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Discorsoni / Analisi

Tranquilli, è solo il primo mese di guerra. Poi peggiora

La guerra ha legato tra loro, con catene di ferro, le potenze belligeranti, i gruppi contendenti di capitalisti, i “padroni” del regime capitalistico, gli schiavisti della schiavitù capitalistica. Un grosso grumo di sangue: ecco che cos’è la vita sociale e politica dell’attuale momento storico.

Lenin, Lettere da Lontano.

 

I democratici antifascisti per il battaglione Azov.

I razzisti sovranisti per la denazificazione.

I tecnocratici europeisti per il presidente comico e populista.

Gli anarchici per i sacri confini dello Stato ucraino.

I comunisti per l’Impero zarista di tutte le Russie.

I nazionalisti per l’Eurasia da Lisbona a Vladivostok.

Gli indipendentisti per l’imperialismo anglosassone Nato.

I pacifisti per la guerra mondiale.

I generali per la pace tra i popoli.

Giletti in diretta da Odessa, con «l’occhio della madre», «la carrozzella col bambino», «gli stivali dei soldati».

E il liberatorio grido fantozziano, «È una cagata pazzesca!», bollato come ignobile propaganda putiniana.

Scusate, sbagliato tempolinea.

Ed è solo il primo mese di una guerra che, lungi dal concludersi brevemente e dal considerarci non coinvolti, vedremo ulteriormente peggiorare, prima di migliorare.

Sempre se potrà migliorare. Per i morti, per i caduti, la guerra è già finita. Per tutti gli altri, continua la danza macabra, sconsiderata, sull’abisso: dell’escalation globale, della mutua catastrofe assicurata. «Siamo pronti a ogni sacrificio», ha annunciato alle Camere il premier-tecnico Mario Draghi all’inizio del conflitto. «L’Italia farà la sua parte». Scrosci di applausi. Sedicenti rappresentanti del popolo italiano a ratificare l’ora delle decisioni irrevocabili, prese altrove: Washington, Londra, Bruxelles. Senza che nessuno avesse, o abbia ancora chiesto, se veramente gli italiani siano disposti a questo sacrificio. L’ennesimo. Il più estremo. Dopo due anni, stremanti, di pandemia. Dopo dieci, durissimi, di crisi, stagnazione, emigrazione, impoverimento. Ci stanno chiedendo il sangue. Questa volta, anche quello vero.

O Kiev o tutti accoppati! L’ora delle decisioni irrevocabili. Ma chi pega?

L’Italia è in guerra, così è stato deciso. Per ora combatte con sanzioni finanziarie, commerciali, economiche, che stravolgeranno irrimediabilmente una già fragile economia – non solo nazionale, ma globale. La finanza come momento della guerra – un avvertimento alla Cina, ma lo sapevamo già – oggi più che mai ibrida. Condotta su più livelli. La globalizzazione che abbiamo conosciuto a partire dal 1991 non sarà più la stessa. E armi agli ucraini, puntualmente arrivate nelle mani di reparti – non più milizie – di neonazisti, come quelli di Azov. «In alcune città, è più facile ottenere una mitragliatrice che il pane», raccontano compagni ucraini che non sentirete nei talk-show, ma che vi traduciamo. «I militari e i gruppi fascisti prendono in ostaggio le popolazioni di Kharkiv, Kiev e Mariupol, usando la gente come scudi umani». A difesa «dei nostri valori», si intende: democratici, inclusivi, occidentali, contro la «barbarie orientale» di sempre. Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia: cancellati in un sol colpo. Tutte le geopolitiche sono uguali, ma la mia è più uguale delle altre. È la Siria 2.0, alle porte di casa, con arsenali atomici e fratricidio di popoli. Una tragedia non solo russa, ma europea.

Questo meme è offerto dalla strutturale tendenza alla guerra del sistema capitalistico nella sua fase suprema, l’imperialismo.

A Ovest già si preparano gli eserciti. Le licenze sono revocate. Gli arsenali si riempiono. I fucili vengono oliati, mentre si trincera il fronte interno. È caccia al “putiniano”, al “russo”, al “traditore”. O con Noi, o con Lui. Se questa non è già guerra… almeno risparmiateci la retorica democratica.

Per questo: non con Lui, ma contro di Voi.

Contro il nemico in casa nostra: l’imperialismo Nato, la tecnocrazia europea, il governo della crisi trasformata in guerra.

Contro il nemico che marcia alla nostra testa: la sinistra imperiale, la sua chiamata alle armi, che soffia sul fuoco appiccato alle nostre porte.

L’unica posizione possibile, da qui dove stiamo.

Dario Fabbri può accompagnare solo. Chi non viene è Giletti bombardato a Odessa da fuoco amico.
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Discorsoni / Analisi

