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Discorsoni / Analisi

Raffaele Sciortino – La temperatura del sistema. Guerra e scongelamento della crisi globale

Il mondo che conoscevamo prima del 24 febbraio 2022, oggi, non esiste più.

È a partire da questo dato di fatto, terrificante nella sua chiarezza, che il 2 aprile abbiamo voluto organizzare un momento di discussione, a Modena, sul mondo di domani, la guerra in Europa e il destino della globalizzazione, di cui oggi cominciamo a riportare gli interventi. Due invitati d’eccezione: Raffaele Sciortino, autore di I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios 2019) oltre che di numerosi altri contributi, e Silvano Cacciari, della redazione di «Codice Rosso» di Livorno e autore di La finanza è guerra, la moneta è un’arma (in uscita a breve per La Casa Usher). Una discussione di alto livello quindi – o tutto o niente, ormai dovreste conoscerci –, per capire quella che è la “temperatura” del sistema capitalistico globale, al netto del riscaldamento climatico e dei “condizionatori spenti”; un “provare la febbre” a una fase che, già prima della precipitazione ucraina, appariva torrida, e che la messa in mora di un nuovo conflitto armato dentro l’Europa, tra attori e potenze mondiali sull’orlo della crisi di nervi, non può che “accompagnare solo” (cit.) al punto estremo di fusione.

Non ci interessa ripetere la cronaca della guerra o dare cristalline indicazioni politiche. Ci muove, per ora, l’urgenza di possedere la complessità di tendenze, traiettorie e scenari. Sebbene questa crisi sia (fino adesso) localizzata in Ucraina, si dispiega infatti su vari livelli – militari, economici, geopolitici – che abbracciano il mondo intero, sia fisico che immateriale; che chiamano in causa l’egemonia del dollaro, l’ascesa della Cina, la decadenza occidentale – anche se ben vedere ci sono tanti Occidenti, e questa crisi mette in luce i diversi loro interessi: l’Europa, dell’Ovest e dell’Est, quella mediterranea, la Russia eurasiatica, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il resto dell’anglosfera, e via discorrendo. Tutti attori che stanno giocando delle partite su vari livelli: partite molto pericolose, dove si gioca indiscriminatamente col fuoco e il ferro, oltre che con il nucleare, sulla nostra pelle.

Riassumendo, il grande tema è capire che ne sarà della globalizzazione che abbiamo visto, e vissuto, circa dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 in poi – per stare mediani tra la crisi degli anni Settanta e quella del 2008. A nostro parere, questa crisi è anche uno degli aspetti lunghi di questa dissoluzione, una delle sue conseguenze lunghe, approfondita dalla frattura del 2008 e che il Covid non ha fatto altro che accelerare. E quindi, cosa ne sarà del mondo che abbiamo abitato fino a oggi? È per questo che abbiamo voluto mettere in relazione la guerra – che dopo decenni ha l’Europa come epicentro (anche se in verità c’era già negli anni Novanta con la guerra nei Balcani, sebbene si tenda un po’ a dimenticarlo), ma che può veramente escalare e diventare mondiale – con il destino del sistema globale, che è il grande punto interrogativo.

L’unica cosa certa, a nostro avviso, è che andiamo verso un nuovo disordine mondiale. L’abbiamo chiamata, non a caso, una nuova “età dei torbidi”. Sta a noi comprenderla, e riuscire ad anticipare il mondo di domani da una prospettiva di parte, o quantomeno autonoma dalle narrazioni dominanti, dalle propagande, dagli “interessi generali” che si si condensano quotidianamente attraverso redazioni, giornali, talkshow, bombardandoci – metaforicamente, s’intende, ma con proporzionale devastazione delle nostre capacità e soggettività. Sempre mossi da cattive intenzioni, con la nostra parte ancora tutta da costruire. Buttiamo, quindi, senza paura lo sguardo nell’abisso: è solo questione di tempo prima che l’abisso guardi noi.

 

Raffaele Sciortino

Cercando di non essere troppo lungo, oggi nominerei tre punti, tre considerazioni, e ne approfondirò sostanzialmente uno: qual è la temperatura del sistema mondo da un punto di vista in primo luogo economico, e quindi anche geopolitico e sociale. Le altre due considerazioni sono invece le seguenti: la prima penso che sia di fondo condivisa dai presenti ed è la sovradeterminazione di questo conflitto – che vede ovviamente nell’avanscena la Russia e l’Ucraina – da parte degli Stati Uniti. Permettetemi dunque un breve preambolo.

Mi è capitato di leggere ultimamente Günther Anders, il suo testo L’uomo è antiquato. Riflettendo sulla cecità dell’umanità uscita dalla Seconda guerra mondiale rispetto all’apocalisse possibile, cioè la bomba e l’autodistruzione nucleare, a un certo punto l’autore fa una riflessione, che butta un po’ lì. Dice che la forza di un una concezione non sta tanto nelle risposte che dà, quanto nelle domande che soffoca, che non lascia venire fuori. Ora, se al posto di “concezione” mettiamo “soft power statunitense” – e cioè uno degli effetti fondamentali dell’egemonia imperiale statunitense negli ultimi decenni – mi pare piuttosto che, sebbene embrionalmente, in maniera contraddittoria, per così dire soffocata, stiano venendo fuori numerose domande. Non solo fuori dall’Occidente, dove la cosa è abbastanza evidente, ma anche in Occidente e tra la gente comune (non c’è bisogno qui di parlare di soggettività politica). E la domanda che ci si fa è: qual è il ruolo degli Stati Uniti in quello che sta succedendo? E non è forse che questo ruolo sia fondamentale, se non prioritario? Questa è la prima considerazione che rimando a voi per la discussione che seguirà.

Il secondo punto è quello che toccherò, ovvero la temperatura complessiva del sistema mondo e quindi la gravità di questa situazione. Ancora una volta non possiamo sapere in che misura, ma siamo sicuramente di fronte a un punto di svolta, come si diceva prima. E una terza domanda che vi rilancio è come sia possibile, a quali condizioni, su che basi costruire un movimento contro la guerra. In altri termini, quali sono le difficoltà (anche, ma non in primo luogo soggettive) che derivano dalla situazione che cercheremo cogliere nel suo insieme.

Voglio qui approfondire con voi – approfondire è una parola grossa; diciamo articolare – un ragionamento sul fatto che la guerra ucraina è il precipitato di una situazione più complessiva che, come si notava prima, rimanda quantomeno allo scoppio della cosiddetta crisi finanziaria del 2008. Ora, per essere il più sintetico possibile e spero non troppo didattico, direi che la crisi scoppiata nel 2008 con l’epicentro negli Stati Uniti, e che solo in superficie è una crisi finanziaria, è una crisi in realtà sistemica.

A partire dalle risposte che le sono state date dal sistema finanziario statunitense, dallo Stato statunitense e poi a cascata da tutti gli altri attori globali, è stata sostanzialmente congelata. Congelata però non senza aver innescato due processi fondamentali, di cui oggi vediamo una prima precipitazione forte a livello geopolitico. Il primo processo è quello che l’«Economist» (la Bibbia del capitalismo mondiale da metà Ottocento in poi) ha chiamato la slowbalization, da slow, lento. La globalizzazione ascendente, dell’ultimo trentennio perlomeno, anche prima della caduta del Muro di Berlino, non ha subito interruzioni perlomeno nei suoi tre indici fondamentali, ovvero nel commercio mondiale rispetto al prodotto netto globale prodotto in un anno, nella costituzione di filiere globali della produzione e chiaramente della logistica, e negli investimenti esteri. Non c’era e non c’è stato finora un arresto vero e proprio, ma osserviamo sicuramente un rallentamento degli indici di crescita. Quindi appunto una slow-balization, una globalizzazione che rallenta.

Contestualmente a livello produttivo e più in generale a livello di capacità di rimettere in moto l’accumulazione capitalistica e quindi la macchina dei profitti, con alti e bassi e in situazioni ovviamente differenziate, per quanto riguarda l’Occidente (diverso il discorso per l’Asia orientale e in particolare per la Cina) noi abbiamo assistito a una sostanziale stagnazione. Il termine non è precisissimo perché appunto le situazioni sono differenziate sia tra l’Europa e gli Stati Uniti, sia internamente all’Europa; ma diciamo fondamentalmente una crescita asfittica e ancor più un’incapacità di lanciare l’accumulazione di capitale. Il che è andato insieme, come effetto-che-diventa-causa, con un indebitamento crescente impulsato (proprio per bloccare gli effetti dirompenti economici, e poi sociali e politici della crisi globale) dalle banche centrali, in particolare dalla Federal Reserve e poi a cascata dalla Banca centrale giapponese, britannica e poi, da ultima, dalla Bce allora guidata da Draghi.

