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Discorsoni / Analisi

Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema

0. Si apre un tempo di incertezza, che non fa ancora epoca. Per conquistarne l’altezza, occorre rovesciare il punto di vista. E cogliere, nell’incertezza del tempo, il tempo delle opportunità.

1. «La fabbrica della guerra». Abbiamo voluto chiamare così un ciclo di incontri dedicati a guardare in faccia, da diverse angolature e piani, ma sempre dallo stesso punto di vista di parte, il grande fatto del nostro tempo, processo che irrompe al cuore delle nuove costituzioni materiali in definizione delle società capitalistiche entro cui viviamo. Per riportarlo, dai cieli di un piano più astratto d’analisi, impalpabile, dove spesso teoria e ideologia si confondono, con i piedi per terra, lì dove è pensabile e possibile aggredirlo politicamente.

2. Fabbrica della guerra, quindi, come traccia per provare a inchiestare, sul territorio nel quale è situato il punto di vista, dove e come si produce per la guerra, e quindi la guerra stessa. In forma materiale e immateriale. Merci, saperi, poteri e soggetti, e le relazioni tra di essi. Ripercorrere le filiere oggettive e soggettive che la compongono, individuare i diversi pezzi che la assemblano, carpire la logica concreta che la produce e come tecnicamente la produce, attraverso quali reti di attori sistemici, capaci di mobilitare quelli locali e subalterni, e figure messe al lavoro per essa.

3. La guerra è già qua. Ne facciamo parte. Si può affrontarla testimoniando la propria incrollabile e generica opposizione morale. Cercando di mobilitare le “coscienze civili” della società. Appellandosi all’“umanità” e al suo buon cuore. Fino a che, raggiunta finalmente la “maggioranza democratica” delle coscienze, si potrà dire fine alla guerra… Auguri. Chi non è oggi contro la guerra, d’altronde? Chi può dirsene a favore? Chiedetelo a qualsiasi passante, al vostro compagno di banco, al professore, al collega, al sindacalista, all’amministratore locale, al politicante che vi piace, a quello che disprezzate. Tutti sono contro la guerra. Eppure la guerra continua, e continuerà. Tra pause, rallentamenti, strappi, salti e accelerazioni. Approfondendosi, generalizzandosi. Percorrendo e militarizzando piani quali l’economia, la tecnologia, l’energia, la comunicazione, la formazione, la sicurezza, il diritto. Lambendoci, coinvolgendoci, mobilitandoci, a partire dal pagamento dei suoi costi, dalla produzione delle sue merci, dalla messa alla guerra della vita intera. Tutta la libertà d’opinione e nessuna di decidere, nei regimi della “Democrazia reale” che fanno Patto Atlantico, chiamati Occidente.

4. Oppure. Oppure, a partire da dove il punto di vista è collocato, guardare alla specifica conformazione capitalistico-industriale del territorio, sedimentato e intrecciato di storia, società, politica, sviluppo in relazione al posizionamento nazionale e internazionale nelle catene del valore, a come è già diventato e diventerà ingranaggio della fabbrica sistemica della guerra. Capire, per anticipare, quale sarà la direzione delle sue trasformazioni, le modalità e i tempi della sua mobilitazione alla messa a valore, i soggetti che in esso saranno messi al lavoro per la guerra, le nuove figure che saranno formate, quelle che ne verranno espulse. Le istituzioni adibite alla loro formazione, i luoghi che ne diverranno discarica di scarti. Le promesse frustrate, le aspettative disilluse, le forme di vita imposte tra tempi, tecnologie, condizioni di lavoro e salario complessivo. Le soggettività possibili.

5. La ristrutturazione come momento di gestione della crisi o fase preliminare di rilancio di uno sviluppo? Con quali connotazioni, entro quali filiere, su quali prospettive, per quali segmenti di composizione? Soggettività e lotte connotate dal declino e dal collasso sono diverse da soggettività e lotte inscritte in processi di accumulazione e crescita. Contraddizioni. Ambivalenze. Possibilità. Si tratta di inchiestarle per ricercarne una forza, dal di dentro dei processi di trasformazione radicale e accelerata nei quali siamo immersi in questi tempi di incertezza, o di certezza del caos.

6. Non si tratta di fare scienza del capitale, che è scienza del dominio. Ma di un tentativo di fare di scienza operaia, che è «processo in atto di rovesciamento dei fatti». Conoscere la «fabbrica della guerra» nelle sue articolazioni – oggettive e soggettive, produttive e sociali – come la fabbrica l’hanno sempre conosciuta gli operai: per rallentarne i ritmi disumani, per ostacolarne il funzionamento di morte, per sabotarla buttando sabbia, bulloni e chiavi inglesi nelle sue macchine. E infine per sovvertirla in fabbrica di conflitto sociale e politico.

7. Iniziare a guardare in faccia la guerra, o almeno il volto che possiamo concretamente osservare, a livello del nostro orizzonte determinato, per forza di cose limitato. E da lì, poi, risalire verticalmente. Operazione non solo di scienza e conoscenza di parte, che sappiamo indissolubilmente legate alla nemicità, quindi al conflitto, ma di prospettiva. Primariamente politica.

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«Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema» è la seconda parte del ciclo «La fabbrica della guerra» (organizzato negli spazi del Dopolavoro Kanalino78 a Modena). Strumento per risalire e interrogare, dal piano del nostro orizzonte, anello dopo anello, la catena che determina la configurazione concreta dei rapporti di classe, di capitale, intercapitalistici e imperialistici, nella loro fase attuale di traumatica e violenta ridefinizione, la quale si riflette in ciò che abbiamo provato in piccola parte a osservare, tracciare e saggiare nella prima parte del ciclo, «Modena nella crisi globale». La cornice imprescindibile, da discutere e costruire, attraverso cui dare solido sfondo, e quindi significato più generale, alle ipotesi di lavoro militante e definire, anticipandoli, i processi materiali, oggettivi e soggettivi, che vanno a connotare complessivamente il quadro dei nostri tempi, e l’altezza dei problemi che essi pongono. A partire dai tre nodi che abbiamo scelto come guida (l’imperialismo oggi, la crisi tedesca nel cuore d’Europa, il fronte dell’Italia), a cui intrecciare i piani della lotta di classe e della soggettività.

– Quale collocazione, ruolo e teatri sono assunti attivamente dall’Italia nel conflitto globale? Che posizione occupa nella catena imperialista, tra Stati Uniti e Unione Europea? Com’è interpretato tutto ciò dalle Destre al governo e in ascesa nell’“era Trump”, e di cosa esse sono sintomo e strumento? In che modo la “guerra multipolare” appena iniziata potrebbe creare, in Europa e in Italia, le condizioni di un nuovo ciclo di lotte di classe? Quali potranno essere le sue caratteristiche, a fronte dell’assorbimento del primo momento neopopulista e dell’impasse del sovranismo italiano dall’eurocrisi a oggi?

Una discussione con Mimmo Porcaro, autore e collaboratore della rivista «La Fionda», l’8 marzo.

– Che cos’è l’imperialismo oggi, di cui la cosiddetta “era Trump” è precipitato? Come concretamente si configura, a monte dello scontro Usa-Cina? Con quali eventuali discontinuità rispetto a precedenti epoche? Su quali piani, con quali strumenti, attraverso quali anelli la catena imperialistica si definisce sul sistema mondo e nel mercato mondiale? Come si intreccia alle dinamiche di classe, e quale l’anello decisivo? Quali implicazioni politiche comporta per noi tale configurazione? Tracce e appunti per una nuova, e necessaria, riconcettualizzazione dell’imperialismo all’altezza delle nuove questioni pratiche poste dal movimento storico reale.

Con Raf Sciortino, autore di I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios 2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze (Asterios 2022), il 5 aprile.

– Cosa succede quando la crisi, dalle periferie mediterranee, colpisce il cuore industriale e politico dell’Europa? Cosa significa per il continente, e soprattutto per l’Italia inserita nelle sue catene del valore, la destabilizzazione politica e sociale del modello tedesco? Unione Europea e moneta unica possono essere messe in discussione da Berlino o conquistare una loro “autonomia strategica” imperialistica? Che posizione occupano la Germania e l’Unione Europea nella catena imperialistica globale? Si staglia davanti a noi un processo di radicalizzazione politica del contesto europeo, insieme alla sua rinazionalizzazione? Dove va l’Europa nella ripolarizzazione conflittuale del mondo tra Stati Uniti e Cina?

Una discussione con Robert Ferro, autore del podcast Il perno originario. Appunti sul respiro delle rovine di Radio Blackout, il 17 maggio.

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Si dice che Lenin, nel 1914, esule a Cracovia, quando arrivò la notizia dello scoppio della guerra, rimase sbalordito: per il tradimento dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, certo, ma anche per il passo decisivo degli attori di potenza nell’andare allo scontro bellico, ipotizzabile ma non del tutto prevedibile. Anche Lenin fu colto di sorpresa, ma si era reso pronto a guardare negli occhi la terribile occasione dell’inaspettato. Si apre un tempo di incertezza. Per conquistarne l’altezza, occorre rovesciare il punto di vista. E cogliere, nell’incertezza del tempo, il tempo delle opportunità. Iniziamo, nel nostro piccolo, a farlo, formulando le domande giuste.

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Discorsoni / Analisi

Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università

Note per approfondire la discussione

La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano. Tra questi, la scuola e l’università, punti nodali della riproduzione capitalistica e sociale.

Da una parte, come «industrie della formazione» atte a produrre e disciplinare la merce oggi più preziosa: quei soggetti che verranno chiamati a lavorare e combattere per la guerra dentro fabbriche, magazzini, laboratori, aule e uffici, o direttamente sul campo di battaglia. Dall’altra, tuttavia, come luoghi di mobilitazione giovanile e comportamenti di rifiuto che negli ultimi anni, intorno ai conflitti globali, e in special modo la Palestina, che coinvolge anche le dimensioni decoloniale e della razzializzazione interne alla composizione di classe delle nostre latitudini, hanno visto una nuova generazione politica prendere parola, tra tentativi di conflitto, spontaneità e contraddizioni.

Come si stanno trasformando scuola e università dentro la guerra? Quale funzione sono chiamate a ricoprire, da Stato, imprese e politica, nell’organizzazione, mobilitazione, e produzione bellica? Quale ruolo degli istituti tecnici e professionali, baricentrali per la formazione della forza lavoro specializzata per la fabbrica della guerra e al contempo alla formazione allo sfruttamento, con alta concentrazione di soggettività razzializzate, ma sovente esclusi o impermeabili agli interventi politici? Quali sono i soggetti coinvolti dentro i processi di trasformazione e che istanze, pulsioni e visioni materiali esprimono (o possono esprimere) nelle mobilitazioni contro la «fabbrica della guerra»?

Sono queste alcune piste da cui siamo partiti nella discussione del primo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», organizzato il 12 ottobre 2024 al Dopolavoro Kanalino78 a Modena, con studenti – militanti di collettivi e organizzazioni – attivi nelle lotte di scuole e università. Un ciclo pensato come una macchinetta per inchiestare soggetti, territori e processi coinvolti in questo tempo di guerra da decifrare e sovvertire, e inquadrare nuovi strumenti, punti di vista, elementi in grado di affrontarne la complessità all’altezza giusta – obiettivo sicuramente alto – dei problemi.

Vogliamo qui, in questa introduzione agli interventi, elaborare meglio il nostro punto di vista su alcuni nodi che la discussione con i compagni ci ha permesso di definire meglio. Senza certezze in tasca, se non quella della materialità dei problemi che si pongono collettivamente, e alcuna ricetta per l’avvenire, se non quella di porre tale materialità a verifica e alla proficua discussione, che speriamo possa approfondirsi e costruire un punto di vista più avanzato sui problemi, insieme a tutti i compagni validi come quelli intervenuti al dibattito.

Il protagonismo sociale, o della ricerca dell’autonomia

Tagliando subito con l’accetta, dagli interventi del dibattito crediamo emerga chiaramente un punto critico di questa fase, che non è una novità ma portato lungo di fasi precedenti che non possiamo qui approfondire: la debolezza, quando non proprio assenza, di protagonismo sociale dei soggetti – in questo caso, appunto, studenti, ma il discorso si può generalizzare. Protagonismo sociale che possiamo (e ci piace) chiamare anche autonomia, con la a minuscola. Se c’è un nemico da scardinare, è questo non protagonismo, questa passività, che come Kamo abbiamo toccato con mano direttamente anche a Modena nelle esperienze e negli incontri avuti insieme al soggetto giovanile della nostra città.

Questo non protagonismo, dal nostro punto di vista, può assumere varie forme.

La più immediata è il ritirarsi individuale e individualistico da ogni tipo di partecipazione collettiva, da processi di attivazione e decisione dove mettere in gioco la propria forma di vita che lo status quo capitalistico ha assegnato alla nascita, dal farsi avanti all’interno di una dimensione di mobilitazione che ecceda il proprio io e lo arricchisca, in una sintesi non più scindibile, in un noi. Il ritirarsi, quindi, in un privato oggi sovrapponibile completamente al mondo della merce, al suo più o meno edonistico e nichilistico godimento. Il godimento davvero povero della potenza della vita fatta coincidere col segno impresso su di essa dal rapporto sociale di capitale. Questa è la forma che è stata chiamata e che riteniamo corretto chiamare della diserzione, maggioritaria oggi tra gli studenti oltre che nella società più complessiva, con tutte le sfumature e gradazioni del caso: dal votarsi all’imperativo di arricchimento facile e veloce che la ragione neoliberale, ancora nella sua fase di putrefazione, promette possibile e auspicabile (magari cavalcando la schizofrenia dei flussi tramite app di trading e criptovalute che hanno reso portatile la speculazione finanziaria), al ritagliarsi una nicchia di comfort, civile e moralmente sostenibile, vivibile e discretamente sensibile, nel caos sempre più crescente della realtà percepita.

Ma vediamo anche la forma della delega del proprio protagonismo a un ceto di attivisti “professionisti”, scegliendosi il “brand” identitario che più aggrada o si addice al proprio curriculum, accontentandosi di seguire, condividere, likeare – nella vita vera come si fa sui social – contenuti fruiti ma mai prodotti dalla propria autonomia, per poi passare ad altro al cambio di trend; fruizione passiva, momentanea, di cause o lotte, da utenti consumatori, che in una città come Modena le articolazioni istituzionali e le cinghie di trasmissione del centrosinistra (spesso coincidenti) hanno buon gioco a sussumere e capitalizzare nei propri meccanismi, con risorse materiali e di posizione adeguate ad assorbire e rendere compatibile ogni piccolo sussulto di protagonismo potenzialmente di rottura. È questa la forma debole e impalpabile della società civile, di cui spesso abbiamo visto processi organizzativi e di lotta finire per scambiare un suo sfruttamento tattico come soggetto di riferimento e fine strategico. Se certi tipi di segnali di protagonismo vengono facilmente assorbiti da questa forma, crediamo che il problema non sia tutto sui limiti dei militanti che non li hanno saputi intercettare e deviare: spesso il problema è nelle soggettività stesse poco interessanti (e interessate) ai fini della rottura.

Infine, per ultimo, ma spesso non meno problematico per lo sviluppo di autonomia, quello che può sembrare un ossimoro: il non protagonismo che rischia di esprimersi attraverso la militanza. Una forma di militanza che coincide con l’adesione a organizzazioni partitiche, gruppi protopartitici, sindacalistici o attivistici che negli ultimi anni, a fronte del blocco dello sviluppo di larghi sommovimenti di classe o di pezzi di classe, tanto reali quanto spuri, su istanze materiali di soggettività altrettanto ambivalenti quanto reali (pensiamo, in questo senso, a ciò che è stata l’Onda tra 2008 e 2011, o all’irrompere delle lotte dei facchini tra 2011-2014), abbiamo visto fiorire e diffondersi, coinvolgendo pezzi non secondari delle nuove generazioni politiche emergenti. Gran parte delle organizzazioni, delle più varie tendenze e strutturazioni nazionali (perfino internazionali), rispondono facilmente alla richiesta di certezze da parte di soggetti giovanili che affrontano i loro tempi con ben poche di esse in tasca. La certezza di un’identità, in questo caso politica, di un percorso strutturato, di un’ideologia canonizzata, di una comunità costituita, di una parola d’ordine, del contenuto di un volantino, di una prassi consolidata, magari già decisi altrove o legati a lotte di altri pezzi di mondo, facilmente solo da seguire o applicare. La sensazione di fare qualcosa non solo di giusto, ma di rilevante, “sul pezzo” della cronaca: anche se non si può cambiare niente della propria vita, almeno ci si sente parte di una comunità o di una potenza lontana che agisce. Qui sono senza dubbio confluite molte energie e intelligenze politiche mosse negli ultimi anni dalla ricerca, non senza ambivalenze o difficoltà, di protagonismo, o che hanno espresso timidi ma importanti segnali di esso. Qui, purtroppo, possono finire per ristagnare, esaurirsi o riprodurre l’esistenza di quei contenitori che, nella nostra particolare esperienza, sono risultati tuttalpiù scatoloni vuoti: collettivi o sigle a uso e consumo della politica “nazionale” o dei politicismi dei gruppi territoriali che, come a un mercato delle vacche, si contendono l’adesione di questo soggetto giovanile a colpi della miglior offerta simbolica, ideologica, organizzativa, secondo anche logiche di targetizzazione. Non di certo strumenti territorialmente e soggettivamente situati di conricerca, espressione e potenziamento delle potenzialità di protagonismo e lotta delle soggettività giovanili a partire dalla materialità situata di esse. Questa forma di militanza, oltre a essere alla lunga impoverente invece che arricchente, crediamo sia anche “rischiosa”: fiorente e apparentemente solida nelle fasi di “calma”, dove la spontaneità sociale è debole e l’autonomia arretrata, quando il rischio è quello di far coincidere la militanza all’esperienza di “marcare il cartellino”, si può dimostrare estremamente fragile invece quando investita dalla potenza di un movimento reale, spurio, di soggetti sociali in tutta la loro contraddittorietà e ambivalenza, capace di squadernare ogni certezza, identità, linguaggio, comunità precostituiti se non radicati in un autonomo punto di vista e un metodo della conricerca. Lo diciamo senza nessuna nostalgia di forme di militanza tanto intense quanto fragili, che richiedono e bruciano tutto nei tempi corti, vuoti e accelerati dell’età giovanile e universitaria, ma non reggono ai tempi dilatati, pieni e anche frustranti della maturità lavorativa, affettiva, anagrafica.

Per una lettura critica della diserzione

Non ci convince del tutto, oggi, la parola d’ordine della diserzione, evocata nelle mobilitazioni in ambito universitario. Utile come concetto suggestivo d’agitazione contro la guerra, ci pare più debole sulla linea della controsoggetivazione, come comportamento su cui fondare un processo organizzativo. Non ci convince la sua potenzialità sovversiva all’interno dell’attuale fase della congiuntura di guerra, dove non c’è ancora mobilitazione di guerra da cui disertare, ma tutta da capire la forma stessa della riorganizzazione del comando sul sociale in funzione della forma guerra che si sta dando o si darà.

Può essere la diserzione una tendenza su cui inserirsi, anticipando e radicandosi nell’ambivalenza di un comportamento sociale spontaneo poi da trasformare in rifiuto organizzato? Senza ricette, con la sola certezza che sarà la messa a verifica nella prassi militante della conricerca a dare la risposta, proviamo ad articolare alcuni punti critici utilizzando la storia, la nostra storia, la tradizione che ci siamo scelti.

La diserzione, la dimissione, il ritirarsi, nella situazione concreta di oggi, è un comportamento ambivalente o di rottura, come è stato, per fare un esempio, il rifiuto del lavoro in un’altra epoca che ci è alle spalle?

Il rifiuto del lavoro è stato espressione di una determinata composizione di classe dentro una determinata organizzazione di fabbrica. Un comportamento, in forme anche passive, di una minoranza non minoritaria di operai, di un’avanguardia però di massa, dentro e contro la fabbrica fordista degli anni Sessanta – anche contro altri pezzi di composizione! – e poi nella fabbrica sociale degli anni Settanta. Comportamento che, prima scoperto e anticipato grazie alla conricerca operaista, e poi organizzato politicamente dai militanti nella lotta dentro la produzione e diffuso conflittualmente nelle articolazioni della riproduzione sociale, ha inceppato per un decennio il profitto come variabile indipendente della riproduzione capitalistica.

Oggi, dalla nostra visuale, la diserzione è un comportamento già maggioritario e generalizzato. Non solo degli studenti medi e universitari, ma dell’individuo democratico complessivo prodotto dalla società neoliberale. La diserzione non la vediamo come il comportamento ambivalente di un’avanguardia potenzialmente conflittuale, ma la normalità della forma di vita della maggioranza, praticata però in forma individuale e individualista, ripiegata nel privato, nella ricerca edonistica del piacere, nella solitudine del lavoro.

Uno studente che “diserta la guerra”, oggi, al tempo della diserzione già sociale, cosa rischia di rompere? Rompe uno status quo, una condizione,  o la riproduce, attraverso lo stesso meccanismo con cui poer esempio l’astensionismo maggioritario oggi non è tanto espressione di una radicalizzazione politica antisistema ma più sintomo dell’assenza di una politicizzazione della società?

La diserzione è stata una scelta di campo concreta, materiale, alla base della formazione del movimento partigiano nell’autunno-inverno del ’43. Una scelta di campo imposta dall’alto, praticata con le spalle al muro, che metteva in gioco la vita: o l’arruolamento nella Guardia nazionale repubblicana di Salò, le camicie nere, o la via della clandestinità, che per un pezzo di quella generazione cresciuta nel fascismo ha significato la via dei monti, a raggiungere i primi nuclei di soldati sbandati, fuggitivi, ex detenuti, dove i quadri politico-militari dei partiti antifascisti ancora erano pochi. Fu quella scelta di diserzione di una minoranza a formare le prime bande partigiane: diciannove mesi dopo, sarebbero discese sulle città del Nord Italia in formazione disciplinata di esercito guerrigliero.

In quel momento, la politicizzazione e la militanza, prodotte nella lotta partigiana, hanno visto come passaggio preliminare obbligato una diserzione. Nelle condizioni di oggi la militanza, la controsoggettivazione in una forma di vita militante, riuscirà a costruirsi attraverso un comportamento che è già socialmente maggioritario ma senza alcun tipo di rottura con la forma di vita dominante, che è sì diserzione dal comando di guerra ma anche diserzione da forme di conflittualità, rottura, ricomposizione?

Conclusioni, malgrado il discorso sia lungo e incerto

Ecco allora una domanda a guidarci. Dentro la «fabbrica della guerra», come alimentare i segnali di protagonismo, a Modena ancora timidi e insufficienti, espressi dall’avanzare di una nuova generazione politica che abbiamo visto attraversare varie fasi di mobilitazione (dalla scuola alla Palestina), ma stenta ancora a trovare forme autonome di protagonismo? E poi: come costruire una militanza capace di cavalcare le vertigini, stare sulle ambivalenze, ribaltare le certezze per costruire radicamento, progettualità e ricomposizione?

È ancora e sempre lo stesso ordine di problemi, che come Kamo abbiamo contribuito a discutere e provato a nostro modo ad affrontare; altri, questi ultimi anni, lo hanno sicuramente sviluppato meglio con ben altri strumenti, possibilità ed esperienza. Alla nostra piccola altezza, ci sentiamo di inquadrarlo dentro le suggestioni e le piste di ricerca politiche lasciateci da Mario Tronti nel suo ultimo, postumo, scritto politico e militante. Salvare la rivoluzione dal Socialismo, salvare la libertà della Democrazia, dice Mario – e, aggiungiamo noi, salvare l’autonomia dal Movimento. Da quello che è stato il ciclo, oggi esaurito, dei centri sociali e del centrosocialismo, entro cui per tutta una fase si è espressa la militanza autonoma. Nel presente, per il domani, si tratta di salvare l’autonomia possibile di nuovi soggetti da quello che, per semplicità e in mancanza di termini migliori per capirci, prende oggi le vecchie forme del Movimento. C’è un lavoro da fare, di ricerca, di elaborazione, di immaginazione. Senza l’ambizione di sapere che quel tempo, il più inattuale, verrà. Perché il mondo e il tempo che stanno per arrivare, tutto lascia prevedere che saranno al seguito del mondo e del tempo che sono già arrivati. Facciamoci trovare pronti per domani, preparandoci oggi all’inaspettato.

Di seguito gli interventi che hanno aperto la discussione. Buona lettura.

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Marina – studentessa, militante di Osa

Visto che tutto quello che abbiamo fatto nelle scuole in questi anni come studenti organizzati si è basato sull’analisi della realtà, prima di parlare di scuola due parole sul contesto generale e sul periodo storico in cui ci troviamo.

La guerra, dall’Ucraina al Mar Rosso passando per la Palestina, è diventata il fattore centrale. E l’Italia, nella guerra, assume un ruolo centrale. Segue le politiche della Nato, aumenta le spese militari al 2% del Pil, continua a inviare armi, e per farlo toglie i soldi alle scuole, all’università (la recente manovra finanziaria prevede 500 milioni di tagli al Fondo per il finanziamento ordinario delle università), alla sanità, alle spese sociali.

Come studenti organizzati è stato importante quindi individuare il nostro nemico per mobilitarci: il governo. Un governo guerrafondaio, un governo della guerra, quello delle Destre, della Meloni.

Per lavorare nelle scuole, abbiamo quindi colto la contraddizione dei soldi che invece che essere usati per la nostra formazione vengono usati dal governo nelle guerre in cui l’Italia è complice e corresponsabile: le conseguenze le vediamo quotidianamente in tutti gli istituti da Nord a Sud, dove ogni giorno cadono pezzi di soffitto sulle classi, mancano le risorse per metterli in sicurezza dopo disastri ambientali come l’alluvione in Romagna, mancano spazi o materiali per fare lezione, mancano veri sportelli d’ascolto e assistenza psicologica, manca una vera educazione alla sessualità.

Abbiamo riconosciuto il nostro nemico in una classe dirigente che utilizza la filiera della formazione per far passare l’ideologia dominante e per mantenere il consenso. Scuola e università come apparati ideologici di Stato, e manganelli e stretta repressiva per chi protesta [si veda il Decreto sicurezza ddl 1160, ndK]. Ci è stata consegnata una scuola che non ha più quel senso di emancipazione che poteva avere negli anni dello sviluppo delle lotte, ma che continua a cristallizzare le condizioni sociali di partenza degli studenti. La scuola non è più un ascensore sociale ma si è trasformata in filiera formativa, centrale per l’aumento della competitività e della produttività, e per la creazione di valore e per la crescita economica.

Questo è evidente con il Pcto (l’alternanza scuola-lavoro) che costituisce una vera e propria aziendalizzazione della scuola, in cui i percorsi di studio degli studenti verranno modificati dalle imprese presenti sul territorio per creare figure di lavoratori specializzati. Inoltre, con la nuova riforma degli istituti tecnici e professionali di Valditara, che consiste nel ridurre un anno di scuola per questi ultimi e accrescere le ore di Pcto, assistiamo anche a un aumento di differenze tra scuole di serie A (come i licei, luoghi deputati a instradare la futura classe dirigente) e scuole di serie B (istituti tecnici e professionali).

Quello che vediamo in generale è una crisi di egemonia dell’Occidente capitalistico che, nel suo contorcersi, produce barbarie. Il discorso dell’Occidente capitalistico si dice portatore di pace, di innovazione, di libertà, ma come vediamo produce guerra, sfruttamento, repressione. E le classi dominanti non hanno e non vogliono trovare soluzioni alle barbarie che producono.

Sappiamo che lotte nelle scuole devono essere fatte pensando alla realtà che abbiamo davanti. E nelle scuole noi vediamo una tendenza tra gli studenti a eludere questi valori proposti dal discorso dominante, a non sentirsi rappresentati in toto da questi valori, quindi a cercare di uscirne, a scapparne, in varie forme e modi, magari cercando altri modelli. Forme e modi che però non vanno a rottura con la società così strutturata, ma che comunque non sono conformi alla narrazione che il sistema ha fatto di sé. Nelle scuole vediamo una serie di fenomeni che vanno dal ribellismo individuale e individualistico, al disagio psicologico, all’autolesionismo, al disinteresse da tutto ciò che succede, fino anche allo scimmiottamento della criminalità e di comportamenti criminali. A Modena, per esempio, quest’anno i rappresentanti d’istituto del Liceo Classico Muratori, dove passano le future classi dirigenti, hanno chiamato la polizia perché c’erano studenti del Tecnico e Professionale che venivano a rubare, a picchiare, a fare brutto agli studenti del Classico davanti alla scuola.

