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Silvano Cacciari – Dollari, algoritmi e trincee da Wall Street a Gaza

La tendenza alla guerra è il grande fatto del nostro tempo. Fatto centrale, direttore d’orchestra, intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone il ritmo, suonandone lo spartito. Il carattere del nostro tempo viene definito da questo concerto in movimento, in un processo a cascata frattale che va dalle impercepibili strutture sistemiche alla percezione strutturale del quotidiano, nelle declinazioni assunte nei contesti e nelle realtà in cui siamo collocati.

Sono tempi di guerra. Come sempre, preparati dalla pace che li ha preceduti. Guerra imperialista, pace imperialista. La pace dell’Occidente, in questo caso. Uscito vittorioso dal conflitto mondiale ingaggiato con l’Unione Sovietica dopo la fine del secondo: competizione geopolitica, potenzialmente totale, raffreddata e delimitata dalla minaccia della Bomba e dalla presenza del Politico. Rapporto che ha ordinato il mondo, finché è sussistito. Al suo interno, Occidente trionfante nella guerra di civiltà che ne aveva sconvolto la catena di montaggio sociale: quella tra operai e Capitale. Guerriglia dalle linee alla società la sua forma operaia, il sabotaggio della produzione e della riproduzione della soggettività capitalistica la sua arma. Trasformata la prima in innovazione e la seconda in ristrutturazione, è emersa la nuova partitura del Capitale. La bandiera dei soviet ammainata, in silenzio, sulla Piazza rossa all’inizio degli anni Novanta ha seguito la destrutturazione della fabbrica e della classe nella metropoli lungo i Settanta.

La pax del vincitore l’abbiamo chiamata globalizzazione. Il suo imperium quello americano. Il progresso la sua religione, il suo destino manifesto la democrazia. Sbornia di modernità capitalistica, dei cui postumi abbiamo fatto postmodernità. La storia era finita, tutti a casa. Il caos che divampa sulla polveriera-mondo, oggi, racconta un’altra storia. La temperatura del sistema indica che sono finite semmai le storielle che ci raccontavano, e ci raccontavamo. Washington, minata al suo interno dalle stesse condizioni che ne avevano decretato – brevemente – l’affermazione universale, non può governare, e ordinare, il mondo con le stesse rendite e dividendi di ieri. Figurarsi quando è vecchio, malato, lacerato, depresso. In crisi.

Il mondo è in trasformazione. Krisis. La tempesta sistemica del 2008 non si è risolta. Generatasi nel vortice di contraddizioni al cuore del sistema capitalistico mondiale, gli Usa, è stata soltanto allontanata. Nello spazio e nel tempo. Nel suo percorso lungo i flussi e le correnti dell’economia globalizzata ha lasciato macerie e distruzione dove è passata – Italia 2011. Il suo accumulo di energia non si è fermato. I barometri ne hanno segnalato la permanenza, l’approfondimento, l’estensione, la possibilità di eventi estremi e improvvisi. Il surriscaldamento globale, infatti, non è un fenomeno ascrivibile solamente al clima: coinvolge pienamente anche la dimensione economica, politica, sociale. E quindi militare. Con la pandemia, inaspettata, del 2020 la tempesta ha rimbombato all’orizzonte, vicina. L’atmosfera satura di elettricità, pronta a esplodere. A seguito del 24 febbraio 2022 e del 7 ottobre 2023, la pace che abbiamo chiamato globalizzazione volge definitivamente al termine così come l’abbiamo conosciuta, mentre la partita per determinare il carattere della nuova partitura è appena cominciata.

Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono primariamente armi e strumenti del pensiero. Punto di vista. Metodo. Rispolverare gli arsenali di un tempo ancora validi, costruirne dei nuovi per le condizioni mutate. Combinandoli, ibridandoli, per sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.

È con questa intenzione che abbiamo contribuito, il 25 maggio al Dopolavoro Kanalino78, a organizzare la discussione con Silvano Cacciari, della redazione di «Codice Rosso» (codice-rosso.net) e antropologo, sul suo ultimo lavoro, La finanza è guerra, la moneta è un’arma. Viaggio tra le forme del dominio (La casa Usher 2024), di cui proponiamo la trascrizione.