Un indebitamento che non ha pari nella storia del capitalismo e che si è ampliato ulteriormente durante la crisi pandemica. I bilanci delle banche centrali hanno raggiunto indici impensabili, per esempio quello appunto della Banca centrale statunitense (adesso non ricordo precisamente la cifra) che si aggira tra i cinque e i sette trilioni di dollari, che equivale a una cifra tra un terzo e la metà del prodotto interno lordo statunitense. Il che – e non è un punto che possiamo approfondire – ovviamente non è senza ripercussioni su quel fenomeno scattato nell’ultimo annetto e mezzo (nel cosiddetto “rimbalzo” postpandemico) che è l’inflazione.

Beh, già solo il nominare questi macro-processi ci indica che quella che è stata la globalizzazione negli ultimi trenta-quarant’anni non può non essere andata incontro a delle incrinature, se non a delle vere e proprie brecce – anche tenuto conto del fatto che in questi dieci anni tra il 2008 e lo scoppio della crisi globale, la Cina è intervenuta se non a salvare l’economia mondiale e l’Occidente, comunque ad agire come una valvola di sfogo delle difficoltà dell’economia. Ma andiamo per gradi e facciamo un passo indietro.

Cos’è stata la globalizzazione? O meglio, cos’hanno costituito – sul piano geopolitico, sul piano sociale e della lotta di classe, sul piano strettamente economico – quegli assemblaggi che hanno dato come risultato la globalizzazione a guida statunitense?

Alla base ci sono almeno tre grandi processi. Il primo è processo geopolitico, che descrive il riavvicinamento Stati Uniti-Cina, avvenuto a partire dall’inizio degli anni Settanta nel passaggio da Mao a Deng, ossia nel momento in cui gli Stati Uniti stavano subendo una grossissima crisi anche a causa della sconfitta in Vietnam e delle lotte sociali del “lungo Sessantotto”.

Sul piano strettamente economico e monetario, è cruciale lo sganciamento del dollaro dall’oro nel 1971, il che ha dato il via alla fluttuazione delle monete senza una base fisica, per così dire. Sintetizzando, nel regime di Bretton Woods post-Seconda guerra mondiale il legame stretto, fisso, tra dollaro e oro e su cui si innestavano tutte le altre monete, aveva fatto del dollaro la moneta di riserva mondiale e il mezzo di pagamento internazionale. Dal ‘71 in poi, invece, il dollaro segue una traiettoria e una dinamica “a fisarmonica”: nel senso che lo sganciamento dall’oro permette alla Banca centrale statunitense di stampare moneta a volontà, a seconda delle esigenze geostrategiche degli Stati Uniti, ora stampando, ora tirando le redini e stringendo. Nel primo caso, scambiando con il dollaro la produzione mondiale, ci si permetteva attraverso di esso un controllo, un comando su una buona fetta del valore prodotto globalmente; per converso nel secondo caso, in situazioni mutate, si chiudeva la fisarmonica, per riattirarlo negli Stati Uniti, di contro a un dollaro che se troppo inflazionato rischia di perdere valore (e perdeva valore). Una tattica abituale consisteva, per esempio, nell’alzare i tassi e quindi riattirare negli Stati Uniti i capitali che rischiavano di volarsene su altri lidi. Ovviamente la questione è molto più complessa di quello che sto dicendo qui, ma è giusto per dare un’idea di come è andata a costituirsi dagli anni Settanta quello che possiamo chiamare (e che è un fenomeno inedito nella storia del capitalismo mondiale) l’imperialismo finanziario del dollaro.

Governare attraverso il dollaro vuol dire anche governare i flussi di valore globali attraverso l’indebitamento. Perché un dollaro liberamente fluttuante, ora inflazionato ora deflazionato a seconda delle vicende geopolitiche ed economiche interne ed internazionali, ha permesso agli Stati Uniti di accumulare un enorme deficit interno e un disavanzo commerciale delle partite correnti con l’estero altrettanto enorme. In breve, per la prima volta abbiamo un soggetto egemone che comanda il mondo attraverso il debito, il suo debito. Ricordo solo che dalla Prima e poi ancor più dalla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti invece erano usciti come primi creditori di quelle che erano le potenze forti di allora, quelle europee e su tutte la potenza egemone di allora, la Gran Bretagna.

Il terzo macrofenomeno che ha contribuito alla nascita della globalizzazione senza che ci sia stata, come dire, una regia condivisa – cosa che nel capitalismo è impossibile, a meno di abbracciare teorie complottiste – è stata la lotta del “lungo Sessantotto” e il suo assorbimento. A tal proposito è importante una precisazione. Non è che sia stata semplicemente una sconfitta della lotta di classe in Occidente per come si era mossa dagli anni Sessanta agli anni Settanta. C’è stato semmai un suo affievolirsi e anche delle sconfitte importanti, ma soprattutto un assorbimento delle istanze del Sessantotto – quelle istanze libertarie e di ricerca di autonomia che in parte si erano rivolte anche contro la dipendenza dal lavoro salariato – che in qualche modo la globalizzazione ascendente era riuscita ad assorbire portandole e declinandole sul proprio terreno, cioè a favore di una ripartita dell’accumulazione capitalistica.

Ora, questo ci spiega anche, o può spiegare e plausibilmente secondo me, anche un altro fenomeno. Cioè il fatto che essendo accidentale il nuovo tipo di dominio che gli Stati Uniti hanno instaurato sul mondo dopo gli anni Settanta, nella fuoriuscita dalla crisi del lungo Sessantotto – un dominio, attenzione, che ha avuto necessariamente come altro pilastro (ovviamente in termini asimmetrici, di potenze e di profitto) la Cina, cioè l’apertura dei mercati occidentali (statunitensi in primis) all’esportazione cinese, il che ha permesso l’internazionalizzazione delle produzioni, la costituzione di filiere globali della produzione che hanno permesso alla Cina di fare quell’incredibile ascesa, in trent’anni sostanzialmente, che gli altri paesi a capitalismo maturo hanno fatto in cento, centocinquant’anni, però sempre con una posizione, ovviamente, asimmetrica, non di predominio comunque quella cinese – ebbene, dicevo, è evidente che in questa architettura, in questo assemblaggio globale – grazie a contraddizioni proprie quali la cosiddetta finanziarizzazione, cioè il fatto che gli Stati Uniti non abbiano deindustrializzato completamente la propria ossatura produttiva, spostandosi piuttosto su segmenti “alti” della tecnologia, mentre il peso dell’economia finanziaria e speculativa cresceva in maniera immane, e attraverso questo controllo della moneta e della finanza che abbiamo descritto – gli Stati Uniti sono riusciti a captare, a catturare una buona parte dei flussi globali di valore, subordinandoli in maniera nuova, inedita. Inedita perché negli anni Settanta si pensava a un declino inesorabile degli Stati Uniti, e non è stato così.

Dunque, è chiaro che questa complessa architettura che ho giusto tratteggiato – spero in maniera non troppo confusa – nel 2008 ha iniziato a mostrare le sue crepe, sia per contraddizioni interne, ma anche perché la Cina a un certo punto è servita a instaurare questo nuovo dominio statunitense, però ha fatto la sua ascesa economica e quindi – sia con l’aumento dei redditi, dei salari, sia con le lotte di classe interne in Cina – ha iniziato in qualche modo, se non a pretendere, comunque ad aspirare a una fetta maggiore di profitti globali.

Che cosa ha comportato tutto ciò? Sul versante cinese, la consapevolezza nelle élites, nei vertici del partito-Stato, di questo rapporto asimmetrico, sbilanciato, eccessivamente sbilanciato, che vuole e voleva sostanzialmente dire fondare la sua ascesa tutta sulle esportazioni per il mercato occidentale. Con la crisi del 2008 questa strategia si rivelava tuttavia una scommessa precaria, il che ha sorpreso la dirigenza cinese, e in un qualche modo hanno subito dovuto farci i conti. Per ovviare alla crisi, la Cina quindi è intervenuta con un’emissione di liquidità pazzesca nel 2009, e in questo modo ha anche aiutato l’Occidente. Ma il suo modello di sviluppo economico non può trapassare a un indebitamento continuo, che creerebbe una bolla simile a quella dell’Occidente e destinata prima o poi a scoppiare, lasciando morti e feriti in un percorso come quello degli ultimi trent’anni che è stato sì eccezionale, ma che comunque è pieno di contraddizioni, economiche sociali e politiche.