Grigio capannone. Due parole su meme, Cina e transizione ecologica

Communism : r/ADVChina
Sui social sta girando molto, negli ultimi giorni, questa foto delle olimpiadi invernali di Pechino. Ritrae un impianto per sci allestito nel sito delle acciaierie Shougang, oggi spento per obsolescenza e riconvertito – così dicono: noi non siamo di Pechino.
L’immagine è sicuramente suggestiva: stuzzica non poco le sensibilità distopiche e catastrofiste di un certo immaginario contemporaneo, attratto al contempo sia dal weird sia dalla sci-fi. Diciamo di “un certo” perché, come sappiamo, la struttura delle piattaforme dove esso si può saggiare non può che produrlo in bolle, spesso incomunicanti tra loro. Un’immagine che per una bolla ha significato, per la bolla a fianco può non averne.
In questo caso, la forza dell’immagine sta proprio nel riuscire a forare più bolle, e trovare un senso mediano tra esse, quando anche di segno opposto. Soprattutto tra le fasce giovanili istruite, millennial e Z, è già diventata meme. E in quanto tale strumento del meme warfare, uno dei tanti campi di battaglia dove si prepara, combattendolo già, il conflitto principe che informa i nostri tempi (per non parlare degli spazi, non solo politici): quello degli Stati Uniti contro la Repubblica popolare cinese – Occidente contro Oriente, sai che novità.
Nel tempo dell’immagine, la guerra si fa in particolar modo iconografica, lo sanno bene le agenzie statali e private predisposte a condurla. L’immagine dello scivolo bianco per sci olimpionico alle acciaierie Shougang, un puntino brillante sommerso dallo squallido grigiore industriale circostante, un’isola di luce circondata dalla plumbea cappa dell’inverno carbonfossile, in candido contrasto con il territorio avvelenato, violentato e deturpato dalla velocità – e potenza “novecentesca” – dell’impetuoso sviluppo cinese, si presta bene a convergere nella narrazione propagandistica della “Transizione ecologica”, indirizzo politico della ristrutturazione capitalistica postpandemica, in particolare europea.
L’arruolamento delle sensibilità ambientali ed ecologiste trasversali, ma soprattutto progressiste, predominanti appunto tra le generazioni di venti-trentenni più istruite, in funzione anticinese è lo specchio della ridefinizione delle grammatiche e del riposizionamento dei campi politici in corso, un’anticipazione di quali saranno i fronti per cui si combatterà (già si combatte) la guerra per determinare la forma della globalizzazione uscita dalla pandemia.
«Guardate, la distopia totalitaria cinese. Il paese che inquina più di tutti nel mondo. Nemico della Transizione ecologica. Rischiamo l’estinzione come specie. Se non smette di portare la terra al collasso, qualcuno dovrà costringerla a fermarsi…» Non sappiamo voi dove vivete, ma, a parte lo scivolo, questa foto è letteralmente Sassuolo…
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Discorsoni / Analisi

Sindacati pagliacci da licenziare!

GKN a Firenze, Gianetti a Monza, Timken a Brescia. Sono solo le ultime e più note fabbriche che hanno chiuso nella notte, di nascosto, scappando come ladri.

Centinaia di operai e operaie che si ritrovano senza lavoro da un giorno all’altro, con una mail e tanti saluti dall’Amministratore delegato. Che si vanno ad aggiungere alle migliaia di lavoratori interinali, delle cooperative, precari lasciati a casa dai padroni, che siano italianissimi industriali, multinazionali o fondi speculativi.
Si scrive ristrutturazione, si legge macelleria. Ed è solo l’inizio. Sono le conseguenze dello sblocco dei licenziamenti voluto da Confindustria, appoggiato dal governo Draghi – e da tutti i partiti dal PD alla Lega, dai Cinquestelle alla Meloni – e sottoscritto dai sindacati senza colpo ferire.
Padroni e politici fanno il loro lavoro: profitti e poltrone, a ogni costo necessario. Ma i sindacati? Gli stessi sindacati che oggi si dicono dalla parte dei lavoratori ma che giusto ieri erano al tavolo con governo e Confindustria per concordare, tutti insieme appassionatamente, la macelleria che viene. Che oggi s’indignano per le «modalità non corrette» dei licenziamenti (per le mail!) e non per le intere comunità, le famiglie e i lavoratori prima usati e poi gettati nei rifiuti. I sindacati che prima si accordano per licenziare, e poi dopo i licenziamenti fanno sciopero… di due ore. Che prima lo mettono in culo ai lavoratori, e poi si presentano ai cancelli della fabbrica con i moduli dell’esubero e degli ammortizzatori da firmare (ovviamente previa tessera!). Una presa in giro a cui è arrivato il momento di dire BASTA.
E allora questi sindacati vanno sanzionati. E gli va ricordato quello che sono: pagliacci da licenziare. Perché non fanno i nostri interessi ma solo quelli dei padroni: che è la pace sociale, l’accettazione, la gestione della crisi attraverso deleghe, tavoli, burocrazia e accordi mentre passano sulle nostre vite. Un costo che, arrivati a questo punto, non possiamo più permetterci di sostenere.

Oggi non abbiamo bisogno di delegare qualcuno per piagnucolare e mettersi al tavolo di chi ci sfrutta e di chi ci comanda. Oggi abbiamo bisogno di organizzarci per lottare, qui e ora, con tutti coloro che sono senza riserve. Per riprendere in mano le nostre vite, per riprendere il potere di decidere.

Quel tavolo, noi, abbiamo solo bisogno di ribaltarlo.

Riprendiamoci tutto! Kamo Modena

Modena, sede CISL.
Modena, sede UIL.
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Discorsoni / Analisi

Per infermieri e OSS altro che caramelle: SICUREZZA, SOLDI e POCHE BALLE!