Nelle scuole vediamo che non c’è una spontanea prospettiva di rottura. Dobbiamo quindi essere bravi come militanti organizzati a incanalare questo disagio e questa rabbia degli studenti e portarli ad avere questa prospettiva, facendo come, per esempio, dopo l’uccisione di 3 ragazzi in Pcto da cui è nata l’ondata di occupazioni della Lupa a Roma nel 2022.

Chiaramente non è facile, perché siamo in un contesto di depoliticizzazione e de-conflittualità studentesca, in cui il nemico fa un attento lavoro di deterrenza per impedire ogni ipotesi di mobilitazione. La sfiducia nella possibilità di cambiamento e nell’utilità della lotta è veramente alta.

È stato difficile come portare nelle scuole di Modena un punto di vista e una prospettiva di rottura. Anche perché a Modena, feudo Pd, sono forti le organizzazioni studentesche che sono l’articolazione di sindacati e di partiti del centrosinistra di governo, filoistituzionali, socialdemocratici, come la rete degli Studenti, l’Udu, eccetera. Abbiamo visto che non portano effettivamente punti politici, ma riescono a sussumere tutto quello che hanno intorno, a far su quello che con difficoltà e spontaneità prova a muoversi; hanno appiattito le lotte che ci sono state, le hanno compatibilizzate, senza offrire una vera alternativa e anche per questo, a Modena e provincia, quest’anno il movimento studentesco non è stato dei migliori.

Chiaramente ora con il movimento per la Palestina si è riuscito sicuramente ad ampliare e mobilitare qualcosa, però ha avuto più successo nelle università che nella scuola, e sicuramente qua a Modena nell’università non è partito niente. Eppure, nonostante anche Forlì sia una città di provincia, lì il movimento è partito dall’università.

A Modena è stato interessante lo sciopero e la successiva mobilitazione scoppiati all’Ites Barozzi. Partito come protestaperché la scuola non faceva andare in gita le classi, non riforniva di cibo le macchinette e faceva perquisire gli zaini degli studenti all’entrata, a seguito della minaccia di sospensione della preside al rappresentante d’istituto per aver rilasciato un’intervista esprimendo i problemi di una “scuola devastata” la mobilitazione ha preso piede in difesa dello studente. La mobilitazione contro la repressione è poi rientrata senza una prospettiva di rottura, senza uscire dal proprio caso particolare, senza guardare all’esterno della propria scuola.

Ci sta, perché comunque questa “coscienza” la porti dall’esterno, non sono cose che vengono su da sole, è qui la funzione del militante; però è una piccola dimostrazione che sotto si muove qualcosa, anche in provincia gli studenti possono muoversi e cercano un cambiamento, non è detto che a Modena non debba accadere mai niente. Bisogna essere bravi a cogliere le contraddizioni quando si manifestano materialmente che poi ti portano a uno scontro diretto.

Scuola e università sono apparati ideologici di Stato, e i luoghi e i percorsi formativi sono sempre pervasi dall’ideologia del nemico, come stiamo vedendo sempre più chiaramente in questo stato di guerra. E noi come studenti dobbiamo continuare ad utilizzare questi luoghi di formazione come campo di battaglia, per portare avanti un’idea di formazione diversa, in una diversa società.

  

Elia – studente universitario, militante di Officine della formazione

Il punto di partenza della nostra inchiesta sulla composizione studentesca universitaria (in forma estesa, i risultati dell’inchiesta si trovano sulla rivista «Machina»: qui e qui) è tutto sommato semplice: la constatazione che in università c’è un vuoto politico.

Questo vuoto politico non è tanto da intendere in senso fenomenologico (“non c’è nessuno, non esiste nulla di politico”). Alcuni gruppi ci sono sempre stati, e ci saranno sempre, in forme e quantità più o meno sparute. Quello che ci interessa considerare, invece, è il loro appiglio sulla composizione studentesca, la loro capacità di muoverla e di agitarla. Insomma, ci sembrava che anche l’università di Bologna fosse pacificata quanto qualunque università anglosassone o nordeuropea.

Dire inchiesta è, però, improprio. L’idea era quella di una conricerca. Ovvero, produrre una conoscenza imperniata sul punto di vista di una soggettività, quella studentesca, al fine di poter indicare la strada, da un lato, alle nuove forme di organizzazione possibili dentro le università, assunta la crisi delle forme esistenti, e dall’altro verso i “punti deboli” del sistema, non tanto in senso oggettivo, ma soggettivo: cosa temono, desiderano e odiano gli studenti?

Quindi, produzione di conoscenza collettiva e comune che, allo stesso tempo, possa aprire uno spazio per l’autoformazione, per la formazione politica. Insomma, ditelo come volete: per dare forma a nuovi militanti.

La tesi principale che è emersa dalla conricerca è che non ci sembra possibile rintracciare un residuo autonomo (un “fuori”), cioè una ricerca di conoscenza pura e incontaminata, dalla volontà e dal desiderio degli studenti di essere formati in quanto forza-lavoro competente e, soprattutto, desiderosa di vendersi sul mercato del lavoro. Chi sceglie di studiare all’università lo fa esclusivamente per questo motivo. Per descrivere questo processo abbiamo utilizzato il concetto di “professionalizzazione”. La produzione – come processo attivo, cioè voluto dal soggetto, e allo stesso tempo passivo, cioè subito – di forza-lavoro specializzata pronta per essere inserita nel processo produttivo.

Questa questione va letta assieme alle aspettative degli studenti sul proprio futuro. La ricerca dimostra un complessivo “innalzamento” delle aspettative rispetto al titolo di studio. In altri termini, si studia poiché si ritiene possibile che il titolo renda favorevole la collocazione nel mercato del lavoro. Tutto questo sommato alle difficoltà e alle fatiche dello studio, che si accettano e subiscono senza troppi problemi – o, comunque, si cercano di superare questi problemi. La possibilità, nel futuro, “di fare quello che ti piace” ripagherà la fatica. Infatti, non è secondario rimarcare come questa predisposizione verso il futuro porti gli studenti ad accettare il sacrificio dello studio e della formazione.

Bisogna sottolineare che l’innalzamento delle aspettative legate al titolo di studio non viene interpretato dagli studenti come un processo lineare e privo di frizioni. Al contrario, è una vera e propria battaglia per il riconoscimento della competenza e della formazione, che porta tratti anche culturali e generazionali. Non mancano ostacoli e incertezze, tuttavia per quel che concerne il titolo di studio sembra esserci davvero la fiducia che l’educazione superiore sia un investimento che possa portare a una posizione favorevole nella società.

Infine, l’ultima riflessione riguarda il cosiddetto “sapere pratico”. Gli studenti intervistati, infatti, richiedono una forma di sapere pratico-teorica, in aperta contrapposizione a uno studio impoverito, standardizzato e nozionistico come quello offerto dall’università oggi.

Il primo lato della medaglia è il rifiuto di una certa verbosità, un certo vecchiume dell’università italiana. Riprendendo le parole degli studenti, il sapere pratico-teorico ti fa osservare, assieme alla professoressa, un certo fenomeno in laboratorio, al di fuori della dimensione della lezione frontale e libresca. Ma accanto a questo tipo di sapere ce n’è un altro che costituisce uno scarto: quello che dà forma a una competenza tecnico-pratica, attiva: fare le cose con le tue mani. Abbiamo chiamato questa forma di sapere semplicemente “tecnico”. È proprio questa la forma di sapere a essere reclamata dal desiderio di professionalizzazione degli studenti: il possesso di una tecnica capitalistica professionalizzante, che li formi come forza-lavoro competente e professionale.

Vi è un altro livello del discorso verso cui prestare attenzione e riflettere. Tagliando con l’accetta, possiamo dire che il sapere della didattica universitaria è così impoverito e standardizzato che l’unica strada percorribile, per gli studenti, risulta essere quella della richiesta di professionalizzazione. La ricerca di sapere e conoscenza “per sé” non si può dare nella realtà capitalistica, dunque si sceglie la via della professionalizzazione perché conviene. In altre parole, conviene perché il sapere è talmente impoverito e modularizzato che tanto vale diventare un professionista che applica quel sapere povero allo status quo capitalistico. Ma questo, banalmente, significa che lo studente finisce per contribuire attivamente e soggettivamente a divenire forza-lavoro specializzata, o forse sarebbe più corretto dire “capitale umano”, realizzando il compito storico dell’università capitalistica.

Crediamo che questo passaggio vada assunto come un dato di realtà.

Non per rassegnazione o ineluttabilità ma, al contrario, perché per rovesciare il tavolo dobbiamo sapere bene di quale materiale questo tavolo è fatto, quali sono le sue crepe, in che punto si può rompere. Questa “utentizzazione” della figura dello studente, questa riduzione alla passività, al contenitore da riempire, ci sembra che spesso si accompagni a una certa “protocollarità” nell’approcciarsi al sapere da parte degli studenti. Una faccia della professionalizzazione è proprio la protocollarità, nel senso dell’algoritmo: la richiesta di possedere una serie di passaggi definiti per risolvere un problema di cui si sa già che una soluzione esiste. I professori stessi riproducono questo meccanismo, tenendo quanto più possibile lontano gli studenti dalla possibilità di scontrarsi con problemi aperti, sia quelli radicalmente privi di soluzione, sia quelli con una soluzione che non è data a priori. Ciò che conta è superare l’esame: tutto si riduce nell’ingurgitare una serie di informazioni per poi ripeterle il più fedelmente possibile in attesa di ottenere l’agognato “pezzo di carta”.

Se questa riflessione sulla professionalizzazione è chiara per le facoltà scientifiche, ci sembra che anche i soggetti delle facoltà umanistiche, che si iscrivono perché “amano ciò che studiano”, siano inseriti in questa stessa logica. Che riguardi la volontà di diventare un ricercatore o altre innovative figure professionali che possono emergere dagli studi umanistici, la figura soggettiva, lo spirito e l’antropologia sono simili. Magari, agli studenti delle facoltà scientifiche dei “seminari autogestiti” non interessa nulla, mentre a quelli delle facoltà umanistiche interessa se riguardano l’argomento della loro tesi o la possibilità di stringere la mano al professore di turno. Ma ci teniamo a specificare: non c’è nessuna moralizzazione in questo discorso. È così e basta, e lo abbiamo imparato a nostre spese, tentando più volte di organizzare questi soggetti o di aggregarli proprio attraverso queste modalità seminariali (che non riteniamo siano sbagliate in sé, per inciso, ma che vadano assunte dentro l’orizzonte materiale di questa soggettività).

Qui dobbiamo essere chiari. Da un lato questo è un processo soggettivo di trasformazione antropologica della condizione dello studente. Quanti anni sono passati dall’ultimo, reale, movimento? Possiamo dire quasi vent’anni senza movimenti? Ecco, tutto ciò ci consegna questo soggetto qua. Però, ovviamente, questa lettura assume un senso se la si legge nella più ampia questione della crisi della militanza e della crisi delle forme della politica di quello che viene chiamato “Movimento”, appunto. Cioè, dall’università – luogo del fermento giovanile – si vede chiaramente come ad oggi non esista nessun terreno di identificazione comune e collettiva: immaginari, pratiche, possibilità di dire “io sono questa cosa qui” in senso politico, un soggetto politico riconoscibile (“siamo dei centri sociali”, “dei collettivi” eccetera).

Un inciso va fatto. Lo studente della professionalizzazione è lo studente che fa l’investimento. E se questo lo leggiamo assieme ai processi selvaggi di accumulazione ed estrazione capitalistici legati alla città, basta poco per capire che nella città universitaria arriva chi se lo può permettere e, allo stesso modo, come il capitale abbia affinato una selezione molto più a valle. Insomma, arrivano studenti di ceto medio non troppo impoverito. Quindi, in qualche modo, anche il terreno classico del diritto allo studio e dell’accessibilità interessano poco questa figura studentesca. E lo si vede bene dalle piccole mobilitazioni di qualche anno fa relative al caro-affitti (le prime “tendate” per capirci), le quali alla fine vivevano più nel campo dell’opinione che in quello della materialità dei soggetti.

E ora arriviamo al sodo. Qualcosa che, invece, ha smosso, nel suo piccolo, per quanto comunque in un quadro di assenza di mobilitazioni significative, sono state le mobilitazioni in solidarietà alla Palestina. Proviamo a fare qualche ragionamento, prendendo davvero sul serio che «solo la lotta può impedire la barbarie». Ciò che segue va quindi letto come una forzatura per cercare di fare passi avanti e rilanciare il discorso, rilanciare l’intensità della lotta.

Ora, senza fare analogie macchiettistiche, senza dire «portare il Vietnam in fabbrica» o «Bring the war home», è comunque accettabile affermare che queste mobilitazioni per la Palestina siamo state una serie di rivendicazioni di solidarietà, mi si consenta di dire, di opinione: quelle che potenzialmente restano imbrigliate nel piano della moralità (e della giustizia astratta) e rischiano di avere poca attinenza con la vita che facciamo tutti i giorni e che, però, nel lungo periodo, nell’intensità e nella possibilità di rottura rischiano poi di assopirsi.

Quindi, la prima operazione di metodo mi pare questo: capire cosa porta dei soggetti concreti a mobilitarsi e, soprattutto, a farlo più di una volta (credo che la sola indignazione e la sola commozione siano necessariamente portati ad avere una breve durata). Cioè, non è tanto un ragionamento per scovare la verità oltre la menzogna, ma quanto per indagare proprio la costituzione materiale del soggetto-contro. Dunque, cosa è emerso da questo soggetto?

La mobilitazione non ha posto nessun accento oltre la questione palestinese. Senza dire sia giusto o sbagliato, in generale, strategicamente o tatticamente, lo assumiamo come dato di fatto. So che in altri contesti in Italia questo è invece successo, dunque mi riferisco a dove siamo collocati, Bologna. I termini della questione li conoscete: l’idea del boicottaggio accademico e dunque la fine degli accordi tra l’università e diverse istituzioni israeliane. Non c’erano dei ragionamenti che cercassero di ampliare il discorso o, diciamo, che per lo meno lo facessero assumendo il piano della condizione studentesca, che ne so, gli effetti degli accordi sulle lezioni, gli esami. E anche per questo motivo, crediamo, che ci sia voluto un certo tempo perché assumesse i tratti di una mobilitazione. Senza poi rimarcare che si tratti di una serie di rivendicazioni – lo dico veramente con il pudore di dire una banalità – di natura sostanzialmente sindacale. Cioè: si chiede la fine degli accordi, si può vincere o perdere.

Ora, senza ingenuità: le università piccole possono stracciarli subito quegli accordi, quella di Bologna ha grossi problemi per ovvi rapporti di forza globali e posizionamento nei circuiti del valore immateriale. Ad ogni modo, è interessante notare come la questione della materialità soggettiva della mobilitazione non sia stata posta in alcun modo, se non vagheggiando tutta la questione degli accordi come contraddizione cardine del capitalismo, insomma con un linguaggio che non affonda le radici nella materialità di quel soggetto descritto sopra, insomma discorsi vuoti. Una prima spia del fatto ci fossero altre ragioni verso la partecipazione, oltre al cuore della rivendicazione, pur comunque assolutamente fondamentale.

Ora, facciamo un salto verso le tendate. A Bologna, va detto, non bloccavano nulla. Le malelingue potrebbero dire che fossero un centro sociale a cielo aperto. Ma lì, invece come poi in altre occasioni, la partecipazione di una composizione studentesca “vera”, spontanea, si è data.

Ora, la tesi di fondo: questo “qualcosa sotto” ai soggetti che si mobilitavano, alle tendate, ci è parso di poterlo vedere nel bisogno di socializzazione e di rottura della solitudine che è tipica del percorso universitario. Il soggetto che fa l’università oggi è sostanzialmente solo come un cane. Nonostante le apparenze, anche le università sono territori in cui il legame sociale è devastato e, in qualche modo, gli studenti riconoscono questa cosa e la sentono come problema. Da un lato lo studente ha il percorso di investimento su se stesso, quello che abbiamo descritto; dall’altro ha il consumo di divertimento e di esperienza della città (che occupa un ruolo fondamentale, ovviamente) e infine ha le patologie e i sintomi (ansia, depressione, solitudine). Questo non è nulla di nuovo, sono i tratti della condizione giovanile. Certo. Però ci pare proprio che in qualche modo, nelle tende, nella mobilitazione per la Palestina si cercasse di rompere (e quindi implicitamente di politicizzare!) quella roba lì. All’indomani dello smantellamento volontario delle tendate – sostanzialmente per stanchezza e burnout, come si dice oggi (comprensibile dopo più di venti giorni!) – il sentimento comune suonava così: “Non abbiamo vinto nulla, ma almeno ci siamo divertiti e siamo stati assieme”.

Se gli ingredienti per la politica sono gente incazzata e individuazione del nemico, ci pare che questi due termini, oggi, non siano in alcun modo consegnati dalla realtà verso il soggetto studentesco. Si possono – soprattutto, si devono – operare delle forzature e verticalizzazioni, certo. Ma a ogni modo pare che questo non si dia. Abbiamo più volte riflettuto su questo rapporto tra consenso e forza dentro la mobilitazione. Ovvero c’era consenso ma mancava la forza, dove per forza intendiamo la possibilità di individuare il nemico. E mi pare di poter dire che non fosse tanto un problema di tattica e strategia, quanto un problema di maturazione della soggettività. Insomma, che i nemici fossero il rettore, un professore o un capo di dipartimento, lo erano sempre e soltanto per un momento estemporaneo, per una fase.

Qui provvisoriamente chiudo: quello che è stato, quello che è, e quello che sarà in autunno penso si possa intendere come sintomo e preludio di qualcosa che, prima o poi esploderà, e che però va proprio letto dentro questo vero e proprio massacro della composizione giovanile.

Ora, se vogliamo parlare di guerra e università dobbiamo almeno prendere in considerazione tre tipi di guerra.

La prima è quella più ovvia: il diretto ingresso della guerra dentro l’università. Stato e capitale utilizzano l’istituzione per la produzione di conoscenza in funzione e per la guerra. Quindi produzione legata alla competizione tra i diversi capitali e diversi poli in conflitto in questa fase di destrutturazione e ristrutturazione anche bellica della globalizzazione. Va tenuto presente quando si considera la ricerca direttamente e indirettamente legata alla guerra anche il cosiddetto dual use.

La seconda è quella che materialmente distrugge le università. E pone un insieme di problemi, a chi fa politica in quei contesti, del tutto differenti. Oggi Kiev, Gaza, Beirut, ma sappiamo che altre guerre sono alle porte.

La terza è l’economia politica intesa come continuazione della guerra con altri mezzi. Insomma, la guerra del capitale contro di noi, la violenza dell’accumulazione originaria che si ripete ogni giorno. E l’economia politica sussume, oggi completamente, le università. Oggi ne abbiamo discusso dal punto di vista delle trasformazioni soggettive (“utentizzazione” e trasformazione in capitale umano) ma quelle oggettive sono forse ancora più lampanti: gli studenti come esercito di forza-lavoro precaria a basso costo, l’indebitamento e la finanziarizzazione dell’istruzione superiore, l’estrazione di ricchezza attraverso i prezzi degli affitti e la privatizzazione selvaggia di tutto quello che un tempo erano servizi.

Quindi, in queste tre guerre guerreggiate, abbiamo provato a riflettere su come si porta una guerra diversa dentro le università. Una specie di gesto leninista, una “nostra guerra”, come discorso tattico, ma anche strategico – magari anche come slogan, credevamo ad un certo punto. Un gran bel ragionamento. Ma tutto sbagliato.

Il problema, alla fine, è che il soggetto studentesco non è un soggetto che vuole fare la guerra. Tutto il contrario. È un soggetto della diserzione. Senza illusione che, ad oggi, diserzione sia qualcosa di profondamente diverso dal “dimettersi in solitaria”. Bifo legge i sintomi (depressione, solitudine eccetera) come una diserzione dalla realtà capitalistica – una rinuncia. Insomma, tra prendere una parte nella guerra, parteggiare, o “darci a mucchio”, dove questo “darci a mucchio” può essere prendere le pilolle o prendere lo spritz, lo studente è comunque un soggetto che si dimette. Non prende parte.

Scontato dire che tutto questo va organizzato, con forme e linguaggi della politica nuova. Come sempre: con continuità e discontinuità assieme, le spalle al futuro, la testa nuova e il cuore antico. Come recitava un titolo della stampa di giugno, «nel 2029 la generazione Erasmus potrebbe dover marciare su Mosca»: ne vedremo delle bruttissime, ma speriamo di farci trovare pronti per organizzarla, la diserzione.

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Discorsoni / Analisi

Verso tempi di chiarificazione

0. Impercettibili sfrigolii nell’aria di elettricità statica. Vibrazioni di energia cinetica che rompono l’immobilità ristagnante. Attività elettrica che ionizza l’atmosfera, creando le condizioni per scaricarsi a terra.

Si sta muovendo qualcosa. I cani fiutano il temporale.

1. È la guerra. Non le guerre: d’Ucraina, di Palestina. La guerra, unica e indivisibile: operazione di senso non scontata. Sono i fronti di un unico conflitto, che ci vede già coinvolti, questa volta da vicino, questa volta non senza conseguenze. Non è il Kosovo, l’Afghanistan, l’Iraq: sono l’Europa, il Mediterraneo – trincee più avanzate degli Stati Uniti. L’Italia al centro di entrambi: pedina dell’impero americano, legata industrialmente alla Germania, dipendente dalle rotte medioceaniche. In un conflitto ibrido che si combatte su più livelli, la cui posta in gioco sono i nuovi equilibri del sistema-mondo.

2. Come retrovie, siamo già in guerra. Prima ce ne rendiamo conto meglio sarà. Loro, quelli che decidono e comandano, lo sanno. È la guerra dei nostri tempi, che scuote, rimescola, mobilita tutto: processi di polarizzazione sociale sono già in atto, altri di radicalizzazione politica bussano alle porte, mezze classi e ceti medi – barometri sociali che registrano il cambiamento delle correnti nell’atmosfera – entrano in agitazione: recentemente, in tutto il Vecchio Continente, col trattore in tangenziale.

3. È la guerra dei nostri tempi, non provocata e voluta da noi. Ciò che si è messo in moto sopravanza di varie misure volontà e piani dei suoi attori. Figurarsi chi da tempo è fuori dalla partita. Ma è la nostra: possiamo solo decidere cosa farci, e come starci dentro. Se da agenti militanti, o da spettatori riservisti. Sovvertendone le contraddizioni, organizzando il rifiuto a pagarne il costo, o finire a combatterla, una volta finiti i volenterosi ucraini. All’orizzonte, nessuna pace, ma il suo approfondimento e generalizzazione.

4. È comparsa una scritta davanti a una scuola di Modena. I giovani estensori, forse, volevano indicare lo spirito dei tempi: “Siamo senza futuro”. Le parole sono le stesse del punk, e ci ricordano un certo sentimento diffuso nell’Onda. Ma se allora era la rabbia a muoverle, oggi sembra un grido di disperazione. Quel “No future” era retto da un rifiuto: questo pare retto dall’accettazione. «È una questione di qualità», dice la canzone. Eppure.

5. Una nuova generazione politica si sta affacciando sul palcoscenico delle piazze e delle strade. Al momento usando organizzazioni, forme e parole ereditate da un precedente ciclo, passate non indenni attraverso un decennio di sconfitte.

Qualcosa si sta muovendo. Lo fiutiamo nell’aria, come i cani. L’abbiamo vista negli ultimi anni, prima timidamente, prendere slancio. Non sappiamo in che direzione salterà: se quella marginale dell’accettazione di un ruolo di testimonianza identitaria, o quella del rifiuto della marginalità, per una forza capace di produrre autonomamente parole, forme e organizzazione all’altezza dei tempi. È questa la posta in gioco.

6. Le manganellate della polizia: la ferocia si accanisce su chi non è forte. In questo caso, studenti minorenni, disarmati, infilitasi in un budello a Pisa. Abbiamo visto tutti il ghigno dello Stato che impagnava il manganello. Noi lo conosciamo bene. Ma conosciamo bene anche i suoi occhi, quando la paura cambia di campo. Quando si è forti: come nel luglio ’62, a Piazza Statuto; come nel marzo ’77, a Bologna; come il 14 dicembre ’10 e il 15 ottobre ’11, a Roma. Ricordiamoceli.

7. Questa generazione comincia da ora a fare esperienza del braccio armato dello Stato, e della sua natura. È un fatto positivo, che apre alla possibilità. La possibilità di scegliere: la prossima volta, restare a casa, accontentandosi di odiare gli sbirri; oppure, mettere a valore l’odio, tornando in strada più forti, incazzati e organizzati. Spesso una manganellata ben assestata è più chiarificante di 100 libri di filosofia o 10 corsi di autoformazione. Questa generazione ha la possibilità di rompere la lagna vittimistica del malessere giovanile. Ma soprattutto, di rompere con le soggettività della sconfitta, formatesi nel declino del ciclo precedente.

8. «Dal prenderle al darle. Si può fare. È stato fatto».

Tattica, strategia, abnegazione, forza – cantava in Emilia una band filosovietica.

Aggiungono i militanti: inchiesta, progetto, ricomposizione, organizzazione.

Con una buona dose di coraggio, caschi, cordoni e bastoni – concluderebbe un bandito. E la chiudiamo qui.

9. Andiamo verso tempi di chiarificazione.

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Discorsoni / Analisi

Arrivederci e buon lavoro

0. Chi in questo paese non ha desiderato l’insurrezione è un’anima morta che nulla ha vissuto delle passioni della storia – da un vecchio volantino del Settantasette.

«Davanti al gruppone c’è un quarantenne coi capelli brizzolati con gli occhialetti tondi dorati. Una faccia a metà tra il terrorista russo di fine Ottocento e il dirigente d’azienda». Eccolo.

1. Quando scoppia il Sessantotto, e poi il Sessantanove, ha 35 anni, ma già con dieci di militanza. Quaderni rossi, Classe operaia, il Potere operaio veneto-emiliano. Gli scioperi degli elettromeccanici, il Petrolchimico di Porto Marghera, le fabbriche del Brenta. Assemblee, volantini, picchetti con gli operai – senza Movimento Operaio. La conricerca a Torino, con Alquati. Le discussioni a Roma, con Tronti. L’intervento in Emilia, con Bianchini. A 35 anni, ha un prestigioso posto universitario, una moglie, due bambini. Ce n’era abbastanza da tirare i remi in barca, dedicarsi alla carriera, al focolare, alle opinioni rispettabili. Mettersi alle spalle la fatica della lotta – “il mio, l’ho già dato”. Una vita borghese già apparecchiata.

In queste condizioni, comincia un secondo decennio di militanza. Gli anni Settanta.

2. Come dice un nostro compagno, loro sono (stati) di un’altra categoria. Questo tipo d’uomo e donna gioca un altro campionato. Il compagno, che oggi ha un po’ più di 35 anni, con un po’ più di dieci di militanza, dice che non è solo questione di preparazione intellettuale, ma di capacità di decidere sulla propria forma di vita. Di sicurezza, determinazione, indipendenza dalle relazioni personali. Non sono pochi gli ingredienti giusti che fanno un rivoluzionario.

«È difficile far capire che cosa significhi non solo per operai e studenti di vent’anni, ma per uomini di trenta-trentacinque, fare una vita da militante. Non è solo un totale impegno temporale, un’avventura rischiosa ed entusiasmante: è uno sforzo di trasformazione di sé, razionale e affettivo, teorico e politico». Ce ne saranno altri, di uomini e donne così? Come, oggi, renderlo possibile: ecco la domanda.

3. Crediamo che per un determinato spazio e tempo, negli anni Settanta, lui sia stato come Lenin – o meglio, un Lenin in nuce. Ne abbia espresso la cifra, per quel movimento rivoluzionario, per quella composizione di classe. La profondità strategica, la presenza tattica. La capacità di anticipare la tendenza, vivendo la sovversione. L’attualità della rivoluzione, non tanto dove è più alto il grado di sviluppo capitalistico, ma dove è più forte la soggettività operaia. Il leninismo non è attività da santarelle e deboli di stomaco. E questi momenti non durano in eterno. La finestra si chiude. Infatti sappiamo come è andata. Parabole collettive e individuali, miserie collettive e individuali. Gli strascichi implacabili delle insurrezioni sconfitte. Nuove strade, strade diverse. Che, da dove veniamo, non abbiamo mai percorso. Siamo venuti dopo quel tramonto tinto di rosso, siamo alla ricerca del rosso di una nuova alba. Su questo, su ciò che è stato dopo, non ci dilungheremo. Occorrerebbe ritornare invece sui nodi irrisolti della sconfitta. L’operaio sociale, l’enigma non sciolto dell’organizzazione.