Dunque la Cina, a partire grossomodo dall’indomani della crisi globale, ha messo in campo un piano, una politica industriale, una politica economica finalizzata risalire le catene del valore. Per farla breve, si tratta di un ribilanciamento dell’economia interna e del rapporto della sua economia con l’esterno. In termini concreti questo significa dipendere meno dalle esportazioni, incentivare il proprio mercato interno, essere meno esposti agli impulsi finanziari occidentali e proiettarsi all’esterno con le cosiddette Vie della Seta. Ovviamente, in tutto ciò diviene fondamentale per la Cina salire a delle produzioni tecnologicamente più avanzate, soprattutto in un campo in cui è decisamente indietro che è quello dei microchip. Si noti come l’attenzione venga rivolta non tanto e non solo alla produzione digitale per il consumo di massa, quanto al design, alla produzione e alla progettazione dei circuiti integrati che ne stanno alla base (la base poi anche, ovviamente, delle tecnologie militari).

Questo piano di ribilanciamento cinese, se riuscisse, sarebbe per le multinazionali statunitensi e occidentali in generale – e soprattutto per il controllo statunitense attraverso il dollaro – non dico la fine, perché non è questa l’intenzione e neanche la capacità, considerando i rapporti di forza che abbiamo in Cina, ma comunque un serio colpo. È esattamente questa ipotesi che ha scatenato la reazione statunitense, già abbozzata nel corso dell’amministrazione Obama e poi lanciata con la cosiddetta guerra commerciale di Trump. Ricordiamo che la guerra commerciale non ha tanto come vero obiettivo quello di riequilibrare la bilancia commerciale tra Cina e Stati Uniti, perché come dicevo prima non è questo il problema. Gli Stati Uniti dominano il mondo tranquillamente facendo debito. Il problema è mantenere la priorità e il predominio del dollaro, e impedire alla Cina di risalire tecnologicamente a stadi più elevati di accumulazione capitalistica.

E infatti noi vediamo che c’è una perfetta continuità tra l’amministrazione Trump e l’amministrazione Biden. Biden non ha fatto altro che affinare questa strategia che ha preso la forma del cosiddetto decoupling tecnologico selettivo. Con decoupling si intende lo sganciamento della Cina dall’accesso a capitali e tecnologie elevate occidentali, in un contesto internazionale in cui gli Stati Uniti consapevolmente impongono gli stessi meccanismi anche ai paesi dell’Occidente e agli alleati dell’Asia (Giappone e Taiwan). “Selettivo” perché ovviamente per rompere del tutto con la Cina sarebbe per gli Stati Uniti come uccidere la gallina dalle uova d’oro, il che non è, almeno attualmente, né nei piani né fattibile. Contemporaneamente sul piano geopolitico gli Stati Uniti si sono riorientati verso l’Asia orientale e hanno varato una strategia di accerchiamento, di nuovo contenimento, della Cina, il cui fulcro sono il Mar Cinese (settentrionale e meridionale) e Taiwan. Per questo hanno voluto, se non “abbandonare”, almeno rilassare la presenza in Medio Oriente, e allo stesso tempo lasciare l’Afghanistan e buttarsi su quel nuovo versante.

Ora, cosa c’entra la Russia, l’Europa orientale e l’Asia Centrale in tutto questo?

C’entra innanzitutto perché di lì passano alcune direttive strategiche delle Vie della Seta, che per la Cina sono fondamentali perché, essendo stretta sui mari (da cui dipende, per esempio, per l’arrivo del gas, del petrolio e tutta l’esportazione di merci), cerca di spostarsi via terra passando attraverso il centro-Asia e l’Asia meridionale. La Russia è cruciale già solo per questo, e la stessa Ucraina è uno snodo, previsto, fondamentale delle Via della Seta. Ma anche perché da un punto di vista politico e geopolitico è evidente che la Russia ha nella Cina una sponda fondamentale per resistere alla pressione delle Nato e degli Stati Uniti; e a sua volta la Cina ha nella Russia sia una sponda geografica sia una sponda complementare da un punto di vista economico. La Russia esporta principalmente materie prime agricole e minerarie, e la Cina è l’officina del mondo. È intorno a questo rapporto – non un’alleanza ma comunque una partnership strategica – che possono orbitare tutte quelle aree e quei bacini territoriali che non vogliono sottostare completamente al diktat di Washington.

Ora – e vado verso la conclusione – qui emerge la contraddizione di fase che ci accompagnerà ovviamente per qualche decennio se non esploderà prima. La contraddizione di fase sorge dal bisogno, speculare e insieme opposto, per Cina e per Stati Uniti di conservare la globalizzazione; e dalla necessità al tempo stesso di mettere in atto delle strategie che minino la globalizzazione stessa, che quindi tendano verso una sua crisi e poi, eventualmente, verso addirittura un rinculo, una deglobalizzazione.

Cosa voglio dire?  La Cina necessita della globalizzazione perché è in mezzo a un guado. Necessita di continuare ad esportare merci, di importare materie prime da mezzo mondo, ma soprattutto di accedere a tecnologie e capitali che ancora non possiede. Il problema è che la Cina vorrebbe una globalizzazione meno asimmetrica, potremmo dire più multipolarista, multilaterale. “Un’altra globalizzazione”, come si diceva vent’anni fa nel movimento noglobal; il che però produce chiaramente la reazione durissima degli Stati Uniti, di cui però abbiamo visto e stiamo vendendo solo l’inizio. Gli Stati Uniti infatti sono costretti a rispondere con il decoupling, quindi cercando di sganciare e di separare la Cina dal contesto globale (via sanzioni, via dazi, via quello che vedremo), ma al tempo stesso è chiaro che qui il rischio per gli Stati Uniti è di darsi la zappa sui piedi. Cioè di troncare, di interrompere quei flussi, quelle catene del valore che in buona sostanza sono la fonte del dominio mondiale del dollaro e quindi della sua egemonia imperiale mondiale.

Quindi, la contraddizione sta proprio nel produrre effetti che contraddicono quelle che sono le condizioni, ripeto, speculari e opposte per la Cina – una globalizzazione alternativa e meno asimmetrica, meno occidentocentrica, meno dollaro-centrica – e per gli Stati Uniti – interrompere i flussi con la Cina, che però intanto è diventata l’officina globale, senza i quali, come abbiamo visto anche durante la pandemia, si rischiano di bloccare le filiere globali del valore. Contestualmente, e qui veramente vado a chiudere, il problema di fondo è anche quello che, nel frattempo, a ridosso della crisi si è arrivati, attraverso l’indebitamento e ad altri meccanismi, alla creazione di una bolla di capitale fittizio e speculativo enorme che, se l’accumulazione deve riprendere, in qualche modo deve essere sgonfiata, e deve essere sgonfiata anche violentemente. E guardate, con fenomeni come l’inflazione, le guerre (con le distruzioni che comportano, di capitali e ovviamente di esseri umani) e probabilmente passando attraverso una stagflazione (cioè stagnazione produttiva insieme a un’inflazione), si arriverà di nuovo a una grande recessione o comunque una recessione consistente.

Per quanto riguarda l’Europa, leggevo in questi giorni i dati sulla Germania: l’Europa chiaramente è la più colpita da questa crisi ucraina (ma anche gli Stati Uniti non stanno benissimo quanto a inflazione) e be’, tecnicamente è quasi già recessione, soprattutto se confrontiamo i dati con il pre-pandemia, con il 2019. Si avrebbe quindi una grande recessione che comporterebbe svalorizzazioni di capitali, chiusura di aziende, licenziamenti, distruzione: e la distruzione è la conditio sine qua non di una ripresa dell’accumulazione globale. Solo che nel frattempo questo avviene con crisi, guerre, e dove ogni attore a partire dagli Stati Uniti vorrebbe e cercherà di scaricare i costi di questa svalorizzazione sugli altri. Ma lo stiamo già vedendo nella crisi attuale: vediamo chiaramente l’atteggiamento degli Stati Uniti – proseguire la guerra, l’Ucraina deve vincere – e i danni – sia a livello di prezzo dell’energia, ma in generale, con tutto quello che sta rischiando l’Europa – scaricati appunto sull’alleato.

