatti il suo elemento portante: i rapporti di forza generati dalla lotta tra classi. Che al momento, da questa parte della barricata, non ci sono. Ci aspetta, invece, una ristrutturazione dei medesimi processi, un uso capitalistico della crisi in termini di innovazione e salti in avanti. Già da ora la controparte si appresta a far ricadere sulle spalle dei lavoratori tutto il peso della ristrutturazione, a far pagare attraverso maggiori sacrifici, sfruttamento e subordinazione al comando il costo del salvataggio della propria macchina. Quei rapporti di forza, quindi, vanno costruiti. In mezzo alla Krisis, tra il livello più alto (geopolitico) e quello più basso (individuale), entro quindi la medianità dei processi sociali, si apre una finestra di inchiesta e azione inedita per le soggettività politiche. Questo virus, infatti, è un fatto politico. Ha ragione chi dice che, dopo l’emergenza, nulla sarà come prima. Per le minoranze organizzate e partigiane, lo sarà solo se saranno capaci di cogliere le opportunità che fasi come queste dischiudono per un determinato lasso di tempo, destinato inevitabilmente a chiudersi, e a coglierne – e agirne – le sotterranee, possibili, tendenze di rottura. A partire da loro stesse. Se le metafore belliche del linguaggio della controparte hanno visto giusto in qualcosa, è che, come in guerra, oggi c’è maggiore possibilità di riuscire a innescare cambiamenti radicali nella società. La fase che si è aperta può cambiare tutto a vantaggio nostro, o tornare a peggio di prima. Fondamentale diventa la capacità di muovere la tattica. Fare errori potrebbe essere catastrofico, molto più di altri momenti. La via della rivoluzione, come quella del capitale, non è una linea retta e progressiva, ma agisce per rotture e balzi, squarci e spinte in avanti. La direzione che prenderà la «normalità» dopo il virus dipenderà da quello che sapremo domandarci, e provare mettere in campo, noi oggi.

La vecchia talpa. Alcune piste per malintenzionati

8. Individuazione del nemico. Allargamento. «Chi decide?» 

I tempi eccezionali hanno la capacità di diradare le nebbie, e di illuminare i rapporti di forza e gli interessi parziali intrinsecamente confliggenti dentro la «normalità» capitalistica dell’interesse generale. Fin dalla prima fase dell’emergenza da Covid19, Confindustria è emersa chiaramente come chi comanda in questo paese, in base a quali interessi, a discapito di quali altri. Per noi, un nemico concreto, materiale, non astratto, da attaccare, con cui confrontarsi, verso cui dirigere rabbia e odio sociale per i grandi costi umani che la mancata zona rossa di Bergamo e il mancato blocco della produzione hanno generato. Un nemico serio e identificabile, non «il capitalismo», «il neoliberismo», «l’estrattivismo», «la gentrificazione», «il potere» utilizzati a piene mani nella propaganda politica. Il conflitto, per attivarsi, ha bisogno di un nemico in carne ed ossa. I soggetti hanno bisogno di un volto e di una presenza materiale verso cui dirigere il proprio odio. Rabbia e sgomento contro l’associazione degli industriali, nelle prime fasi, hanno spontaneamente percorso non solo la composizione operaia costretta ad andare in fabbrica, ma anche diversi settori sociali, soprattutto delle zone del Nord dove il contagio si è particolarmente espanso. La Cassa Integrazione straordinaria e il blocco dei licenziamenti, in questo senso, sono stati la celere risposta – garantita dallo Stato – per fermare il prima possibile il contagio delle fermate, degli scioperi e del malcontento operai che attraversava i reparti e i magazzini. Avessero agito con la stessa decisione e tempistica per il Covid19, migliaia di nostri affetti, compagni di vita, colleghi e anziani sarebbero ancora qui con noi. Ma quanto dureranno ancora queste misure di fronte alla ristrutturazione? Abbiamo quindi bisogno di mantenere le braci accese, spargendo benzina, contro i padroni delle nostre vite, con messaggi propedeutici all’attivazione, parole d’ordine di rottura in grado di accendere pulsioni nelle soggettività, quelle che servono a innescare o quantomeno preparare il terreno per processi di lotta e controsoggettivazione. Con la crisi che si appresta a devastare la geografia industriale e sociale di questo paese, di cui oggi vediamo le fasi iniziali, Confindustria rimarrà una controparte importante e diretta per quella composizione operaia concentrata soprattutto negli stabilimenti e nei magazzini settentrionali (ma non solo) e diffusa nella provincia padana delle piccola-media impresa dedita alla subfornitura. Tuttavia, sappiamo che l’individuazione del nemico è importante ma non sufficiente se non calibrata sulle specificità dei territori, dei settori produttivi e dei segmenti sociali. Il nemico Confindustria è egualmente sentito nelle grandi metropoli del terziario (Roma in primis, ma anche Milano), nelle regioni del centro-sud a bassa o nulla presenza industriale, nelle periferie produttive italiane? L’inimicizia verso di essa, nonostante il suo ruolo di detentore dei rapporti di forza complessivi, può essere generalizzabile? E attraverso quali articolazioni? Inoltre, Confindustria non è che una faccia della medaglia. Non dobbiamo dimenticarci con chi ha firmato gli accordi: i sindacati confederali, la cui missione è – come sappiamo e come da loro ammesso – quella di spegnere la rabbia, di lavorare per una gestione corporativa della pace sociale. Potrebbe essere lo strumento della trattativa, del confronto, dell’accordo – che racchiude in sé in un unico elemento le tre componenti Confindustria, confederali e governo – l’obiettivo praticabile di una campagna d’attacco? Come trasformare l’antagonismo verso l’accordo – ovvero la questione del chi decide su cosa, come e quando produrre sulla nostra testa, chi decide sulla direzione che vogliamo prendere come società, chi decide sulla nostra vita in quanto individui sociali – in richiesta di potere, e con quali forme? Può, questo tipo di attacco, senza adeguate forme organizzative capaci di incanalarne le possibili eccedenze, portare acqua al mulino di altri soggetti, questi sì organizzati e magari di segno opposto, in grado effettivamente di raccoglierle e metterle a profitto? Consci di questa possibilità, ci sono spazi entro cui anche noi possiamo agire verso i nostri obiettivi?