4. Con la furia della ricerca dell’adesso, ci dimentichiamo del tempo necessario a ruminare i vecchi libri che abbiamo letto, spesso dimenticato, ma che sono i più decisivi, ancora potenti. I libri di quando quella finestra era aperta. Ne nominiamo due.

5. Crisi dello Stato-piano. Magia nera operaista. Grimorio di lotte infernali tra scuole di negromanzia per il potere sulle anime dei comunisti. Una lingua oscura, insondabile ai mortali non iniziati al sapere arcano dei Grundrisse, che cela formule e alchimie capaci di invocare spiriti demoniaci della tendenza, dell’organizzazione, della composizione. Pochi possono vantare di aver compreso appieno le mistiche elucubrazioni di questo scritto diabolico e i poteri dimenticati che racchiude il Negrinomicon. Fuor di ironia, è in testi come questi, storicamente determinati dai processi di lotta, immersi nel proprio tempo e nei compiti che esso staglia alle soggettività politiche, che vediamo l’ombra e il metodo di Lenin. «Classe operaia in armi, comunismo in atto».

6. La fabbrica della strategia. Metodo e potenza leniniani, in 33 lezioni, che rivivono nel movimento reale. A ripercorrerne la curva, l’explicit vale ancora oggi. «Tempi terribili ci stanno davanti. L’uso terroristico della crisi da parte del capitale, il trasformarsi repressivo dello Stato, la mutazione definitiva della regola dello sviluppo, la caduta della legge del valore: tutto questo lo vediamo e lo vedremo rivolgersi sempre più pesantemente contro di noi. Dovremo resistere. Riscopriremo che tutte le armi del proletariato vanno leninisticamente utilizzate – soprattutto quelle che una tradizione di sconfitta e di tradimenti più pesantemente ci nega. Detto questo, va tuttavia aggiunto che la definizione marxiana e leninista del nostro compito di distruzione dello Stato per il comunismo non potrà darsi che dentro la consapevolezza di un progetto strategico nuovamente ricomposto – e dentro un conseguente ciclo internazionale di lotte operaie. È vostro compito, di studenti e di operai, di noi tutti che marciamo sotto le bandiere del comunismo, risolvere nella pratica sovversiva il problema dell’insurrezione e della liberazione». E boom.

7. Basta così. Consentiteci di andare chiudere questo discorso sragionato a modo nostro. Quello degli irregolari, degli ingestibili, degli irrecuperabili – a cui servono quel tipo d’uomo e donna di intellettuali e militanti, che a 35 anni cominciano un secondo decennio di militanza, con tutta la gioia della lotta e il desiderio più vero di rivoluzione, proprio perché non lo sono, intellettuali, e ci provano a esserlo, militanti, dentro i propri tempi, irriducibilmente contro di essi. Con le parole di un altro bandito, di un’altra banda, ma della stessa teppa. Sempre dagli anni Settanta.

8. «In via Disciplini c’è un bordello di gente in sbattimento – è la redazione di un giornale che deve ancora uscire – di un periodico “dentro il movimento” – tra mille voci ci hanno portato in una stanzetta piena di libri e di carte – ci hanno fatto sedere – loro sono in sei o sette… un tipo alto e secco sui quarant’anni – un po’ mistico nel suo gesticolare – ha fatto un discorso a vortice – quasi frattalico – più volte interrotto dai compagni lì presenti – e costretto a ripetere i suoi concetti espressi con crescente determinazione – alla fine si è degnato di usare frasi più abbordabili – “Cuccetta [Capanna] – anche se non ha mai brillato per intelligenza – su un punto aveva ragione – per trasformare un movimento politico di pochi soggetti in uno di massa c’è bisogno di un servizio d’ordine abile – di eccellenza – noi abbiamo gli intellettuali – siamo presenti tra gli studenti e gli operai – bisogna agire anche sull’immaginario – per creare l’organizzazione più forte di Milano – e così abbiamo pensato a voi” – quel riferimento a Cuccetta e agli statalini ci è andato di traverso – “Noooh!” gli abbiamo risposto in contemporanea – “Non siamo state le comparse di Cuccetta – non saremo gli attori di qualsivoglia regista – anche se attori protagonisti” – gli ho detto – “Non siamo mercenari di nessuno” – ha aggiunto Jack – poi siamo usciti con un bel “Aaarrivederci e buon lavoro!”»

Un ultimo punto

9. Lavorare con metodo, per andare fino al fondo delle cose. Significa anche assumere la propria storia per intero – le vittorie e le sconfitte, i limiti e le conquiste, le ricchezze e le tragedie – e farci i conti, unica via per saccheggiare gli arsenali di ieri con ancora colpi da sparare sull’oggi. Ragionando sui limiti e le sconfitte, assimilando le ricchezze e le conquiste, farne munizionamento – fino alla vittoria. E allora: arrivederci e buon lavoro della talpa, compagni.

Un’assemblea nazionale di Potere Operaio all’università di Bologna, Zamboni 38, tra la fine del Sessantanove e primi anni Settanta.

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Discorsoni / Analisi

I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Terza (e ultima) parte – Il prossimo non sarà un Sessantotto gioioso

Pubblichiamo la terza e ultima parte (qui e qui le precedenti), relativa al dibattito politico, della presentazione modenese di Raffaele Sciortino del suo ultimo lavoro, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza (Asterios 2022). In queste ultime, incisive battute, l’autore risponde alle domande provenienti dal pubblico: abbiamo quindi optato, per facilitarne la lettura, di unire le risposte in un unico discorso di senso compiuto, apportando un numero minimo di tagli a digressioni e interventi dalla platea. La riflessione complessiva che emerge mette in risalto alcuni, importanti, punti politici, che crediamo si debbano tenere in considerazione, essere dibattuti e approfonditi: la questione baricentrale, nodale, dei ceti medi, che assume forma e valenza differente a seconda di dove collocata e della sua composizione, ma che pervade ogni scenario e che altrettanto dovrà fare per la ricerca militante; il campo di battaglia che sarà lo “stile di vita”, il livello di consumo e lo standard di benessere “di massa” che il piano inclinato di scontro materiale tra Stati Uniti-Occidente e Cina-Russia andrà inevitabilmente e direttamente a intaccare e su cui farà leva per mobilitare (o paralizzare) settori non secondari di società, tra guerra e cambiamento climatico; l’individuazione, non a livello ideologico ma di processi e dinamiche reali, degli Stati Uniti come perno inaggirabile che impedisce una trasformazione sistemica, la contrapposizione verso di essi come porta stretta e obbligata (ma non sufficiente) entro cui passare anche solo per pensarla, l’importanza cruciale che assume per questo ogni loro convulsione, interne ed esterna; le questioni della democrazia e della libertà, nelle declinazioni contraddittorie e anche contrastanti che ne fanno (e faranno) movimenti e istanze, e il necessario punto di vista di parte, e di classe, entro cui leggerle e piegarle; la necessità, speculare a quella di riscrivere una teoria dell’imperialismo, di ritematizzare l’antimperialismo, alle condizione date di esaurimento della parabola del movimento operaio e della natura (e contraddizioni) di nuovi possibili movimenti di là da venire. Tutto questo e molto altro. Buona lettura, e ancora grazie a Raf.

 

Raffaele Sciortino

Partirei da quanto detto dal compagno sulla continua retorica democraticista, perché davvero non si poteva riassumente meglio. Ormai non c’è un evento occasionale che riguardi il mondo extra-occidentale che non diventi un pretesto per la solita propaganda, tesa come sempre a ribadire che noi siamo i migliori perché “gli unici detentori della democrazia”. Guardate ai Mondiali di calcio in Qatar; sono certamente morti una quantità di operai, ma la questione era sempre, incessantemente ridotta a quella dimensione lì.

Sul piano culturale, parla da sé lo spirito antirusso, che si lega a un conformismo realmente imposto. Altro che “pensiero unico”! Persino quando si cerca di ragionare sulle sanzioni, i vantaggi per l’Europa o anche la possibilità che l’alleanza con gli Usa sia una forma di sfruttamento, resta sempre un nodo di fondo, che sarà tosto da sciogliere in futuro. Alla fin fine, cosa ti dice l’avversario, il “difensore della democrazia”, e quindi dell’Occidente? Che se alla Cina o alla Russia riesce il tentativo di ricollocarsi nella divisione geopolitica del valore, i tuoi livelli di vita devono deteriorarsi.

Per quello che interessa le grandi masse, dietro il discorso sulla Cina come minaccia, c’è la difesa spasmodica dei nostri standard di benessere e i nostri stili di vita. Parte sì dai piani alti della cultura con slogan idealistici, ma via via arriva ad aggredire questi nodi di fondo, fino a incistarsi sul piano dei consumi. Il terreno è molto spinoso e va maneggiato con attenzione, perché c’è una tanto amara quanto sostanziale verità che emerge.

Facciamo rapidamente un confronto con gli anni Sessanta e Settanta: una parte del proletariato e dei giovani in Occidente ha potuto abbracciare la lotta antimperialista, perché questa veniva coniugata, oltre che con un’istanza antiautoritaria, con un’istanza di miglioramento delle condizioni di vita per larghi strati della popolazione. Poi certo, c’erano i richiami cultural-politici al sovietismo e al maoismo. Oggi non è – e in futuro non sarà – più così.

In futuro, infatti, il gioco imporrà la scelta “Occidente vs. resto del mondo”, esattamente perché gli standard di consumo diventeranno insostenibili. La vecchia connessione tra l’istanza sociale (l’antiautoritarismo rivolto contro istituzioni come la scuola e il lavoro), l’istanza materiale (le condizioni di vita) e l’istanza ideale (l’apparente richiamo alla sinistra comunista) è tramontata da tempo.

Al momento è abbastanza tragica. Tuttavia, si deve rilevare che mentre allora né l’Urss né tantomeno la Cina avevano la possibilità di intaccare veramente, materialmente, le basi del compromesso sociale tra classi lavoratrici e borghesie nella sfera imperialista, da questo punto di vista oggi la situazione è mutata. A ben guardare, la “minaccia cinese” o l’ostinazione della Russia davanti ai diktat statunitensi mettono in moto processi economico-sociali che influiscono direttamente sulle nostre condizioni. Se emergessero lotte che affrontassero le risposte del nostro padronato al mondo extraeuropeo, potrebbero smuoversi le carte in tavola.

Ora, mi rendo conto che quanto sto dicendo è molto vago. Quello che è fuori discussione è che la propaganda sui valori occidentali diventerà martellante, e a questo dobbiamo prepararci. Da un lato siamo svantaggiati, dall’altro non c’è il rischio di essere equivocati come filorussi o filocinesi: in termini di soft power, quelle società non hanno il minimo richiamo sulle giovani generazioni. Quindi è bene mettesi nella testa da subito che fabbricarci un mito non ha nessun senso politico.

Ma anche così, rimane una contraddizione difficile da gestire. Solo se si andrà a incrinare l’accumulazione capitalistica qui in Occidente – il che, ricordiamolo, avrà ripercussioni severe sui meccanismi della riproduzione sociale – innescando lotte che possano aprire di nuovo un divario tra i nostri padroni e noi, ebbene, solo allora il discorso della propaganda occidentale vedrebbe indebolite le sue basi materiali. La speranza è questa, e molti indicatori ci dicono che si sta andando in una simile direzione. Ovvio, in una maniera non lineare: non sarà un Sessantotto gioioso, e non sarà facile riconnettere noi e le nostre classi lavoratrici con il mondo extraoccidentale.

Ma è altrettanto chiaro che senza questa connessione si va verso la guerra di tutti contro tutti. È inoltre evidente che questa operazione possa venire rapidamente ascritta dai nostri avversari alla categoria dell’antiamericanismo; e ciononostante, nella piena consapevolezza dei rischi, in questo mio contributo ho dovuto (e voluto) rimarcare che, per come si è strutturato il capitalismo mondiale negli ultimi trenta-quarant’anni, se non si indeboliscono gli Stati Uniti non c’è nessuna possibilità che si riapra un discorso antisistemico.

Lo ripeto ancora una volta: non possiamo aspettarci che l’indebolimento degli Stati Uniti sorga in primis dai suoi alleati-avversari imperialisti (Francia, Germania, Giappone). Il primo elemento che può rendere difficile la vita agli Stati Uniti e indebolirli viene necessariamente dal mondo extraeuropeo, in particolare dalla Cina. Ciò significa diventare filocinesi? Assolutamente no, perché la Cina rimane un paese capitalista che, a differenza dal passato, non ha nessun appeal sulle nuove generazioni.

Il punto non è quello. L’antiamericanismo – cioè l’individuare negli Stati Uniti il perno che impedisce il cambiamento del sistema e quindi, in prospettiva, un agente che ci schiaccia, vuoi nelle condizioni economiche, vuoi nell’indirizzarci verso un mondo sempre più segnato dalla guerra – è una condizione necessaria ma non sufficiente per una risposta antisistemica. Da lì però, in qualche modo, bisogna passare.

Ma questo non perché lo abbiamo scelto noi, non perché abbiamo individuato ideologicamente il nemico numero uno, ma perché i processi reali e le dinamiche già in atto ci dicono che se il capitalismo deve rinnovarsi e rivitalizzarsi, lo può fare solo se gli Stati Uniti riescono a combinare un riordinamento geopolitico globale con una ristrutturazione produttiva interna e internazionale.

Dunque, solo se questo suo tentativo non avrà successo possiamo sperare in, pensare a e, poi, lavorare per una risposta collettiva a dei problemi che diventano sempre più globali – basti pensare alle questioni energetiche e al cambiamento climatico. Solo in questo modo possiamo ipotizzare l’aprirsi una fase di transizione che non sarebbe più intra-sistemica (cioè tra un ordine globale e un altro) bensì, sperabilmente, da un sistema all’altro.

Capisco bene che parlare oggi di una fuoriuscita dal sistema di produzione capitalistico sembra fantascienza. Però, se pensiamo alla maniera catastrofica, alla precipitazione inaspettata con cui si è aperta la guerra in Ucraina e tutte le sue conseguenze, be’, se le contraddizioni vanno ad acuirsi noi di simili precipitazioni impreviste ne vedremo sempre di più. Proprio per questo carattere di instabilità catastrofica potrebbe tornare sul tavolo la discussione su quale può essere un nuovo ordinamento sociale per la comunità umana, visto che ormai i problemi si pongono su questa scala di gravità. Di più, sinceramente, al momento non saprei dire.

Sono sicuro, invece, che questo scenario comporterà per noi delle contraddizioni. Facciamo l’esempio dell’Iran. Puoi forse non essere con le donne che si vogliono togliere il velo? Ma al tempo stesso, in quella mobilitazione, gli Stati Uniti hanno inserito l’Isis; i curdi cercano di fare il gioco filostatunitense che hanno tentato di fare in Siria e prima in Iraq (l’unico posto in cui gli è riuscito)… Capite bene che al momento non siamo assolutamente in grado di padroneggiare contraddizioni di questo genere.

Ma da dove viene la nostra incapacità strategica? Perché non sappiamo più che pesci pigliare?

Perché non c’è una lotta di classe seria che possa richiamare a soluzioni fuori d’Europa al contempo democratiche e anticapitaliste. A guardarci un po’ più da vicino, ecco che in questo vuoto ritorna il problema dei ceti medi.

Lasciamo perdere per un momento la questione dell’impoverimento dei ceti medi in Occidente, che ha dato luogo alla prima fase del populismo, agendo dunque come un fattore di instabilità. All’infuori dell’Occidente la questione dei ceti medi si muove lungo due scenari differenti.

Il primo è quello auspicato da Pechino e dal partito-Stato, sul quale conviene aprire una parentesi. Per Pechino gli obiettivi a medio termine sono: risalire la catena del valore, ampliare l’accesso al benessere, rimpolpare i ceti medi privilegiando sui settori salariati. Da un lato quindi deve investire sui tecnici, sui laureati e sugli ingegneri, soggetti cioè che al tempo stesso fuoriescono dalla condizione strettamente proletaria, e che permetterebbero all’industria cinese di risalire a livelli tecnologici più alti, e quindi se non proprio di stare alla pari della concorrenza imperialista occidentale, quantomeno di giocarsela con buoni numeri. Dall’altro deve controllare i ceti medi di lavoro autonomo e di piccolissima impresa (oggi diffusissima in Cina) che potrebbero sfuggire di mano chiedendo istanze democratiche rivolte verso l’Occidente: un po’ come è successo ad Hong Kong. E in mezzo gli studenti, che potrebbero andare in una direzione come nell’altra, facendo parte della propria identità l’ascesa del capitalismo nazionale o il “pluralismo democratico” e la rottura con il partito-Stato.

A grandi linee, quindi, possiamo dire che la Cina, forse, è l’unico paese che ha la possibilità di indirizzare l’ascesa dei ceti medi facendone un elemento di stabilizzazione e di rafforzamento del capitalismo nazionale; ma se noi guardiamo fuori dalla Cina, vediamo cose molto diverse.

Altrove, il rapporto tra ceti medi e mercato mondiale (e con esso, la forza attrattiva che ha tuttora l’imperialismo occidentale sui giovani) si disegna come una sorta di patto, di contratto tacito. Questa l’offerta: se tu mi aiuti a scompaginare quel poco o tanto che sia rimasto di centralizzazione nel tuo capitalismo nazionale, di controllo statale interno, di barriere difensive rispetto al mercato estero (ovvero, nella terminologia occidentale, se tu mi aiuti a “democratizzare” il tuo paese), io ti faccio accedere direttamente al mercato mondiale, vuoi con l’immigrazione, vuoi con l’interscambio commerciale, con l’arrivo di capitali e così via.

Quindi negli altri paesi, nelle loro legittime aspirazioni democratiche questi settori, e in particolare i giovani – che sono rappresentati e si sentono in gran parte come un ceto medio in formazione, come una “gioventù di ceto medio”, e non perché effettivamente lo siano o lo possano diventare (essendo perlopiù proletari o semiproletari), ma per le aspirazioni indotte dalla capacità attrattiva del modello occidentale – vedono l’atlantismo liberale come la via più corta.

Al contrario di quanto succede in Cina, per questi soggetti saltare l’enorme sforzo di costruire un’economia nazionale un minimo più autocentrata, sbaraccare il proprio ceto politico (perché corrotto, arretrato, e così via), eliminare le residue difese protettive davanti ai capitali occidentali diventa la via per arricchirti, per migliorare la tua condizione. Insomma, come capite, il rapporto ceti medi e Occidente, ceti medi e mercato mondiale si pone in maniera non del tutto omogenea.

E allora ritorniamo al punto, secondo me, centrale: dal momento che emergono, e emergeranno sempre più, istanze democratiche e richieste di libertà (la situazione dell’Iran è paradigmatica: trent’anni sotto le sanzioni americane, ha dovuto necessariamente volgersi verso la Cina per resistere economicamente e tutto ciò ha rafforzato la spinta alla chiusura, e quindi l’accelerata repressiva, dello Stato iraniano), tocca prestare molta attenzione.

La priorità, almeno a livello di analisi, è chiedersi: che tipo di libertà chiedono questi movimenti e questi soggetti? Che tipo di democrazia? Qual è il suo contenuto non meramente ideale, politico, filosofico, valoriale, ma che cosa gli corrisponderebbe, se realizzata, a livello di strutturazione economica e sociale? E, domanda ancora più crudele: quali sarebbero le ripercussioni sugli altri strati sociali?

Detto altrimenti – e uso questo termine che non mi piace tanto, proprio perché fa parte dell’“ideologia globalista occidentale”, però qui ci sta – solo se noi riuscissimo a decostruire quella domanda democratica potremmo iniziare a districarci una via tra le contraddizioni.

Che cosa intendo dire?  Facciamo l’esempio delle lotte operaie cinesi. Anche queste, va detto, non portano necessariamente un’istanza anticapitalista o antisistemica, o perlomeno per ora non l’hanno sempre mostrata. Tuttavia, possiamo dire che hanno un’istanza democratica in un doppio senso. Da un lato sono sì lotte per il salario, lotte per il miglioramento delle condizioni economiche (quindi “democraticiste”, o lotte che Lenin definirebbe “tradunioniste”); ma possiamo definirle democratiche anche perché spingono sul proprio capitalismo per una modernizzazione che permetta un compromesso sociale un po’ più avanzato.

Ragionando in termini più precisi ma più complessi, possiamo definirle democratiche perché sì premono per un passaggio di estrazione di forme di plusvalore assoluto (con condizioni di lavoro pessime e orari lunghissimi) a forme di estrazione di plusvalore relativo (dove gli orari di lavoro si accorciano perché la tecnologia ti permette l’intensificazione del processo lavorativo), ma ciononostante i salari reali possono comunque aumentare e quindi aumentare i tuoi consumi, e così permetterti anche di ampliare un welfare.

Queste richieste di democrazia che domandano che più plusvalore rimanga in loco e venga accumulato lì, anche per fini sociali (il che, come vedremo, spinge la Cina a indurire i rapporti con l’imperialismo occidentale), è un’istanza senza dubbio democratica, ma è chiaramente differente dagli studenti di Kong Kong che portano in strada la bandiera britannica.

So bene che questo discorso è difficile, e che potrete dirmi “ma allora cosa sei, sei per lo Stato iraniano degli imam che reprimono le donne e che uccidono i manifestanti?”, ma non è questo il punto. Quello che dobbiamo reimparare a fare è fare analisi di classe, materialistiche, di tutti questi movimenti e di queste istanze.

Su questo punto, parliamoci con franchezza: a riguardo c’è chiaramente stata una cesura nella memoria e nell’organizzazione. Si sono recisi dei fili, tra noi qui (e intendo sia la generazione di voi giovani che la mia di vecchi) e l’esterno. C’è stata fatta terra bruciata intorno. Perché? Perché la globalizzazione ascendente ha confinato tutti i movimenti sociali in Occidente sul terreno dei diritti. Tutto ciò che non è formulato in termini di diritti (e perlopiù di diritti individuali: in queste condizioni, i diritti sociali sono la somma dei diritti individuali) è escluso dal discorso.

E così in Europa anche le sinistre che tentarono un discorso antisistemico (ricordo, per esempio, l’ultimo grande movimento, quello No Global), hanno sostanzialmente imboccato un processo che io chiamo (l’ironia è voluta) radicalizzazione. Le sinistre si sono radicalizzate nel senso anglosassone di radical. In fondo, quello che dicono è: combattiamo contro il capitalismo di oggi, ma accettandolo come piattaforma di fondo, perché solo il “capitalismo democratico” consente mobilitazioni nel senso della democratizzazione e dei diritti. Ciò che invece non è democratico, non ce lo permette. Passo passo, senza volerlo abbiamo introiettato “la superiorità dell’Occidente”.

Lo si vede in continuazione. Quando aiutiamo i profughi con le Ong – vogliamo forse far morire i profughi nel Mediterraneo? Ovviamente no – c’è qualcuno che fa un discorso a monte e a valle? Quando facciamo i passeurs dei profughi e li portiamo in Italia e in Europa, ci occupiamo poi di quello che andranno a fare come lavoro? Andiamo nei campi di pomodoro dove a 45 gradi d’estate si prendono due euro all’ora? Queste Ong vanno lì? E si interrogano, queste Ong, sul dissanguamento, l’impoverimento che il flusso della migliore forza lavoro (perché quelli che vengono qui sono spesso i più scolarizzati, i più motivati) noi provochiamo a quei paesi lì?

È chiaro che se tu fai un discorso di diritti (ricordate il “diritto a migrare”?) non puoi affrontare nemmeno teoricamente tutto quello che sta dietro la questione, cioè il problema, serio, che tu stai comunque contribuendo a creare forza lavoro a basso costo per l’imperialismo occidentale – nonostante questo crei contraddizioni con i nazisti, con i vari pseudo sovranisti e così via.

Le contraddizioni più gravi però non riguardano la nostra purezza morale, ma quello che ci esploderà in mano nei quartieri periferici, perché chiaramente questi non vanno ad abitare nei quartieri bene popolati di gente colta e progressista. Tutto questo è radicalization.

Oppure, altro esempio. Abbiamo visto tutti la stupenda lotta dei neri contro Trump, che fortunatamente si è allargata, è andata oltre il punto di partenza della blackness. Da lì hanno iniziato a buttar giù statue. Benissimo. Poi è arrivata la guerra in Ucraina. Dove è andata a finire la spinta del movimento Black Lives Matter? È chiaramente una guerra per procura, e non sto difendendo Putin: gli ucraini sono carne da macello; ma tutte le tue istanze anticoloniali, per cui buttavi giù le statue di Colombo, non appena scoppia la guerra, kaputt. E non tiriamo fuori il problema del dilettantismo dei movimenti, perché nello stesso pantano sono finiti gli “intellettuali critici”. Che so, Noam Chomsky. Alé, graaaande intellettuale anarchico [tutti ridono], anche lui subito: «Mandiamo armi all’Ucraina».

Il problema in questa fase, difficilissima per le residue forze che abbiamo, è quello di iniziare finalmente, non saprei come dire, a “decostruire la decostruzione”. Perché altrimenti non ci muoviamo. La situazione di oggi ci impone di affrontare di petto le contraddizioni: non nella speranza di risolverle (perché nessuno qui di noi, neanche con un grande movimento, potrebbe riuscire a risolvere grovigli come quello in Iran), ma quantomeno iniziando a leggerle con un punto di vista di classe.

Una prospettiva quindi antimperialista, non antiamericana, quale condizione necessaria ma non sufficiente per reimpostare un futuro politico (che sarà il vostro, non il mio: dopotutto, il processo che ci ha condotto a questo punto si è formato in cinquant’anni, cioè grossomodo due generazioni, e nel frattempo ci ha bruciato il cervello). Se noi non iniziamo a rompere con questa riduzione della sinistra antagonista al radical anglosassone, siam panati. Perché le contraddizioni sono continue!

Vogliamo guardare a quello che è successo in Cina? […] Lì, anche io mi sono chiesto il perché di questa governance del covid. Non sanno i cinesi che l’omicron è diversa dalla cosiddetta variante Wuhan? Lì c’è innanzitutto un discorso di sanità. Cioè il welfare, proprio perché stanno solo adesso iniziando a provare un processo di sviluppo di welfare universalistico, lì hanno paura che se scoppia un’epidemia di covid su un miliardo e quattrocento milioni di persone, con una popolazione anziana di circa 260 milioni, non sanno gestirlo con le strutture sanitarie disponibili e la legittimità del Partito – che, ricordiamolo, si basa sul mantenere e migliorare la condizione sociale complessiva – ne verrebbe intaccata. […]

Riassumendo, hanno trattato il covid, da subito, come una questione geopolitica e militare. Se vi ricordate, quando è scoppiato il covid a Wuhan, Trump se la rise, come a dire “ben vi sta”, e i cinesi hanno risposto inscenando una sorta di guerra di popolo: “Noi ce la faremo da soli, non saremo decimati dalla minaccia che si avvicina”. Ovviamente questo, nella volatilità delle situazioni tipica di una fase di allentamento delle strutture globali, si è rovesciato nell’opposto. Si noti però che da Deng in poi, i cinesi hanno spesso adottato una particolare strategia, per cui in certe zone e città localizzate si sperimenta, e se funzionano li si generalizza. Principalmente questo metodo lo si è applicato per le aperture economiche, ma è possibile che vadano ad allentare le misure anticovid in aree specifiche, e poi vedranno dove e quando riprodurle.

Quello che però qui importa, è ritrovare sempre la dialettica democratica tra classi lavoratrici e partito-Stato; “democratica”, lo ripeto, non nel senso fasullo del pluralismo nostrano, ma in quello sostanziale della presa in carico delle istanze provenienti dalle basi sociali (e che addirittura possono essere recuperate e utilizzate per la crescita del capitale locale).

Qui possiamo anche collegarci a un’altra questione importante, che non avevo trattato prima. Molte analisi, fatte anche meglio della mia, arrivano spesso a semplificare, dicendo che finora in Cina si sono viste soprattutto lotte sindacali, ma destinate a evolvere in lotte direttamente contro il potere statuale in quanto capitalistico e rappresentante di una borghesia rossa.