Il tema è il rapporto tra capitalismo finanziario e forma della guerra. La trasformazione della guerra sul campo alla luce del più alto livello di sviluppo capitalistico, portando Sun Tzu a Wall Street. La finanza non è semplicemente mercato, ma va situata sul terreno geopolitico: è uno dei piani su cui si combatte la guerra ibrida e senza limiti – di cui Ucraina e Gaza non sono che fronti caldi – intorno cui si stanno organizzando apparati statali, economici e sociali dell’Occidente, e non solo. Dollaro, materie prime e algoritmi sono campi di battaglia non secondari tra imperialismo di Washington e potenze riformiste (o sovvertitrici) dell’ordine globale e della globalizzazione, capaci di radere al suolo economie, piegare società, disgregare Stati. Tra fondi speculativi potenti come eserciti, prodotti finanziari scambiati come colpi di artiglieria, sciami di guerriglieri che dai loro smartphone razziano valore tra bolle e criptovalute, la forma-guerra sta cambiando. Quali sono gli attori e gli strumenti del capitalismo finanziario e del cyberwarfare che imperversano nel caos bellico? In quale misura si fondono alla guerra combattuta sul campo? Quali tendenze delle nostre società portano alla luce?

Buona lettura.

 

Silvano Cacciari

Questo libro si occupa sostanzialmente di tre argomenti: il tribalismo aggressivo delle classi dominanti; l’intreccio tra guerra finanziaria e guerra sul campo, e dunque il ruolo della rivoluzione tecnologica in questo intreccio; e la rarefazione della capacità della politica di fare presa sulla società. La dimensione del politico – non solo quella più vicina alle nostre latitudini, ma anche proprio la dimensione del politico tout court – è infatti sempre più subordinata non solo all’evoluzione, ma soprattutto alle criticità del mondo finanziario. Come sosteneva Carl Schmitt, che non è esattamente un teorico dell’estrema sinistra, nel momento in cui il mondo finanziario fa presa sul pianeta, è la politica ad essere sinistrata.

E se guardiamo alle risposte che, nel corso del XX secolo, la politica (compresa quella istituzionale) ha dato alla finanza, vediamo che, per un certo periodo, furono sorprendentemente aggressive. Per quasi un secolo sono stati proposti una varietà di strumenti di regolazione che hanno, in un certo senso, rinchiuso il genio di nuovo all’interno della lampada: un esempio su tutti sono gli accordi di Bretton Woods del 1944, e a seguire l’avvicendarsi di complesse politiche di regolazione lungo tutti gli anni Cinquanta. Il nostro problema è che, a partire alla fine degli Ottanta, assistiamo a una evidente crisi di accumulazione del capitalismo (all’epoca definito “maturo”), che spinge di nuovo il demone a uscire dalla bottiglia.

Fuor di metafora, possiamo riassumere sbrigativamente la situazione descritta dicendo che negli ultimi quarant’anni il capitalismo finanziario è tornato a riprodursi sul pianeta negli stessi modi nei quali si riproduceva nell’Ottocento, ovvero fondandosi su dinamiche di predazione verso la società e di guerra interna verso i propri avversari. Dunque, la guerra finanziaria è un fenomeno già presente fino all’inizio del Novecento, e che è riemerso al tramonto del periodo fordista e della divisione del mondo in due blocchi. Rimane tuttavia da analizzare come si muove in questa congiuntura specifica e, soprattutto, individuare quale rapporto intrattiene con la guerra guerreggiata – vale da dire con una strategia di aggressione che si fa con strumenti non materialmente cruenti, ma che produce gli stessi danni di una guerra sul campo.

Vi faccio un esempio. Quando l’Italia è stata attaccata dai mercati durante la crisi dei debiti sovrani nel 2011-2012, che cosa è accaduto? È accaduto che durante quel periodo l’Italia ha perso il 15% del Pil derivato dalla produzione industriale in poche settimane. Solo con un bombardamento degno di questo nome potremmo ottenere risultati simili. Ancora prima, nel 2008, nel momento in cui la crisi del subprime si fa sentire al di fuori degli Stati Uniti, c’è un altro paese che subisce profondamente. Questo paese è l’Iran, che nel corso del primo semestre dallo scoppio della crisi perde un terzo del PIL.

Questo per dire cosa? Che la distruttività materiale della guerra finanziaria può essere pari a quella della guerra sul campo. Semplicemente si tratta di una guerra combattuta con altre armi. Ciò che, però, le ultime guerre finanziarie ci obbligano a interrogare è l’intreccio tra guerra finanziaria, guerra sul campo, politica e il ruolo assunto dalla tecnologia. Poiché è da questo quadrilatero che riusciamo a capire come si strutturano i campi di forza del mondo moderno e, dunque, è osservando questo quadrilatero che possiamo cogliere non solo l’elemento di criticità interna, ma anche i punti di rottura e, perché no, di oltrepassamento. Le cose si fanno quindi complicate ma, viste con gli occhi del politico, estremamente interessanti.