Quindi, e chiudo, può essere (ce lo dirà il futuro, magari anche prossimo) che la guerra in Ucraina sia un primo punto di svolta della situazione; un punto di sblocco, di scongelamento della crisi che ho cercato, forse un po’ male, di descrivere. Un’inversione del ciclo nel quale, non a caso, assistiamo a una politica della Federal Reserve che segna una deviazione (per adesso non proprio a 180 gradi, ma potrebbe comunque arrivarci) rispetto al “denaro facile” di tutti questi anni. Sta infatti innalzando i tassi per ridare forza al dollaro e riattirare capitali negli Stati Uniti: è ancora una volta quell’effetto fisarmonica del dollaro di cui parlavamo prima. Parimenti lo stesso aumento dei prezzi dell’energia danneggia pesantemente l’Europa come fu già nella crisi energetica del 1973; ma a misura che l’energia viene acquistata e scambiata in dollari non penalizza gli Stati Uniti (o non li penalizzerebbe nella stessa misura se non fosse per l’inflazione concomitante). Ripeto, a misura che il dollaro rimanga moneta di scambio internazionale.

E qui, con quello che sta facendo la Russia (per esempio chiedendo di pagare in rubli nel commercio delle materie prime energetiche) e con quello a cui sta puntando la Cina (cioè a sganciarsi un minimo dal dollaro e via discorrendo) per la prima volta, anche se non si arriverà ovviamente alle estreme conseguenze subito, per la prima volta il tabù è nominato, il tabù è infranto. Qualcuno sta pensando a un’economia mondiale non più sottomessa al dollaro, cioè sta pensando a processi di dedollarizzazione. Ora, che cosa ne verrà fuori nessuno lo sa, ma è evidente che il materiale è esplosivo. Tra crisi della globalizzazione e possibile incipiente di deglobalizzazioni, reazione durissima degli Stati Uniti, processi (o comunque intenzioni, strategie) di dedollarizzazione, è evidente – e qui vi lascio – che la crisi ucraina è la precipitazione di un grumo di contraddizioni che sono ormai sistemiche.

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Discorsoni / Analisi

Tranquilli, è solo il primo mese di guerra. Poi peggiora

La guerra ha legato tra loro, con catene di ferro, le potenze belligeranti, i gruppi contendenti di capitalisti, i “padroni” del regime capitalistico, gli schiavisti della schiavitù capitalistica. Un grosso grumo di sangue: ecco che cos’è la vita sociale e politica dell’attuale momento storico.

Lenin, Lettere da Lontano.

 

I democratici antifascisti per il battaglione Azov.

I razzisti sovranisti per la denazificazione.

I tecnocratici europeisti per il presidente comico e populista.

Gli anarchici per i sacri confini dello Stato ucraino.

I comunisti per l’Impero zarista di tutte le Russie.

I nazionalisti per l’Eurasia da Lisbona a Vladivostok.

Gli indipendentisti per l’imperialismo anglosassone Nato.

I pacifisti per la guerra mondiale.

I generali per la pace tra i popoli.

Giletti in diretta da Odessa, con «l’occhio della madre», «la carrozzella col bambino», «gli stivali dei soldati».

E il liberatorio grido fantozziano, «È una cagata pazzesca!», bollato come ignobile propaganda putiniana.

Scusate, sbagliato tempolinea.

Ed è solo il primo mese di una guerra che, lungi dal concludersi brevemente e dal considerarci non coinvolti, vedremo ulteriormente peggiorare, prima di migliorare.

Sempre se potrà migliorare. Per i morti, per i caduti, la guerra è già finita. Per tutti gli altri, continua la danza macabra, sconsiderata, sull’abisso: dell’escalation globale, della mutua catastrofe assicurata. «Siamo pronti a ogni sacrificio», ha annunciato alle Camere il premier-tecnico Mario Draghi all’inizio del conflitto. «L’Italia farà la sua parte». Scrosci di applausi. Sedicenti rappresentanti del popolo italiano a ratificare l’ora delle decisioni irrevocabili, prese altrove: Washington, Londra, Bruxelles. Senza che nessuno avesse, o abbia ancora chiesto, se veramente gli italiani siano disposti a questo sacrificio. L’ennesimo. Il più estremo. Dopo due anni, stremanti, di pandemia. Dopo dieci, durissimi, di crisi, stagnazione, emigrazione, impoverimento. Ci stanno chiedendo il sangue. Questa volta, anche quello vero.

O Kiev o tutti accoppati! L’ora delle decisioni irrevocabili. Ma chi pega?

L’Italia è in guerra, così è stato deciso. Per ora combatte con sanzioni finanziarie, commerciali, economiche, che stravolgeranno irrimediabilmente una già fragile economia – non solo nazionale, ma globale. La finanza come momento della guerra – un avvertimento alla Cina, ma lo sapevamo già – oggi più che mai ibrida. Condotta su più livelli. La globalizzazione che abbiamo conosciuto a partire dal 1991 non sarà più la stessa. E armi agli ucraini, puntualmente arrivate nelle mani di reparti – non più milizie – di neonazisti, come quelli di Azov. «In alcune città, è più facile ottenere una mitragliatrice che il pane», raccontano compagni ucraini che non sentirete nei talk-show, ma che vi traduciamo. «I militari e i gruppi fascisti prendono in ostaggio le popolazioni di Kharkiv, Kiev e Mariupol, usando la gente come scudi umani». A difesa «dei nostri valori», si intende: democratici, inclusivi, occidentali, contro la «barbarie orientale» di sempre. Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia: cancellati in un sol colpo. Tutte le geopolitiche sono uguali, ma la mia è più uguale delle altre. È la Siria 2.0, alle porte di casa, con arsenali atomici e fratricidio di popoli. Una tragedia non solo russa, ma europea.

Questo meme è offerto dalla strutturale tendenza alla guerra del sistema capitalistico nella sua fase suprema, l’imperialismo.

A Ovest già si preparano gli eserciti. Le licenze sono revocate. Gli arsenali si riempiono. I fucili vengono oliati, mentre si trincera il fronte interno. È caccia al “putiniano”, al “russo”, al “traditore”. O con Noi, o con Lui. Se questa non è già guerra… almeno risparmiateci la retorica democratica.

Per questo: non con Lui, ma contro di Voi.

Contro il nemico in casa nostra: l’imperialismo Nato, la tecnocrazia europea, il governo della crisi trasformata in guerra.

Contro il nemico che marcia alla nostra testa: la sinistra imperiale, la sua chiamata alle armi, che soffia sul fuoco appiccato alle nostre porte.

L’unica posizione possibile, da qui dove stiamo.

Dario Fabbri può accompagnare solo. Chi non viene è Giletti bombardato a Odessa da fuoco amico.
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Discorsoni / Analisi

Grigio capannone. Due parole su meme, Cina e transizione ecologica

Communism : r/ADVChina
Sui social sta girando molto, negli ultimi giorni, questa foto delle olimpiadi invernali di Pechino. Ritrae un impianto per sci allestito nel sito delle acciaierie Shougang, oggi spento per obsolescenza e riconvertito – così dicono: noi non siamo di Pechino.
L’immagine è sicuramente suggestiva: stuzzica non poco le sensibilità distopiche e catastrofiste di un certo immaginario contemporaneo, attratto al contempo sia dal weird sia dalla sci-fi. Diciamo di “un certo” perché, come sappiamo, la struttura delle piattaforme dove esso si può saggiare non può che produrlo in bolle, spesso incomunicanti tra loro. Un’immagine che per una bolla ha significato, per la bolla a fianco può non averne.
In questo caso, la forza dell’immagine sta proprio nel riuscire a forare più bolle, e trovare un senso mediano tra esse, quando anche di segno opposto. Soprattutto tra le fasce giovanili istruite, millennial e Z, è già diventata meme. E in quanto tale strumento del meme warfare, uno dei tanti campi di battaglia dove si prepara, combattendolo già, il conflitto principe che informa i nostri tempi (per non parlare degli spazi, non solo politici): quello degli Stati Uniti contro la Repubblica popolare cinese – Occidente contro Oriente, sai che novità.
Nel tempo dell’immagine, la guerra si fa in particolar modo iconografica, lo sanno bene le agenzie statali e private predisposte a condurla. L’immagine dello scivolo bianco per sci olimpionico alle acciaierie Shougang, un puntino brillante sommerso dallo squallido grigiore industriale circostante, un’isola di luce circondata dalla plumbea cappa dell’inverno carbonfossile, in candido contrasto con il territorio avvelenato, violentato e deturpato dalla velocità – e potenza “novecentesca” – dell’impetuoso sviluppo cinese, si presta bene a convergere nella narrazione propagandistica della “Transizione ecologica”, indirizzo politico della ristrutturazione capitalistica postpandemica, in particolare europea.
L’arruolamento delle sensibilità ambientali ed ecologiste trasversali, ma soprattutto progressiste, predominanti appunto tra le generazioni di venti-trentenni più istruite, in funzione anticinese è lo specchio della ridefinizione delle grammatiche e del riposizionamento dei campi politici in corso, un’anticipazione di quali saranno i fronti per cui si combatterà (già si combatte) la guerra per determinare la forma della globalizzazione uscita dalla pandemia.
«Guardate, la distopia totalitaria cinese. Il paese che inquina più di tutti nel mondo. Nemico della Transizione ecologica. Rischiamo l’estinzione come specie. Se non smette di portare la terra al collasso, qualcuno dovrà costringerla a fermarsi…» Non sappiamo voi dove vivete, ma, a parte lo scivolo, questa foto è letteralmente Sassuolo…
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Discorsoni / Analisi

Sindacati pagliacci da licenziare!