Io non credo che sarà questa la traiettoria. È però un problema non di poco conto, perché tutti vorremmo che le classi operaie delle varie nazioni lottassero contro la propria borghesia, si unissero, e allora viva l’internazionalismo. Ma non può andare così, perché la struttura dell’imperialismo di per sé non omogenizza le condizioni operaie, e quindi nemmeno, né ora né in futuro, i percorsi di lotta anticapitalistici. Ipotizzo che per la Cina siano possibili diversi scenari.

Uno è lo “sbaraccamento”, cioè una crisi economica tale per cui il patto sociale interno salta nel momento in cui si imponesse quella parte dei ceti medi che vuole continuare a commerciare con l’Occidente e minare la centralizzazione politica; e allora avremo un rilancio di altri cinquant’anni di imperialismo statunitense, noi ci salutiamo e ci diamo all’arte.

Se la Cina salta in questo modo non ce n’è più per nessuno, perché sì, la contraddizione nell’accumulazione non sarebbe risolta, ma avremo comunque dei dissesti ancora più dirompenti di quelli determinati dalle aperture successive all’implosione dell’Urss. Abbiamo però anche altri scenari, forse anche più plausibili, perché la Cina non si farà mettere sotto tanto facilmente.

Un’altra ipotesi potrebbe essere quella di ritrovare, nella crisi economica e geopolitica che arriverà, una ripresa delle lotte (e con esse, anche del malcontento dei ceti medi, ma pazienza); ma, attenzione, non saranno lotte puramente anticapitalistiche. L’istanza di classe si incrocerà con l’istanza nazionale. Cioè, probabilmente, insieme alla richiesta di miglioramento della propria condizione, risorgerà un’insistenza antioccidentale, o quantomeno antiamericana.

I segnali ci sono già tutti, anche in una parte di quei giovani che fino a qualche anno fa ammiravano in maniera sconsiderata tutto quanto arrivava dagli Stati Uniti. A partire dalla guerra dei dazi di Trump, e a seguire il tentativo di usare il covid in funzione anticinese e l’incrudimento delle relazioni diplomatiche, una parte della gioventù cinese è andata nella direzione di una sorta d nazionalismo antimperialista.

Ora, può essere che queste parole d’ordine si ripresentino anche nelle lotte sindacali. Ciò, ovviamente, comporterà per noi un’ulteriore contraddizione, perché il cappello sulle lotte sarà più sciovinista, ma in prima luogo volto al rafforzamento del potere di Pechino. È anche vero, però, che in prospettiva se questo permetterà a Pechino di reggere, il boomerang ritornerà in Occidente: la situazione economica interna agli Usa peggiorerà, risorgeranno delle contraddizioni di classe anche da noi, e quindi sul lungo periodo si può pensare a una ricongiunzione tra i vari spezzoni di lotte operaie, sapendo però che comunque si va incontro a un purgatorio sociale pesantissimo.

Leggiamola per un secondo con le lenti dell’analisi di classe, altrimenti, ancora una volta, la scelta sembra semplice. Se vediamo che gli operai cinesi diventano nazionalisti, dobbiamo sperare che resistano, lottino diventando transitoriamente nazionalisti e che tentino di fare il salto (sebbene i problemi attuali non possano essere risolti né dagli Usa né dalla Cina, ma riguardano la comunità umana mondiale)? Oppure è meglio facciano le loro lotte fregandosene del quadro geopolitico internazionale attaccando il potere centrale à la Tienanmen, con una democratizzazione (ma “democratizzazione” per chi?) che comporterebbe anche una penetrazione occidentale? Una bella rogna.

Io penso che, ad oggi, non abbiamo nessun strumento né previsionale né politico per rispondere a queste contraddizioni, però nominarle diventa inaggirabile. Altrimenti ci prendiamo in giro. Quindi pensare che lottiamo per i diritti e per la democrazia, dovunque, allo stesso modo, senza guardare cosa ci sta dietro, è un suicidio. Ormai la sinistra si è sparata da sola, è morta per quello. E allora, se dobbiamo lasciare il testimone al futuro, dobbiamo almeno essere onesti. Io non ho più intenzione, sinceramente, di fare l’ala sinistra dei democratici.

Anche parlando a Torino sono venute fuori domande su temi simili, come tematizzare l’antimperialismo oggi. Ciò che preoccupava i compagni è che oggi non è praticabile; quindi, intorno a questo nucleo non riesci a riorganizzare un soggetto, a creare un nuovo tessuto valoriale e una prospettiva di lotta. Un problema al momento inaggirabile. Però vorrei dire una cosa: proviamo a non partire da noi.

Guardiamo dall’alto la situazione: sembra proprio che si vada verso una recessione, l’inflazione non è facilmente aggirabile, la guerra ucraina continuerà e infine c’è il piano inclinato tra Usa e Cina. Benissimo. Dunque, chiediamoci: tenuto conto della morte della sinistra e della fine del vecchio movimento operaio, se rinascono delle lotte, che forma potrebbero avere?

Io penso che non potranno ripresentarsi in forme ideologicamente appetibili, in primo luogo interclassiste. Come ricorderete, questo era uno dei tratti distintivi populismo della prima ondata. La differenza rispetto ad oggi è che se in quella fase a dare voce ai programmi erano soprattutto i ceti medi, io presumo che in una potenziale seconda fase, se mai si apriranno delle mobilitazioni, saranno più spostate verso il proletariato.

Ciò che infatti prosegue dagli anni del covid e al periodo della guerra è la progressiva divaricazione tra ceti medi e proletariato. Lo vediamo anche nelle elezioni italiane: è un governicchio, che galleggia a malapena, ma notiamo che tutta una fetta di piccola borghesia e lavoro autonomo gli si è aggrappata disperatamente, lasciando fuori i settori più poveri. Il reddito di cittadinanza va tolto: la Meloni lo ha detto fin dalla campagna elettorale. I condoni sono rivolti solo da un lato, e nel frattempo si parla direttamente contro i poveri, compresi quelli che lavorano (pensiamo al tema voucher e alle altre strade che prende la nuova precarizzazione).

Se si aprissero delle mobilitazioni, bisognerebbe essere pronti a cogliere questo divario, perlomeno incipiente. A ben guardare, infatti, l’asse del malcontento si sta lentamente spostando non solo verso una composizione ma anche verso temi più proletari, come il reddito di cittadinanza e la sanità universalistica. Fin qui, per la sinistra ufficiale è tutto bello. E però, ciò che mette in difficoltà la classe dirigente europea è il fatto che se comunque l’alleanza con gli Stati Uniti non si tocca, d’ora in poi anche per una lotta sindacale, il tema guerra diventa inaggirabile. Ma non perché lo porremo noi!

Per esempio, in Germania questi discorsi solitamente vengono sventolati dai populisti di destra, ma sempre più spesso c’è chi lo azzarda anche tra i nostri. Fino a non troppo tempo fa, parlare con i compagni tedeschi era assolutamente impossibile se prima non mettevi dieci mani avanti e recitavi le formule d’obbligo del “poveri ucraini”, “bastardo Putin”, “viva la gloriosa resistenza” e via così – se non altro per le condizioni peculiari della Germania, in cui l’antisemitismo resta una ferita apertissima. Eppure, ben prima del sabotaggio, ci sono state manifestazioni per attivare Nord Stream 2. Manifestazioni, è scontato, nelle quali si sono inserite anche la Afd e i nazi, ma attraversate soprattutto da gente comune (dopotutto, l’ex Ddr è tuttora dipendente dai gasdotti russi). E ancora lo scorso primo maggio è stata contestata la Baerbock…

Insomma, se si scampa al binomio passivizzazione-guerra di tutti contro tutti, questi processi prima di porsi a noi passeranno anche da altri lidi. Non sentiremo più uno pseudo sovranismo come quello di Meloni e Salvini, ma piuttosto un’istanza di indipendenza dagli Stati Uniti che assumerà tratti nazionalistici, non propriamente classisti. Ricordo però che, secondo molti compagni, anche il primo populismo aveva in seno dinamiche di classe, che abbiamo però sprecato. Ciò che resta da ammettere è che, essendo morta la sinistra e il movimento operaio, noi non dobbiamo guardare al punto di partenza, ma al punto di arrivo.

Perché non può più essere dato per scontato niente! L’internazionalismo e il posizionamento di classe possono essere semmai i risultati di un lungo processo contraddittorio, non lineare e sporco. A differenza delle speranze delle mobilitazioni civili, saremo sempre più costretti ad affrontare i nodi di fondo della situazione attuale, per esempio il clima. Guardate come è andato a finire il movimento di Greta: ora dice che il nucleare è pulito, che con il lockdown si respirava bene (nonostante fosse la riprova che se anche riduciamo i consumi gli aerei partivano lo stesso)… Solo per dire che tutti questi movimenti di ceto medio, giovanili o meno, non reggono minimamente al livello di profondità delle contraddizioni.

Certo, possiamo andare verso la guerra, perché all’immediato il discorso pare: “Tu cinese vuoi togliere a me”. È un esito possibile, non scontato, tra i molti: la comune rovina delle classi in lotta. Dopodiché io inviterei a non porsi il problema di quello che è immediatamente praticabile, perché altrimenti dobbiamo chiudere bottega. Ormai la linearità tra lotte democratiche e lotte anticapitaliste è completamente saltata e, sotto certi punti di vista, il movimento di classe nei suoi 150 anni di storia non ha mai affrontato una congiuntura così complessa; quantomeno, non c’è mai stata una situazione in cui una soluzione strettamente nazionale abbia meno corso.

Oggi, o risolvi i problemi globalmente, oppure sei parte del problema. Non so se è una magra consolazione: questo lo potrete vedere solo voi.

Chi non lo legge è un gioioso Ottantanove.
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Discorsoni / Analisi

I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Seconda parte – L’ascesa cinese e i conti aperti con il Capitale

Pubblichiamo la seconda parte dell’intervento di Raffaele Sciortino alla presentazione del suo ultimo, prezioso lavoro – Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza (Asterios 2022) – di sabato 3 dicembre a Modena.

Se nella prima parte ci si è occupati del versante statunitense dello scontro “in processo”, tra piano inclinato della crisi globale e nuova dinamica dell’imperialismo, passiamo ora a scandagliare il lato cinese, tra retaggio della rivoluzione sulla composizione di classe e contraddizioni in seno al “capitalismo politico” socialista. Si apre uno scenario non scontato, attraversato dal rapporto lotte-sviluppo e dai limiti dell’ascesa cinese, che lascia aperti certi conti con il Capitale.

A queste longitudini la conoscenza del Dragone – o meglio, quello che interessa a noi, della situazione della classe operaia e dello sviluppo del capitalismo in Cina, per dircela come una volta – è spesso offuscata da una coltre di propaganda dozzinale, nel migliore dei casi oggetto di assenza di studio e di fonti, nel peggiore di distorsione ideologica, divisa tra ingenui e volenterosi crociati della narrazione liberal e campisti «fedeli alla linea anche quando la linea non c’è».

La ricchezza e la densità del libro di Raf emergono in particolar modo in questi capitoli, sicuramente i più “faticosi”: riflettono un accurato e difficile “lavorone” a monte dell’autore, che ha saputo sintetizzare e chiarificare nell’intervento che segue, legando la “questione cinese” al più complessivo piano globale. Pensiamo che meriti attento ragionamento e discussione.

In attesa della terza parte… Buona lettura.

 

Raffaele Sciortino

Come anticipavo prima, il secondo grande tassello nello scacchiere globale è l’inserimento della Cina nel mercato mondiale a partire dagli anni Settanta, ma con un’accelerazione negli anni Ottanta e Novanta. Cosa possiamo dire a riguardo? Azzardiamo un riassunto – la maggior parte del libro è dedicata alla Cina – tenendo insieme i piani indispensabili per ipotizzare delle tendenze minime.

La Cina in trent’anni ha fatto un salto pazzesco. Sorprende tanto più se consideriamo che è passata a un capitalismo peculiare venendo non dal feudalesimo, ma dal modo di produzione asiatico (già ampiamente in disgregazione) con un’intromissione esogena di tipo coloniale avviata dalle Guerre dell’oppio in poi. Si è rialzata come nazione passando attraverso una rivoluzione democratica contadina (quella di Mao, del 1949), caratterizzata da una dirigenza interpretabile tranquillamente come “giacobina” e “populista”: giacobina in quanto modellata sulla Rivoluzione francese e incentrata sul traino di una borghesia rivoluzionaria; populista non nel senso odierno, ma in quello del grande populismo socialista dell’Ottocento russo, cioè che individuava nella classe contadina il soggetto politico principale.

Ciò pone le basi della creazione di un’economia moderna, quindi industriale, prevalentemente isolata. Infatti, il sostegno sovietico iniziale è stato importante nei primi sette-otto anni, e già nel 1958 va esaurendosi (Stalin vedeva Mao come un possibile rivale). Ancor più curioso è il fatto che tale isolamento si accompagnava a una peculiarissima accumulazione originaria capitalistica sentita dalle masse stesse come socialista, che significava sostanzialmente autarchica ed egualitaria («abbiamo contro tutti»). Un percorso verso il capitalismo veramente molto particolare e difficile da decifrare.

Fatto sta che il punto è questo: già Marx e Lenin dicevano che il socialismo in un paese solo non è possibile (e il discorso non cambia anche per chi prende per buona la caratterizzazione della Cina come socialista), perché arriva a delle contraddizioni tali per cui o la rivoluzione si estende, oppure è finita; ma neanche il capitalismo è possibile in un paese solo. E infatti la Cina, gettate le basi della sua industrializzazione, arriva allo stesso nodo a cui storicamente sono arrivati tutti, cioè il rapporto con il mercato mondiale. Senza l’accesso al mercato mondiale, non hai accesso ai capitali e alla tecnologia. Lo sviluppo inchioda.

E così, già durante la rivoluzione culturale, Mao e soprattutto il suo ministro degli esteri Zhou Enlai varano il rapprochement americano per affrontare questo scoglio, in una funzione comunque antirussa e nel loro linguaggio ideologico. Urge quindi aprirsi al mercato mondiale, ma senza svendersi, senza ridursi a una periferia dipendente, tipo l’America Latina. A tal fine è indispensabile: a) tenere il controllo statale delle leve economiche fondamentali, quali l’industria pesante e il sistema bancario b) alimentare una mobilitazione alla base e dunque c) conservare il ruolo del Partito come legame fondamentale tra lo Stato e la società (o per meglio dire, le classi).

La posta in palio è spaventosamente alta. Infatti, se perdi la guida di questo difficilissimo processo di apertura al mercato mondiale – detto altrimenti, di relazioni con l’imperialismo – ne pagherai le conseguenze all’interno, perché certe classi e mezze-classi (in testa una borghesia in ascesa) rialzeranno la testa… e cosa arriveranno inevitabilmente a chiedere?  Il “pluralismo politico”, la “democrazia”. E quindi via la centralizzazione, cioè il fattore che ha permesso a quella stessa borghesia di rinascere, di rialzare la testa, forse non di imporsi sui mercati mondiali, ma comunque di giocare il suo ruolo.

Da qui si inserisce la strategia di Deng Xiaoping. Dopo la morte di Mao, nel 1978 Deng avvia la cosiddetta politica di “Riforma e apertura”, che si rivelerà il fulcro di questa ascesa incredibile, nonostante un prezzo da pagare che la dirigenza cinese, oggi come ieri, ha ben chiaro. Il prezzo da pagare è l’asimmetria con cui tu ti inserisci nella divisione internazionale del lavoro. In estrema sintesi, gli Stati Uniti avrebbero permesso alla Cina di aprirsi, ma prima sfruttandola in funzione antisovietica e poi come appiglio per rilanciare la globalizzazione e sconfiggere le lotte operaie interne; se questo non bastasse, l’industria cinese, per tutto il primo trentennio e giù fino a dieci anni fa (in gran parte ancora adesso), viene confinata all’export.

Per lungo tempo l’economia cinese verrà indirizzata verso l’esportazione di prodotti a basso livello tecnologico, assemblati a partire da componenti provenienti dai paesi di nuova industrializzazione dell’Asia orientale e dal Giappone, con macchine di fattura (leggasi: acquisto di capitali fisso) giapponesi, tedeschi e statunitensi. Nella strutturazione internazionale della catena del valore, ci si ritrova in una posizione certamente subalterna. Il beneficio consiste nel guadagnare uno sbocco nei mercati occidentali, nell’esatto momento in cui gli Stati Uniti diventano un’economia al 70% basata sui consumi.

L’asso nella manica, come tutti sappiamo, è l’immane riserva di forza lavoro a basso costo. Il che però alludeva da subito a squilibri di classe da tenere sotto controllo: lotte operaie, borghesia privatistica emergente, nuovi ceti medi, ma in particolar modo il determinarsi di forti dicotomie tra città e campagna da un lato, e tra costa ed entroterra dall’altro. A tutt’oggi ha una forza lavoro agricola di circa 200 milioni, con una produttività che viene calcolata (non so bene come, ma prendiamolo per buono) un cinquantesimo rispetto alla compagine statunitense. Si aggiunga poi un’estrema polverizzazione della proprietà fondiaria: immaginate cosa voglia dire gestire una situazione in cui i residenti in campagna – oltre alla forza lavoro – si aggirano sui 500 milioni di persone, e in cui è ancora prevalente la piccola impresa, a tutt’oggi famigliare, che coltiva mediamente mezzo ettaro. Non so se rendo l’idea!

Stando così le cose, diviene di primaria importanza evitare una proletarizzazione selvaggia. E così, gradualmente si assiste a un passaggio di una parte dei contadini nelle fabbriche, che iniziano a essere assorbite dalle multinazionali sbarcate soprattutto negli anni Novanta, quando cioè queste vedono che il processo di decollettivizzazione di Deng si sta stabilizzando e ha tenuta politica. Quanto più avanzano le multinazionali (che ovviamente si appropriano della maggior parte del plusvalore degli operai cinesi) quanto più si trasferiscono, a ondate periodiche, i contadini. Lì li chiamano “mezzi contadini-mezzi operai salariati”, qui li chiamiamo migranti rurali. Però il termine migrante secondo me non rende bene e rischia di portarci verso altre analogie…

Kamo: «A Modena, negli anni Sessanta e Settanta, c’erano i “metalmezzadri”…»

Sì, “metalmezzadri”! [ride] Non suonasse male, li dovremmo chiamare “metal-piccoli produttori”, perché hanno non la proprietà ufficiale (la proprietà della terra è chiaramente nazionalizzata), ma hanno oramai l’accesso perenne al piccolo appezzamento e alla casa garantito come “diritto alla terra” (e questo è cruciale per saldare il legame tra Partito e zone rurali). Quindi sfruttamento pesantissimo della forza lavoro che arriva dalle campagne – non c’è motivo di raccontarcela, queste cose le abbiamo lette e le abbiamo viste – ma al tempo stesso non completa proletarizzazione.

Perché? Perché conviene al partito-Stato avere una valvola di sfogo e soprattutto evitare che si creino gli slum nelle grandi città, conservando così un contatto tra migranti in città e la terra. A tal riguardo, gli strumenti di coesione sociale escogitati dal Partito sono due. In primo luogo, appunto, il diritto d’uso della terra, che via via viene reso mercificabile (cioè può essere contrattato, venduto, dato in gestione) con aiuti statali così da poter superare la polverizzazione della microimpresa agricola; e dall’altro l’utilizzo del welfare. Un welfare minimo (che consiste sostanzialmente nei sussidi sul piano delle pensioni e nella sanità) al quale, soprattutto dagli anni dagli anni Duemila, in campagna puoi accedere se hai il l’hukou (il “certificato di residenza obbligatorio”). Questo documento, inoltre, risulta estremamente vantaggioso in momenti di crisi, poiché offre la possibilità di tornare in campagna e ampliare le tue risorse disponibili, come è avvenuto durante la crisi asiatica del 1998 o nel 2008-2009.

Ovviamente questo discorso vale sempre meno per le nuove generazione di migranti operai-contadini, i quali vogliono realizzare le proprie aspettative in città, e conseguentemente richiedono un welfare apposito per la città. In queste fasce della popolazione, come è facile immaginare, è sempre più minoritaria la prospettiva di lavorare un po’ nell’industria e poi tornare “alla casa”, alla terra, contribuendo ad ampliare il divario geografico e demografico tra rurale e urbano.

Infatti, sebbene questa strategia welfaristica funzioni, la situazione rimane molto complessa. Il rapporto di reddito tra campagna e città è mediamente di uno a tre (nelle grandi città come Pechino e Shangai è molto più alto). Le coste sono nettamente sviluppate (a tratti ricordano le villes occidentali), mentre se ti spingi all’interno trovi ancora chi usa il bufalo per arare la terra. Piccolo aneddoto: io ricordo ancora che quando negli anni Novanta uscì «Limes», la rivista di geopolitica, uno dei primi numeri titolava Quante Cine esistono?, indicando la necessità di scomporre la Cina per poter fare un’analisi sociale plausibile. Eravamo ancora all’inizio di questo processo: figuriamoci oggi.

Ricapitolando: in cambio di un’asimmetria nella produzione internazionale, si conquista l’accesso alla tecnologia e ai mercati occidentali; il tutto – e per ragioni di tempo non posso illustrarlo quanto meriterebbe – sulla spinta di notevoli lotte sociali, sia nelle campagne, sia, soprattutto negli ultimi decenni, nelle città e nelle fabbriche, mosse anche da questo nuovo soggetto, mezzo operaio-mezzo contadino. Una potente spinta dal basso che, attenzione, non è stata semplicemente repressa, ma è stata anche utilizzata, incanalata verso la modernizzazione. Qui abbiamo un esempio da manuale del rapporto tra lotte e sviluppo.

Abbiamo sentito tutti delle lotte alla Foxconn da metà anni Dieci, alla Hyundai e più generalmente nelle multinazionali estere, in primo luogo giapponesi e taiwanesi. La dinamica a cui si assisteva solitamente non era il solito conflitto tra classe operaia nuova, classe operaia vecchia e la multinazionale; ma piuttosto una loro triangolazione. Nel senso che le strutture in fabbrica del Partito e il sindacato ufficiale spesso non si opponevano o persino le appoggiavano, per consentire l’innalzamento dei salari e così iniziare un’accumulazione in loco di surplus maggiore rispetto ai precedenti profitti della Apple, della Foxconn e così via. Inoltre, l’aumento dei salari e le lotte nelle multinazionali impulsavano le imprese cinesi ad acquisire fette di mercato in proprio, rilanciando in avanti l’industrializzazione: fino a metà anni 2010 la maggior parte dell’export era di imprese, al limite, metà cinesi e metà occidentali, mentre adesso una buona metà dell’export è di imprese prevalentemente a proprietà cinese. Tutto ciò contribuiva e contribuisce a ottenere le risorse che alimentano il ciclo di recupero di tecnologie occidentali e riapplicazione creativa.

Quindi un immane tentativo di modernizzazione, tesa a un duplice traguardo: la conquista di fette di plusvalore sottratte all’imperialismo occidentale sempre maggiori e, sul piano sociale, un progressivo miglioramento delle condizioni di vita e lavorative della popolazione. Un compromesso un po’ più socialdemocratico, dopo anni e decenni di sfruttamento spietato (si è parlato – male ma comunque ci si capiva – di “neoliberismo in salsa cinese”). Sullo sfondo, spingere per un’urbanizzazione che traghetti verso una società di ceto medio, dove il ceto medio è correttamente inteso come elemento di pacificazione politica. Un’equazione con molte variabili, estremamente complessa.

Ora, il punto di svolta è il 2008. Con la crisi finanziaria globale, Pechino si accorge di essere troppo dipendente dall’export. Ricostruiamo questo processo per gradi. Inizialmente è la Cina a venire in aiuto all’Occidente (nel pieno dell’amministrazione Obama) con un piano keynesiano di oltre 500 miliardi di dollari destinato a rilanciare la produzione interna e a non fare sgonfiare il mercato mondiale al quale, a quel punto, è strettamente connessa. È in questa congiuntura che si formula una nuova strategia. Che cos’è successo?

Una parte dei surplus commerciali accumulati dalla Cina nei decenni, per tacito accordo, doveva essere investita nei titoli del Tesoro americano, rientrando in quella struttura che ho descritto prima. I titoli del Tesoro vengono utilizzati come riserva in dollari, per vari motivi: in primis perché il dollaro è la moneta mondiale; e soprattutto perché, se non si acquista dollari, lo yuen rischia di salire a causa del surplus commerciale e quindi rendere meno competitive le imprese sul mercato mondiale. Da un punto di vista finanziario, è un vero un cappio al collo. Non a caso questa situazione è stata definita una Chain-Gang: sei legato da questa catena all’altro galeotto (in questo caso, gli Stati Uniti) e, se questo cade, ti trascina con sé.

La crisi del 2008 conferma quanto suggerì la crisi asiatica del 1997: così non si può continuare, se non mettendo a rischio i processi di modernizzazione autonoma, quindi il compromesso sociale interno, il quale, lo ripeto, è quel fattore di stabilità che consente al Partito di guidare un paese enorme, complessissimo, e da un certo punto di vista ingovernabile. Di qui la svolta con l’amministrazione Xi Jinping.

L’elezione di Xi Jinping nel 2012 (entra in carica nel 2013) segna la presa d’atto che si deve cambiare strategia di sviluppo, e che ciò avrebbe comportato grossi cambiamenti nel rapporto, anche geopolitico, con gli Stati Uniti (in quel momento erano, con Obama, in grossi guai) e con l’Europa (stretta nella crisi dei debiti sovrani). Ridotto ai minimi termini, cosa vuol dire cambiare strategia di sviluppo? Ritagliarsi una nuova collocazione nella divisione internazionale del lavoro. Nella fattispecie ciò equivaleva a non avere più soltanto fabbriche che assemblano componenti comprate da fuori, ma iniziare a produrre da sé con quella che chiamano “innovazione indigena”; una volta prodotte queste componenti, le si assembla in altri paesi, che a questo punto diventano il Laos, la Cambogia, il Vietnam e così via. Quindi prendersi una fetta maggiore di plusvalore sulle catene di fornitura mondiali, risalendone la catena.

Tuttavia, diventa prioritario l’ottenimento di tecnologie a livelli ancora più alti rispetto a quelli raggiunti fino ad allora. Per arrivarci, l’“innovazione indigena” va affiancata a un ampliamento del mercato interno.  Non è più accettabile che i consumi siano al 30-40%, perché questo ostacolerebbe i processi di industrializzazione rivolti verso i segmenti industriali a valore aggiunto più alto. Da qui l’imperativo categorico: uscire definitivamente dal sottosviluppo. Fate conto che la Cina sconfigge la povertà assoluta soltanto nel 2012-2013, una delle grandi bandiere di Xi Jinping. È grazie a questo che, secondo le stime della Banca Mondiale, le disuguaglianze di reddito a livello globale sono diminuite; se invece noi togliamo la Cina dal calcolo, vediamo che la forbice si divarica, il che indica bene quale sia il peso della Cina negli equilibri tra Nord e Sud del mondo.

Di pari passo, va parzialmente riformulato il compromesso sociale, approfondendone l’impostazione socialdemocratica. Il ruolo del partito-Stato deve diventare sempre meno quello di una gestione diretta delle aziende, e sempre più quello tipico di un capitalismo moderno, cioè di pianificazione macroeconomica. Si tengono, come prima, le leve centrali dell’economica (le banche statali e le grandi imprese), ma conservarne la proprietà statale serve a dettare un indirizzo di politica industriale. È una pianificazione, certo, ma che è tutta dentro e per il mercato. Guardate, tra molte virgolette sembra un po’ l’Italia del boom [degli anni Sessanta, ndK]. Anche per quanto riguarda la proprietà immobiliare, i cinesi sono arrivati ad avere per l’80% la prima casa…

Quindi la strategia di Xi Jinping, il piano “Made in China 2025” del 2015, il quattordicesimo piano quinquennale e via discorrendo si incentrano tutti sulla doppia circolazione, sull’innovazione indigena e la regolazione del mercato interno. Per fare un esempio, avrete tutti sentito delle mazzate date dal partito-Stato a Jack Ma, ad Alibaba e in generale alle piattaforme digitali. Perché questa insistenza? I motivi sono due. In primo luogo, sono canali economici che deviano l’innovazione verso applicazioni, mentre qui si tratta di risalire la catena a monte fin dal manifatturiero, per dipendere sempre meno dai microchip progettati con i design statunitensi e confezionati da fabbriche taiwanesi e sudcoreane (leggi alla voce: guerra dei microchip e semiconduttori). In secondo luogo, perché le piattaforme digitali, profilando l’utente, prima o poi si buttano sul microcredito, e così facendo la creazione di moneta rischia di sfuggire alle banche centrali, esponendosi alla speculazione dei capitali della finanza occidentale. Sa chiaro, non è che non entrino dei capitali speculativi a breve termine, il cosiddetto hot money, ma il problema è regolamentarlo: già nel 2015-2016 è scoppiata una bolla immobiliare in borsa e la Banca centrale dovette intervenire con un esborso notevolissimo, vendendo parte di riserve in dollari per evitare dissesti maggiori.