 

Intenti teorici

Lasciatemi ora dire due o tre cosette per esporvi gli intenti teorici del mio libro. Per come l’ho concepito io, questo testo è, innanzitutto, una genealogia del potere al livello più alto di dominio, che nasce da un’esigenza teorica di fondo, ovvero la necessità di fare un salto di complessità nell’analisi del potere. Cosa intendo con salto di complessità? Quando ho iniziato a scrivere questo libro, avendo io una prospettiva essenzialmente foucaultiana, e quindi provenendo dalle analisi del potere disciplinare, ero anche parecchio stanco di leggere gli ennesimi studi, sempre uguali, sulle dinamiche di potere negli ospedali, nelle cliniche, nella prigione e via discorrendo. Cose da far slogare le mandibole per gli sbadigli. La mia ipotesi però è che Foucault consegnasse un apparato teorico sofisticato anche per andare su campi che lui stesso non aveva analizzato (è morto abbastanza precoce), cioè la tecnologia e la finanza. Ma la prima scintilla, la molla che mi spinge con urgenza a interrogarmi su un possibile uso alternativo degli strumenti foucaultiani, è l’osservazione in presa diretta della crisi del debito sovrano e di tutto quello che stava accadendo in Grecia.

Per l’inquadramento interpretativo, ho utilizzato anche altri classici, soprattutto tre: Marx, che riecheggia in molte pagine, a volte esplicitamente, a volte in maniera un po’ più caché;  Hilferding e il totem Il capitale finanziario (è anche una questione di formazione: i vecchi militanti, tutte le volte che si parlava di finanza quando ero ragazzo, sentenziavano «devi studiare Hilferding!», neanche fosse un sacrificio rituale, un battesimo del fuoco); e poi ovviamente Lenin e il suo classico L’imperialismo. Il nocciolo, però, è individuare bene sia l’importanza che le criticità che si trovano in tutti e tre gli autori.

Allora, prima di tutto parliamo di Marx, e ne parlo da marxista – per me Marx sarà superabile quando riusciremo a battere il capitalismo, figuratevi un po’ come la penso. Tuttavia dobbiamo riconoscere che l’immagine che aveva Marx del capitale finanziario conteneva un grosso errore di previsione. Quando Marx, nel Capitale, descrive la disintegrazione dei fiorenti docks di Londra per la crisi finanziaria del 1871-1882, ha in testa un’idea ben precisa: a un certo punto, il capitale produttivo, che è razionalizzatore di tendenze, comportamenti, organizzazioni del lavoro, avrebbe razionalizzato anche le banche. Questa tesi, che non sposta di un millimetro l’importanza della sua critica al capitalismo, è un errore di previsione e, forse, anche di profondità storica. In realtà, infatti, furono le banche a impossessarsi del terreno produttivo, iniettando il caos del potere finanziario dentro la dimensione produttiva. Cosa che oggi è sotto gli occhi di tutti.

Passiamo a Hilferding, un quadro socialdemocratico sicuramente da conteggiare tra i grandi classici. Leggendolo in tedesco per inserirmi meglio nei meandri del suo modo di ragionare, mi sono accorto che il problema di Hilferding (così come di Lenin) è che ritornano due importanti storture nella lettura della dinamica tra capitale finanziario e capitale produttivo. Hilferding è assolutamente bancocentrico. Per Hilferding il capitale finanziario è controllato dalle banche e anche oggi, nelle teorie del capitale monopolistico che arrivano fino a noi, c’è sempre questa visione delle banche come organismo ordinatore. Ora, se ci stiamo a recitare il rosario delle crisi bancarie degli ultimi dieci anni, finiamo a settembre. L’ordine bancario e l’ordine finanziario non sono altro che una convenzione teorica, che nella realtà non esiste.

L’ultimo classico, Lenin, scrive nel momento in cui si trova davanti al problema, teorico e politico insieme, della censura. Lenin in quel momento può studiare solo su un campione molto ristretto di fonti; guarda caso, Lenin e le sue fonti parlano solo del potere concentrazionario della Deutsche Bank all’inizio del XX secolo. In realtà, se Lenin avesse avuto l’opportunità di studiare il caos finanziario dell’Ottocento americano, che già dominava il mondo, avrebbe avuto uno sguardo molto, molto meno dipendente da Hilferding e dalle sue concezioni del potere bancario.

Questo per dire cosa? Che stando così le cose, per rimettere su binari più proficui le nostre ricerche su cos’è, oggi, la guerra finanziaria – e quindi sui suoi legami con la guerra sul campo, con lo sviluppo tecnologico e con la politica istituzionale – dobbiamo sgomberare il campo di ciò che, nei testi della nostra tradizione, agirebbero alla stregua di luoghi comuni, come convinzioni ingiustificate affermate a priori e dunque come ostacoli all’interpretazione oggettiva. Dopotutto, come diceva un mio vecchio compagno, i classici non hanno la barba del Profeta.