GKN a Firenze, Gianetti a Monza, Timken a Brescia. Sono solo le ultime e più note fabbriche che hanno chiuso nella notte, di nascosto, scappando come ladri.

Centinaia di operai e operaie che si ritrovano senza lavoro da un giorno all’altro, con una mail e tanti saluti dall’Amministratore delegato. Che si vanno ad aggiungere alle migliaia di lavoratori interinali, delle cooperative, precari lasciati a casa dai padroni, che siano italianissimi industriali, multinazionali o fondi speculativi.
Si scrive ristrutturazione, si legge macelleria. Ed è solo l’inizio. Sono le conseguenze dello sblocco dei licenziamenti voluto da Confindustria, appoggiato dal governo Draghi – e da tutti i partiti dal PD alla Lega, dai Cinquestelle alla Meloni – e sottoscritto dai sindacati senza colpo ferire.
Padroni e politici fanno il loro lavoro: profitti e poltrone, a ogni costo necessario. Ma i sindacati? Gli stessi sindacati che oggi si dicono dalla parte dei lavoratori ma che giusto ieri erano al tavolo con governo e Confindustria per concordare, tutti insieme appassionatamente, la macelleria che viene. Che oggi s’indignano per le «modalità non corrette» dei licenziamenti (per le mail!) e non per le intere comunità, le famiglie e i lavoratori prima usati e poi gettati nei rifiuti. I sindacati che prima si accordano per licenziare, e poi dopo i licenziamenti fanno sciopero… di due ore. Che prima lo mettono in culo ai lavoratori, e poi si presentano ai cancelli della fabbrica con i moduli dell’esubero e degli ammortizzatori da firmare (ovviamente previa tessera!). Una presa in giro a cui è arrivato il momento di dire BASTA.
E allora questi sindacati vanno sanzionati. E gli va ricordato quello che sono: pagliacci da licenziare. Perché non fanno i nostri interessi ma solo quelli dei padroni: che è la pace sociale, l’accettazione, la gestione della crisi attraverso deleghe, tavoli, burocrazia e accordi mentre passano sulle nostre vite. Un costo che, arrivati a questo punto, non possiamo più permetterci di sostenere.

Oggi non abbiamo bisogno di delegare qualcuno per piagnucolare e mettersi al tavolo di chi ci sfrutta e di chi ci comanda. Oggi abbiamo bisogno di organizzarci per lottare, qui e ora, con tutti coloro che sono senza riserve. Per riprendere in mano le nostre vite, per riprendere il potere di decidere.

Quel tavolo, noi, abbiamo solo bisogno di ribaltarlo.

Riprendiamoci tutto! Kamo Modena

Modena, sede CISL.
Modena, sede UIL.
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Discorsoni / Analisi

Per infermieri e OSS altro che caramelle: SICUREZZA, SOLDI e POCHE BALLE!

Non è andato tutto bene. Esattamente a un anno di distanza dal primo lockdown siamo ancora in piena emergenza.
Ci avevano detto che quando sarebbe arrivato il vaccino tutto sarebbe tornato alla normalità, ma i reparti sono pieni, le terapie intensive sature, gli ospedali sotto stress, i focolai nelle strutture e nelle fabbriche aumentano insieme al numero di ricoveri e di morti.
Mentre politici e Confindustria, tra giochi di palazzo e cambi di governo, si litigano la spartizione dei 207 miliardi del Recovery Fund, tutto il peso dell’emergenza sanitaria è scaricato sulle spalle degli infermieri, degli OSS, dei lavoratori ospedalieri. Come rispondono le autorità a questa situazione? Il direttore del Policlinico e dell’ospedale Baggiovara, Claudio Vagnini, ha lanciato un appello ai cittadini modenesi: «Portateci delle caramelle per farci capire che siete al nostro fianco in questa lotta».
Delle caramelle? Non possiamo stare in silenzio di fronte a questa presa per il culo.
Una presa per il culo non solo per infermieri, OSS e lavoratori, ma per gli ammalati e i loro famigliari, per tutti noi: “caramelle” invece che assunzioni di personale medico e ospedaliero, caramelle invece che aumento delle retribuzioni, caramelle invece che potenziamento e messa in sicurezza delle strutture e dei lavoratori, caramelle invece che eliminazione del precariato e delle esternalizzazioni a cooperative che sfruttano con contratti da fame, caramelle invece che vaccinazioni a tappeto per tutti. Caramelle quando sono otto mesi che non viene erogato l’indennizzo per il rischio malattie infettive agli infermieri, caramelle quando gli stipendi degli OSS sono irrisori rispetto ai turni massacranti e ai contratti precari, con la mafia delle cooperative del PD a fare il bello e il cattivo tempo sulla pelle dei lavoratori.
A pagare il conto sono le fasce sociali che non godono dei privilegi e del potere di Confindustria e politici, i giovani, gli studenti, chi vive del proprio lavoro e cerca di arrivare a fine mese.
Un conto salato che ci fanno pagare con zone rosse, scuole chiuse, coprifuoco, spostamenti vietati e polizia, perchè il piano vaccinale non decolla per meri interessi economici e geopolitici tra Stato italiano, Unione europea e multinazionali farmaceutiche: meglio lasciar morire noi poveracci e metterci ai domiciliari che liberalizzare i brevetti o usare i vaccini russo, cinese e cubano.
Insomma, l’emergenza è diventata la nuova normalità e in Emilia, che del sistema sanitario ha fatto il suo presuntuoso vanto, la retorica del vaccino per tutti non basta più a coprire la realtà del vaccino per pochi, le caramelle non bastano più a coprire le responsabilità politiche ed economiche di questa crisi.

VIRUS ITALIA: UN ANNO DOPO TUTTO UGUALE, IN ZONA ROSSA METTIAMOCI POLITICI E CAPITALE!

LA SALUTE È UN DIRITTO, LUCRARCI UN DELITTO: VACCINI PER TUTTI SUBITO!
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Discorsoni / Analisi

Enter the Draghi

E alla fine hanno calato l’asso di denari.

Era questione di tempo, lo sapevano tutti i giocatori di briscola da bar. La compagine renziana ha apparecchiato il tavolo, ed è bastato questo perché qualcuno sfruttasse l’occasione, senza andare a scomodare inutili dietrologie. D’altronde, i giocatori erano da un po’ che si scambiavano segni, tutt’altro che inintelligibili.

La partita iniziata il 4 marzo 2018 ha preso una piega beffarda. Inaugurata come l’avvio della “Terza repubblica”, nata dalla rivoluzione nazionalpopulista di Movimento 5 Stelle e Lega, degli “esclusi”, degli “euroscettici”, del “popolo” contro le “élite”, i “competenti”, gli “eurocrati”, ha prima visto lo sbriciolamento del “Governo del cambiamento” giallo-verde tra un Papeete e un Mojito di troppo, poi la cannibalizzazione di quello giallo-bianco (altro che rosso…) da parte di un altro non meno spregiudicato Matteo, questa volta in piena crisi pandemica. Per concludersi con Mario Draghi, il simbolo, l’incarnazione, il boss-finale di tutti quei poteri sovranazionali, monetari e tecnocratici entro il cui contrasto e superamento la “rivoluzione” era stata combattuta – o, semplicemente, raccontata.

Insomma, nel giro di neanche una legislatura, siamo passati dall’Italia “laboratorio politico” di Steve Bannon all’uomo della Bce al comando. In tre anni, tutto appare finito. La “rivoluzione” è sconfitta. È il Termidoro, per usare una terminologia a noi più evocativa. Si torna da capo, alla “normalità” della crisi e della sua gestione. Si ritorna al business as usual, al pilota automatico precedente al “momento populista” che, dagli Stati Uniti all’Italia, ha increspato gli assetti politico-istituzionali dell’Occidente.

Ma è davvero, solo così?