Contemporaneamente – e qui i giochi diventano strettamente geopolitici – bisogna proiettarsi all’esterno. Nasce allora il grande progetto delle Nuove Vie della Seta. Un’infrastrutturazione innanzitutto di capitale fisso e vie di comunicazione, poi anche digitale, che permetta un maggiore interscambio sia commerciale sia di investimenti di capitali all’estero, iniziando quindi un’internazionalizzazione dello yuen.

Non ci sono assolutamente le condizioni per parlare di una de-dollarizzazione; e tuttavia le Vie della Seta, strumenti baricentrali per la proiezione esterna del capitale cinese, possono diventare appunto vettori di una diversificazione delle valute mondiali. Ci siamo ancora lontani, però è chiaro che, se noi ci mettiamo dal punto di vista di Washington, bisogna bloccare preventivamente questa traiettoria. Semplificando parecchio, nel proiettarsi all’esterno la Cina potrebbe diventare una sponda per quei paesi che non vogliono rimanere completamente subordinati all’ordine del dollaro: la Russia, l’Iran, via via la Turchia, i Brics e – se posso azzardare un’anticipazione – secondo me tra un po’ scoppia un grosso casino tra Stati Uniti e Arabia Saudita, dal momento che questa sta pensando di vendere petrolio in yuen.

Guardiamo poi il problema dei microchip. Non so bene quale paragone si possa fare con le fasi industriali precedenti, sta di fatto che i microchip sono ormai il cuore di ogni processo produttivo e di ogni bene di consumo. La Cina ne importa il 70% mondiale, proprio perché rimane in parte l’officina del mondo, sebbene Xi voglia passare dal Made in China al Made by China. Ad oggi, i microchip di alto livello, sotto i dieci nanometri, sono ancora tutti prodotti o a Taiwan o in Corea del Sud, su progettazione statunitense e con macchine, sofisticatissime, di produzioni ultracentralizzate negli Stati Uniti e in Olanda (qualche cosa anche in Germania). La Cina è indietro almeno di dieci-quindici anni, e tuttavia gli Stati Uniti sono attanagliati dal timore che avanzi, che recuperi. La guerra commerciale di Trump non è nulla in confronto a questo. Il problema non sono i dazi, ma la possibilità di arrestare (e quindi invertire) l’avanzamento tecnologico e industriale di un attore economico come la nazione cinese.

È una cosa veramente seria, al momento direi persino di più delle schermaglie su Taiwan, perché la Cina non è in grado di rispondere tecnologicamente. Mano a mano che le tensioni proseguono, si fanno sempre più esplicite da parte degli americani. Per esempio, adesso gli statunitensi pretendono che la Tsnc (la più grande fabbrica taiwanese) e la Samsung (sudcoreana) investano in Arizona e in Texas, in un’operazione di reshoring che ha la sua potenza retorica anche per quanto riguarda la tutela di quella fragilissima pace sociale interna agli Stati Uniti. Come vedete, si può prendere una qualunque manovra economica e rintracciarne la natura conflittuale, contemporaneamente infra-sociale e geopolitica. Considerando che posta è in gioco, è facile capire che si aprono spiragli di conflitto tremendi.

Vado verso la conclusione. Come avrete ormai capito, davanti a questo scenario, l’obiettivo cinese è chiaro: non farsi sganciare – con una certa ironia terzomondista… – dai circuiti mondiali, perché comprometterebbe la propria possibilità di avanzamento tecnologico. A conti fatti, però, la nuova strategia di sviluppo ha delle fragilità tremende. Iniziano infatti dei processi tesi verso l’indebitamento. Perché?

Perché nel rallentamento dell’accumulazione mondiale, per evitare una crisi economica e quindi compromettere il patto sociale interno, si lanciano investimenti in settori a bassa produttività. Per esempio, sono state fatte ingenti spese nell’edilizia (in cui poi, non a caso, si è generata la bolla edile) e nelle infrastrutture fisse (treni ad alta velocità, autostrade, eccetera), ma ancora resta da capire che uso produttivo possano incentivare. Da lì il rischio di un indebitamento senza produzione di plusvalore con cui ripagare il credito. Si potrebbero determinare quindi delle bolle, forse non ai livelli della finanza occidentale, ma comunque preoccupanti; tant’è vero che Xi Jinping ha più volte intimato a uno «sviluppo economico sano» contrapposto all’«espansione disordinata del capitale» (ma pensiamo anche agli slogan come «la casa è fatta per abitare, non per speculare»). Delle fragilità notevoli, ma tale passaggio o la Cina lo compie o rincula, torna indietro definitivamente e salta il compromesso sociale. Per la Cina è una questione esistenziale.

E da qui il piano inclinato. Perché chiaramente per gli Stati Uniti diventa fondamentale troncare questo salto. Si spiega così non solo la guerra dei microchip, ma anche il crescente caos geopolitico che incontriamo ripercorrendo le Vie della Seta. L’Ucraina e la Russia erano una delle direttrici principali della Via della Seta che unisce Cina e Germania, e dunque l’Europa; anche in Iran una situazione a dir poco drammatica sia per contraddizioni interne reali, sia per fattori indotti dall’esterno; prima ancora la catastrofe in Siria, ovvero lo snodo mediano nella direttrice Iran-Siria-Mediterraneo; ora sorgono screzi con l’India…

Aspettiamoci quindi la continuazione e l’esasperazione della politica del disordine indotta dagli Stati Uniti lungo l’Asia Orientale, dove stanno cercando di rafforzare le loro alleanze in funzione esplicitamente anticinese: quindi il tentativo di coinvolgere l’India; il riarmo giapponese, financo nucleare; i sommergibili nucleari all’Australia e l’alleanza Aukus; e infine la trappola Taiwan, che dovrebbe consistere per gli Stati Uniti nell’analogo dell’Ucraina per la Russia. Quindi capite che portare avanti una nuova strategia di sviluppo in questo vespaio diventa sempre più difficile – per non parlare del problema Covid e della sua governance.

Chiudo. Torniamo un attimo dall’altra parte, sull’altro versante. Anche sul coté statunitense l’ordine che finora li ha favoriti regge sempre meno. La globalizzazione non paga quanto prima e per giunta polarizza tutti i rapporti. All’interno abbiamo già visto il trumpismo e il populismo, e non è che sono scomparsi: a parte il fatto che Trump era il sintomo e non la malattia, i processi di polarizzazione interni alla società statunitense sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso vale per gli sviluppi successivi alla (debolissima) vittoria di Biden alle ultime elezioni.

Ci sono state le mobilitazioni delle donne per l’aborto, così come si sono verificate anche delle lotte operaie, però attenzione: la proposta di Biden è un America first-light, un trumpismo in veste democratica. Si prospetta il reshoring, cioè il ritorno di alcune lavorazioni industriali per la classe operaia bianca; si insiste con l’attacco alla Russia; si moltiplicano le continue provocazioni anticinesi e via di questo passo. Da ultimo, oltre l’immane pacchetto di sussidi erogati in questi anni, c’è l’Inflation Reduction Act, un decreto da 700 miliardi di cui quasi 300 saranno spesi in sussidi a imprese affinché tornino a investire negli Stati Uniti. Una mossa che sta già creando gravissimi problemi nei rapporti con l’Europa. Insieme alla rottura della politica energetica europea, sancita dal sabotaggio statunitense a Nord Stream 1 e 2. Per l’industria tedesca (ovvero il cuore dell’industria europea) il costo dell’energia è divenuto tale per cui la stessa Volkswagen ha detto “altro che passaggio all’auto elettrica, con questi costi non possiamo permetterci nemmeno di produrre le batterie”. Non si tratta di una conseguenza imprevista: gli Stati Uniti stanno puntando ad attirare capitali e investimenti di grandi imprese anche europee, e dunque a deindustrializzare parzialmente la stessa Europa. Stanno cambiando tutti i rapporti e si prepara per i prossimi decenni qualcosa di grosso.

Certo, gli Stati Uniti manterranno i propri alleati; certo, Biden non tratta gli europei come li trattava Trump; però l’onere per questi ultimi è sempre più pesante. Persino i costi di protezione sono diventati insostenibili: basta guardare a come stiamo pagando il coinvolgimento in Ucraina. E così, necessariamente, crescono e cresceranno delle insofferenze antiamericane, oggi anche tra gli alleati. Al tempo stesso si iniziano a vedere alcuni segnali di sofferenza del dollaro. Per fare un esempio, i cinesi non stanno aumentando l’acquisto di treasury bond americani. Non li vendono, ma non li comprano nemmeno.

Ecco spiegato perché gli Stati Uniti si stanno aggressivizzando radicalmente contro la Cina: per ciò che è, ovvero la possibile sponda economica prima e politica poi dell’“asse dell’insofferenza” antiamericana sparso sul mondo; e quello che potrebbe diventare qualora le riuscisse la risalita della catena del valore, l’internazionalizzazione dello yuen e l’ampliamento del mercato interno servito da proprie aziende – e non come nel Brasile del primo Lula, dove sì aumenti i consumi interni e fai salire un ceto medio di giovani e studenti, ma acquistando dall’esterno, cosicché quando arriva la crisi questi ti si rivolgono contro e allora “viva Bolsonaro”.

In estrema sintesi, per gli Stati Uniti il decoupling, cioè sganciare la Cina dai segmenti alti del mercato mondiale, significa imporre agli alleati una rottura. Il viaggio di Scholtz in Cina delle scorse settimane, preoccupatissimo, rientra in quest’ottica. I tedeschi sono preoccupatissimi, perché dopo la cesura con la Russia per le politiche energetiche, rompere anche i legami commerciali con la Cina sarebbe una catastrofe senza pari.

Ora – e qui chiudo veramente – ci dobbiamo porre una domanda fondamentale. Il decoupling combinato con una parziale rilocalizzazione delle produzioni è già una grand strategy? Ovvero, è un analogo di quella politica di contenimento scagliata nella Guerra fredda contro l’Urss?

Ecco, io qui avanzo alcuni dubbi, che mi portano a dire che andiamo ancora più verso il caos. Non si può escludere che gli Stati Uniti ce la facciano, cioè che riescano a innestare alla Cina delle contraddizioni, interne ed esterne, tali da farla implodere (un regime change sistemico); e però, a tutti è evidente che la Cina di oggi non è l’Unione Sovietica di ieri. Anche solo provare a farla saltare sarà molto più difficile (leggasi: molto più doloroso per lo stesso Occidente).

Insomma, il caos che monta ci sta conducendo a contraddizioni economiche che diventeranno, e già diventano oggi, sociali e che, prospettate in tendenza nei prossimi due decenni, ci fanno dire: i nostri conti con il Capitale non sono chiusi.

Il punto per gli Stati Uniti è fin dove portare il decoupling in maniera tale che non rompa la globalizzazione, che è la gallina dalle uova d’oro che finora ha permesso il comando globale del dollaro sul plusvalore prodotto globalmente. Rompere la globalizzazione è fuori discussione: condurrebbe molto probabilmente a un conflitto armato oggi inimmaginabile nella sua portata. Ma fino a che punto puoi tirare la corda con gli alleati? Guardate alle insofferenze che ribollono nella popolazione lavoratrice e nella borghesia produttiva tedesca, dove un forte antiamericanismo, prima tabù, inizia a circolare.

Persino uno come Lafontaine, che è stato un dirigente importante dell’Spd, nei giorni scorsi ha lasciato un’intervista durissima in cui ha detto chiaro e tondo che i sabotatori di Nord Stream 1 e 2 sono gli americani, che la classe dirigente tedesca è «vile e codarda», che la Baerbock (cioè i Verdi) sono il peggio che possa esserci… Badate che questi discorsi sono molto più spesso a destra, nel populismo. Quindi attenzione, perché le contraddizioni da una qualche parte devono uscir fuori, e se non escono a sinistra è una bella rogna.

Per ora siamo davanti, in un certo senso, a uno stallo economico-politico-diplomatico già intaccato e alla crisi ordinativa degli Stati Uniti. Come erano usciti dalla crisi degli anni Settanta? Combinando il riordinamento geopolitico globale con una profonda ristrutturazione produttiva e di classe (borghese) all’interno. Ora, a me sembra che al momento sì, attacchino la Cina e la Russia in quanto Stati rivali, ma soprattutto per congelare, per rinviare una ristrutturazione produttiva che sconvolgerebbe la società statunitense. Il ceto medio, che continua a vivere a debito, verrebbe falcidiato: per ora la questione dei ceti medi è emersa nella forma del trumpismo, ma quello era solo un primo segnale. La stessa cosa qui. Le classi dirigenti stanno finora facendo ricadere l’inflazione sui proletari, ma il ceto medio sente benissimo l’acqua che sale. I bottegai possono pure sperare in un qualche condono dalla Meloni, ma tutti capiscono che durerà poco.

Che ci aspettano anni veramente durissimi.

Chi non lo legge è Zelensky a Sanremo «conciato come una punk londinese».

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Discorsoni / Analisi

I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Prima parte – Appunti per una nuova teoria dell’imperialismo

Sullo sfondo della guerra in Ucraina e della recessione economica globale, l’urto possente che segnerà il prossimo futuro e sta già rimodellando il nostro presente: lo scontro tra Stati Uniti e Cina.

È su questo cambiamento di fase che, sabato 3 dicembre, abbiamo voluto ragionare con Raffaele Sciortino a Modena, per costruire un punto di vista e un’analisi approfondita che non si trovano nelle aule universitarie, sui podcast di Dario Fabbri o tra le infografiche di Instagram. Allargando il campo sull’epoca dei torbidi e di caos crescente che avevamo già cominciato a decifrare nel Mondo di domani, nella precedente iniziativa con Raf e Silvano Cacciari, di cui avevamo già riportato gli interventi su questo blog.

È questo scontro, oggi, il nodo cruciale del sistema-mondo capitalistico, imperniato su una globalizzazione giunta a un punto di non ritorno, tra equazioni impossibili e necessità di rilancio. Un conflitto che non si limita alle sfere alte della politica e dell’economia, ma inciderà sempre di più nella vita quotidiana di milioni di persone, e non in modo secondario a queste latitudini.

Che forma prenderà il caos internazionale da un punto di vista di classe? Da quali contraddizioni strutturali si darà il senso di marcia dello scontro? Quali scenari si apriranno per il ritorno del conflitto sociale?

«Gli dèi della fortuna favoriscono solo chi si prepara…», si chiude così il libro che abbiamo voluto presentare. Pertanto, partendo da queste domande, ma soprattutto da questa indicazione di metodo, pubblichiamo in tre puntate il ricco intervento e il proficuo dibattito della presentazione di Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza, ultima, preziosa e non semplice fatica di Raffaele Sciortino. In questo prima tranche, un’introduzione alla crisi della globalizzazione capitalistica a trazione americana, sviluppata sul dollaro e sul ruolo di ordine/disordine di Washington nel sistema-mondo, che traccia fin da ora qualche appunto per una nuova, e necessaria, teoria dell’imperialismo ancora da scrivere.

Per chi non si accontenta di quello che vede e sente intorno a sé. La posta in palio, le lotte di classe a venire, forse meno lontane di quanto si creda…

 

Raffaele Sciortino

Grazie ai compagni per l’accoglienza qui a Modena, è sempre un piacere tornare. Non preoccupatevi, è sabato e cercherò di non ammazzarvi con la mia relazione. Vorrei fare giusto un’introduzione che disegni il quadro generale e lascerei piuttosto alla discussione i punti più controversi o comunque di maggiore interesse.

Se dovessi dirla tutta, il nocciolo segreto di questo libro è un invito a ritematizzare il concetto di imperialismo, inteso come struttura. Ovviamente non lo fa ritornando indietro a uno sguardo ideologico da anni Sessanta; e tuttavia resto convinto che su questo cardine si avvierà una discussione negli anni a venire, poiché ormai lo stato di cose lo impone, la situazione lo esige. Giustamente i compagni dicevano che ho tentato di affrontare questo problema assumendo un punto di vista di parte, che nel libro traspare al livello dell’inquadramento analitico.

Se dovessimo fotografare lucidamente, fino in fondo, al momento, le attuali dinamiche di classe e di movimento, dovremmo essere pessimisti. Questo non ci esime però dal delineare alcune tendenze che in futuro si incroceranno, che contrasteranno tra di loro, e che potrebbero – a date condizioni – aprire delle prospettive a oggi effettivamente molto remote. Per dare sostanza e concretezza all’elaborazione teorica e analitica, partirei dall’avere ben presente questo obiettivo.

Fotografiamo quindi la situazione da un punto di vista geopolitico iniziando da una premessa metodologica fondamentale. Mi riallaccio a quanto correttamente anticipavano i compagni: contrariamente a quanto si legge per la maggiore, quando parlo di geopolitica cerco di non limitarmi e di non ridurlo al conflitto di potenza tra grandi Stati, alla “tragedia delle grandi potenze”. Per quel che ci riguarda, “geopolitica” è un altro termine per dire “imperialismo”, ovvero economia concentrata la quale, quando le contraddizioni non sono più gestibili altrimenti, diventa sì scontro di potenza, ma al cui centro rimangono delle dinamiche profonde di accumulazione capitalistica, e dunque di rapporti di classe.

Ora, sotto questo aspetto noi notiamo un cambiamento cruciale, o perlomeno un inizio di un cambiamento di fase. Esattamente cinquant’anni fa, Nixon e Mao si incontravano per siglare un punto di svolta nel quadro della Guerra fredda. Eravamo ancora in piena Guerra del Vietnam, sebbene gli Stati Uniti cercassero di uscirne in tutti i modi (si noti, durante una presidenza repubblicana…). Si crea così il cosiddetto rapprochement, il riavvicinamento – diplomatico, prima, ed economico, poi – che apre il mercato mondiale alla Cina, presente e ancor vivo Mao.

Com’è noto, per definire la struttura geopolitica di allora, gli studiosi e i manuali di storia parlano di “bipolarismo” tra Usa e Urss. A ben vedere, però, proprio a partire dai processi antimperialisti e anticoloniali – detti oggi in una maniera politicamente neutra, se non ipocrita, “decolonizzazione” – in realtà la Cina si era già ritagliata un suo ruolo di spicco, che non la vedeva tanto come una potenza in senso militare e in senso classico, quanto come il vettore fondamentale, il motore pulsante di queste dinamiche anticoloniali. In ciò forte, ovviamente, del potenziale generato dalla sua popolazione, dalla sua antica civiltà, e dalla sua storia.

A uno sguardo più attento, quindi, si può osservare come già allora il bipolarismo si stesse in un qualche modo incrinando, andando a costituire quel riavvicinamento geopolitico-diplomatico che gli analisti oggi chiamano il “triangolo strategico”. Con questo termine si schematizza una situazione internazionale gravitante sulla superpotenza statunitense, sull’Unione Sovietica (allora considerata superpotenza, sebbene poi si vide che così non era), ma anche da un altro grande polo: la Cina, che da un punto di vista militare è una media potenza, e ciononostante inizia ad acquisire una rilevanza politica (in parte acquisita, in parte “concessa” dagli Stati Uniti) tale per cui può cambiare gli equilibri mondiali. Ecco il triangolo strategico.

E allora, cosa è veramente successo nel 1972? Ritorniamo al triangolo: il cateto che lega Washington a Pechino si accorcia, mentre va ad allungarsi sicuramente quello tra Pechino e Mosca (per ragioni che adesso non possiamo investigare qui; ma basti dire che c’era stata una rottura iniziale già dieci anni prima) e passo passo, da Reagan in poi, con la “nuova Guerra fredda” degli anni Ottanta, tra Washington e Mosca.

Certo, questa situazione non è l’unica causa dei rapporti internazionali a venire, che hanno sviluppi complessi; e tuttavia ha contribuito a disegnarne la linea principale. Si aggiunga che pochi allora la colsero, specialmente nel campo marxista, abbacinato o meno che fosse dal maoismo e dalla Rivoluzione culturale (che formalmente era ancora in piedi, per quanto in declino). Cinquant’anni dopo noi possiamo dare come tendenziale questo triangolo strategico; e tuttavia intravediamo già dei cambiamenti importanti che potrebbero persino andare a costituire una struttura nuova.

In primo luogo, non c’è più l’Unione Sovietica: c’è la Russia, che ora è senza dubbio il polo minore dei tre. Il grosso però di quello che sta emergendo è il riavvicinamento tra Mosca e Pechino, contemporaneamente all’allontanamento degli Stati Uniti dagli altri due. Queste trasformazioni lavoravano già nel sottosuolo, ma adesso, specialmente dall’Ucraina in poi, sono palesi.

Un secondo punto di cruciale importanza è che la globalizzazione non è finita, ma sicuramente si sta incrinando, dirigendosi al momento verso un rallentamento degli indici fondamentali (vi risparmio un’analisi tecnica). Non a caso, l’«Economist» parla di slowbalization – una globalizzazione che rallenta e che comunque corre incontro a delle contraddizioni che potrebbero anche aprire a una deglobalizzazione, la quale, ovviamente, non sarebbe un processo puramente economico.

Insomma, molti elementi ci fanno ipotizzare l’apertura di una nuova fase, che potrà durare anche decenni e i cui caratteri contribuiranno a definire come se ne uscirà, così come è avvenuto con il “lungo Sessantotto”. La grossa, ovvia, differenza sta nel fatto che oggi l’innesco del cambio di fase non è dato dalle lotte, né anticoloniali né operaie. Questo certo è una complicazione su cui riflettere; e però le dinamiche sociali ci sono. Una sorta di lotta di classe invisibile, comunque, rimane.

Di qui il piano inclinato dello scontro internazionale che – attenzione – non viene sollevato dagli analisti di professione. Emerge piuttosto dalle percezioni degli stessi due grandi attori, Pechino e Washington, se uno avesse la briga di analizzare la mole di letteratura e dichiarazioni ufficiali. Quantomeno per i cinesi è chiarissimo che si è chiusa definitivamente la fase iniziata con il riavvicinamento e se n’è aperta un’altra qualitativamente differente, rispetto alla quale occorre cambiare strategia.

A questo punto vorrei essere il più sintetico possibile, anche se i temi, come dicevano giustamente i compagni, sono complessi anche per me, e figuriamoci sintetizzarli in una relazione. A ogni modo, il punto mi pare questo: noi arriviamo sempre un po’ in ritardo. Ci stiamo chiedendo soltanto adesso cos’è stata la globalizzazione. E non mi riferisco qui a quella rappresentazione (apologetica o critica poco importa) che grossomodo riportava tutto al “neoliberismo” e così via: ci chiediamo cosa sia stata nel profondo per capire cosa si sta rompendo e che cosa potrebbe uscirne.

Dunque, non essendoci il tempo per una genealogia minuziosa, mettiamo almeno sinteticamente a fuoco i due aspetti fondamentali degli ultimi trenta-quarant’anni, centrali sia nella globalizzazione ascendente sia a partire dalla crisi del 2008-2009: il ruolo ordinativo degli Stati Uniti e l’inserimento della Cina nel mercato mondiale.

Letta attraverso il primo punto, la globalizzazione si disegna come il risultato di un insieme di assemblaggi. La maggior parte non preparati a tavolino, altri frutto di strategie. Per gli Stati Uniti il problema era molteplice: come uscire senza troppi danni dal pantano vietnamita; come reagire al “lungo Sessantotto” (ai movimenti dei neri, alle lotte operaie, eccetera); e come rispondere a un “Terzo Mondo” che aveva alzato la testa sull’onda delle lotte antimperialiste e anticoloniali, il quale ancora trovava una sponda (lasciamo perdere di che tipo) nell’Unione Sovietica. Quindi estreme difficoltà. Tant’è che negli anni Settanta il dibattito politico, sia negli ambienti borghesi che nei nostri, ruotava sul declino degli Stati Uniti.

In realtà non c’è stato nessun declino. Perché gli Stati Uniti sono rimasti gli egemoni mondiali? Non perché “sono una potenza” e quindi impongono una guida; al contrario, guidano perché hanno intrepretato al meglio il capitalismo nella sua complessità e individuato al meglio ciò che urgeva disperatamente all’accumulazione capitalistica per fuoriuscire dalla crisi degli anni Settanta, affrontandola a tutti i livelli (di conflitto di classe, di conflitto intercapitalistico e geopolitico, eccetera).

Che tipo di struttura ne è scaturita? Il punto di svolta emblematico – che fa il paio con il 1972, l’incontro Mao-Nixon di cui parlavo prima – è ormai universalmente individuato nello sganciamento del dollaro dall’oro, nel 1971. Come è noto, ciò conduce alla fine del sistema monetario di Bretton Woods istituito all’uscita dalla Seconda guerra mondiale, a sostituire in larga misura l’egemonia del dollaro a quella della sterlina, fino a elevare il dollaro a moneta mondiale (tenuto pur sempre conto della divisione del mondo in due blocchi).

Questo sganciamento, con le sue origini per certi versi contingenti – la globalizzazione è anche un assemblaggio di contingenze che poi si fa struttura –, si coniuga con delle strategie tutto sommato intelligenti da parte dell’amministrazione americana, si consolida, dura nel tempo e appunto si rilancia in avanti, rivitalizzando l’egemonia statunitense. Sostanzialmente si era partiti dal fatto che, per vari motivi, gli Stati Uniti avevano ormai una bilancia di pagamenti in deficit cronico (soprattutto per quanto riguarda le spese militari), la quale poi è andata ad assommarsi con una bilancia in deficit commerciale cronico (ovvero il rapporto import-export).

Detto in estrema sintesi: gli Stati Uniti escono dalla Seconda guerra mondiale come i banchieri del mondo. Prestanocapitali, investono all’estero e impongono la propria moneta. In parte questo era già successo dopo la Prima guerra mondiale ma, per motivi che adesso non possiamo tematizzare, non si era creata una struttura stabile. Ebbene, a partire dagli anni Settanta questi tendono a diventare il Paese debitore numero uno, con il più grande deficit della bilancia commerciale (quindi i più grandi importatori al mondo: ormai siamo a livello di 800-900 miliardi di dollari l’anno) e della bilancia dei pagamenti (che indica, lo ripeto, il flusso in entrata e in uscita di capitali).

La capacità, la grandezza e perché no, il colpo di genio (se vogliamo metterci al livello degli attori personali, per quanto la questione sia sul piano delle strutture) della dirigenza statunitense è stata nell’idea di usare l’indebitamento come leva per rilanciare l’egemonia. In tutta franchezza, sul fronte marxista dell’epoca praticamente nessuno lo aveva colto, perché si riteneva – con una lettura economica ortodossa e che di per sé sarebbe anche valida, ma non importa – che il deficit indicasse la perdita di terreno della produttività del sistema industriale relativamente alla concorrenza interna al campo occidentale (nella fattispecie, rispetto a Germania e Giappone); ciò significa che sei in declino, e dunque che scatterà presto o tardi una rivalità interimperialistica (appunto con Giappone e Germania, le sconfitte della Seconda guerra mondiale che si sarebbero risollevate e avrebbero rivaleggiato).

Con varie sfumature, la nostra lettura negli anni Settanta era sostanzialmente questa. Non è andata così.

Infatti, il dollaro sganciato dall’oro e trasformato in una moneta con cambi fluttuanti, legato a una bilancia dei pagamenti in deficit cronico, ha permesso di monetizzare i debiti. In una parola: da allora gli Stati Uniti si indebitano ininterrottamente nella propria moneta. È come se emettessero in continuazione un assegno in bianco o chiedessero dei prestiti a conti fatti irredimibili, dove tu praticamente ti indebiti e al contempo sei tu che emetti la moneta con cui quel debito dovrebbe essere ripagato. Non è forse questa una funzione parassitaria, da classico “sfruttamento parassitario della leva del debito”? Ebbene, non è esattamente così.

Non è esattamente così, per il semplice fatto che questo meccanismo ha permesso di avviare quella futura globalizzazione, che non è stata soltanto una congiuntura politica, ma un passaggio, uno stadio dello sviluppo del capitalismo che per la prima volta si è reso pienamente mondiale, costituendo quel mercato mondiale ipotizzato da Marx centocinquant’anni prima.