9. Trasformazioni del lavoro. Smart working e filiera agroalimentare. Ambivalenze, ambiguità, ipotesi. 

Ci dicono che nulla sarà più come prima nelle nostre abitudini sociali. Ciò vale anche per l’attività cooperativa per antonomasia, il lavoro. Se delle trasformazioni del lavoro di riproduzione e di cura, soprattutto quello legato a una nuova centralità del settore sanitario, se ne è parlato tanto, vogliamo provare ad allargare lo sguardo dove meno batte il sole. La pandemia di Covid19 è stata infatti il primo banco di prova e di accelerazione dei processi di smart workingin Italia, una modalità di lavoro da casa già diffusa nei paesi a capitalismo più avanzato, soprattutto anglofoni e del nord Europa. Questa innovazione nel modo di lavorare, dentro la ristrutturazione capitalistica e dietro anche la spinta della riconversione ecologica, coinvolgerà probabilmente ampi settori del terziario, più o meno avanzato, ma potrebbe anche toccare porzioni impiegatizie del settore produttivo. Si tratta di un processo che si porta dietro ambiguità o piuttosto ambivalenze? Se da una parte il lavoratore può risparmiare il denaro e il tempo che utilizzava per spostarsi sul luogo di lavoro, dall’altra il lavoro, il padrone, entra direttamente nella sua casa, nei suoi luoghi privati, nel suo tempo di vita. Inoltre il lavoratore viene ancor più atomizzato e slegato dalla trama dei rapporti sociali che si creano negli ambienti di impiego, tra colleghi, nel bar sotto l’ufficio, tra ufficio e ufficio, tra lavoratori appartenenti a diversi settori. Crediamo che ragionare e inchiestare fin da ora questo passaggio sia necessario per non farci trovare impreparati più di quello che già siamo. Sarà un passaggio indolore, ricercato, o produrrà resistenze, rifiuto? Cambieranno i contratti? Quali conseguenze per le soggettività al lavoro e per l’organizzazione del conflitto? Si aprono maggiori prospettive di autonomia e di gestione del proprio tempo o ulteriori processi di scarico sul lavoratore dei costi d’impresa (connessione, bollette di luce e riscaldamento, software, hardware), anche per quanto riguarda stress, sicurezza sul lavoro, ecc.? C’è la possibilità di produzione di lotte? Di che tipo di lotte? Con quali metodi di conflitto? Con che organizzazione? Oppure rappresenta la pietra tombale sulla conflittualità del lavoro «cognitivo»? Senza la capacità di costruire una forza d’urto collettiva attorno a parole d’ordine o a un programma, è più che probabile che vinca il partito dell’innovazione capitalistica. Tingendosi di ecologismo (meno inquinamento), promesse di liberazione del tempo (niente più ore passate nel traffico o sui mezzi pubblici) del cui carattere ingannevole ci si accorgerà troppo tardi e, nelle fasi iniziali di implementazione, facendo leva sulla sicurezza: «È comunque un privilegio poter lavorare da casa mentre fuori c’è il virus, per cui non provate a lamentarvi». Proprio sul concetto di sicurezza si giocheranno partite sempre più importanti. Per noi, si tratta di strapparlo agli stregoni neoliberisti degli umori della «folla» social, composta da individui connessi ma atomizzati, per riportarlo sul terreno dello scontro nella