Non un semplice Monti 2

Sono stati dieci gli anni impiegati dall’inizio della grande crisi, quella del 2008, vero epicentro di medio periodo di questi avvenimenti, per portare quella spinta al “cambiamento” che, sull’onda della Brexit e dell’elezione di Trump, a un certo punto, prima del Covid-19, è sembrata inarrestabile, dentro i famigerati palazzi del potere.

Anche noi abbiamo fatto parte di questa storia. C’è un filo che va dall’esaurimento (o sconfitta) delle piazze dell’Onda – ma anche di Occupy Wall Street, degli Indignados, con la retorica del 99% contro l’1% –, dove una generazione politica e militante si è forgiata, all’esplosione del movimento dei Forconi nel 2013 – per non parlare poi dei Gilet Jaune… – fino all’attentato suprematista del lone wolf Luca Traini durante la “turbolenta” campagna elettorale del 2018, la quale ha sancito la legittimazione democratica e l’ingresso delle forze “anti-sistema” nell’arena di governo.

Sono sempre stati dieci gli anni intercorsi dal 2011 – con la defenestrazione di Berlusconi e l’investitura di Monti – tra governo tecnico e governo tecnico, entrambi di “salvezza nazionale”, entrambi guidati da un Super Mario col compito di salvare, e liberare, l’Italia dall’Italia stessa, grazie alla propria superiore, responsabile, competenza tecnica. Prima contro la crisi del debito sovrano, poi contro la crisi del virus globale.

Per questo crediamo sia fondamentale, in questo passaggio di (tentativi di) riassestamento e ristrutturazione sistemici, tanto a livello economico quanto sociale e politico, decifrare il ruolo di Draghi e del suo governo senza sovrapporlo a quelli di Monti.

Il governo Draghi potrebbe non essere solo o semplicemente un Monti 2. Questo sembra scontato, ma bisogna averlo bene in mente. In questo momento è necessario osservare il livello delle discontinuità piuttosto che delle continuità. Quindi facciamo attenzione a ritirare fuori, come una reazione pavloviana, l’armamentario retorico e gli striscioni messi in soffitta dopo il 2011 (anche se qualcosa andrebbe rispolverato… do you remember debito?), soprattutto se a distanza di un decennio con quel ciclo di mobilitazione e soggettività ancora facciamo fatica a farci i conti.

C’è tutta una fase che è cambiata. In questi dieci anni c’è stato di mezzo un “momento populista” – senza offesa per i narodniki – che ha profondamente scavato, nelle sue convulsioni, nelle sue espressioni, nelle sue lotte intestine come nella direzione su cui infine si è assestato, nel corpo sociale, ma anche nel campo politico e istituzionale. E ha sedimentato. Non è un caso che gli analisti più lucidi – non importa se reazionari – abbiano cominciato a definire tecnopopulismo la nuova traiettoria politica che vede la cooptazione di elementi e stili dall’uno e dall’altro campo nel meccanismo del potere (un esempio può essere Macron). La frazione di classe dominante egemone, per continuare a governare attraverso i suoi ceti dirigenti, ha bisogno dell’innovazione, in questo caso di selezionare, addomesticare e fare sue le spinte contrarie provenienti dall’esterno, utilizzabili per fare un salto in avanti in termini di compatibilità e stabilità.

Che questo governo “tecnico” – i governi non sono mai tecnici, ricordiamolo a scanso di equivoci: dietro il velo della neutralità, dell’oggettività, della titolarità della competenza si nascondono precisi indirizzi politici, economici, sociali – potrebbe non essere un semplice “Monti 2” lo si può intuire leggendo gli ultimi interventi dello stesso Draghi su “foglietti” come il «Financial Times»: lo Stato dovrà sostenere l’economia, la ripresa, la produzione – dalla parte delle imprese… e il consumo? – facendo e perfino cancellando debito (abbandonando, con un colpo di spugna, dogmi impressi nel sangue di intere popolazioni come quella greca); dovrà sostenere l’occupazione, le famiglie e allargare forme di welfare sotto forma di «basic income», ovvero di reddito di base (formula crediamo non usata a sproposito dallo stesso Draghi).

In questo giro di giostra, probabilmente, non ci saranno (solo) tagli. Saranno presenti risorse e spese (per chi e su quale modello?) e ovviamente “riforme” – in cambio del tesoro europeo del Recovery Fund, più di 220 miliardi di euro, di cui Draghi è stato scelto come amministratore: un bel lubrificatore economico per gli interventi sociali e politici che si stagliano all’orizzonte, oltre che la torta intorno a cui tutti i partiti si stanno sedendo per agguantarsi un pezzo per i propri padrini (paradigmatica la “trasformazione” di Salvini…).

Pescare l’asso di bastoni

C’è tutto un rapporto tra Draghi e Unione Europea, Draghi e classi dominanti italiane, Unione Europea e ceti dirigenti italiani che va sciolto senza tornare ripetere formule che non corrispondo più (almeno non tutte) alla situazione odierna… Senza neanche andare a scomodare il contesto geopolitico di decadimento europeo, stretto tra i due veri attori che si contendono l’indirizzo e l’egemonia sulla globalizzazione post-pandemia, Stati Uniti e Repubblica popolare cinese.

«Il vecchio adagio dell’abate Sieyés “fiducia dal basso, autorità dall’alto” si è rotto, trasformandosi nella ben più debole formula “sfiducia dal basso, dirigismo dall’alto” o, in termini più moderni, “populismo dal basso, tecnocrazia dall’alto”».

Populismo e tecnocrazia sono due facce dello stesso movimento storico in cui ci troviamo ad agire. Si sono alimentati a vicenda fino al cortocircuito provocato da un evento “inaspettato” come una pandemia globale. Guardando indietro, può sembrare che il «Que se vayan todos!» dei movimentidel 2010-2011 non potesse che avere come corollario il «Lasciate fare ai competenti». Siamo consapevoli però che la direzione che prende un processo sia impressa dai rapporti di forza che si è in grado di costruire, organizzare ed esercitare nella tensione tra contingenza e tendenza.

Il nodo politico da sciogliere oggi, a livello di spazio d’azione e organizzazione, crediamo sia porsi contro la tecnocrazia dei competenti senza cedere al recupero della democrazia, dei gruppi e del parlamento (la tecnologia di depoliticizzazione e inibizione democratica del conflitto, anche nelle sue versioni di sinistra e “movimentiste”), e viceversa.

Dieci anni di speranze, illusioni e delusioni verso un “cambiamento” che non c’è stato lasciano sul terreno un irrisolto: questo può trasformarsi in campo di battaglia politica, soprattutto in un passaggio di fase di approfondimento e chiarificazione della crisi scaricata sui subalterni, che vede una composizione sociale iperproletaria in cui declassamento rovinoso di alcuni segmenti di ceti medi (salariati e autonomi) si mischia a timidi comportamenti di attivazione giovanile tutti ancora da decifrare.

Come radicalizzare e organizzare il sentimento dell’odio, della sfiducia e del disprezzo verso la politica di palazzo, dei santoni e dei partiti senza andare a portare l’acqua al mulino della soluzione tecnocratica e dirigista da una parte e nella difesa della democrazia, dei politici e della rappresentanza dall’altra?

È questa una domanda da un milione di… dogecoin, che ci facciamo non come semplici spettatori della partita più importante, quella della nostra parte sociale, in attesa che essa entri in gioco con l’asso di bastoni.

 

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Discorsoni / Analisi

Di vaccini e kalashnikov

Il vaccino cinese, a novembre 2020, aveva superato la fase 3 dei test confermandosi sicuro ed efficace nell’86% dei casi. È prodotto dall’azienda statale Sinopharm e si basa su una tecnologia già lungamente applicata e sperimentata a livello globale – quindi a minor costo di produzione – che utilizza un virus morto, simile alla vaccinazione antipolio.

I vaccini occidentali, come quelli di Pfizer e BioNTech, utilizzano una tecnologia più recente e meno collaudata – quindi più costosa e con meno garanzie – che prende di mira una proteina del coronavirus utilizzando l’RNA. Sarebbero sicuri al 95%, se non che, nel trasporto, a questi vaccini deve essere garantita una temperatura che va dai – 70 ai – 20 gradi. Quindi una condizione di trattamento che necessita di protocolli e apparecchiature molto complessi e dispendiosi.

Il vaccino cinese, oltre a costare meno, quindi più accessibile ai Paesi meno ricchi, è inoltre stato concepito per viaggiare a una temperatura tra i 2 e gli 8 gradi sopra lo zero, molto più facilmente gestibile e a minor costo complessivamente, soprattutto per quelle aree – non occidentali – dove vivono circa tre miliardi di persone senza sistemi stabili di elettricità e refrigerazione. Su un pianeta, non dimentichiamolo, lanciato inesorabilmente a subire nei prossimi anni – sta già succedendo! – un aumento brusco delle temperature.