Gli Stati Uniti inondano di dollari il mercato mondiale (a maggior ragione quando imploderà il socialismo reale) e intanto inseriscono la Cina. In virtù della forza militare statunitense alle sue spalle, questo dollaro funge da liquidità internazionale sempre disponibile, allo scopo di “lubrificare” i circuiti di capitale e di merci che si globalizzano. La produzione si internazionalizza e nascono quelle che oggi si chiamano comunemente le “catene globali del valore” (o “catene di fornitura”, supply chains, e così via). Inoltre, grazie anche alla Guerra del Vietnam, gli anni Settanta sono anche gli anni in cui si inventa il container: si apre così la storia della logistica ipermoderna.

Occorre rilevare, infine, che questi circuiti di debito e credito su cui corre il dollaro inflazionato determinano la creazione di corridoi finanziari enormi, nonché delle relative bolle (che periodicamente esplodono). La finanza – ed è un punto di estrema importanza, da sottolineare con la massima chiarezza – ha quindi alla base l’internazionalizzazione della produzione. Di questo passo in breve la finanza (per dirlo un po’ metaforicamente) diventa costitutivamente un’anticipatrice del ciclo produttivo, spingendolo parossisticamente a mercificare, a “capitalistizzare” tutto il globo terracqueo. Al tempo stesso la finanza diviene una primaria regolatrice degli standard di valore.

È in tale contesto che il dollaro assurge effettivamente a moneta mondiale. Riassumendo, la situazione internazionale generatasi dalle trasformazioni del dollaro risulta chiaramente funzionale, in primo luogo, agli Stati Uniti per rilanciare l’egemonia economica – una traiettoria talvolta sintetizzata come “l’imperialismo finanziario del dollaro”. Di pari passo, infatti, questi complessi circuiti produttivi e di credito-debito consentono di stringere in un’unica maglia il mercato mondiale, anche tutte le altre borghesie e le altre economie e non più soltanto quelle imperialiste europee, facilitando così la fuoriuscita dalla crisi politica degli anni Settanta.

In questa mutazione dei rapporti economici internazionali, cosa conservano gli Stati Uniti? I livelli alti della produzione. È da lì che parte la rivoluzione informatica e digitale, mentre gran parte dell’industria a medio (e soprattutto basso) livello tecnologico e ad alta intensità di lavoro inizia ad essere delocalizzata. Si darà così il varo ai famosi processi di downsizing e di deindustrializzazione, prima negli Stati Uniti e poi estesi via via anche all’Europa, che spingono le manifatture verso la Cina con forza lavoro a basso costo (ne parlerò a breve). Si trasforma così la funzione ordinativa degli Stati Uniti rispetto alla Guerra fredda, già dieci-quindici anni prima che l’Urss crollasse, gettando i semi di quello che conosceremo come il capitale neoliberale. Ripeto, con una rendita di posizione chiarissima degli Stati Uniti. Perché?

Perché chiaramente il dollaro è una struttura, ma è anche una strategia, una leva della strategia statunitense. Al punto tale che da allora è possibile ricostruire i cicli economici anche seguendo l’uso “a fisarmonica” che gli Stati Uniti hanno fatto del dollaro (non è un’analisi originale mia, è una lettura che sta venendo fuori da parecchie parti). In taluni contesti si è trattato di riversare il dollaro sui vari mercati inflazionandolo inizialmente (sul lungo percorso, il prezzo del denaro inflazionato tende a svalutarsi) oppure, a date condizioni e quando se ne sentiva l’esigenza, rialzando i tassi attraverso la Banca centrale statunitense, la Federal Reserve, riattirando così i capitali.

A che fine? I più disparati: per ristrutturare la produzione industriale; per finanziare l’apparato militare mastodontico, che va ben oltre gli 800 miliardi di bilancio (pensate ai rapporti tra la “rivoluzione digitale”, la Silicon Valley e il Pentagono); per eventuali pacchetti di stimolo, come è avvenuto negli ultimi anni per il Covid sia con Trump che con Biden (somme che non hanno pari nemmeno rispetto al Next Generation EU); e permettere, soprattutto, la creazione di bolle finanziarie che vanno a razziare valore su tutto il globo terracqueo. Bolle che poi di volta in volta scoppiano e, quando scoppiano, si tratta di fare ricadere i costi sugli altri.

Per esempio, in Europa questo lo abbiamo visto nel 2010-2011 con la crisi dei cosiddetti “debiti sovrani”, nata dopo la catastrofe del 2008-2009 in cui chiaramente (o almeno, nella mia lettura) ancora una volta parte dei costi di questa crisi è stata riversata sul Vecchio continente. Oggi, con la guerra in Ucraina, siamo al secondo tempo dello scarico degli oneri. Aggiungo poi che negli ultimi mesi la Federal Reserve sta di nuovo alzando i tassi, sebbene ancora sia poco chiaro quale possano essere le conseguenze.

Torniamo quindi alla storia, se vogliamo comprendere bene il funzionamento di questo meccanismo.

Come si sa, a fine anni Settanta scatta la cosiddetta stagflazione, stagnazione + inflazione. Lotte operaie, la rendita petrolifera che sale (poiché, giustamente, i Paesi produttori di petrolio esigono una fetta maggiore dei profitti) e via discorrendo. Nell 1981 arriviamo al 19% di inflazione negli Stati Uniti. La Federal Reserve, guidata allora da Volker (da cui l’espressione Volker Shock), alza tantissimo i tassi di interesse, stroncando rapidamente, con una recessione durissima, tanto l’inflazione quanto le lotte operaie e le pretese del cosiddetto Terzo Mondo a un ordine internazionale più equo. Da lì procederà la controrivoluzione reaganiana, thatcheriana, eccetera, fino ad oggi.

Vi è poi un altro tema, che accenno soltanto: oltre alla strategia del dollaro a fisarmonica, gli Stati Uniti usano sempre più spesso il regime sanzionatorio. Dovendo tutti usare il dollaro, direttamente o indirettamente rientri nell’arbitraggio giudiziario degli Stati Uniti. Quindi o ti sanziono direttamente (tipo l’Iran o la Russia) oppure con le cosiddette sanzioni secondarie, cosa forse ancora più grave. Non so se state seguendo Priolo e la Lukoil… Insomma, perché le banche italiane (secondo me anche la stessa Eni, ma vedremo come va a finire) non erogano lettere di credito per acquistare il petrolio? Perché temono che gli Stati Uniti possano rivalersi con le sanzioni secondarie, vuoi mettendo multe, vuoi tagliandoti fuori. Negli ultimi anni ha dato delle multe pazzesche alla Deutsche Bank, alla Bnp Paribas e così via; e inoltre non è mai decollato il sistema di pagamenti internazionali alternativo europeo per poter commerciare il petrolio iraniano. Perché? Perché anche se l’Europa l’ha varato, le banche se ne guardano bene dall’adottarlo. Su questo discorso ci stanno ben attenti anche i cinesi.

Quindi, vedete, si è andato costituendo una struttura, un dispositivo, chiamiamolo come vogliamo, con una rendita di posizione statunitense – ma, durante la globalizzazione ascendente, a beneficio di tutti. Dico “vantaggio” ovviamente tra virgolette, poiché già allora la situazione era diversa a seconda della propria collocazione nella divisione internazionale del lavoro e a seconda del rapporto geopolitico intrattenuto con gli Stati Uniti: è ben diverso se sei un nemico, un rivale, uno Stato canaglia, o un alleato, un vassallo, un tributario. Ma attenzione (e su questo torneremo): questa struttura sta diventando sempre più onerosa. Questa rendita di posizione, questa funzione ordinativa in qualche modo si sta incrinando anche per gli alleati.

Il punto da evidenziare è che non siamo di fronte a un “declino” degli Stati Uniti (se non in termini molto relativi), quanto piuttosto alla difficoltà del sistema di cui gli Stati Uniti sono il perno. È una precisazione fondamentale, se non vogliamo ricadere in certe discussioni che non hanno portato a nulla, e trarre invece delle lezioni anche dagli anni Settanta.

Chi non lo legge è un editoriale di Rampini.
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Antonio Alia – «Un po’ di ansietta, ragazzi?» Per una lettura politica della condizione giovanile

«Stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo».

Mario Tronti, Dello spirito libero.

Un bel mondo di merda, non c’è dubbio. Che la guerra sta portando sull’orlo della crisi di nervi. O viceversa.

Guerra. Crisi. Nervi. Dei primi due abbiamo già parlato. Il mondo di domani e il destino della globalizzazione; i figli della crisi e la scuola di oggi. Era giunta l’ora di parlare di nervi. Ansia, angoscia, sofferenza mentale. Un vissuto sempre più diffuso, quasi pandemico. Che sembra attanagliare soprattutto i giovani. O che essi – grazie alla loro età, unita a una maggiore consapevolezza e a una meno pressante assuefazione – riescono a far emergere in modo più radicale. Perché loro necessità, bisogno. Chi ci ha raggiunti, nonostante la stanchezza, le pressioni e l’ansia di un quotidiano senza tregua già a sedici anni, lo ha fatto non a caso, evidentemente.

Abbiamo voluto provare a costruire un punto di vista di parte. Il metodo che sempre ci muove: mettere in prospettiva, produrre discorso politico, stimolare formule organizzative. Ma prima di tutto, inchiestare. Individuare le domande, saper ascoltare. Tentare di trovare le risposte nel processo. Ci interessava una lettura politica dell’ansia, legata alle trasformazioni produttive, all’individualizzazione del disagio, alle nuove logiche del comando. Andare dallo psicologo va benissimo, ma non può essere una soluzione per problemi politici. Denunciare la catastrofe siamo capaci tutti, il difficile è capire con chi dobbiamo prendercela. Invece di diventare specialisti del malessere, rendere un’arma il punto di vista – lo sguardo parziale di chi, come militante politico, può rovesciare il proprio destino.

Il disagio giovanile c’è sempre stato. Perché oggi la forma organizzata, collettiva, sembra non essere più sentita come una risposta? Che tipo di aspettative stanno circolando nella composizione giovanile? Quanto sono diverse rispetto alle sue stratificazioni? E se le aspettative sono cambiate, cosa succede quando si apre uno scenario di guerra che ci riguarda da vicino, su differenti scale ma concreto? Sono alcune domande che ci hanno mosso. Con la consapevolezza che l’ansia, in qualche modo, ce la teniamo in questo mondo di merda, perché disfunzionali al sistema che ci produce. Ce l’abbiamo tutte e tutti in comune, chi più, chi meno, sicuramente in forme diverse.

E allora cosa ce ne facciamo? Come possiamo giocarcela insieme? Come cominciamo a farla venire ai padroni, a chi comanda, a chi ci vuole deboli, isolati e rassegnati? Lottare, lo sappiamo bene, ha sempre comportato ansia e inquietudine. Ma essere compagni, per noi, significa soprattutto questo: fronteggiarla insieme, rovesciandola in forza e militanza.

Pubblichiamo qui l’intervento di Antonio Alia, educatore e redattore della rivista «Commonware», che ha aperta la discussione del primo ottobre. Nonostante questo bel mondo di merda, buona lettura.

 

Antonio Alia

Ringrazio i compagni di Kamo per avermi invitato ad intervenire a questo dibattito. Dato che si parla di giovani e a farlo è un quarantenne, tenterò da un lato di non assumere un atteggiamento giovanilista, per cui tutto quello che fanno i giovani è buono di per sé, e dall’altro di evitare un certo paternalismo, per cui quello che fanno i giovani oggi è sempre sbagliato. Allo stesso tempo cercherò di barcamenarmi nel difficile ruolo di chi deve introdurre un dibattito sui giovani senza però parlare al posto loro, cercando di non spiegare a loro quello che probabilmente conoscono meglio di me. Vorrei quindi limitarmi a sollevare delle questioni, e a problematizzarne delle altre per aprire un confronto e verificare delle ipotesi.

Partirei dalla definizione di una parola che è stata usata nel testo di lancio di questo dibattito, non perché sia un esperto in materia ma perché mi sembra un modo utile per approssimare i problemi. La parola è ansia.

Parola che non è stata scelta a caso, perché da quello che mi raccontano amici e compagni che lavorano nelle scuole, ma anche da quello che viene raccontato sugli organi di stampa e rappresentato nelle serie tv, pare che l’ansia sia un tratto generazionale. Mi piacerebbe capire con voi, nel corso di questo incontro, se questo è un tratto effettivamente reale, quanto diffuso, quali le fasce giovanili maggiormente interessate, quali le cause ambientali, oppure se si tratta di una semplice rappresentazione mediatica. Certo va detto che deve essere sentito come un problema diffuso se la richiesta di servizi psicologici è stata presente anche nelle rivendicazioni di alcune delle più recenti mobilitazioni studentesche. Su questa rivendicazione ci torno più tardi.

Proprio perché non sono un esperto sono andato a cercarmi su internet le definizioni di ansia. Ne riporto due: una tratta dal sito dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia comportamentale e una da Wikipedia, che a sua volta cita il manuale diagnostico delle malattie mentali dell’associazione psichiatrica americana. Si tratta insomma di fonti relativamente attendibili.

La prima definizione è la seguente: «Ansia è un termine largamente usato per indicare un complesso di reazioni cognitive, comportamentali e fisiologiche che si manifestano in seguito alla percezione di uno stimolo ritenuto minaccioso e nei cui confronti non ci riteniamo sufficientemente capaci di reagire».

La seconda definizione è questa: «L’ansia è uno stato psichico di un individuo, prevalentemente cosciente, caratterizzato da una sensazione di intensa preoccupazione o paura, relativa a uno stimolo ambientale specifico, associato a una mancata risposta di adattamento da parte dell’organismo in una determinata situazione che si esprime sotto forma di stress per l’individuo stesso».

Il primo elemento da trattenere di queste definizioni è che l’ansia è generata da fattori ambientali. Il secondo elemento è che questo stato emotivo e cognitivo ci rende incapaci di agire. Il terzo elemento è che è associato a una mancata risposta di adattamento in una determinata situazione ambientale.

A me pare che sia un po’ difficile negare che questi tre elementi non abbiano una connotazione squisitamente politica, dove per politica intendo che hanno a che fare con il funzionamento della società in cui ognuno di noi è collocato. E già dire questo ci porta a delle conclusioni particolarmente radicali rispetto alla cura. Ma procediamo con ordine.

Quali sono allora questi funzionamenti sociali che generano ansia? Ce ne sono di diversi. Azzardo delle ipotesi che servono soprattutto a individuare una genealogia al problema dell’ansia giovanile. Naturalmente al netto di una ricostruzione storica, le mie sono solo delle ipotesi che partono dalla mia percezione, che non è uguale alla vostra perché abbiamo età diverse e siamo collocati in posizioni sociali diverse. Quindi mi piacerebbe capire cosa ne pensate.

A me sembra che una delle cause più importanti della produzione di ansia, che è la risposta emotiva che anticipa una minaccia futura, sia non tanto l’incertezza per il futuro, perché il futuro è incerto in quanto tale, ma l’imprevedibilità dei costi e dei benefici futuri che possono comportare alcune scelte di vita (il tipo di scuola, per esempio) o di condotta (l’impegno nello studio, altro esempio). Voglio dire che una quota consistente dell’ansia è dovuta all’incremento dei rischi scaricati sugli individui e all’esaurimento dell’efficacia dell’agire strumentale (come dicono i sociologi), ovvero che il rapporto tra mezzi e fini si fa sempre più incerto: per esempio, non è una certezza che il mio impegno nello studio mi porti in futuro risultati soddisfacenti. Questa situazione però non è un dato di natura. Non è sempre stato così, e quindi non è detto che debba essere così.

C’è stato un periodo storico in cui bene o male le biografie individuali erano pressoché già determinate o standardizzate, la rosa delle scelte di vita era limitata e con essa anche il livello dei rischi. Ciò avveniva in virtù di un’organizzazione sociale imperniata sul lavoro salariato “standard”. La fabbrica, con la sua rigidità, organizzava la società. Era il cosiddetto compromesso fordista-keynesiano, che si basava sullo scambio tra legittimità sistemica e prospettive di vita più o meno sicure.

Le lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta se da un lato hanno imposto standard sempre più alti per questo compromesso, dall’altro lo hanno anche radicalmente messo in discussione. Queste lotte sono state importanti non tanto perché hanno conquistato dei diritti o dei salari più alti, ma perché hanno messo in discussione il fatto che per campare, in una società capitalista, si debba vendere la propria forza-lavoro. Gli operai si rifiutavano di essere operai, schifavano l’essere operai, schifavano la vita già segnata dalla fabbrica. Stessa cosa si poteva dire per le donne, che rifiutavano la collocazione nel lavoro domestico imposta dalla divisione del lavoro centrata attorno alla fabbrica. Vi suggerirei di leggere un bellissimo romanzo, che a me è servito più di mille saggi, che ha un titolo bellissimo: Vogliamo tutto di Nanni Balestrini.

Questo rifiuto del lavoro di fabbrica non si è trasformato in una rivoluzione. È stato sconfitto dai padroni, ma non con la semplice repressione, che pure c’è stata (anche perché se non c’è significa che non si è riusciti a far paura al nemico), ma per assimilazione. I padroni hanno detto: volete la libertà dalla catena di montaggio, dalla sua noia? Non c’è problema, potete arricchirvi tutti, potete diventare tutti imprenditori di voi stessi, aprirvi start-up, fare i youtubers, oppure usare i vostri saperi, le vostre competenze, la vostra intelligenza per farvi spazio in un mercato del lavoro competitivo. Sappiate però che tutti i rischi del caso sono a carico vostro. Se fallite, la responsabilità è solo vostra, anche se i rischi delle scelte non sono uguali per tutti.

È il mondo della meritocrazia. È chiaro che questa è una mistificazione: la libertà dalla catena di montaggio è diventata precarietà; la potenza del sapere è diventata “capitale umano” e più che possederlo ne siamo posseduti, tant’è che per valorizzarlo, per non restare indietro nella corsa, siamo costretti ad accumulare titoli di studio e credenziali formative che perdono sempre più valore proprio nella misura in cui continuiamo ad accumularli; infine, senza neanche starlo a sottolineare, dobbiamo continuare a vendere la nostra forza lavoro a qualcuno o sul mercato.

Qui aggiungerei un elemento di critica culturale: il trapper che canta al mondo quanto è figo per aver fatto i soldi con le sue canzoni o con le attività illegali non si sottrae a questa logica individualistica. Non ha proprio nulla di rivoluzionario, anzi direi che tra lui e un Carlo Calenda o un Elon Musk qualsiasi non c’è alcuna differenza, perché resta in una logica tutta individuale del successo.

Un altro elemento ambientale che possiamo rintracciare tra le cause di questa ansia generalizzata è la trasformazione dello stile di potere all’interno della scuola – ma più in generale nei vari ambiti della società – da paternalista a maternalista, come Gigi Roggero diceva in un altro incontro organizzato dai compagni di Kamo. Come sostiene Gigi, il maternalismo non è né peggio né meglio del paternalismo, è semplicemente diverso. Se il paternalismo agiva usando il bastone e la carota per governare le anime, il maternalismo per farlo usa la relazione interpersonale, le qualità emotive, e genera ansia perché funziona secondo la logica del debito morale, sul ricatto della delusione. Il paternalismo ti dice che non puoi fare una certa cosa o che ne puoi fare una cert’altra; il maternalismo ti dice invece «non mi deludere». In questo senso l’ansia mi sembra non tanto una conseguenza accessoria, ma un fine specifico delle relazioni di potere in questi ambiti della riproduzione, sia della forza lavoro che capitalistica.

In qualche modo, quindi, mi sembra che si possa dare una lettura politica dell’ansia intesa come il costo dell’incertezza sistemica scaricata verso gli individui. A questo elemento se ne accompagnano poi tutti degli altri che sono oggetto di cronaca: la guerra, la crisi economica, e così via. Con questo non voglio dire che prima era meglio, perché come abbiamo visto quel prima è stato invece oggetto duramente contestato da lotte; voglio invece che dire che oggi è diverso e che questo diverso va messo bene a fuoco.

Il secondo elemento da riprendere dalle definizioni è che l’ansia ci rende incapaci di agire. Da un lato c’è anche questo effetto, chi ha sperimentato un problema d’ansia anche piccolo sa che ha il potere di immobilizzare. Dall’altro, poiché il capitale ha bisogno del nostro agire produttivo, più che immobilizzare l’ansia accresce la nostra accettazione. Quando sentiamo la minaccia del futuro accettiamo più facilmente lo stato di cose semplicemente perché ci offrono un minimo di sicurezza. In questo senso l’ansia è proprio un dispositivo di governo. E tutto questo parlare di ansia, di patologie, sui giornali, sui social, nelle serie tv, alla fine anche se dà l’impressione di essere una forma di critica della società non fa che produrre accettazione.

Un soggetto ansioso ha bisogno di cure, di aiuto, è infantilizzato, è vittima e non ha autonomia. Quindi l’ansia invece di spingerci a rompere con il funzionamento di un sistema ci porta a chiedere la sua protezione. È soprattutto per questo che, per esempio, dovremmo stare attenti quando usiamo la categoria di catastrofe (ambientale o sociale poco importa). Che non significa negare l’esistenza di un grave problema, né l’urgenza della sua soluzione, ma significa criticare l’ordine del discorso catastrofista, la retorica della catastrofe che pure ha degli effetti materiali sulle nostre vite, perché immobilizza.

Infine il terzo elemento delle definizioni è che l’ansia è associata a un mancato adattamento ad una certa situazione ambientale. Questa parte della definizione mi sembra quella più ideologica, perché implicitamente ci suggerisce che nel caso di una frizione tra l’individuo e il contesto è l’individuo a doversi adattare e non il contesto a doversi trasformare. E la psicologia è lo strumento con cui produrre questo adattamento. Qui però bisogna fare attenzione: quando dico che la psicologia ha una funzione ideologica non intendo dire che non funziona. Al contrario, la psicologia ha una connotazione ideologica proprio nella misura in cui funziona. Infatti, funzionando efficacemente e quindi risolvendo il problema della frizione tra l’individuo e l’ambiente, produce contemporaneamente una mistificazione, cioè nasconde la natura sociale del problema, individualizza il problema e la sua soluzione, salvando il funzionamento del sistema.

Non è un caso per esempio che nelle industrie della riproduzione come quella dove lavoro io, le aziende paghino una psicologa per condurre delle supervisioni relazionali che servono per risolvere i conflitti interni al gruppo di lavoro, o per alleviare l’impatto del carico di lavoro sulla tenuta psichica dei lavoratori. È evidente che attraverso la psicologia problemi di ordine politico (la relazione di potere all’interno del posto di lavoro) e sindacale (i ritmi e il carico di lavoro) vengono trasformati in problemi individuali e psicologici. È un grande inganno a cui si aggiunge un altro elemento: l’apertura emotiva del lavoratore, il conforto “caldo” che in questo spazio maternalista si può trovare produce nel lavoratore fedeltà nei confronti della mission aziendale e senso di colpa per aver titubato, per non averci creduto, e quindi infine accettazione.

Da questo punto di vista la psicologia è la nuova scienza padronale, contro la quale dobbiamo ancora affinare la critica, mentre vedo che fioriscono discorsi su fantomatiche “società della cura” completamente decontestualizzati, e cioè che non tengono conto del fatto che viviamo in una società capitalistica che non solo mette a valore questa cura ma la rende una forma del potere.

Infine mi sembra che i disturbi psicologici siano stati investiti da una potentissima estetizzazione. Pensiamo, ad esempio, a una serie tv come Euphoria, che ha avuto un grandissimo successo, oppure a come il disturbo psicologico viene raccontato sui social non solo da personaggi conosciuti ma anche dalle persone, soprattutto giovani, più comuni. Sembra quasi che se non hai un disturbo sei uno sfigato. Ecco, al di là della concretezza dei disturbi, mi sembra che questa estetizzazione serva a fornire, dentro un campo sociale segnato dalla frantumazione e dalla moltiplicazione delle identità, un ulteriore elemento di distinzione che può anche diventare un vantaggio competitivo, una sorta di capitale simbolico spendibile sul mercato del lavoro e nei processi di valorizzazione capitalistica, come accade già per esempio per le differenze nel campo delle identità sessuali.

So bene che, come dicevo all’inizio, in alcune mobilitazioni studentesche è stata presente la richiesta di servizi di cura psicologica, a dimostrazione di quanto questo ordine di problemi è sentito, e non è mia intenzione dare un giudizio di valore sulla qualità delle istanze che si muovono nelle lotte e nelle mobilitazioni (io e la mia generazione – per dire – abbiamo lottato durante il movimento dell’Onda sostanzialmente per quella schifezza che chiamiamo meritocrazia, e abbiamo visto dove siamo arrivati) ma se ci prendiamo il tempo di riflettere, di andare al fondo delle cose, non possiamo accontentarci di quello che si muove: dobbiamo sempre fare lo sforzo di guardare oltre, di radicalizzare lo sguardo per spingere un po’ più in là critica e la lotta.

Per chiudere direi questo. Un compagno con cui mi sono confrontato per preparare questo incontro – dovete sapere che le cose che dico sono sempre il risultato di ragionamenti collettivi, di cui mi faccio semplicemente portavoce – mi metteva in guardia rispetto al rischio di fare come gli psicologi. Vale a dire di fornire ai diretti interessati, e cioè ai giovani, un’interpretazione, ancorché politica, del sintomo, nel nostro caso l’ansia, e una soluzione facile, che potremmo tradurre nello slogan «ribaltiamo l’ansia contro i padroni», che può generare l’angoscia di non fare abbastanza.

Penso che questo slogan non sia tanto la nostra soluzione già pronta ma rappresenti invece il problema che abbiamo davanti. Forse in parte, ci dobbiamo tenere l’ansia di non sapere qual è il nostro modo di organizzarci e di lottare, perché solo così possiamo avere la libertà di sperimentare e di sbagliare, sapendo però che non stiamo iniziando nulla di nuovo, perché veniamo da lontano.

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Discorsoni / Analisi

Gigi Roggero – «I figli della crisi». Studenti e scuola al tempo della guerra

Il filo rosso che abbiamo seguito, il punto di vista che abbiamo voluto costruire.

Con la prima presentazione che abbiamo organizzato, (Transizione ecologica e territorio: quale futuro per Modena?, 11 dicembre 2021) volevamo capire come sarebbe cambiato, dopo la pandemia, l’uso capitalistico del nostro territorio, Modena e l’Emilia, attraverso il Pnrr, il piano di investimenti europeo che grossomodo è stato presentato come un nuovo New Deal. Non ci siamo limitati a statistiche sull’occupazione, ma abbiamo cercato di anticipare delle traiettorie, per esempio guardando a quello che gravita intorno alla “transizione ecologica”, vale a dire il passaggio, la ristrutturazione, verso un certo tipo di produzione e ai suoi effetti per il nostro territorio: è da poco l’approvazione di una direttiva dell’Unione Europea che fissa nel 2035 la data dell’ultimo anno in cui verranno prodotti motori a combustione interna, e immaginate cosa può voler dire per una zona come la nostra, denominata Motor Valley, in cui si costruiscono automobili, veicoli e soprattutto componentistica. Ecco, quel sabato avevamo provato a ipotizzare come potrebbe cambiare il nostro territorio soprattutto per chi lo abita, chi ci lavora, chi ci vive.

Con il secondo incontro (Dentro e contro il «modello Emilia», 5 marzo 2022) siamo passati invece dal presente alla storia del “modello emiliano”, delineando quali sono stati i processi che hanno portato Modena e l’Emilia a quello che sono oggi. Nel ripercorrere i punti nodali dal dopoguerra, passando ovviamente per gli anni Sessanta e Settanta, abbiamo riletto quelle traiettorie alla luce delle lotte operaie e studentesche, in particolare quelle impulsate dall’operaismo e dagli operaisti locali poi divenuti Potere Operaio, che hanno interessato la nostra città e tutta la provincia in un modo inedito. Abbiamo visto quali fossero le soggettività sociali e politiche che sono state protagoniste: studenti, operai, donne; lotte autonome che restavano fuori dai sindacati e fuori dai partiti (o meglio, spesso contro i sindacati e contro i partiti, perché l’interesse operaio era diretto, cozzando con gli interessi delle mediazioni). Seguendo il modo in cui queste istanze eterogenee – le lotte sul lavoro e le trasformazioni della scuola e dei rapporti – si siano amalgamate, abbiamo osservato quali possibili armi ci hanno lasciato.