Non è andato tutto bene. Esattamente a un anno di distanza dal primo lockdown siamo ancora in piena emergenza.
Ci avevano detto che quando sarebbe arrivato il vaccino tutto sarebbe tornato alla normalità, ma i reparti sono pieni, le terapie intensive sature, gli ospedali sotto stress, i focolai nelle strutture e nelle fabbriche aumentano insieme al numero di ricoveri e di morti.
Mentre politici e Confindustria, tra giochi di palazzo e cambi di governo, si litigano la spartizione dei 207 miliardi del Recovery Fund, tutto il peso dell’emergenza sanitaria è scaricato sulle spalle degli infermieri, degli OSS, dei lavoratori ospedalieri. Come rispondono le autorità a questa situazione? Il direttore del Policlinico e dell’ospedale Baggiovara, Claudio Vagnini, ha lanciato un appello ai cittadini modenesi: «Portateci delle caramelle per farci capire che siete al nostro fianco in questa lotta».
Delle caramelle? Non possiamo stare in silenzio di fronte a questa presa per il culo.
Una presa per il culo non solo per infermieri, OSS e lavoratori, ma per gli ammalati e i loro famigliari, per tutti noi: “caramelle” invece che assunzioni di personale medico e ospedaliero, caramelle invece che aumento delle retribuzioni, caramelle invece che potenziamento e messa in sicurezza delle strutture e dei lavoratori, caramelle invece che eliminazione del precariato e delle esternalizzazioni a cooperative che sfruttano con contratti da fame, caramelle invece che vaccinazioni a tappeto per tutti. Caramelle quando sono otto mesi che non viene erogato l’indennizzo per il rischio malattie infettive agli infermieri, caramelle quando gli stipendi degli OSS sono irrisori rispetto ai turni massacranti e ai contratti precari, con la mafia delle cooperative del PD a fare il bello e il cattivo tempo sulla pelle dei lavoratori.
A pagare il conto sono le fasce sociali che non godono dei privilegi e del potere di Confindustria e politici, i giovani, gli studenti, chi vive del proprio lavoro e cerca di arrivare a fine mese.
Un conto salato che ci fanno pagare con zone rosse, scuole chiuse, coprifuoco, spostamenti vietati e polizia, perchè il piano vaccinale non decolla per meri interessi economici e geopolitici tra Stato italiano, Unione europea e multinazionali farmaceutiche: meglio lasciar morire noi poveracci e metterci ai domiciliari che liberalizzare i brevetti o usare i vaccini russo, cinese e cubano.
Insomma, l’emergenza è diventata la nuova normalità e in Emilia, che del sistema sanitario ha fatto il suo presuntuoso vanto, la retorica del vaccino per tutti non basta più a coprire la realtà del vaccino per pochi, le caramelle non bastano più a coprire le responsabilità politiche ed economiche di questa crisi.

VIRUS ITALIA: UN ANNO DOPO TUTTO UGUALE, IN ZONA ROSSA METTIAMOCI POLITICI E CAPITALE!

LA SALUTE È UN DIRITTO, LUCRARCI UN DELITTO: VACCINI PER TUTTI SUBITO!
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Discorsoni / Analisi

Enter the Draghi

E alla fine hanno calato l’asso di denari.

Era questione di tempo, lo sapevano tutti i giocatori di briscola da bar. La compagine renziana ha apparecchiato il tavolo, ed è bastato questo perché qualcuno sfruttasse l’occasione, senza andare a scomodare inutili dietrologie. D’altronde, i giocatori erano da un po’ che si scambiavano segni, tutt’altro che inintelligibili.

La partita iniziata il 4 marzo 2018 ha preso una piega beffarda. Inaugurata come l’avvio della “Terza repubblica”, nata dalla rivoluzione nazionalpopulista di Movimento 5 Stelle e Lega, degli “esclusi”, degli “euroscettici”, del “popolo” contro le “élite”, i “competenti”, gli “eurocrati”, ha prima visto lo sbriciolamento del “Governo del cambiamento” giallo-verde tra un Papeete e un Mojito di troppo, poi la cannibalizzazione di quello giallo-bianco (altro che rosso…) da parte di un altro non meno spregiudicato Matteo, questa volta in piena crisi pandemica. Per concludersi con Mario Draghi, il simbolo, l’incarnazione, il boss-finale di tutti quei poteri sovranazionali, monetari e tecnocratici entro il cui contrasto e superamento la “rivoluzione” era stata combattuta – o, semplicemente, raccontata.

Insomma, nel giro di neanche una legislatura, siamo passati dall’Italia “laboratorio politico” di Steve Bannon all’uomo della Bce al comando. In tre anni, tutto appare finito. La “rivoluzione” è sconfitta. È il Termidoro, per usare una terminologia a noi più evocativa. Si torna da capo, alla “normalità” della crisi e della sua gestione. Si ritorna al business as usual, al pilota automatico precedente al “momento populista” che, dagli Stati Uniti all’Italia, ha increspato gli assetti politico-istituzionali dell’Occidente.

Ma è davvero, solo così?

Non un semplice Monti 2

Sono stati dieci gli anni impiegati dall’inizio della grande crisi, quella del 2008, vero epicentro di medio periodo di questi avvenimenti, per portare quella spinta al “cambiamento” che, sull’onda della Brexit e dell’elezione di Trump, a un certo punto, prima del Covid-19, è sembrata inarrestabile, dentro i famigerati palazzi del potere.

Anche noi abbiamo fatto parte di questa storia. C’è un filo che va dall’esaurimento (o sconfitta) delle piazze dell’Onda – ma anche di Occupy Wall Street, degli Indignados, con la retorica del 99% contro l’1% –, dove una generazione politica e militante si è forgiata, all’esplosione del movimento dei Forconi nel 2013 – per non parlare poi dei Gilet Jaune… – fino all’attentato suprematista del lone wolf Luca Traini durante la “turbolenta” campagna elettorale del 2018, la quale ha sancito la legittimazione democratica e l’ingresso delle forze “anti-sistema” nell’arena di governo.

Sono sempre stati dieci gli anni intercorsi dal 2011 – con la defenestrazione di Berlusconi e l’investitura di Monti – tra governo tecnico e governo tecnico, entrambi di “salvezza nazionale”, entrambi guidati da un Super Mario col compito di salvare, e liberare, l’Italia dall’Italia stessa, grazie alla propria superiore, responsabile, competenza tecnica. Prima contro la crisi del debito sovrano, poi contro la crisi del virus globale.

Per questo crediamo sia fondamentale, in questo passaggio di (tentativi di) riassestamento e ristrutturazione sistemici, tanto a livello economico quanto sociale e politico, decifrare il ruolo di Draghi e del suo governo senza sovrapporlo a quelli di Monti.

Il governo Draghi potrebbe non essere solo o semplicemente un Monti 2. Questo sembra scontato, ma bisogna averlo bene in mente. In questo momento è necessario osservare il livello delle discontinuità piuttosto che delle continuità. Quindi facciamo attenzione a ritirare fuori, come una reazione pavloviana, l’armamentario retorico e gli striscioni messi in soffitta dopo il 2011 (anche se qualcosa andrebbe rispolverato… do you remember debito?), soprattutto se a distanza di un decennio con quel ciclo di mobilitazione e soggettività ancora facciamo fatica a farci i conti.