Ancora meno in soccorso ci viene la pubblicistica liberale e mainstream, orbitante in una maniera più o meno consapevole intorno alle teorie dell’equilibrio economico generale. Spesso infatti, anche in autori molto sofisticati, le crisi finanziarie vengono viste come crisi di efficienza, o addirittura qualcosa mosso – l’ho letto in testi di alcuni premi Nobel – da quella che viene chiamata “l’avidità umana”. Ma voi pensate veramente che una categoria così banale spieghi quello che accade in borsa? In realtà le crisi finanziarie sono determinate da una logica conflittuale che non guarda assolutamente in faccia a nessuno, e tende a produrre profitti, nuove occasioni di valore semplicemente o gonfiando all’inverosimile gli indici, oppure deprimendoli quando si fanno le scommesse a ribasso. Questa dinamica caotica ha un rapporto profondo con la guerra. Capirete che è un po’ più complesso della semplice visione primonovecentesca dell’omino con la tuba che finanzia la guerra.

 

Guerra finanziaria

Allora, noi che cosa sappiamo della guerra finanziaria? Cosa ci dice la letteratura più interessante dedicata all’antropologia di Wall Street e ai comportamenti dei gruppi sociali attivi nella borsa? È presto detto. La dimensione della borsa è una dimensione d’anarchia, di indipendenza dal potere centrale, di tribalismo legato alle aggregazioni spontanee che si formano per estrarre moneta dai conflitti finanziari. Infatti l’autore che, a mio avviso, spiega meglio questo genere di comportamenti è un anarchico, Pierre Clastres. L’idea che mi sono fatto confrontandomi con questi studi è che gli aggregati finanziari, che io definisco neotribali, si riproducono socialmente grazie al conflitto (in questo caso, il conflitto finanziario) e grazie – attenzione – a una profonda indipendenza da ogni potere centrale, ivi compreso il potere di regolazione della borsa. Questo genera una dinamica caotica all’interno dei mercati finanziari, e una dinamica parimenti caotica nei rapporti tra finanza, economia e società.

Prima di procedere, è opportuno avere ben chiaro un altro importante tassello della nostra riflessione. Innanzitutto, se osserviamo la nuova dinamica della guerra, cioè quella che si è aperta a partire dagli anni Novanta, dobbiamo riconoscere che anche la guerra è cambiata. La guerra finanziaria è tornata a esplodere, dopo l’Ottocento, con una furia sempre più sofisticata e devastante poiché gode di una potenza tecnologica imparagonabile rispetto al passato. Se la finanza, per più di un secolo, si è retta su uno strumento molto fragile (e che pure connetteva il mondo) come il telegrafo, con l’accelerazione tecnologica inaugurata dall’informatica aumentano le capacità delle guerre finanziarie di estendersi sulla società e si inaspriscono in intensità le loro capacità di devastazione. Ciononostante, l’elemento dirimente rimane l’incrocio con la guerra guerreggiata, con la guerra sul campo.

La guerra sul campo degli anni Novanta è molto diversa rispetto al modello della battaglia campale, agli scontri di milioni di persone contro milioni di persone. Yugoslavia, la prima guerra del Golfo, poi l’Afghanistan, l’Iraq di nuovo, infine la Siria… Queste vicende testimoniano con crudele inflessibilità che il conflitto sul terreno è sempre meno l’unico fattore a risolvere, stabilmente e non temporaneamente, gli esiti di una guerra. Assomigliano molto di più a quelle guerre premoderne che avevano una certa abitudine a durare: se guardiamo al conflitto tra Israele e Palestina, siamo vicino a una nuova guerra dei cent’anni. Inoltre, il terreno di scontro si estende agli ambiti, a prima vista, di pace. I più acuti osservatori di questa trasformazione della guerra, della sostituzione del momento decisivo con una conflittualità che tende a diventare permanente, sono gli ex colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui in testi di strategia militare fondamentali come Guerra senza limiti e L’arco dell’impero. Sono risorse preziosissime, a cui un militante comunista dovrebbe prestare parecchia attenzione se vuole cogliere le trasformazioni del conflitto sociale e del political warfare.

Nel momento in cui il conflitto sul campo è sempre meno decisivo per risolvere gli esiti di una guerra, allora tutti i fatti della vita umana vengono bellicizzati. Guai a sottovalutare questo punto. La guerra, dunque, è cambiata e i conflitti sul campo sono sempre meno decisivi per vincere; e però, le guerre si fanno, e le guerre si devono vincere.