sua declinazione collettiva di sicurezza sociale. La loro sicurezza, quella del profitto, del patrimonio, dello stato di cose presente, non è evidentemente la nostra, se siamo sottoposti ogni giorno al ricatto de «la borsa o la vita». Con la pandemia, si generalizza infatti una delle contraddizioni centrali del capitalismo, quella tra salario e salute. Fino ad oggi avevamo l’esempio di situazioni eclatanti, come l’Ilva di Taranto, o di quelle più mistificate, come la strage silenziosa da inquinamento nella valle Padana; ma da ora ci troveremo tutti, bene o male, a dover scegliere tra il diritto alla salute e la necessità di un reddito. Un altro nodo che ci sembra debba essere preso in considerazione è quello della «fabbrica verde». La filiera agroalimentare rappresenta una grande percentuale di Pil per il sistema-Italia, votato all’export (made in Italy), soprattutto per le provincie agricole della pianura padana e del centro-Sud. La pandemia, il blocco degli spostamenti e quello parziale dei commerci hanno fatto emergere in modo accelerato nodi già posti dal cambiamento climatico. A fronte della mancanza di manodopera – non solo nei campi, ma anche in tutte le strutture di gestione e lavorazione del prodotto – per la stagione agricola, garantita fino a oggi dalla forza lavoro straniera e irregolare, si tratta di capire come (con che strumenti e in che condizioni) i padroni del settore, attraverso lo Stato, riusciranno a mettere al lavoro (in modo anche coatto) segmenti di classe più disparati: oltre a immigrati, anche disoccupati, studenti, pensionati, percettori di reddito di cittadinanza o da servizio civile. Cosa succederà quando un italiano verrà messo al lavoro alle condizioni di sfruttamento e di sicurezza di un clandestino? Si parla di corridoi verdi tra Stati europei in cerca di forza-lavoro a basso costo, regolarizzazioni, smaltimento della burocrazia, introduzione di voucher agricoli facilitati. Tuttavia si tratta anche di capire come verrà ristrutturata la filiera – dalla coltivazione e raccolta alla grande distribuzione, dagli impianti di lavorazione alla ristorazione, dalle frontiere bloccate per certi tipi di prodotti ai commerci in picchiata – a fronte di una rinnovata importanza dell’autosostentamento alimentare nazionale post-Covid19. Si staglia fin da oggi lo spettro del razionamento? L’aumento dei prezzi di beni di prima necessità nella grande distribuzione è un fenomeno visibile, e comincia a impattare con la situazione di mancanza di reddito di una grossa fetta di popolazione, soprattutto per chi non ha il privilegio di riservare parte del suo paniere mensile ai prezzi del commercio etico, biologico, equo e solidale, chilometro zero, e via di questo passo. Può la richiesta di prezzi calmierati per i beni di prima necessità come il cibo essere coerente senza che una ripresa del conflitto nel settore eviti che i padroni dell’agroalimentare scarichino i costi sui lavoratori? In questo settore, dallo stagionale al bracciantato alla filiera dell’industria agroalimentare, si aprono possibilità di lotte che possono interessarci? In che modo si potrebbe intervenire, oltre alle logiche puramente sindacali?