C’è tutta una fase che è cambiata. In questi dieci anni c’è stato di mezzo un “momento populista” – senza offesa per i narodniki – che ha profondamente scavato, nelle sue convulsioni, nelle sue espressioni, nelle sue lotte intestine come nella direzione su cui infine si è assestato, nel corpo sociale, ma anche nel campo politico e istituzionale. E ha sedimentato. Non è un caso che gli analisti più lucidi – non importa se reazionari – abbiano cominciato a definire tecnopopulismo la nuova traiettoria politica che vede la cooptazione di elementi e stili dall’uno e dall’altro campo nel meccanismo del potere (un esempio può essere Macron). La frazione di classe dominante egemone, per continuare a governare attraverso i suoi ceti dirigenti, ha bisogno dell’innovazione, in questo caso di selezionare, addomesticare e fare sue le spinte contrarie provenienti dall’esterno, utilizzabili per fare un salto in avanti in termini di compatibilità e stabilità.

Che questo governo “tecnico” – i governi non sono mai tecnici, ricordiamolo a scanso di equivoci: dietro il velo della neutralità, dell’oggettività, della titolarità della competenza si nascondono precisi indirizzi politici, economici, sociali – potrebbe non essere un semplice “Monti 2” lo si può intuire leggendo gli ultimi interventi dello stesso Draghi su “foglietti” come il «Financial Times»: lo Stato dovrà sostenere l’economia, la ripresa, la produzione – dalla parte delle imprese… e il consumo? – facendo e perfino cancellando debito (abbandonando, con un colpo di spugna, dogmi impressi nel sangue di intere popolazioni come quella greca); dovrà sostenere l’occupazione, le famiglie e allargare forme di welfare sotto forma di «basic income», ovvero di reddito di base (formula crediamo non usata a sproposito dallo stesso Draghi).

In questo giro di giostra, probabilmente, non ci saranno (solo) tagli. Saranno presenti risorse e spese (per chi e su quale modello?) e ovviamente “riforme” – in cambio del tesoro europeo del Recovery Fund, più di 220 miliardi di euro, di cui Draghi è stato scelto come amministratore: un bel lubrificatore economico per gli interventi sociali e politici che si stagliano all’orizzonte, oltre che la torta intorno a cui tutti i partiti si stanno sedendo per agguantarsi un pezzo per i propri padrini (paradigmatica la “trasformazione” di Salvini…).

Pescare l’asso di bastoni

C’è tutto un rapporto tra Draghi e Unione Europea, Draghi e classi dominanti italiane, Unione Europea e ceti dirigenti italiani che va sciolto senza tornare ripetere formule che non corrispondo più (almeno non tutte) alla situazione odierna… Senza neanche andare a scomodare il contesto geopolitico di decadimento europeo, stretto tra i due veri attori che si contendono l’indirizzo e l’egemonia sulla globalizzazione post-pandemia, Stati Uniti e Repubblica popolare cinese.

«Il vecchio adagio dell’abate Sieyés “fiducia dal basso, autorità dall’alto” si è rotto, trasformandosi nella ben più debole formula “sfiducia dal basso, dirigismo dall’alto” o, in termini più moderni, “populismo dal basso, tecnocrazia dall’alto”».

Populismo e tecnocrazia sono due facce dello stesso movimento storico in cui ci troviamo ad agire. Si sono alimentati a vicenda fino al cortocircuito provocato da un evento “inaspettato” come una pandemia globale. Guardando indietro, può sembrare che il «Que se vayan todos!» dei movimentidel 2010-2011 non potesse che avere come corollario il «Lasciate fare ai competenti». Siamo consapevoli però che la direzione che prende un processo sia impressa dai rapporti di forza che si è in grado di costruire, organizzare ed esercitare nella tensione tra contingenza e tendenza.

Il nodo politico da sciogliere oggi, a livello di spazio d’azione e organizzazione, crediamo sia porsi contro la tecnocrazia dei competenti senza cedere al recupero della democrazia, dei gruppi e del parlamento (la tecnologia di depoliticizzazione e inibizione democratica del conflitto, anche nelle sue versioni di sinistra e “movimentiste”), e viceversa.

Dieci anni di speranze, illusioni e delusioni verso un “cambiamento” che non c’è stato lasciano sul terreno un irrisolto: questo può trasformarsi in campo di battaglia politica, soprattutto in un passaggio di fase di approfondimento e chiarificazione della crisi scaricata sui subalterni, che vede una composizione sociale iperproletaria in cui declassamento rovinoso di alcuni segmenti di ceti medi (salariati e autonomi) si mischia a timidi comportamenti di attivazione giovanile tutti ancora da decifrare.

Come radicalizzare e organizzare il sentimento dell’odio, della sfiducia e del disprezzo verso la politica di palazzo, dei santoni e dei partiti senza andare a portare l’acqua al mulino della soluzione tecnocratica e dirigista da una parte e nella difesa della democrazia, dei politici e della rappresentanza dall’altra?

È questa una domanda da un milione di… dogecoin, che ci facciamo non come semplici spettatori della partita più importante, quella della nostra parte sociale, in attesa che essa entri in gioco con l’asso di bastoni.

 

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Discorsoni / Analisi

Di vaccini e kalashnikov

Il vaccino cinese, a novembre 2020, aveva superato la fase 3 dei test confermandosi sicuro ed efficace nell’86% dei casi. È prodotto dall’azienda statale Sinopharm e si basa su una tecnologia già lungamente applicata e sperimentata a livello globale – quindi a minor costo di produzione – che utilizza un virus morto, simile alla vaccinazione antipolio.

I vaccini occidentali, come quelli di Pfizer e BioNTech, utilizzano una tecnologia più recente e meno collaudata – quindi più costosa e con meno garanzie – che prende di mira una proteina del coronavirus utilizzando l’RNA. Sarebbero sicuri al 95%, se non che, nel trasporto, a questi vaccini deve essere garantita una temperatura che va dai – 70 ai – 20 gradi. Quindi una condizione di trattamento che necessita di protocolli e apparecchiature molto complessi e dispendiosi.