I governi occidentali hanno finanziato con miliardi di euro di risorse pubbliche le ricerche private di aziende private sul vaccino. Le aziende hanno avuto quindi un triplo guadagno: infatti, il vaccino è stato poi acquistato dagli Stati che ne avevano già finanziato la ricerca, il cui brevetto resta… privato.

A dicembre 2020 milioni di cinesi erano stati già vaccinati. La Cina e Cuba si sono rese disponibili a fornire il loro vaccino a qualsiasi paese ne faccia richiesta. Nel mentre in Italia, a gennaio 2021, la distribuzione del vaccino occidentale è rallentata quando non bloccata per la mancanza di personale formato e di aghi e siringhe.

Vogliamo mettere in evidenza le logiche, le strategie e le prospettive differenti e sottostanti ai due vaccini, uno dei terreni di battaglia – come del resto la tecnologia di telecomunicazione 5G – del rinnovato confronto intercapitalistico globale, che gli incubi e le paranoie dei complottisti nostrani hanno, nel loro lucido delirio, intuito.

Da una parte un vaccino concepito per essere prodotto autonomamente, più velocemente e a costi minori, più facilmente gestibile senza ulteriori costose apparecchiature, in grado di arrivare a un maggior numero di persone ed economicamente sostenibile per i paesi marginali alle catene globali del valore, con lo sguardo verso un futuro-presente più caldo. Possiamo benissimo chiamarlo, senza esaltazioni o folklore di sorta, un “vaccino del popolo”, perché la logica sottostante è quella della difesa della salute umana complessiva, a partire da quella delle classi subalterne. Un vaccino sicuramente migliorabile, ma che si fa vettore dell’ampliamento, dell’ulteriore proiezione e influenza di un modello – politico, economico, di relazioni globali – che apertamente si dice socialista, ma con «caratteristiche cinesi», verso aree del globo come il Sudest asiatico, il Medioriente, l’Africa, il Sudamerica, fino a lambire l’Europa. Un modello che comincia a dimostrarsi perfino più «efficiente», «dinamico» e «sostenibile» della tanto decantata razionalità capitalistica occidentale. Il vaccino cinese, insomma, segue le orme, nel campo della salute, del kalashnikov sovietico nel campo della guerra, quella dei subalterni contro i propri dominatori.

Dall’altra un vaccino privato che risponde più a una logica di business a corto raggio, predatoria e finanziaria, invece che di salute sociale, una logica arroccata a difesa di interessi geopolitici di bottega e immediati di classe, il cui ceto dirigente – in particolare quello europeo – è poco lungimirante perfino di fronte alle necessità (anche se sarebbe più corretto dire velleità) politiche del proprio capitalismo. Un vaccino che solo un piccolo nucleo di paesi al mondo può gestire e distribuire alla propria popolazione, e comunque lentamente, e ad altissimo prezzo, mentre le “ondate” continuano a susseguirsi e sempre più persone muoiono o cadono in miseria. Gli italiani, in quanto subalterni a questo specifico intreccio di alleanze e rapporti di forza, non hanno possibilità di scelta se non sucarsi il vaccino delle corporation di BigPharma, o scegliere di andare a infoltire le schiere di utili idioti novax.

La critica serrata – e agita – alla gestione sanitaria della crisi pandemica non va lasciata a questi ultimi, l’altro lato della medaglia della stabilità sistemica. Ma se siamo ormai fuori tempo, va ricostruito, su questa leva, un discorso comunista autonomo e forte più complessivo sulla scienza, la tecnologia, l’innovazione capace di marciare sulle proprie gambe, che non si lasci schiacciare, da una parte, dalle ridicole e dannose velleità ideologiche che possiamo chiamare accelerazioniste – la celebrazione, la fiducia e la difesa, di fatto, dell’idea del progresso, e quindi del progresso capitalistico, la riproposizione dell’ideologia II Internazionale e della socialdemocrazia di kautskiana memoria – e, dall’altra, dall’inutile atteggiamento della lotta contro i mulini a vento, del rifiuto individuale della realtà concreta.

Il nodo fondamentale rimane quello politico. La scienza, la tecnologia, l’innovazione non sono neutrali. Ancora prima del loro uso, contengono in sé un segno politico, dato da chi il potere politico lo detiene. Sono prodotte da precisi rapporti di forza tra classi. I loro prodotti sono la cristallizzazione di tali rapporti, e in base a tali rapporti agiscono secondo logiche diverse.

Logiche diverse, strategie diverse, prospettive diverse, all’interno dello stesso sistema di relazioni capitalistiche mondiale, che vanno comprese e possedute. Che chiarificano la trama della contesa globale di cui il secolo si farà portatore, il posizionamento nella catena imperialista e in quella del valore globale, la profondità della perdita occidentale di centralità e attrazione, in particolare per l’Europa, rispetto alle sfide epocali che questi anni Venti hanno aperto.

 

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Discorsoni / Analisi

Alluvione 2020: chi pagherà per tutto questo?

Martoriata da cemento, bretelle, consumo di suolo, concessioni edilizie, incuria e disinteresse in nome dell’affarismo più bieco e predatorio, la nostra terra è fragile.

E se la terra è fragile, lo è anche la sua gente. Le nostre comunità.

Guardiamoci in faccia. Non siamo più in emergenza: siamo in una nuova normalità. E tutti gli anni sarà sempre peggio.

È la nuova normalità del cambiamento climatico e della crisi ecologica. Che non è solo crisi ambientale, ma crisi di un intero modello di sviluppo, di produzione, di lavoro, di rapporto col territorio, di rapporti sociali: quello capitalistico.

Non è più quesione di evitare la crisi climatica ed ecologica, è questione di saperla affrontare. Affrontare l’inevitabile. Bisogna riflettere su dove si vive e come si vive, e come cambierà in futuro, un futuro che è già qui e cominciamo a toccare con mano.

Ma non è solo con l’appello alla buona coscienza dei comportamenti individuali che si potranno cambiare le cose.

Il cambiamento climatico non è una scusa. La questione è politica. La questione è di potere. Potere di chi decide. Su cosa produrre, su come farlo, sulla priorità dei bisogni. Sull’organizzazione del territorio, sulla difesa delle comunità, sulle nostre vite.

Di chi pagherà per tutto questo. L’ennesimo disastro che si poteva evitare.

La riproduzione sistemica del capitale si è disconnessa dalla riproduzione sociale e della vita complessive. Destra e sinistra sono due facce dello stesso modello che ha portato il nostro territorio ad essere martoriato.

Rompere radicalmente con questo modello, difendere la nostra terra, è diventata una questione di sopravvivenza.

Esondazione del Tiepido a Fossalta, Modena Est, a pochi chilometri dal centro di Modena.
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Discorsoni / Analisi General

RACHE. Le vibrazioni del nostro tempo.


Negli Stati Uniti, l’altra sera, hanno sparato a un nazista. Non ci interessa se sia morto perché la polizia ha impedito ai paramedici di intervenire in tempo, né se a sparargli sia stato un compagno, un nero a caso, un poliziotto o un altro nazista. Se nei primi due casi saremmo meno stupiti, negli altri saremmo più divertiti.
Non ci interessa nemmeno (in questa sede) bastonare il can che affoga di chi dopo anni di retorica fuoco e fiamme scopre che la violenza sistemica, quando torna indietro, è effettivamente violenta e come tale fa male a delle persone, non solo a vetrine e bancomat. Se pensavano che durante le rivoluzioni si ballasse rimarranno delusi, d’altra parte Emma Goldman non ne ha mai fatta una, Mao sì.
Meno di tutto ci interessa polemizzare sul ruolo del Terrore Rosso, dei Giacobini, degli anabattisti di Müntzer o dei Gracchi: la tradizione ci interessa per due cose, lo stile e gli strumenti pratici che ci possono servire. Per l’agire politico, per la nostra militanza, preferiamo restare ben ancorati al presente per intercettare il futuro.
E il presente è brutto, orrendo – senza alcuna accezione di slang al termine -, dove la composizione spuria più conflittuale nel nostro territorio non trovando alcun riferimento valido si coagula attorno a lotte imperscrutabili contro 5G, mascherine e dittatura sanitaria.