10. Ceti medi, partite iva, non garantiti. Mobilitazioni à la GJ. Conricerca e neopopulismo.

La nostra tesi è che le mobilitazioni a venire, in questo secondo tempo della crisi globale, avranno più la forma dei Forconi piuttosto che quella di Occupy. Composizioni e contenuti estremamente contraddittori si muoveranno al loro interno: non ci sarà un unico motivo della lotta. Come vediamo oggi, ci sarà chi è incazzato perché è costretto ad andare a lavorare e ci sarà chi è incazzato perché è costretto a restare a casa. Lotte sulla sicurezza degli operai e degli operatori ospedalieri (dove l’attacco è a Confindustria per tenere chiuso) ma anche rifiuto del lockdownda parte di una composizione variegata – dai lavoratori autonomi ai «giovani» – per riaprire e tornare ad un’agognata vita sociale nella «normalità». Al cuore della questione un cambio di passo del processo di proletarizzazione del ceto medio in corso ormai da diverso tempo. Un fenomeno che, come la tettonica a placche, nel suo attrito sprigionerà esplosioni di energia non secondarie. Gli spazi di mediazione – dalle politiche di redistribuzione sotto forma di welfare all’esaurimento del risparmio privato – sono ormai completamente asciugati. Dobbiamo aspettarci, potenzialmente, un terremoto. In questa possibilità, crediamo sia necessario esserne parte, al suo interno, prima che la tensione accumulata venga rilasciata. Per tentare di direzionarla, polarizzarne le stratificazioni e trasformala in forza. Non possiamo permetterci, ancora una volta, di arrivare dopo. Che spazi di lotta ci può offrire questo processo? Che tipo di percorso e organizzazione ci immaginiamo al suo interno? Come articolarci adeguatamente nella realtà che abbiamo di fronte, mettendo però a sistema il nostro intervento? Dentro l’emergenza, un soggetto – molto frastagliato, stratificato ed eterogeneo – particolarmente colpito e percorso da rabbia, ambivalenze e potenziali richiami di lotta è quello del lavoro autonomo, delle Partite IVA (tanto «vere» quanto «finte»), dei piccoli artigiani (spesso anch’essi direttamente lavoratori), di chi ha una piccola attività (bar, negozi, esercizi, ecc.), ovvero tutto quel ceto medio-basso che si è visto sprovvisto di ammortizzatori sociali, su cui pesava già una condizione di indebitamento diffuso, autosfruttamento e tassazione esosa (entro cui, volente o nolente, è diffusa la pratica dell’evasione fiscale anche per tenere in piedi la baracca), e la cui garanzia di tenuta è messa seriamente a rischio dal prolungato lockdown, dalle nuove norme sociali post-Covid19 e da possibili ricadute del contagio. È certo che molta di questa composizione sociale eterogenea verrà espulsa dal ciclo economico. Ad oggi, infatti, si aggrappa a misure d’intervento pubblico per poter pensare di tirare avanti. In questo senso, lo scontro più ampio con il governo prenderà il volto della questione della sospensione dei pagamenti, dei sussidi (troppo bassi, a scadenza, con nuove condizionali discriminanti, che non arrivano a tutti ecc.) e del debito, elementi che vedono più direttamente interessati lavoratori autonomi, ma anche disoccupati, finte Partite IVA, precariato strutturale in vari settori. Gli esodati di questa crisi che si cercherà di far rientrare al lavoro in tutte le innovative forme «neoschiavistiche» possibili, insomma. Abbiamo visto come, nel corso dell’ultimo ciclo, questo magma sociale informe abbia dato vita, soprattutto a partire dalle periferie e dalle province, a mobilitazioni esplosive, una su tutte quella dei Gilet Jaune francesi. In Italia processi di mobilitazione di questo genere si sono visti in particolar modo intorno al movimento dei «Forconi» e alla giornata di lotta del 9 dicembre 2013, capitalizzati – non certo per loro merito – dalle aree politiche del neopopulismo, del sovranismo e del neofascismo. A partire dai ragionamenti di Raffaele Sciortino contenuti nel libro I dieci anni che sconvolsero il mondo(Asterios 2019) e dai successivi suoi contributi, crediamo che un possibile riattivarsi di mobilitazioni di questo tipo «spurio», ideologicamente sporche (antifascismo, antirazzismo, transfemminismo, ambientalismo non saranno loro principi cardine…) come il soggetto di cui parliamo, sia molto probabile, e che necessiti di una nostra presenza e capacità di direzione. Pena il vederle egemonizzate da altri. Quello di cui abbiamo certezza è l’urgenza di abbandonare l’imprinting, diffuso in numerose soggettività politiche, della condivisione in senso parallelo e lineare di propri slogan e simboli, provenienti da uno specifico quadro, che puntano alla traduzione lineare e diretta in contesti irrimediabilmente diversi. Occorre articolarci in modo adeguato alle realtà specifiche ed eterogenee che abbiamo di fronte.Si tratta anche suggerire il protagonismo alla composizione sociale e non sostituirci ad essa come palliativi del disagio. Come a dire: «Sei tu che devi agire il disagio, non i militanti». Insomma: di cosa parliamo quando parliamo di questa composizione sociale? Quali sono le sue stratificazioni interne e quali possibilità di ricomposizione di classe? Quali strati possono effettivamente dare vita a conflittualità, e in quali forme? Quali strati possiamo noi più facilmente immaginare di avvicinare o su cui lavorare? In che modo? Quali ambiti possono essere inchiestati? Ci sono già esperienze di questo tipo da cui trarre un esempio? Il campo di battaglia è aperto.