Il vaccino cinese, oltre a costare meno, quindi più accessibile ai Paesi meno ricchi, è inoltre stato concepito per viaggiare a una temperatura tra i 2 e gli 8 gradi sopra lo zero, molto più facilmente gestibile e a minor costo complessivamente, soprattutto per quelle aree – non occidentali – dove vivono circa tre miliardi di persone senza sistemi stabili di elettricità e refrigerazione. Su un pianeta, non dimentichiamolo, lanciato inesorabilmente a subire nei prossimi anni – sta già succedendo! – un aumento brusco delle temperature.

I governi occidentali hanno finanziato con miliardi di euro di risorse pubbliche le ricerche private di aziende private sul vaccino. Le aziende hanno avuto quindi un triplo guadagno: infatti, il vaccino è stato poi acquistato dagli Stati che ne avevano già finanziato la ricerca, il cui brevetto resta… privato.

A dicembre 2020 milioni di cinesi erano stati già vaccinati. La Cina e Cuba si sono rese disponibili a fornire il loro vaccino a qualsiasi paese ne faccia richiesta. Nel mentre in Italia, a gennaio 2021, la distribuzione del vaccino occidentale è rallentata quando non bloccata per la mancanza di personale formato e di aghi e siringhe.

Vogliamo mettere in evidenza le logiche, le strategie e le prospettive differenti e sottostanti ai due vaccini, uno dei terreni di battaglia – come del resto la tecnologia di telecomunicazione 5G – del rinnovato confronto intercapitalistico globale, che gli incubi e le paranoie dei complottisti nostrani hanno, nel loro lucido delirio, intuito.

Da una parte un vaccino concepito per essere prodotto autonomamente, più velocemente e a costi minori, più facilmente gestibile senza ulteriori costose apparecchiature, in grado di arrivare a un maggior numero di persone ed economicamente sostenibile per i paesi marginali alle catene globali del valore, con lo sguardo verso un futuro-presente più caldo. Possiamo benissimo chiamarlo, senza esaltazioni o folklore di sorta, un “vaccino del popolo”, perché la logica sottostante è quella della difesa della salute umana complessiva, a partire da quella delle classi subalterne. Un vaccino sicuramente migliorabile, ma che si fa vettore dell’ampliamento, dell’ulteriore proiezione e influenza di un modello – politico, economico, di relazioni globali – che apertamente si dice socialista, ma con «caratteristiche cinesi», verso aree del globo come il Sudest asiatico, il Medioriente, l’Africa, il Sudamerica, fino a lambire l’Europa. Un modello che comincia a dimostrarsi perfino più «efficiente», «dinamico» e «sostenibile» della tanto decantata razionalità capitalistica occidentale. Il vaccino cinese, insomma, segue le orme, nel campo della salute, del kalashnikov sovietico nel campo della guerra, quella dei subalterni contro i propri dominatori.

Dall’altra un vaccino privato che risponde più a una logica di business a corto raggio, predatoria e finanziaria, invece che di salute sociale, una logica arroccata a difesa di interessi geopolitici di bottega e immediati di classe, il cui ceto dirigente – in particolare quello europeo – è poco lungimirante perfino di fronte alle necessità (anche se sarebbe più corretto dire velleità) politiche del proprio capitalismo. Un vaccino che solo un piccolo nucleo di paesi al mondo può gestire e distribuire alla propria popolazione, e comunque lentamente, e ad altissimo prezzo, mentre le “ondate” continuano a susseguirsi e sempre più persone muoiono o cadono in miseria. Gli italiani, in quanto subalterni a questo specifico intreccio di alleanze e rapporti di forza, non hanno possibilità di scelta se non sucarsi il vaccino delle corporation di BigPharma, o scegliere di andare a infoltire le schiere di utili idioti novax.

La critica serrata – e agita – alla gestione sanitaria della crisi pandemica non va lasciata a questi ultimi, l’altro lato della medaglia della stabilità sistemica. Ma se siamo ormai fuori tempo, va ricostruito, su questa leva, un discorso comunista autonomo e forte più complessivo sulla scienza, la tecnologia, l’innovazione capace di marciare sulle proprie gambe, che non si lasci schiacciare, da una parte, dalle ridicole e dannose velleità ideologiche che possiamo chiamare accelerazioniste – la celebrazione, la fiducia e la difesa, di fatto, dell’idea del progresso, e quindi del progresso capitalistico, la riproposizione dell’ideologia II Internazionale e della socialdemocrazia di kautskiana memoria – e, dall’altra, dall’inutile atteggiamento della lotta contro i mulini a vento, del rifiuto individuale della realtà concreta.

Il nodo fondamentale rimane quello politico. La scienza, la tecnologia, l’innovazione non sono neutrali. Ancora prima del loro uso, contengono in sé un segno politico, dato da chi il potere politico lo detiene. Sono prodotte da precisi rapporti di forza tra classi. I loro prodotti sono la cristallizzazione di tali rapporti, e in base a tali rapporti agiscono secondo logiche diverse.

Logiche diverse, strategie diverse, prospettive diverse, all’interno dello stesso sistema di relazioni capitalistiche mondiale, che vanno comprese e possedute. Che chiarificano la trama della contesa globale di cui il secolo si farà portatore, il posizionamento nella catena imperialista e in quella del valore globale, la profondità della perdita occidentale di centralità e attrazione, in particolare per l’Europa, rispetto alle sfide epocali che questi anni Venti hanno aperto.

 

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Discorsoni / Analisi

Alluvione 2020: chi pagherà per tutto questo?

Martoriata da cemento, bretelle, consumo di suolo, concessioni edilizie, incuria e disinteresse in nome dell’affarismo più bieco e predatorio, la nostra terra è fragile.

E se la terra è fragile, lo è anche la sua gente. Le nostre comunità.