È qui il nodo che ci interessa, quello della vendetta. Termine che ci rivendichiamo totalmente perché in un mondo che si sente davvero sull’orlo della Katastrophe nella sua accezione più apocalittica la vendetta diventa una leva rivoluzionaria concreta, tangibile, immaginabile.
La nostra gente vive di vendetta, la brama, se ne abbevera come può: la cerca con gli strumenti che ha a disposizione, come la la denuncia, la pattuglia dei vigili, lo sputtanamento social e occasionalmente quello pubblico. Sta a noi organizzare la vendetta collettiva. E la celebriamo ogni volta che capita l’occasione.
Siamo andati a vedere il Joker di Todd Phillips [1] e ne siamo usciti pensando che quelle erano le vibrazioni del nostro tempo, così come Piazza Maidan ha rappresentato l’orizzonte nuovo della guerra civile in Europa.

Con lo scomparire delle possibilità di mediazione, il confronto diventerà sempre più sporco ma anche sempre più duro, e chi rimarrà indietro ne pagherà il conto con l’esclusione: chiedetelo a Salvini che ha puntato tutto sull’essere colui che spingeva più in là le proprie posizioni e quando un Conte qualsiasi gli ha dato quel che chiedeva ha imboccato il viale del tramonto. E vale la stessa cosa per Trump: flirtava con la guerra civile e alla fine gliene stanno dando un assaggio.
A volte accettare provocazioni è la reazione migliore.
Per questo celebriamo, post-ironici, tutti i crimini del comunismo, perché non ci sentiamo in colpa a desiderare la vendetta di classe sul nemico, né tanto meno proviamo alcuna pietà per esso. Non dobbiamo giustificarci se non è necessario come tattica contingente ne preoccuparci se non siamo sinceri nel farlo: siamo in trincea e abbiamo ben altre priorità.

[1]  http://archivio.commonware.org/index.php/neetwork/904-la-morte-degli-eroi

Ps:
“Aveva chiesto dove fossero i bolscevichi”

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Discorsoni / Analisi

Con il sangue agli occhi. Guardare Black Lives Matter dalla Provincia

Sotto il movimento-ombrello di Black Lives Matter i neri americani in protesta contro gli abusi e gli omicidi razzisti della polizia statunitense hanno imposto tutto un nuovo capitolo di lotte radicali: anche se non innovative colpiscono profondamente il cuore dell’impero e, in coppia con quelle operaie in Cina, completano una nuova globalità conflittuale che non si vedeva da decenni.

Esprimendo forza invece che vittimizzazione lacrimevole, rifiutando i tentativi di addomesticamento da parte della sinistra, il proletariato nero si è posto come punta avanzata dello scontro di classe riuscendo a riportare il particolare al generale (le condizioni di vita dei neri e le uccisioni razziali) e il generale nel particolare (le brutali condizioni di classe negli States così come in tutto il mondo atlantico, esasperate dalla pandemia in un paese con oltre 40 milioni di disoccupati senza garanzie e 2 milioni di infetti).

Certo la strategia di Trump di polarizzare lo scontro sociale gli si è ritorta contro con settori dell’establishment – specialmente media e esercito – ormai impazienti di liberarsene e i ceti popolari di riferimento disillusi da possibili miglioramenti concreti delle proprie condizioni di vita, ma ciò evidenzia come una lotta che avanza e che aggrega ampi strati trasversali della popolazione costringa la classe dominante a seguire avendo perso l’iniziativa; altrettanto al seguito paiono i “compagni”, agendo principalmente ai margini del conflitto al netto di roboanti Zone Autonome ininfluenti nel quadro generale delle cose e che rischiano anzi di rinchiudere energie che dovrebbero invece mantenersi nelle strade (si guardi la fine del “movimento degli ombrelli” una volta rinchiusosi nella cittadella universitaria). È l’ininfluenza di un modello, quello dell’ attivismo radical-accademico imbevuto di Identity Politics che spande i propri Lifestyles anche qui in Italia, incapace di capire che i Safe spaces non sono fortezze ma trappole. L’insistenza sul concetto di Privilege che individualizza un senso di colpa invece di sistematizzare un’oppressione e collettivizzarne la resistenza è esemplificativo dell’incapacità di rompere con il modello neoliberale pretendendo di poterlo gestire secondo i propri termini.

In Europa riverberano i temi americani, soprattutto nel mondo anglosassone che – specialmente dopo la Brexit – vi gravita attorno più di quanto non faccia con il continente. Ma le differenze sono sempre più ampie, approfondite dal progressivo disimpegno statunitense e dalla crescente rivalità fra il ceto dirigente Trumpiano e quello euro-tedesco: l’Italia, più atlantista della Nato, continua però a ricevere il percolato di ciò che succede oltreoceano; ma è la traduzione con il contesto locale che raramente funziona o almeno quando è fatta in modo artificiale.

La “lotta delle statue” ha cercato per qualche tempo un qualcosa su cui coagularsi trovandolo poi nel monumento ad un personaggio disgustoso come Indro Montanelli. Certo, ce ne sono di ben più importanti nella storia nazionale: da quello a Graziani al mausoleo di Mussolini fino alle innumerevoli sculture sabaude di monarchi e politici sanguinari sia in Africa che nel Sud, ma il punto è che molti di questi sono distribuiti in un paese che è basato sulla provincia, in cui è intraducibile una lotta simbolica che si basa sui simboli fondativi di un tessuto metropolitano che proprio forse solo a Milano esiste.

La polemica che ne è seguita ha avuto risvolti positivi, soprattutto nel radicalizzare ulteriormente certe componenti giovanili e nel mettere in crisi la religione civile dello stato liberal-democratico esponendo la pochezza e la marcescenza specialmente della sua casta giornalistica. Un ulteriore tassello di un lento percorso di riconsiderazione di elementi (come la polizia nostrana, rimessa in discussione dall’atteggiamento muscolare durante la quarantena) che prima si pensavano inamovibili.
Il problema è però quando ciò che rimane del cosiddetto Movimento non riesce a vedere politicamente e tatticamente questa conflittualità: il ruolo del militante è quello di inserirsi e riuscire ad alzare l’asticella il più possibile, di essere in questo mondo e non di questo mondo, non quello di farsi assimilare convincendosi che una lotta sia fine a sé.

Nella provincia le piazze chiamate nel nome di Black Lives Matter hanno mostrato invece un’energia ancora più evidente visto il contrasto con i territori desertificati: numeri sorprendenti principalmente di una composizione giovane e razzializzata che per la prima volta ha preso la parola sulla propria condizione. La questione generazionale si mostra per come siano difficilmente intercettabili da un “noi” anagraficamente più vecchio, magari cresciuto con l’Onda e giunto a termine con il NoExpo; sono altre le grammatiche su cui si esprimono, altre le esperienze formative (il ruolo organizzativo preminente delle donne ispirato dalle ultime mobilitazioni femministe? La scelta di luoghi e modi di aggregazione diversi ispirata dai Fridays For Future? L’uso di altri media e di altri social in modo speculare ma non dissimile da quelli della composizione sociale dei vari comitati di protesta con il governo?).

A Modena il punto di ritrovo non è stata una piazza del Centro ma il Parco Ferrari appena fuori dallo stesso: una luogo che già segna una rottura con la routine funeraria dei cortei e dei presidi, che la composizione giovanile ha scelto esprimendosi nei proprio spazi di aggregazione, in ciò che conosce.
In generale le “Strutture” organizzate erano presenti a malapena in un ruolo di supporto; sono stati i giovani a chiamarla (specialmente tramite tam-tam social e passaparola) e a dominarla, passando alternativamente da riferimenti allle Pantere Nere e a Malcom X a sostenere posizioni non-violente e cittadiniste formando di fatto tutto un altro gruppo rispetto ai vari rappresentanti della Sinistra o del Movimento presenti. Non un qualcosa di omogeneo, comunque: c’era chi si poneva in modo più conflittuale e chi più vittimistico, c’erano numerose diverse compagnie di amici e compagni di scuola, c’erano età e nazionalità diverse. Una composizione – appunto – attraversata da contraddizioni in cui l’opposizione agli sbirri non è evidente ma striscia carsica magari come commento rabbioso contro la volante di passaggio.
Sono state le donne, spesso giovanissime, ad emergere poi in piazza in modo preponderante: sono state delle ragazze a convocare per prime la manifestazione, lo sono la maggior parte di coloro che hanno fatto gli interventi e che han retto il tutto riportandovi con forza la questione di genere, intersecandola con quella razziale.

Resta allora da proseguire uno schietto percorso di ricerca, analisi e formazione, aperto soprattutto a ricevere stimoli inaspettati e a partecipare a movimenti spuri e contraddittori magari di segno opposto uno con l’altro, prendendo dai movimenti esteri più avanzati soprattutto indicazioni di metodo piuttosto che contenuti difficilmente traducibili.