Nel penultimo incontro (Il mondo di domani. Guerra in Europa e destino della globalizzazione, 2 aprile 2022), invece, siamo tornati alla nostra contemporaneità, una contemporaneità che è inevitabilmente contrassegnata dalla guerra e dalla fine della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta, tra crisi, geopolitica e finanza. Quali, tra i processi già innescati, hanno raggiunto un punto di rottura? Quali le conseguenze per il prossimo futuro? Quali tendenze potrebbero svilupparsi e vederci da vicino coinvolti? In questo sovrapporsi vorticoso di crisi – la crisi ecologica, la crisi pandemica, adesso una guerra di portata globale – nessuno può sentirsi fuori.

Arriviamo così all’ultimo incontro, (I figli della crisi. Essere giovani al tempo della guerra, 25 giugno 2022, di cui di seguito pubblichiamo l’intervento di Gigi Roggero) che vede proprio voi e la vostra generazione, i giovani e gli studenti, protagonisti di queste trasformazioni. Perché sarete voi a vedere e dover vivere in un mondo completamente diverso rispetto a quello in cui abbiamo vissuto noi un po’ più vecchi. Non a caso, durante l’ultimo incontro uno dei relatori, Raffaele Sciortino, ha detto una cosa che ci ha da subito confermato quanto fosse necessario organizzare questa giornata. Ha detto che nell’ultimo decennio, quindi suppergiù dalla crisi del 2008-2011 e dagli ultimi movimenti di massa nati in quel contesto – da Occupy agli Indignados all’Onda, che voi non avete potuto vedere, mentre noi, quando avevamo la vostra età, ci eravamo in mezzo – i giovani sono stati, stranamente, quasi fermi. Sia chiaro, fermi non perché non vedessero quello che succedeva intorno: anzi, lo sanno bene e hanno molta coscienza e lucidità, ma ancora si fatica a trovare una forma organizzativa nuova.

Alla fine del suo intervento, ha detto una cosa che condividiamo: che sarà fondamentale come si posizioneranno i giovani nella trasformazione sociale e politica in corso. Con la guerra e con la crisi economica che arriverà in autunno vediamo l’economia mondiale che si ristruttura – perché c’è un pezzo di mondo che si sta scollegando dall’Occidente, o oppure è l’Occidente che si sta scollegando da un pezzo di mondo? – e già sappiamo che questo avrà delle grosse conseguenze che vivremo in prima battuta e toccheremo con mano; saranno i giovani i protagonisti di nuovi movimenti, delle possibili nuove lotte che si potranno dare in questo frangente? Quale sarà il loro ruolo? Sarà importantissimo come si posizioneranno domani.

Quindi abbiamo vogliamo capirci qualcosa di più, confrontarci e dare la parola a voi ragazzi. Con alcuni di voi a Modena ci siamo conosciuti nell’ultimo periodo con lo sciopero contro l’alternanza scuola-lavoro. Noi c’eravamo, siamo venuti a dare il nostro sostegno ma anche e soprattutto a conoscere le profonde motivazioni oltre la retorica, oltre a quello che dicono ceti politici, collettivi, partitini, sindacati. Volevamo ascoltare direttamente chi era in quella piazza, volevamo sentire quali erano i motivi materiali della rabbia e quali le problematiche che si vivono non solo a scuola, ma a essere appunto “i figli della crisi”, a essere una generazione che non deve cercare giustificazioni per far casino. Se la voglia di far casino c’è, be’, è più che legittima, perché ormai ne state vedendo talmente tante che non serve un motivo specifico per essere spaventati, nutrire delle ansie o essere incazzati. Ecco, è su questo che ci piacerebbe continuare discutere.

Per sciogliere il ghiaccio abbiamo chiamato con noi Gigi Roggero. Doveva venire anche un’altra ospite, Anna Curcio, anche lei come Gigi insegnante, anche lei redattrice della rivista «Machina», anche lei ricercatrice indipendente, soprattutto per quanto concerne i temi legati al genere e alla razza. Purtroppo non è potuta venire per problemi di salute, e quindi abbiamo discusso con Gigi su come si sta trasformando la scuola capitalistica nella sua struttura in questa fase, e quali i nodi da sciogliere.

Buona lettura.

Gigi Roggero

Grazie davvero ai compagni di Kamo, grazie dell’occasione di fare questa discussione. Faccio tre premesse, brevi, e poi dirò alcune cose spero rapide.

La prima premessa è che, se mi dovessi presentare, io sono un militante politico per scelta e un insegnante incidentalmente, per casualità. La seconda, visto il sottotitolo I giovani al tempo della crisi, è che io giovane oggettivamente non lo sono, e quindi sarete voi a dovere parlare dei giovani e della crisi. Non sono oggettivamente giovane, mentre soggettivamente non lo sono mai stato. Perché vedete, anche quando ero oggettivamente giovane, odiavo la definizione di giovane, per cui non mi sono mai riconosciuto in quella categoria. La terza cosa è che tendenzialmente le cose le dico e magari le ripeto per molto tempo, anche affabulando. Se quindi a un certo punto mi vedeste insistere troppo su aneddoti o comunque occupare troppo tempo, voi tranquillamente toglietemi la parola.

Dirò quindi due parole su come vedo la scuola, innanzitutto dal punto di vista politico, e non su come la vedo io individualmente – perché l’individuo è un’invenzione della modernità capitalistica, dunque non bisogna rassegnarsi all’io. L’individuo non è sempre esistito, anche a scuola a un certo punto inizieranno a parlarvi di individui, voi sappiate che esiste solo da un certo momento in avanti, tra il Cinquecento e il Seicento. Prima gli individui non esistevano, e tutto sommato la loro invenzione non è stata propriamente buona. Quindi eviterò la boria di dirvi come la penso io, ma proverò a riportare le riflessioni politiche fatte insieme a vari altri compagni e alle reti di compagni (come le riviste «Machina» e «Commonware»), le esperienze politiche a cui sono stato interno e le elaborazioni che abbiamo fatto sulla scuola. Si tratta perciò di un pensiero collettivo, che ovviamente la mia posizione casuale e incidentale di insegnante mi permette di verificare, correggere, modificare dall’interno di questo ruolo.

La prima questione da chiarificare è che cos’è, davvero, la scuola. Allora, ne sentirete tante sulla scuola. Sicuramente ne avete già sentite, anche dagli insegnanti quando vi sventolano «il valore della scuola», «l’importanza della scuola». Soprattutto gli insegnanti di sinistra, con la loro concezione di una scuola idealizzata e che non esiste più o che non è mai esistita. Uno slogan molto diffuso ci dice che “bisogna difendere la scuola pubblica”. Però bisogna subito capire che scuola è questa che si dovrebbe difendere.

Mettiamolo chiaro fin da subito: la scuola è un’industria. La scuola è l’industria scolastica. È un’industria che ha un obiettivo ben preciso, quello di produrre della forza lavoro, e di produrre la soggettività di questa forza lavoro. Cosa intendo con “produzione di soggettività”? Intendo che voi, quando entrate in una scuola, venite prodotti in quanto attori che devono muoversi dentro una trama di relazioni, che costituisce la società capitalistica. Come dirò anche più avanti, la questione della disciplina e di come vi dovete comportare è fondamentale e su questo insistono parecchio i vostri insegnanti. E magari soprattutto in alcuni indirizzi, soprattutto nei tecnici o nei professionali, nelle rampognate dei prof il paragone viene fuori di continuo: «Quando vi troverete nel mondo del lavoro…», «Se già adesso fate così, pensate a cosa succederà quando vi troverete davanti a un datore di lavoro», e via discorrendo. Riassumendo, la scuola è un’industria che ha l’obiettivo preciso di produrre la soggettività della forza lavoro, ovvero un modo, oltre che di produrre, di comportarsi e di accettare le regole del gioco.

Spesso si parla di “aziendalizzazione” della scuola; ma aziendalizzazione della scuola non significa semplicemente “privatizzazione”, cioè soggetti privati che entrano nella scuola o nell’università. È sicuramente anche questo, intendiamoci: ad esempio a Bologna ci sono degli istituti che hanno le officine della Ducati, perché è da lì che vanno a pescare. Però non è solo questo, solo l’entrata del capitale privato dentro un’istituzione che prima era pubblica. “Aziendalizzazione della scuola” significa che la scuola stessa, indipendentemente dal fatto che sia pubblica o privata, deve ragionare come un’azienda. Quindi deve calcolare nei termini di input e output, nei termini dell’efficacia produttiva, dei costi-benefici, e così via.

Vi faccio un esempio. Quello che viene chiamato “preside” non è più il preside, ma un “dirigente scolastico”. Non è solo un cambiamento di definizione formale, c’è un cambiamento sostanziale. Il dirigente scolastico deve gestire la propria azienda, e deve gestirla facendo che cosa? Gestendo la forza-lavoro, facendo promozione e marketing, attirando le famiglie degli studenti, che sono “utenti”. Interviene, che so, negli scrutini finali e dice «questo utente qua va promosso perché sennò poi la famiglia è scontenta»; «questo utente qua è di una famiglia che non ci interessa più di tanto, una famiglia da cui non ne caviamo fuori molto e quindi questo qua può essere abbandonato, è sacrificabile». Quindi il dirigente scolastico è un manager, che interviene esattamente come il manager rispetto all’azienda: facendo un’analisi dei clienti.

Anche le promozioni e le bocciature non rispondono a questo fantomatico criterio del “merito”, parola che, appena la sentite, dovete spolverare le armi che avete (e vabbè, credo che non ci sia nemmeno bisogno di soffermarci sul perché il merito faccia parte del linguaggio del potere). Il rapporto tra promozioni e bocciature dipende dagli interessi di mercato che i singoli istituti hanno rispetto al territorio e alla clientela. E lo studente, oltre a essere un “futuro lavoratore”, è a tutti gli effetti forza lavoro già operante, da un lato in quanto utente messo in produzione, dall’altro in quanto comproduttori di saperi, merce centrale nel capitalismo contemporaneo.

E poi lo vedete anche voi la neolingua che si parla nell’industria scolastica. L’invasione, la diffusione, l’inflazione degli acronimi – Pof, Ptof, Pdp, Pcto e tutte queste cazzate qui. Onestamente io non ci ho mai capito niente, e per quanto mi rifiuti di capire, tutti gli altri insegnanti si ostinano a parlarmi per acronimi. Attenzione, questi termini non sono neutri. Perché si usano? Perché è molto nello stile aziendalista. Se aveste modo di sentire come si parla nelle aziende, vedreste che funziona così. Quindi persino le siglette coi puntini che si usano a scuola sono funzionali a questo processo di aziendalizzazione.

Quindi sappiate che, quando andate a scuola, siete degli operai che vanno in un’industria. Degli operai specifici, degli operai della conoscenza. Degli operai, ovviamente, collocati dentro una gerarchia di istituzioni, perché non si pretende da tutti la stessa cosa. Per farla breve, la funzione di ogni istituto cambia a seconda delle gerarchie in cui l’istituto stesso è collocato: la posizione cambia se è un liceo, se è un istituto tecnico o se è un professionale; e poi che tipo di liceo o di istituto è; e poi in che zona è collocato, se è del nord o del sud, se della città o della provincia, oppure come si piazza nel ranking, nella classifica degli istituti. Quindi la scuola funziona a tutti gli effetti come un’industria.

A questo punto, proviamo a vedere chi lavora dentro questa industria. Come abbiamo già anticipato, ci sono gli organi della dirigenza industriale, poi il personale tecnico-amministrativo e i professori. I professori sono quelle figure che riconoscete perché si lamentano sempre. Detto tra noi, questo lamento non l’ho mai capito: tutto sommato il professore fa 18 ore di lavoro alla settimana. Lo so che è un discorso che potrebbe suonare come ambiguo e che se ci fosse qualche sindacalista immediatamente si inalbererebbe; però insomma, Stachanov nel ’35 aveva altre impellenze dal punto di vista dell’orario e della fatica. Poi mi direte se nella vostra esperienza avete visto qualcosa di diverso, nella mia ciò che vedo è che i professori sono quelle figure che godono nell’esibire un supposto peso del mondo sulle proprie spalle. Io non capisco mai effettivamente che cosa facciano per ritrovarsi sulla groppa tutta questa tragedia.

Sono solito dire che non è un granché fare il professore, però tutto sommato dal punto di vista dell’orario è comunque meglio che lavorare veramente. È vero che, oltre alle 18 ore formali, ci sono i consigli di classe, gli scrutini, i compiti da correggere e le lezioni da preparare; però, ripeto, stiamo parlando di un tempo limitato rispetto a tanti altri lavori. Limitato però anche dal punto di vista del salario. Tenete conto che un docente guadagna 1500-1600 euro con scarsissima progressione di carriera, vale a dire che il salario aumenta di ben poco anche se sei lì da venti o trent’anni. Il salario è molto basso se si tiene conto che i professori sono figure che, dal punto di vista della gerarchia capitalistica, sono qualificate: ganno quantomeno la laurea e spesso non solo, perché adesso molti sono profughi dall’università, arrivano proprio con i barconi carichi dei loro titoli, cioè dottorati, master, assegni di ricerca ecc. Li riconoscete “come idealtipo” perché sono quelli più frustrati, più con la bava alla bocca, che rompono di più le palle. Quindi 1500-1600 euro, se ci atteniamo a quelle che sono le gerarchie capitalistiche, quindi il rapporto tra titolo di studio e salario, effettivamente è poca roba se lo compariamo al salario corrispondente europeo; al contempo, però, è piuttosto basso l’orario di lavoro. Quindi è come se ci fosse stato uno scambio tra salario e orario, ossia lavoro poco e guadagno poco.

Questa è stata la cosa che è stata pacificamente accettata anche dai sindacati, anzi direi sollecitata dai sindacati. Si è infatti portati a identificare non solo nel personale tecnico-amministrativo e Ata, ma anche nel ruolo del professore il “sogno” – io direi la distopia – dell’arrivare all’impiego pubblico. Nell’industria scolastica ci sono tanti Checco Zalone, soddisfatti di aver raggiunto il posto fisso: che lo si sia ottenuto facendo il poliziotto, l’impiegato delle poste o il professore, cambia poco. I sindacati propongono un mondo di impiegati pubblici, fatto di Checco Zalone e ragionier Filini, un mondo soggettivamente terrificante e di completa alienazione. Decisamente meglio la precarietà!

Succede quindi che mediamente gli insegnanti, proprio per questo squilibrio tra titolo di studio e salario, si portino dietro un carico di frustrazione che aumenta esponenzialmente se appunto arrivano dall’università, quindi se pensavano, sognavano, volevano fare altre cose e invece si ritrovano in una scuola superiore. Più si scende nella gerarchia degli istituti e si va verso i professionali, più aumenta la fissazione con la disciplina. Nei consigli di classe, l’aspetto della didattica è piuttosto marginale; si parla, fondamentalmente, della disciplina («quello ha ruttato», «quello ha scoreggiato in classe», «quello urlava» e tutte robe di questo tipo). Spesso l’insegnante non ha chiari i confini del proprio ruolo, cioè non capisce che è lì per insegnare e dovrebbe svolgere una funzione di produzione e trasmissione di conoscenza. Invece l’insegnante diventa un po’ vigile, un po’ poliziotto, un po’ assistente sociale – tutti lavori disprezzabili, ovviamente – con un’accentuazione ulteriore se di sinistra.

Mettiamolo in chiaro una volta per tutte: tendenzialmente il peggio che vi possa capitare è avere degli insegnanti di sinistra. Sono quelli più moralisti. Di fronte a un’occupazione, ad esempio, un bell’insegnante reazionario dice: «Sono contro perché c’è la legalità e c’è l’illegalità, e se c’è l’illegalità mando i carri armati e vi stermino». Il reazionario rende chiari i termini del problema, cioè la questione dei rapporti di forza: se abbiamo la forza fronteggiamo i carri armati procediamo, se non l’abbiamo scegliamo tatticamente altre strade. Sono tuttavia chiari il ruolo e il rapporto amico-nemico. Invece, cosa fa l’insegnante di sinistra? L’insegnante di sinistra è quella strana figura che innanzitutto vi dirà che non ci sono i confini di ruolo, quindi «sì, io sono insegnante, ma in fondo noi siamo un po’ amici». Non è vero. Soggettivamente mi posso collocare dentro a una classe in una maniera più simpatetica, ma oggettivamente il mio ruolo di insegnante mi identifica come controparte degli studenti. Su questo non ci devono essere equivoci o ambiguità. Questo vale anche altrove: soggettivamente ci si colloca dentro un ruolo in un modo o in un altro, ma comunque rimangono dei ruoli capitalisticamente determinati. Dentro un’industria, voglio dire, uno può avere un caposquadra testa di cazzo o un caposquadra che è una brava persona, ma è pur sempre il caposquadra. E non è che i padroni siano tutta gente con la bava alla bocca, possono essere delle bravissime persone, però non significa niente: quando si dice che sei uno sfruttatore, non è un’etichetta morale, è un posizionamento oggettivo.

Così avviene anche per gli insegnanti. Sì, se si vuole sono delle controparti particolari, essendo anche loro dei lavoratori dell’industria della formazione, però l’insegnante di sinistra cercherà continuamente di mistificare, cioè di nascondere, il ruolo oggettivo che ricopre. Quindi si siederà tra di voi, verrà vestito in modi “colorati” e via di questo passo. Ecco, di quelli lì diffidate a priori, perché nel momento dell’occupazione non vi dirà «io sono contro perché occupare è reato», no, vi dirà: «io non sono contro l’occupazione, ci mancherebbe, le ho fatte anche io, MA…». È come quando uno dice «non sono razzista, ma…», quello che viene dopo il “ma” squalifica tutta la prima parte della frase. Anche in questo caso, dimenticate tutta la prima parte della frase e ascoltate solo quello che viene dopo la congiunzione avversativa. Il prof vi dirà che ai suoi tempi si occupava, ma si occupava in modo diverso, mentre voi non siete consapevoli di come occupate, ed è quello lì che vi critica, mica l’occupazione in sé: ci mancherebbe, non è mica un reazionario! Ecco, quello lì cercate di “farlo fuori”, allontanarlo, perché aggiunge a tutte le cose che abbiamo detto prima una carica di ipocrisia moralistica veramente insopportabile.

Un’altra figura tremenda, che infesta i peggiori incubi degli studenti, è quella della professoressa. E non a caso la dico con questa connotazione di genere, dal momento che la dimensione di genere tra i professori è rilevante. Mi spingerei quasi a dire che nella scuola non vige una dimensione patriarcale, ma più che altro una dimensione matriarcale. In primo luogo dal punto di vista quantitativo: mediamente le professoresse nelle scuole sono la maggioranza o la stragrande maggioranza del corpo insegnante, fin dai tempi del libro Cuore. Da allora è entrata nell’immaginario collettivo la “maestra dalla penna rossa”, a simboleggiare la scuola come veicolo di emancipazione femminile. Però soprattutto la professoressa è quella figura che incarna, nel suo atteggiamento matriarcale o meglio maternalista, una tecnica di potere. È diverso – non meglio o peggio, attenzione, semplicemente diverso – dal paternalismo, il meccanismo del padre-padrone, del bastone e della carota. Il maternalismo non funziona così. Il maternalismo funziona accarezzandoti. La professoressa maternalista dirà: «I miei ragazzi», e li tratterà come dei figli; però dei figli ai quali, nel momento in cui non faranno quello che la professoressa maternalista vuole, dirà: «Mi avete deluso». Che è la cosa più atroce da dire ai figli, figurarsi a delle persone che non sono nemmeno i tuoi figli. E infatti, già dire “i miei ragazzi” o “i miei studenti” è terrificante: i “miei” di chi? In base a che cosa se voi avete una professoressa dovete essere i suoi studenti, o essere trattati come i suoi figli?

Attenzione, quando parlo di “maternalismo” o di “matriarcato” mi riferisco a un fenomeno che è agito spesso da donne, così come il patriarcato e il paternalismo era agito spesso da uomini; tuttavia (ed è importante da sottolineare) può assumere una connotazione che non è necessariamente di genere in senso biologico. Potete trovare degli insegnanti uomini che sono altrettanto maternalisti, ovvero che utilizzano anche inconsapevolmente questa tecnica del potere basata sull’“abbraccio”, sull’“accarezzare” e poi sul ricatto morale della delusione.

È una tra le cose più atroci, più subdole che si possano determinare in un rapporto tra insegnante e studente, e che possiamo utilizzare come angolo prospettico per osservare un fenomeno più generale e delicato. Negli anni Novanta si era parlato molto della femminilizzazione del lavoro, cioè della massiccia entrata delle donne dentro il mercato del lavoro, dentro a dei rapporti di subalternità e sfruttamento. Ora, secondo me, dovremmo iniziare ragionare anche nei termini di una femminilizzazione del potere. Per carità, non sto parlando del potere ad alti livelli, sebbene attenzione, anche lì la situazione pare che stia iniziando a mutare; ma sicuramente in alcuni ruoli gestionali ai livelli medio-bassi e sicuramente in ambiti come l’industria della formazione, della riproduzione, del mondo delle cooperative, della cura, il maternalismo e il matriarcato iniziano ad avere un peso rilevante. Sono questioni delicate, che bisognerebbe maneggiare con cautela, ma che hanno una loro importanza e dunque, prima o poi, toccherà affrontare seriamente.

La terza questione di cui vorrei parlare è quella del sapere e della conoscenza. Cioè, qual è il sapere e la conoscenza – e qua lo chiedo direttamente a voi – che viene trasmesso dentro le industrie scolastiche? Si tratta di un sapere e di una conoscenza estremamente modularizzati, trasformati in pillole, in una banale trasmissione di nozioni, che non permettono mai di affrontare i problemi aperti. Per fare un esempio, prendete la questione (verso cui ho un’avversione radicale) dei quiz e delle crocette. Per come lo immagino, un movimento di studenti che rifiutasse e iniziasse a bruciare tutte le prove o quiz a crocette, secondo me sarebbe un movimento estremamente avanzato. E invece nella mia esperienza, lo devo ammettere, molti studenti chiedono i quiz e le crocette. Per certi aspetti c’è una reciproca convenienza: l’insegnante lavora indubbiamente di meno, e anche da parte degli studenti c’è l’idea che si riesca a lavorare di meno, perché prepararsi per il quiz a crocette è più semplice e rapido che non prepararsi invece per un’elaborazione complessa. Però capite anche voi che sul lungo periodo ciò ti addestra soltanto alle nozioni, a meccanismi pavloviani, a forme estremamente impoverite del sapere. Si tratta di conoscenze che oggi ci sono e che domani non ci sono più, che ti appiccichi in testa al mattino e al pomeriggio, dopo aver fatto la prova, non ti ricordi più, come le poesie imparate a memoria alle elementari, ma soprattutto che non formano alla capacità di ragionamento autonomo. Uno studente può prendere tutti dieci con i quiz e le crocette e alla fine dell’anno non sapere assolutamente nulla, non essere in grado di ragionare su nulla.

Ovvio che qui non si sta facendo l’elogio della fatica, ma si vuole evidenziare che oggi il sapere che viene trasmesso è di questo tipo, un sapere impoverente e banalizzante perché non ti permette di confrontarti con i problemi aperti. Sempre più spesso tanto i docenti quanto spesso anche gli studenti hanno il terrore delle domande che non abbiano già una risposta preconfezionata. Alla fine, dopo la lezione, c’è la domanda e tu ti aspetti una risposta che sia vera o falsa, sì o no, la 1, la 2 o la 3. Non c’è nessuna formazione alla capacità di affrontare delle questioni che non abbiano delle risposte già predeterminate. Ma voi, che cosa ve ne fate di un sapere di questo tipo?

Poniamola, ad esempio, nei termini dell’orientamento al mercato del lavoro (per quanto non mi sia simpatica l’opzione per cui la scuola debba preparare al mercato del lavoro, ma come dato di realtà le famiglie che tirano fuori i soldi immaginano innanzitutto lo sbocco occupazionale). Se vi preparate sullo specialismo di un micropezzo di un determinato sistema, considerati i livelli e la velocità dell’innovazione attuale, quella nozione che avete appreso oggi c’è e domani non vi servirà più a niente, ed ecco che vi ritrovate immediatamente spiazzati. Tanto è vero che, nel mercato del lavoro capitalistico, le conoscenze che vengono più pagate sono quelle di chi si deve inventare delle soluzioni che non siano preconfezionate.

Mettiamola invece da un lato che a noi interessa di più: come trovare le forme nuove di lotta e organizzazione per trasformare questa scuola che non ci piace? I compagni di Kamo vi chiedono “scusa, qual è la nuova forma di organizzazione?” e vi propongono di scegliere la risposta 1, 2, 3 o 4? No, sapere sciocco. Spetta a voi inventarla, e se voi non avete una capacità di ragionamento che vi porti ad affrontare dei problemi aperti e per cui non ci sono delle risposte preconfezionate, rischiate di ripetere dei modellini che già esistono e che non vanno da nessuna parte, oppure vi trovate completamente spiazzati. Qui c’è già una traccia dell’origine di tante delle forme contemporanee di ansia e inquietudine, che vengono medicalizzate attraverso lo psicologo – per inciso, la questione degli psicologi apre un grosso terreno, che magari possiamo affrontare in seguito. Attraverso lo specialismo psicologico vengono individualizzati dei problemi che invece sono sociali, anche connessi all’industria scolastica e alla formazione. Una grossa fetta dell’ansia che viene sempre più spesso avvertita dagli studenti deriva infatti dal senso di incapacità nell’affrontare delle situazioni che non hanno già una soluzione. E dire che proprio le situazioni senza già una soluzione dovrebbero essere quelle più emozionanti, più eccitanti, più aperte alla possibilità dell’imprevisto! Laddove c’è già una soluzione, siamo fregati, perché la soluzione è quella che ci hanno già dato quegli altri. Noi invece dovremmo formarci e rivendicare di essere formati al ragionamento per problemi che non hanno risposte vecchie.

Di questi temi e dell’impoverimento dei saperi però, che io sappia, nelle scuole se ne dibatte poco o non se ne dibatte affatto. Non sono interessati i sindacati, quelli che ci vogliono trasformare in Checco Zalone e ragionier Filini. Non sono interessati gli insegnanti, che sublimano la propria carenza salariale e miseria di ruolo attraverso il riconoscimento di status, di quelli che portano il peso del mondo sulle spalle. E gli studenti? Che dite?

Insomma, io credo che al di là di tutte le questioni assolutamente legittime relative ai tagli alla scuola, ai disservizi, a quel che non funziona, porre in maniera radicale la rivendicazione di un sapere ricco sia una cosa assolutamente fondamentale. Quello lì è il nodo centrale, secondo me, della scuola.

Poi ovviamente c’è il rapporto tra scuola e lavoro. Per come la vedo io, il rapporto tra scuola e lavoro va ben oltre la questione del Pcto, come viene chiamato con l’ennesimo acronimo (non mi ricordo cosa significhi e non lo voglio sapere, una volta si chiamava alternanza scuola-lavoro, ma insomma è sempre quella cazzata lì). Comunque, per quanto riguarda il Pcto, vi dico come l’ho vista io, poi mi direte se ho compreso male. Ricordiamo tutti le mobilitazioni che hanno smosso effettivamente in avanti la situazione, lanciate a partire dai casi drammatici di ragazzi morti durante lo svolgimento del Pcto. Ebbene, io ho l’impressione che il nocciolo delle mobilitazioni vada ben al di là dell’alternanza scuola-lavoro, e che questo sia un pretesto (uso la parola pretesto con un’accezione positiva, di legittimo utilizzo di ogni mezzo).

Partiamo dall’ammettere che i Pcto (o quantomeno quelli che ho visto io) sono più delle perdite di tempo che altro. Non rispondono effettivamente al rapporto tra scuola e lavoro, sono perlopiù cose grottesche: fotocopie, corsi motivazionali, cagate del genere. I casi più tragici sono avvenuti soprattutto in alcuni istituti professionali, in cui effettivamente c’è un po’ di forza lavoro che viene presa e buttata a fare lavoro gratuito per dei padroni parassiti. Ho però l’impressione che le mobilitazioni siano in realtà partite da quello che dicevano i compagni di Kamo nella parte finale del loro intervento. Detto in altri termini, le mobilitazioni sul Pcto hanno voluto dare un lessico della rivendicazione a qualcosa che ben oltre quel tipo di linguaggio. Per dirla terra terra, io ho l’impressione che molte occupazioni sono avvenute per dire: «basta, non ce la facciamo più!». E questo non svaluta le mobilitazioni, tutt’altro! Proviamo quindi a guardare un po’ al quadro complessivo.