Guardiamoci in faccia. Non siamo più in emergenza: siamo in una nuova normalità. E tutti gli anni sarà sempre peggio.

È la nuova normalità del cambiamento climatico e della crisi ecologica. Che non è solo crisi ambientale, ma crisi di un intero modello di sviluppo, di produzione, di lavoro, di rapporto col territorio, di rapporti sociali: quello capitalistico.

Non è più quesione di evitare la crisi climatica ed ecologica, è questione di saperla affrontare. Affrontare l’inevitabile. Bisogna riflettere su dove si vive e come si vive, e come cambierà in futuro, un futuro che è già qui e cominciamo a toccare con mano.

Ma non è solo con l’appello alla buona coscienza dei comportamenti individuali che si potranno cambiare le cose.

Il cambiamento climatico non è una scusa. La questione è politica. La questione è di potere. Potere di chi decide. Su cosa produrre, su come farlo, sulla priorità dei bisogni. Sull’organizzazione del territorio, sulla difesa delle comunità, sulle nostre vite.

Di chi pagherà per tutto questo. L’ennesimo disastro che si poteva evitare.

La riproduzione sistemica del capitale si è disconnessa dalla riproduzione sociale e della vita complessive. Destra e sinistra sono due facce dello stesso modello che ha portato il nostro territorio ad essere martoriato.

Rompere radicalmente con questo modello, difendere la nostra terra, è diventata una questione di sopravvivenza.

Esondazione del Tiepido a Fossalta, Modena Est, a pochi chilometri dal centro di Modena.
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Discorsoni / Analisi General

RACHE. Le vibrazioni del nostro tempo.


Negli Stati Uniti, l’altra sera, hanno sparato a un nazista. Non ci interessa se sia morto perché la polizia ha impedito ai paramedici di intervenire in tempo, né se a sparargli sia stato un compagno, un nero a caso, un poliziotto o un altro nazista. Se nei primi due casi saremmo meno stupiti, negli altri saremmo più divertiti.
Non ci interessa nemmeno (in questa sede) bastonare il can che affoga di chi dopo anni di retorica fuoco e fiamme scopre che la violenza sistemica, quando torna indietro, è effettivamente violenta e come tale fa male a delle persone, non solo a vetrine e bancomat. Se pensavano che durante le rivoluzioni si ballasse rimarranno delusi, d’altra parte Emma Goldman non ne ha mai fatta una, Mao sì.
Meno di tutto ci interessa polemizzare sul ruolo del Terrore Rosso, dei Giacobini, degli anabattisti di Müntzer o dei Gracchi: la tradizione ci interessa per due cose, lo stile e gli strumenti pratici che ci possono servire. Per l’agire politico, per la nostra militanza, preferiamo restare ben ancorati al presente per intercettare il futuro.
E il presente è brutto, orrendo – senza alcuna accezione di slang al termine -, dove la composizione spuria più conflittuale nel nostro territorio non trovando alcun riferimento valido si coagula attorno a lotte imperscrutabili contro 5G, mascherine e dittatura sanitaria.

È qui il nodo che ci interessa, quello della vendetta. Termine che ci rivendichiamo totalmente perché in un mondo che si sente davvero sull’orlo della Katastrophe nella sua accezione più apocalittica la vendetta diventa una leva rivoluzionaria concreta, tangibile, immaginabile.
La nostra gente vive di vendetta, la brama, se ne abbevera come può: la cerca con gli strumenti che ha a disposizione, come la la denuncia, la pattuglia dei vigili, lo sputtanamento social e occasionalmente quello pubblico. Sta a noi organizzare la vendetta collettiva. E la celebriamo ogni volta che capita l’occasione.
Siamo andati a vedere il Joker di Todd Phillips [1] e ne siamo usciti pensando che quelle erano le vibrazioni del nostro tempo, così come Piazza Maidan ha rappresentato l’orizzonte nuovo della guerra civile in Europa.

Con lo scomparire delle possibilità di mediazione, il confronto diventerà sempre più sporco ma anche sempre più duro, e chi rimarrà indietro ne pagherà il conto con l’esclusione: chiedetelo a Salvini che ha puntato tutto sull’essere colui che spingeva più in là le proprie posizioni e quando un Conte qualsiasi gli ha dato quel che chiedeva ha imboccato il viale del tramonto. E vale la stessa cosa per Trump: flirtava con la guerra civile e alla fine gliene stanno dando un assaggio.
A volte accettare provocazioni è la reazione migliore.
Per questo celebriamo, post-ironici, tutti i crimini del comunismo, perché non ci sentiamo in colpa a desiderare la vendetta di classe sul nemico, né tanto meno proviamo alcuna pietà per esso. Non dobbiamo giustificarci se non è necessario come tattica contingente ne preoccuparci se non siamo sinceri nel farlo: siamo in trincea e abbiamo ben altre priorità.

[1]  http://archivio.commonware.org/index.php/neetwork/904-la-morte-degli-eroi

Ps:
“Aveva chiesto dove fossero i bolscevichi”

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Discorsoni / Analisi

Con il sangue agli occhi. Guardare Black Lives Matter dalla Provincia

Sotto il movimento-ombrello di Black Lives Matter i neri americani in protesta contro gli abusi e gli omicidi razzisti della polizia statunitense hanno imposto tutto un nuovo capitolo di lotte radicali: anche se non innovative colpiscono profondamente il cuore dell’impero e, in coppia con quelle operaie in Cina, completano una nuova globalità conflittuale che non si vedeva da decenni.

Esprimendo forza invece che vittimizzazione lacrimevole, rifiutando i tentativi di addomesticamento da parte della sinistra, il proletariato nero si è posto come punta avanzata dello scontro di classe riuscendo a riportare il particolare al generale (le condizioni di vita dei neri e le uccisioni razziali) e il generale nel particolare (le brutali condizioni di classe negli States così come in tutto il mondo atlantico, esasperate dalla pandemia in un paese con oltre 40 milioni di disoccupati senza garanzie e 2 milioni di infetti).