L’essenziale per camminare

11. «Ripartire dall’inchiesta», come tante volte ci siamo detti, non basta. Occorre trasformare questi punti di inchiesta in punti di attacco politico. Nel 1914 i bolscevichi erano un piccolo manipolo di rivoluzionari, banditi ed esiliati: isolati in patria e perseguitati in Europa, erano costretti a riunirsi nei boschi fuori Pietrogrado e nelle soffitte di Ginevra. Rappresentavano una radicale minoranza all’interno del movimento operaio internazionale, e in quanto tale ripudiati dai grandi, potenti e numerosi partiti socialdemocratici e socialisti che si apprestavano a raccogliere le redini dello sviluppo lineare della storia. Nell’Ottobre di tre anni più tardi, mentre la socialdemocrazia già puzzava di fetido cadavere, i bolscevichi stringevano il fulmine tra le mani. All’appuntamento con la rottura del filo del tempo seppero farsi trovare pronti. Disponevano di organizzazione, direzione, pensiero strategico radicato dentro e contro la tendenza. Ma soprattutto, erano riusciti a sfruttare la contingenza di crisi per rompere con la propria storia, il proprio passato, facendo un salto in avanti. Divenendo comunisti. Oggi, come allora, dobbiamo assumere la crisi come terreno di occasione e possibilità, primariamente soggettiva, di rottura con i limiti, i vicoli ciechi e i girare a vuoto che ci hanno contraddistinto come naviganti di uno stagno d’acqua marcia e immota, senza alcun «movimento» possibile, per andare oltre, e spiegare le vele ai venti della tempesta. Il virus, infatti, ha compromesso in modo definitivo ogni schema consolidato e sterile ritualismo. Dobbiamo guardare la crisi come momento di ristrutturazione del capitale, ma anche per ripensarci, e ripensare la nostra forma di militanza, per non scadere nella via più breve e conservativa, la gestione soddisfatta della nostra marginalità. Non c’è niente da conservare, non ci è rimasto più niente da perdere. Da fare, c’è tutto un lavoro di immaginazione di forme e tempi di un potenziale attacco ai nostri nemici. La posta in gioco, come sappiamo, è costruire dall’interno la parzialità e la direzione politica sui processi di crisi: o le forze della rottura riescono a farne una scadenza e un passaggio in avanti, di organizzazione sovversiva, di costruzione autonoma di nuove prospettive, o la scienza del capitale riesce ad appropriarsene, manovrarli, determinandoli anch’esso in avanti, ma come innovazione capitalistica. Crediamo sia un buon momento per abbandonare la critica-critica, come diceva Marx, per tentare la costruzione di altro, la possibilità di «scoprire, appunto, nuove leggi per l’azione». Occorre giocare una scommessa in grande stile: questa è un’occasione che difficilmente ci ricapiterà. Come pensiamo praticamente la rivoluzione oltre la morte del «movimento»? È la questione epocale che ci interroga. Siamo inadeguati rispetto ad essa? Chissenefrega. Giochiamocela. «Dobbiamo avvertire. Con tutto questo siamo ancora al “prologo nel cielo”…»