Prendiamola larga e riassumiamo per sommi capi gli eventi principali che avete vissuto voi. Sullo sfondo c’è una concatenazione di crisi. A occhio e croce inizia nel 2007-2008 con il crack dei mutui subprime negli Stati Uniti e il crollo di Lehmann Brothers. Le sue conseguenze hanno diverse evoluzioni sul piano globale: infatti già nel 2008 c’era il movimento dell’Onda il cui slogan era «noi la crisi non la paghiamo», e a seguire il ciclo di movimenti Occupy. A un certo punto si è iniziato a parlare di uscita dalla crisi, e di lì a poco scoppia il Covid. Quando il Covid comincia a defluire inizia la guerra. Ecco perché questa generazione qua, la vostra generazione, non ha bisogno di tanti motivi di rivendicazione, come vorrebbero i professori di sinistra, non deve preoccuparsi di stilare verbose e complicate piattaforme burocratiche. Questa generazione è fatta di giovani che appunto sono “i figli della crisi”, che sono state socializzate dentro la crisi e che non hanno mai visto nient’altro che la crisi nelle sue differenti evoluzioni.

Se le cose stanno così, il fatto che l’inizio di mobilitazione che c’è stato a gennaio (e che speriamo che sia solo un inizio e assuma degli sviluppi imprevedibili) non abbia sempre espresso una lista di rivendicazioni, non è né una sorpresa né un limite. Mi sembra che l’opposizione al Pcto sia, in qualche modo, un tentativo di tradurre in un linguaggio rivendicativo una rabbia che invece parla di qualcosa di molto più profondo, e secondo me anche di molto più radicale. E se guardiamo adesso tutti i problemi connessi alla questione della guerra, come si intreccerà questa situazione a questa rabbia? Mi piacerebbe saperlo da voi.

Come ritornerete a scuola a settembre? Probabilmente, come si dice ora con il lessico pandemico, “in presenza”: una volta insieme in classe, cosa verrà portato avanti delle mobilitazioni che ci sono state negli ultimi mesi? Come la guerra irromperà dentro la dimensione giovanile? Pensate che ci siano delle possibilità di ripresa, di nuovo inizio delle mobilitazioni a partire da settembre-ottobre? Secondo me sono queste le cose veramente importanti da discutere: la ricerca dei terreni e delle tematiche con cui rilanciare le proteste.

E a tal proposito, prima di concludere, mi limito a dire una cosa. Se posso (non dico darvi un consiglio, perché non ne avete bisogno) dire quello che penso sulla vicenda, io credo che rispetto alla guerra si debba sfuggire alle trappole del già noto.

Non solo sfuggire alle trappole mediatiche della logica dello schieramento, Ucraina-Russia, credo che ciò sia abbastanza scontato; pensavo piuttosto a un problema di fondo. Come sapete, nei decenni trascorsi, ci sono stati parecchi movimenti per la pace che si esprimevano su un terreno prevalentemente ideale. “Che bella la pace, sarebbe bello che andassimo tutti d’accordo” (mah, a dire il vero io questo non l’ho mai pensato, però si dice così). Ora, secondo me bisogna scansare quel terreno lì. Bisogna riuscire a evitare di pensare la guerra come un fatto di semplice cronaca internazionale o di buoni sentimenti. “Sto con l’Ucraina”, “sto con la Russia”, “sto con la pace”, “sto con la guerra”, eccetera.

Un tempo si diceva che bisogna portare la guerra a casa. Ecco, io credo che sia necessario proprio questo: portare la guerra a casa. Il punto centrale non è come io intervengo pubblicamente sui grandi temi del momento. Se la politica internazionale è parte di quello che noi viviamo, e se sempre di più incide nel concreto delle nostre vite, la domanda diventa: dove noi possiamo intervenire esattamente? Dove la geopolitica incide materialmente sulle nostre vite?

Capite bene, qua il problema non sarà se in inverno il termosifone funziona o non funziona nel singolo istituto, ma allargare lo sguardo fino a capire come queste questioni toccheranno i vari aspetti di tutto il nostro quotidiano: la domanda è se nelle case si potranno accendere i riscaldamenti 24 ore al giorno oppure no, come si va a scuola, con la piega che sta prendendo il costo della benzina, il carovita: ecco, sono solo alcuni dei temi materiali che si potrebbe rintracciare nella vita di tutti i giorni.

Sia chiaro, con questi finti dibattiti organizzati dalle scuole sulla questione internazionale e sulla pace si rischia di depoliticizzare i temi materiali, cioè di addolcirli e quindi ostacolare il conflitto. Per “portare la guerra a casa” e ribaltarla su chi ci riduce in questa condizione, bisogna partire individuando quanto la guerra incide concretamente sulle nostre vite, dentro e oltre la scuola. Ora però mi taccio, voglio sapere principalmente da voi cosa ne pensate.

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Discorsoni / Analisi

R. Sciortino, S. Cacciari – Punti di condensazione. La guerra, i media e il «secondo populismo»

«S’i nel mondo ci fosse un po’ di bene» avremmo, come ricetta per l’avvenire, la chiave per una ricomposizione di classe facile, coerente, pulita. Soprattutto in linea con i precetti, i desiderata, i pregiudizi e gli automatismi dei ceti politici (quali?) e intellettuali (dove?) di sinistra, e della loro sinistra ideologia. Saremmo già bell’è pronti, bandiere rosse al vento – o nere, o arcobaleno, scegliete voi al mercato delle identità il vostro pride – e via andare. Ma gli ultimi cicli di mobilitazioni sociali ci hanno ormai definitivamente abituato ad aspettarci qualcosa di ben più complicato, sporco, contraddittorio – ambivalente. Un “guazzabuglio” di soggetti sociali, con un diverso grado di internità alle categorie che usiamo per dare senso e orientarci nel caos del presente – sia di ordine sociale che geopolitico, e i due livelli sono collegati – di cui è difficile sciogliere i nodi. Linguaggi incomunicabili, comportamenti ambigui, potenzialità abortite. Bravo chi ne viene a capo. Ce lo siamo detto tutti.

I feticisti dello spurio e dell’ambivalenza a tutti i costi, così come chi considera il “casino” una maledizione esclusiva di questa fase storica e di questa composizione di classe, se ne stiano a distanza: non siamo noi quello che fa per voi. Non c’è da scandalizzarsi, né da applaudire. Davanti alla realtà concreta, la critica morale di ciò che non si conforma a quello che vorremmo e l’elogio di quello che ancora non c’è portano a ben poco. Occorre, invece, analisi concreta. Come ci stiamo dentro a questa realtà – nello specifico alla guerra, che sta informando il prossimo futuro? Quali lenti e strumenti dobbiamo usare, e quali buttare via? Che uso ne facciamo delle faglie, delle contraddizioni, delle ambiguità che ci stanno intorno e ci determinano? La domanda è politica, non analitica.

Al termine di una densa giornata di riflessione collettiva (quella del 2 aprile a Modena), partendo da questi interrogativi Raffaele Sciortino e Silvano Cacciari ci offrono spunti per affrontare i torbidi del medio periodo. Senza dare ricette, i due interventi ipotizzano domande politiche e passaggi di testimone intorno ad alcuni punti di condensazione – ruolo dei ceti medi, forme del “secondo tempo” populista, enigma della composizione giovanile, precarietà del consenso alla guerra. La trascrizione che segue, la conclusiva di questa serie, apre a una traccia di ricerca militante che dovrà necessariamente proseguire. Il lavoro non manca. Che sia per far saltare la baracca, almeno della nostra assuefazione allo stato di cose presente.

 

Domande:

Potreste dirci qualcosa in più sul crollo della filiera del nichel?

Dal momento che si è parlato di disancoraggio del dollaro nelle transizioni economiche più rilevanti su scala globale, cosa prospetta un ipotetico passaggio verso lo yuan da parte dell’Arabia Saudita per la vendita di petrolio?

– Notoriamente in Francia si era visto nei Gilet Gialli l’emersione, in un primo momento, di un conflitto legato a una materia prima (il prezzo del carburante) e che di lì a poco si è esteso a lotta, diciamo così, per il “potere d’acquisto” e il costo della vita in generale; ma che si è incagliata su di sé e che poi è finita. Nell’ultima fase era rimasto perlopiù un “cittadinismo dalla voce grossa”, una rivendicazione di riconoscimento come “società civile autentica”. Insomma, quella stagione di lotta di ricompositivo aveva certe cose, altre meno. Passando a noi, in Italia c’è qualche lotta sulla circolazione? È possibile anticipare quali possano essere gli ambiti e i contesti in cui un processo di ricomposizione legato alle lotte all’interno della circolazione può presentarsi? Come immaginare l’eventuale mutare della conflittualità sociale nelle lotte sulla circolazione di beni materiali?

Negli interventi si è parlato di primavere arabe, di quantitative easing, e quindi di inflazione. In questo periodo spesso si è parlato della possibilità di un nuovo Volcker Shock, o comunque di strategie basate sull’innalzamento violento dei tassi di interesse. C’è la possibilità che si ripeta qualcosa di simile a quello che è avvenuto negli anni Ottanta, considerando gli effetti che hanno avuto – in particolare sul Nordafrica – alcune manovre finanziarie degli ultimi decenni promosse dalla Federal Reserve e da istituzioni simili?

 

Raffaele Sciortino:

Io partirei da una brevissima riflessione su quello che diceva Silvano, perché, come dire, mi ha risolto un problema sul quale mi sto un po’ arrovellando. In questi giorni sto lavorando appunto nello specifico sullo scontro tra Stati Uniti e Cina. Giustamente tu Silvano parlavi di “previsione e imprevedibilità” le quali, anche se non si sovrappongono, si accompagnano alla ristrutturazione tra ordine e caos. Ovviamente è sempre difficile giudicare il presente dal presente e ancor più il futuro dal presente, ma questa dinamica oggi cosa comporta? Comporta che nella fase attuale, dove sappiamo che si sta sconvolgendo l’ordine globale ma non sappiamo dove si sta andando, tutto ciò mette in discussione la capacità analitica e di azione delle strategie dei grandi attori.

Faccio solo due esempi riguardo ai grandi attori statali, partendo dagli Stati Uniti. Allora, se noi andiamo a riprendere per esempio il testo di un democratico, Brzezinski, La grande scacchiera – un libro del 1997, cioè nel pieno della riflessione a cavallo tra crisi definitiva del socialismo reale e impantanamento dell’Unione Sovietica in Afghanistan da un lato, e inizio della globalizzazione e la cosiddetta terza ondata di democratizzazione dall’altro – lì c’era addirittura scritto che in caso di scontro la Russia in Ucraina sarebbe stata destinata a impantanarsi ancora una volta, e che quindi gli Stati Uniti avrebbero dovuto fare tutto il possibile per favorirlo. Per di più prevedeva (adesso non ricordo bene i dettagli, ma non è questo il punto) che tra il 2005 e il 2015 l’Ucraina sarebbe stata inclusa nell’Unione Europea, il che vuol dire automaticamente nella Nato. In un certo senso si veniva ancora da un certo format mentale, da una condizione politica in cui era possibile stilare delle strategie e quindi in qualche modo tener conto di un certo buon livello di prevedibilità (almeno per le linee di tendenza generali) e lì innestare i propri interventi.

Ora noi, nel 2022, vediamo che Brzezinski aveva perfettamente ragione. Alcune pagine sono illuminanti. Però le conseguenze del conflitto ucraino sono molto più devastanti, o perlomeno più imprevedibili di quello che aveva preventivato la strategia statunitense durante il declino del socialismo reale.

Questo per dire che cosa? Che in certe condizioni storiche le strategie, se ben congegnate e promosse dagli attori potenti, hanno una certa presa. Per dirla con Machiavelli, la virtù ha la meglio sulla fortuna. Dunque, la nostra domanda di fondo è: ma non è che stiamo andando verso una transizione, da un assetto a un altro tale per cui la leva della strategia – ciò che gli americani chiamano la grand strategy – ha meno impatto sul reale? E che quindi, detto in altri termini, la virtù diventa molto più debole della fortuna, delle condizioni oggettive, del caso, dell’imprevedibilità?

Penso in primo luogo alla difficoltà degli Stati Uniti a elaborare una grand strategy nei confronti della Cina per i motivi che diceva Silvano e più in generale per quella contraddizione a cui mi richiamavo prima (riassumibile nell’“abbiamo bisogno della globalizzazione, però la dobbiamo rompere”, e nel frattempo il giocattolo rischia di rompersi per davvero). Oppure pensiamo a come la strategia statunitense sui microchip contro la Cina dovrebbe prevedere – almeno nei piani varati da Biden a tavolino – un sostanziale reshoring, un rientro delle produzioni dei microchip più avanzati da Taiwan e dalla Corea del Sud agli Stati Uniti. Ma questo comporta investimenti talmente enormi per cui non si sa se gli stessi Stati Uniti siano in grado di vararli e comunque nella transizione si genererebbe una sovracapacità mondiale (quindi una diminuzione della profittabilità e via discorrendo) i cui effetti sono assolutamente imprevedibili. Lì puoi innescare, ma non puoi governare. È solo un esempio, ovviamente, ma per dire che la grossa domanda è quanto valgono le grandi strategie degli attori principali (non parliamo poi degli altri) in una fase che potremmo aver imboccato.

E questa questione fa il paio con una seconda: se la struttura del capitalismo globale, o per dirla in termini più marxisti, l’imperialismo si è trasformato in questo modo – inedito, tutto sommato, sia rispetto all’imperialismo su cui riflettevano a inizio Novecento Lenin e compagni, sia rispetto al neocolonialismo post Seconda guerra mondiale e post Bretton Woods –, allora è evidente che le categorie della politica, in principal modo “destra” e “sinistra”, saltano. Non sono più adeguate a comprendere, e tantomeno a intervenire, sul reale.

E qui arrivo alle domande. Nuovo Volcker Shock? Rimanda al problema dell’imprevedibilità e della difficoltà di fare strategie con un minimo di ricadute volute, che in qualche modo superino o compensino gli effetti non voluti. Infatti, considerando quel che è costretta a fare la Federal Reserve per andare contro l’inflazione all’interno degli Stati Uniti, ma più in generale avendo inflazionato il dollaro in tutti questi anni di quantitative easing, a un certo punto avrà bisogno di riattirare capitali e quindi di alzare i tassi. Però, la conseguenza prevedibile e non voluta è quella che diceva Silvano: poiché si è così ingigantita la bolla del capitale finanziario speculativo, alzare i tassi vorrebbe dire una correzione in borsa tremenda, fino a sconvolgere il mercato delle obbligazioni. Già ne vediamo i primi segnali. Nel 1979-1981 è stata una strategia vincente e sebbene non fosse ovviamente del tutto calcolata e pianificata a tavolino, in qualche modo agiva su alcune variabili; mentre oggi le variabili sono molto più numerose e i loro effetti sono contraddittori reciprocamente. Dunque per gli stessi Stati Uniti diviene più difficile usare questa “opzione nucleare” dell’aumento dei tassi per riattirare capitali e scaricare la crisi sull’Europa e la Cina, cosa che peraltro hanno già tentato durante la crisi dell’euro del 2010-2012. Quindi, probabilmente assisteremo a uno stop and go, a un fermarsi e riprovare, nell’ottica che diceva Silvano di tentare di sterilizzare, di limitare gli effetti della crisi, senza alcuna garanzia di successo.

Rispetto invece alle lotte sociali sulla circolazione, non ci ho pensato nei termini di un settore specifico. Secondo me il problema è da porre in termini più generali e più strettamente politici, cioè ripercorrendo (ma non c’è il tempo per farlo adesso) la dinamica delle lotte sociali in Occidente dopo il 2008, e sostanzialmente il tema del cosiddetto momento populista. Quella fase si è chiaramente esaurita, la crisi pandemica ha divaricato i soggetti che in qualche modo erano confluiti in maniera differenziata sulle due sponde dell’Atlantico dentro una mobilitazione (anche solo di opinione e non d’azione, come i Gilets Jaunes) che a sua volta era confluita dentro il cosiddetto momento populista inteso sia da destra che da sinistra, se vogliamo ancora utilizzare queste categorie. Il campo si è definitivamente divaricato. Già prima della pandemia la stessa Unione Europea, recependo la spinta italiana di un minimo di mutualizzazione del debito, da un lato ha in qualche modo spuntato le armi del sovranismo antieuropeo, dall’altro ha dovuto fare proprie alcune richieste che provenivano proprio da quelle spinte populiste o neopopuliste, o come vogliamo chiamarle. Durante la crisi pandemica, i due settori principali – una piccola borghesia e un ceto medio in crisi da un lato, e spinte puramente proletarie ma senza voce e senza rappresentanza dall’altro – be’, queste due linee si sono divaricate.

Ora, la crisi ucraina con tutte le ricadute che dicevamo prima, potrebbe generare degli effetti su questo contesto, soprattutto in Europa. Negli Stati Uniti la situazione è più complessa: teniamo conto che Biden all’interno è profondamente zoppicante, presumibilmente perderà di brutto le elezioni di midterm di novembre e il trumpismo può riprendersi, anche se non sarà il trumpismo del 2016-2017. Per quanto riguarda l’Europa, la cosa interessante è che se noi probabilmente potremmo avere una ripresa di conflitti sociali o comunque di istanze sociali a partire dalle ripercussioni della crisi ucraina – e, a catena, della crisi energetica, dei prezzi, della trasformazione green e via discorrendo, le quali, come diceva giustamente Silvano, ricadranno sulla gente comune –, ebbene tale ripresa di conflittualità sociale potrebbe vedersi accompagnata da una nuova richiesta, diciamo, “sovranista”. Questa richiesta sovranista però, a differenza dalla fase precrisi pandemica, potrebbe connotarsi in Europa in senso più esplicitamente antiamericano. Perché?

Perché sostanzialmente agli occhi di questi strati sociali (e lo vediamo già oggi dai sondaggi in Italia su chi non vuole mandare armi in Ucraina, chi non vuole spendere per il riarmo e insomma, su chi rischia di perderci da questa crisi) diventa sempre più evidente che la strategia statunitense dell’attizzare e continuare il conflitto in Ucraina comporta per l’Europa spaccature, crisi, deindustrializzazione, eccetera. Quindi se (ed è un grande “se”) scatterà una mobilitazione sociale, un conflitto o quantomeno un grosso scontento, io credo che in qualche modo il sovranismo si ripresenterà in forme mutate, con una connotazione non tanto antieuropea, quanto più esplicitamente antiamericana e più declinato verso le classi lavoratrici, le classi proletarie, diversamente da quanto è avvenuto nel primo momento in cui il proletariato c’era, ma era silente, e a dar voce erano i ceti medi in crisi e la piccola borghesia.

Sinceramente più di questo non mi arrischierei a dire, se non una cosa sola: sarà molto importante come si piazzeranno i giovani. Perché?

Perché durante tutta la globalizzazione ascendente e ancora nella fase dopo il 2008, gran parte della gioventù (in Occidente e in Europa nello specifico) il messaggio che ha ricevuto a grandi linee è: «possiamo farcela», «siamo ceto medio in formazione». Questo vale anche per dei giovani e per degli studenti perfettamente proletari che non avranno mai nessuna possibilità di riuscirci, e ciononostante al fatto di essere giovane e studente è stato equiparato il fatto di avere un capitale nella propria intelligenza, un capitale che si può spendere individualmente sul mercato e che quindi ti può far accedere al ceto medio. Che poi, guardate, non è così distante dall’illusione che hanno avuto le masse ucraine rispetto all’Occidente e all’Europa, e che ha portato alla tragedia che abbiamo sotto gli occhi.

Sarà dunque molto importante come si collocheranno i giovani, e su questo pende veramente un grosso punto di domanda, perché mi sembra che propendano oggi per un certo realismo e sono consapevoli della gravità della situazione e del problema; ma per ora questo realismo, a differenza di quello machiavelliano, è più un realismo dell’accettazione dell’impotenza che non della trasformazione. Le cose, però, potrebbero cambiare.

 

Silvano Cacciari:

Allora, mi tocca fare un po’ la pastorale e la benedizione degli astanti tipico di una chiusura rituale. Mi limito a un paio di osservazioni, spero incisive, e partirei da una premessa.

Io non sono un economista. Figuratevi, il corso che tengo è di antropologia filosofica, e questo fa già capire la crisi di una disciplina. Ora, per avvicinarsi a qualcosa di sensato sul piano antropologico oggi bisogna cominciare, a mio avviso, a scavare sul grande mistero del denaro, e di lì si hanno risposte anche un po’, come potremmo chiamarle, “inaspettate”.

Per quanto riguarda la questione del nichel, mi ero trovato tre compagnie di trading (di cui onestamente non mi ricordo il nome, però sono un bravo ragazzo e me le ero segnate negli appunti, e nel caso le farò avere ai compagni modenesi, ma non è quello il punto) e c’ho anche un bel grafico che fa notare la crisi di questo soggetto finanziario. Il bello è che si legge molto bene, fa così [mima un aereo che precipita] e i grafici che fanno così li trovi in due momenti della vita: i fumetti di Paperino o le crisi di Wall Street.

Ripreso da https://codice-rosso.net/nichel-e-russia-sai-che-guerra-finanziaria-ti-aspetta

Alla domanda successiva io risponderei con un criterio di metodo. Le due tesi all’ordine del giorno sono o la sostituzione del dollaro come principale divisa internazionale, oppure una coabitazione conflittuale tra moneta americana e moneta cinese con deperimento dell’euro; però stiamo attenti anche a dove queste tesi circolano. Che voi ci crediate o no, attualmente sono molte le testate speculative che scommettono sulla sostituzione del dollaro. Però quando ci scommettono le testate speculative starei molto attento a dare previsioni così secche, perché la speculazione notoriamente segue la volatilità, che nella fattispecie significa inseguire i momenti in cui si fanno soldi investendo e scommettendo contro il dollaro, e poi i momenti in cui magari se ne fanno continuando a scommettere a favore del dollaro. Quindi me la tengo come domanda, perché se devo dirla fino in fondo, ci sono dei segnali contrastanti e questa potrebbe essere tranquillamente una guerra che fa compiere al dollaro lo stesso destino che poi ebbe la sterlina tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, così come potrebbe essere (e ho letto analisi che ritengo altrettanto attendibili) un momento di conferma della forza del dollaro per un’altra trentina d’anni ancora. I conflitti servono a sciogliere il nodo nell’una o nell’altra direzione.

Il problema della Volcker Rule è già stato risposto, e a mio avviso in maniera esauriente. Quindi è inutile che mi metta a chiosare, e mi soffermerei piuttosto sulla questione del trasferimento di capitali. Cos’è avvenuto nell’ultimo mese? È abbastanza semplice. Basta andare un po’ su internet, senza nemmeno una grossissima preparazione tecnica, si cerca di capire come è andato il Dax, come è andata la Borsa di Londra, come è andata la Borsa di Parigi e poi come è andata Wall Street. Be’, vedrete che se c’è qualcuno che ha guadagnato in questo mese è Wall Street e se c’è qualcuno che ha perso sono le borse europee. Questo, lungi da voler fare un ragionamento complottista, non vuol dire che sono le borse ad aver scatenato la guerra, ma un’altra cosa: che una delle esigenze insite della politica monetaria americana per adesso è stata naturalmente trascinata dal mercato.

In soldoni, il mercato ha cominciato a dire “c’è la guerra, spostiamoci verso gli Stati Uniti”. Tuttavia rimangono aperti degli interrogativi anche su questo piano, perché se Wall Street deve tenere questo ruolo di catalizzatore dei capitali, è evidente che i bond governativi (a due, a cinque, a dieci, a trent’anni) devono reggere. Questo è il primo elemento. È anche abbastanza evidente che comunque l’economia americana in qualche modo deve andare avanti. Se questa tendenza continua (e ci sono diversi analisti che dicono, e io condivido, che la crisi europea non sia una grossa preoccupazione per l’economia americana), allora è evidente che uno dei nodi della crisi americana, cioè la capacità di attirare capitali (e quella delle borse formali e informali americane è comunque considerevole) terrà. Probabilmente sarà uno di quei fattori capaci di fornire una comprensione della crisi. In caso contrario, chiaramente, la faccenda sarà completamente diversa. A ogni modo, da un punto di vista politico si sono oggettivamente creati due blocchi, uno attorno agli Stati Uniti (che ha ovviamente i suoi elementi di contraddizione e conflittuali) e uno attorno alla Cina-Russia (che per ora raccoglie il 60% della popolazione mondiale, e anche questo è carico dei suoi aspetti di contraddizione).

Per chiudere, mi sento anche io di dire una cosa sul piano politico. Ve lo dico chiaramente: se ci sono dei fenomeni che si sono manifestati negli ultimi cinque anni e che sono evidenti, sono quei fenomeni che nel lessico socioantropologico si nominano con la categoria di anomia, cioè di profonda sfiducia nelle istituzioni. Guardate, l’alt right in America e la popolarità di questo genere di mondo con i processi di anomia ha molto a che vedere, e in Italia il movimento novax ha toccato elementi che appartengono (o appartenevano) al mondo antagonista proprio perché parlava il linguaggio dell’anomia e quindi dell’opposizione alle istituzioni. L’anomia, infatti, ha aspetti profondamente conservativi e altri invece, diciamo, “innovativi”.

Ora se uno, in questo contesto, vuol far politica (politica eh, perché poi si possono fare tante altre cose: si può far morale, si può far giudizi etici, e così via), ovverossia cercare una ricomposizione sociale, una ricostruzione dei rapporti di forza e dare perfino qualche sconfitta significativa al nemico, una cosa se la deve proprio scordare: certo, deve avere ben chiaro cosa sta accadendo a livello globale, ma non pretendere di azzeccare un fantomatico mega equilibrio sociale-economico-politico in Russia, in Ucraina, nel mondo, a livello dell’Unione Europea e dio solo sa dove.

Io purtroppo ho visto persone non solo che stimo, ma a cui voglio un gran bene, che si sono già buttate in questo tipo di fantasticherie, cioè cercare un qualche documento che poi si diffonde, che lancia un forum civile, da lì l’incontro a livello europeo di non si capisce chi, per costruire un immaginifico racconto dove tutto quadra e dove tutto torna a uno stato di equilibrio e di fratellanza. Io, a un carissimo amico, l’ho detto: ti voglio bene, auguri, ma ti farai del male.

E allora, come si può fare qualcosa? Essendo io un vecchio provocatore (cioè, vecchio no, però provocatore sì), starei attento al fatto che il trofeo è ben visibile. C’è un solo elemento su cui si regge questo cavolo di consenso alla guerra, così come c’è un solo elemento fragile su cui si regge l’equilibrio istituzionale: sono i mass media.

Ve lo dico chiaro e tondo: nel momento in cui riesci a delegittimare il comportamento dei mass media sulla guerra salta l’equilibrio istituzionale. E dunque, cosa veramente di meglio che rovesciare tutta questa cloaca fatta di anomia, insoddisfazione, risentimento e, perché no, senso dell’ingiustizia? Essendo il rancore diffuso un mero dato di fatto, tanto vale rovesciarlo sull’unico bersaglio – i  mass media appunto – che ci permette di far saltare il nostro equilibrio sistemico. Il resto, francamente, non conta. Ovviamente non si può cercare di risolvere delle crisi globali che sono molto più grandi di noi; però si può sfruttare in senso tattico gli squilibri del piano su cui possiamo effettivamente intervenire. Il punto fondamentale – a mio modesto parere, per carità d’ Iddio – ­è questo.

Perché ragazzi, anche se ci fosse il Social Forum di vent’anni fa (e sinceramente abbiamo già dato, sia a livello personale ma anche come esperimento politico), non ci sarebbe comunque la forza per impedire lo sviluppo di un conflitto. Si tratta, da un punto di vista tattico, di riuscire a fare danni sul piano sistemico nel momento in cui il piano sistemico è in grave crisi verso la guerra. Questo.

Detto ciò, io non vi sto parlando di soggetti, non vi sto facendo una sociologia di alcune figure precise e non perché mi sfugga, ma, non a caso, ho detto “rovesciamo la cloaca”. Questa società, nella ristrutturazione liberista degli ultimi anni, ha prodotto tanto di quel risentimento per cui la gente non riesce neanche a sodalizzare e questo lo sappiamo benissimo; e allora cerchiamo produttivamente di rovesciare quel liquame che è stato prodotto – e del quale noi facciamo oggettivamente parte – verso un obiettivo ben preciso, quello che legittima questo sistema che abbiamo descritto oggi, cioè i mass media generalisti. Se la cosa è fatta bene, c’è pure da divertirsi.