Certo la strategia di Trump di polarizzare lo scontro sociale gli si è ritorta contro con settori dell’establishment – specialmente media e esercito – ormai impazienti di liberarsene e i ceti popolari di riferimento disillusi da possibili miglioramenti concreti delle proprie condizioni di vita, ma ciò evidenzia come una lotta che avanza e che aggrega ampi strati trasversali della popolazione costringa la classe dominante a seguire avendo perso l’iniziativa; altrettanto al seguito paiono i “compagni”, agendo principalmente ai margini del conflitto al netto di roboanti Zone Autonome ininfluenti nel quadro generale delle cose e che rischiano anzi di rinchiudere energie che dovrebbero invece mantenersi nelle strade (si guardi la fine del “movimento degli ombrelli” una volta rinchiusosi nella cittadella universitaria). È l’ininfluenza di un modello, quello dell’ attivismo radical-accademico imbevuto di Identity Politics che spande i propri Lifestyles anche qui in Italia, incapace di capire che i Safe spaces non sono fortezze ma trappole. L’insistenza sul concetto di Privilege che individualizza un senso di colpa invece di sistematizzare un’oppressione e collettivizzarne la resistenza è esemplificativo dell’incapacità di rompere con il modello neoliberale pretendendo di poterlo gestire secondo i propri termini.

In Europa riverberano i temi americani, soprattutto nel mondo anglosassone che – specialmente dopo la Brexit – vi gravita attorno più di quanto non faccia con il continente. Ma le differenze sono sempre più ampie, approfondite dal progressivo disimpegno statunitense e dalla crescente rivalità fra il ceto dirigente Trumpiano e quello euro-tedesco: l’Italia, più atlantista della Nato, continua però a ricevere il percolato di ciò che succede oltreoceano; ma è la traduzione con il contesto locale che raramente funziona o almeno quando è fatta in modo artificiale.

La “lotta delle statue” ha cercato per qualche tempo un qualcosa su cui coagularsi trovandolo poi nel monumento ad un personaggio disgustoso come Indro Montanelli. Certo, ce ne sono di ben più importanti nella storia nazionale: da quello a Graziani al mausoleo di Mussolini fino alle innumerevoli sculture sabaude di monarchi e politici sanguinari sia in Africa che nel Sud, ma il punto è che molti di questi sono distribuiti in un paese che è basato sulla provincia, in cui è intraducibile una lotta simbolica che si basa sui simboli fondativi di un tessuto metropolitano che proprio forse solo a Milano esiste.

La polemica che ne è seguita ha avuto risvolti positivi, soprattutto nel radicalizzare ulteriormente certe componenti giovanili e nel mettere in crisi la religione civile dello stato liberal-democratico esponendo la pochezza e la marcescenza specialmente della sua casta giornalistica. Un ulteriore tassello di un lento percorso di riconsiderazione di elementi (come la polizia nostrana, rimessa in discussione dall’atteggiamento muscolare durante la quarantena) che prima si pensavano inamovibili.
Il problema è però quando ciò che rimane del cosiddetto Movimento non riesce a vedere politicamente e tatticamente questa conflittualità: il ruolo del militante è quello di inserirsi e riuscire ad alzare l’asticella il più possibile, di essere in questo mondo e non di questo mondo, non quello di farsi assimilare convincendosi che una lotta sia fine a sé.

Nella provincia le piazze chiamate nel nome di Black Lives Matter hanno mostrato invece un’energia ancora più evidente visto il contrasto con i territori desertificati: numeri sorprendenti principalmente di una composizione giovane e razzializzata che per la prima volta ha preso la parola sulla propria condizione. La questione generazionale si mostra per come siano difficilmente intercettabili da un “noi” anagraficamente più vecchio, magari cresciuto con l’Onda e giunto a termine con il NoExpo; sono altre le grammatiche su cui si esprimono, altre le esperienze formative (il ruolo organizzativo preminente delle donne ispirato dalle ultime mobilitazioni femministe? La scelta di luoghi e modi di aggregazione diversi ispirata dai Fridays For Future? L’uso di altri media e di altri social in modo speculare ma non dissimile da quelli della composizione sociale dei vari comitati di protesta con il governo?).

A Modena il punto di ritrovo non è stata una piazza del Centro ma il Parco Ferrari appena fuori dallo stesso: una luogo che già segna una rottura con la routine funeraria dei cortei e dei presidi, che la composizione giovanile ha scelto esprimendosi nei proprio spazi di aggregazione, in ciò che conosce.
In generale le “Strutture” organizzate erano presenti a malapena in un ruolo di supporto; sono stati i giovani a chiamarla (specialmente tramite tam-tam social e passaparola) e a dominarla, passando alternativamente da riferimenti allle Pantere Nere e a Malcom X a sostenere posizioni non-violente e cittadiniste formando di fatto tutto un altro gruppo rispetto ai vari rappresentanti della Sinistra o del Movimento presenti. Non un qualcosa di omogeneo, comunque: c’era chi si poneva in modo più conflittuale e chi più vittimistico, c’erano numerose diverse compagnie di amici e compagni di scuola, c’erano età e nazionalità diverse. Una composizione – appunto – attraversata da contraddizioni in cui l’opposizione agli sbirri non è evidente ma striscia carsica magari come commento rabbioso contro la volante di passaggio.
Sono state le donne, spesso giovanissime, ad emergere poi in piazza in modo preponderante: sono state delle ragazze a convocare per prime la manifestazione, lo sono la maggior parte di coloro che hanno fatto gli interventi e che han retto il tutto riportandovi con forza la questione di genere, intersecandola con quella razziale.

Resta allora da proseguire uno schietto percorso di ricerca, analisi e formazione, aperto soprattutto a ricevere stimoli inaspettati e a partecipare a movimenti spuri e contraddittori magari di segno opposto uno con l’altro, prendendo dai movimenti esteri più avanzati soprattutto indicazioni di metodo piuttosto che contenuti difficilmente traducibili.

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Discorsoni / Analisi

Quando inizia la nostra Fase 2?

Passato lo shock iniziale della pandemia, capace di bloccare una nazione intera e buona parte del pianeta, si cominciano a definire e a delineare i veri progetti di questo governo e di quella parte di paese che di fatto comanda: Confindustria.

Il 2020 è l’anno del cambio alla presidenza di viale dell’Astronomia, il virus ha accelerato la scelta di quello che è l’attuale presidente, Carlo Bonomi. Una scelta voluta dalla parte oltranzista degli associati di Confindustria, che mette a capo dell’associazione un integralista, che nella loro ottica gli servirà per gestire la crisi e lavorare per il futuro.

Una scelta non plebiscitaria, che di fatto ci fa capire che dentro all’associazione degli industriali ci sono lotte interne di visione e gestione perfino del presente. Bonomi è un falco messo al potere, il quale non ha aspettato molto a dettare la linea al governo su a chi dovessero andare le centiniaia di miliardi di euro (la famosa «potenza di fuoco») stanziati in grande quantità dallo Stato: a sostegno delle imprese, della produzione, del profitto come variabile indipendente, a discapito di salari, redditi da lavoro, misure di welfare. Un’enorme cascata di liquidità creata sostanzialmente a debito, che andrà a sostenere la rendita privata, e peserà sulle finanze pubbliche, socializzandone le perdite. Chi pagherà quindi il conto? Già si può vedere come il costo della crisi da Covid19 stia venendo scaricato verso il basso, sulle nostre spalle. Bonomi, infatti, ha già fatto intendere l’obiettivo di derogare i contratti nazionali a quelli aziendali, per permettere a ogni impresa di regolare la propria gestione interna in base alle proprie esigenze. Sulla pelle dei lavoratori.

Un passaggio che sicuramente ha trovato sponda nell’accordo fatto con i sindacati confederali per la gestione della sicurezza nel mondo produttivo, ma anche nelle dichiarazioni del segretario della Cgil, Landini, che in continuità con la vecchia segreteria spinge per tavoli di confronto per una gestione condivisa col padronato nei posti di lavoro, assieme alla conta della rappresentanza. Sappiamo benissimo però che nel caso questi confronti trovino spinta, lanci, trattative e conferme, diventeranno la normalità, facendo ancora una volta pagare tutto ciò ai lavoratori.

Lavoratori che oggi si trovano ad affrontare il ricatto salute-lavoro. Fino ad oggi avevamo l’esempio in situazioni ben precise, come l’Ilva di Taranto, ma ora ci troviamo tutti, bene o male, a dover scegliere tra la vita o il salario. Come durante una rapina. Perché i brandelli di welfare, gia sgretolato, non saranno più sufficienti sotto promesse vane di un governo succube di padroni e banchieri, dove il prezzo dei beni di prima necessità sono in continuo aumento, non ci sono servizi atti alla tutela delle persone, e molte famiglie si troveranno a scegliere chi mandare al lavoro per poter badare ai figli, perdendo di fatto un’entrata già insufficiente per mandare avanti la baracca, tra casse integrazioni non pagate e ridicole briciole per le partite iva

Proprio queste ultime dopo due mesi non hanno risposte sul presente, se non appunto un “contentino” simbolico, ma sopratutto sul futuro, perché parliamoci chiaro: finché non si trova un vaccino, potranno mettere in campo tutte le Fasi che vogliono, ma tutto sarà precario, senza garanzie, la “normalità” un miraggio, e in molti saranno costretti a chiudere e si ritroveranno senza reddito. Di fronte a tutto ciò non ci sono certezze su possibili ricadute del virus in autunno, che nel caso tornasse ad aumentare picchi di contagio si trasformerebbe in un disastro sociale.

Dicevamo della sudditanza dei governi rispetto a Confindustria: tutto ciò è diventato palese, sotto gli occhi di tutti, chi comanda davvero in Italia. Perché di fatto non ci sono norme e azioni verso sostegni e welfare sociale che possano sostenere la gran parte delle persone. L’attualità imporrebbe che lo stato sostenesse lavoratori e famiglie, e che tutte le azioni rivolte verso l’Europa servissero per finanziare il salario diretto e indiretto, dalla sanità, alla scuola, il blocco degli affitti, il blocco del pagamento delle spese delle partite Iva, permettendo a tutti di avere quelle certezze che permetterebbe in primis di vivere e di riaprire una volta finita l’emergenza.

Invece come accade, si guarda sempre ai grossi “padroni del vapore” del Nord, quella parte di Confindustria votata all’export e legata a doppio filo alla Germania, agli industriali tedeschi, e quindi all’Euro, a cui forniscono lavorati e pezzi in subfornitura per le proprie produzioni ad alto valore aggiunto. Padroni che piangono perché non possono stabilizzare i profitti, chiedendo subito miliardi per sostenere le proprie aziende, alla faccia del libero mercato che loro dicono di sostenere. È questo il lessico del potere e dei rapporti di forza: aiutare le imprese “è una priorità” e se dai loro soldi si usa dire che sono “sostenute”. Se i soldi le dai alle persone in difficoltà, queste invece diventano “sussidiate”. Le prime incentivate, i secondi qualcosa di vicino ai parassiti. Un manifesto ideologico

Di fronte a questo scenario, se confindustria guarda già alla ripartenza post virus, “noi” — un noi molto largo, ma che ci riguarda direttamente — arriviamo all’appuntamento navigando a vista, facendo un enorme fatica a capire in che direzione andare. Una cosa certa è che bisogna tentare di entrare nelle contraddizioni laceranti (come quella salute-salario) e nelle mobilitazioni sporche che questa fase ci pone davanti, senza puzza sotto il naso, capire i margini di intervento e porre le basi quanto meno per fare un necessario scarto in avanti in termini di rottura con quello che fino ad ora siamo insufficientemente stati.
Senza lacrime per le rose.