Di pari passo è cambiata la guerra finanziaria. Grazie all’estensione tecnologica, ogni fatto della vita umana diviene sempre di più uno strumento di guerra. Le pensioni – delle quali in Italia abbiamo ancora un’idea meno liberista che altrove, perché non ci sono riusciti a cambiarle, ma solo a soffocarle – sono uno straordinario elemento di guerra finanziaria. Sono un esempio paradigmatico gli Stati Uniti, il Giappone e i fondi finanziari tedeschi: qui si dispiega al massimo grado la capacità di attirare capitale da chi deve costruirsi una rendita pensionistica, per poi predare valore speculando sui mercati. La pensione, che finora la riflessione accademica ha interpretato come l’istituzionalizzazione di un dispositivo biopolitico, diventa un momento della guerra finanziaria. Quindi, riassumendo, assistiamo a un’estensione della guerra finanziaria e della guerra sul campo ben oltre i terreni dai quali erano originate.

 

Guerra ibrida

A questo punto, vi anticipo due domande che sicuramente mi farete. Se questa è la guerra, come si risolve? La risposta teorica a un problema aperto dai nostri colonnelli cinesi è una risposta russa. Il concetto di guerra ibrida, che ogni tanto ritorna evocato come uno spettro, è in realtà una elaborazione teorica di alcuni generali dell’ex Armata Rossa e che si condensò in quella che passò alla storia come dottrina Gerasimov. Secondo questa prospettiva, in un contesto di guerra ibrida (o, per usare il lessico russo, di guerra non-lineare) il vantaggio sul nemico si ha qualora si riesca a sincronizzare meglio di lui tutti gli elementi, sul campo e fuori dal campo, presenti in un conflitto. Quindi, oltre alla logistica – la cui rilevanza ormai l’hanno imparata anche i bambini – diviene una questione di vita o di morte sincronizzare la guerra finanziaria, la guerra economica, la guerra commerciale, la guerra di comunicazione e propaganda, la capacità di abbattere le materie prime del nemico, di togliergli i flussi di finanziamento, e di influire anche sullo spostamento delle popolazioni.

E gli americani? Ebbene, un anno dopo la traduzione in inglese del testo canonico del 2005 sulla guerra ibrida formulata dai russi, gli americani hanno cominciato a clonare teorie e tecnologie legate a questo campo. Come sapete meglio di me, a questo punto, se guardiamo al conflitto russo-ucraino, siamo di fronte a due concezioni differenti della guerra ibrida: una basata sul proxy, cioè l’Ucraina, e quella dello Stato maggiore russo, che tende a applicare le strategie apprese sul campo poi a partire dalla Siria.

 

La tecnologia

A questo punto, diventa naturale chiedersi quale sia il ruolo della tecnologia nell’ibridazione tra guerra finanziaria e guerra sul campo. Il ruolo della tecnologia è fondamentale, poiché ha formato quello che nel testo chiamo uno “spazio non naturale”, ovvero uno spazio di coabitazione, di sinergia tra tattiche della guerra e tattiche finanziarie che diventava uno spazio di potere e di coercizione ben più ampio della dimensione stessa del politico.

Facciamo un passo indietro. Se noi recuperiamo i capisaldi del realismo politico, Weber e Schmitt, dobbiamo operare dei corposi aggiustamenti alle loro teorie – forse persino più ingenti rispetto a quelli alle tesi sull’imperialismo della tradizione marxista. Intanto, il capitalismo finanziario è qualcosa di radicalmente diverso da quello che pensava Weber, convinto com’era che l’accumulazione capitalistica fosse sostanzialmente prodotta da ceti ascetici dedicati solo ed esclusivamente alla razionalità economica dell’accumulazione del denaro: in realtà, la finanza ci mostra esattamente il contrario, per non parlare poi dei comportamenti degli attori in borsa (che non sono certo dei campioni di austerità). Passando all’altro lato della medaglia, ovvero al Politico, dobbiamo distinguere le diverse visioni della politica che ha Schmitt. Perlomeno a partire dagli anni Trenta, come è noto, Schmitt inizia a parlare della politica dei “grandi spazi”, e cerca quindi di superare una concezione della politica incentrata sullo Stato-Nazione; gli sfuggirà il fatto che le tecnologie che si svilupperanno in seguito, dopo la sua morte, sono arrivate a formare uno spazio, appunto, non naturale. Uno spazio più potente, dal punto di vista del politico, dello stesso Großraum, cioè del “grande spazio” e della politica marittima internazionale. Ed è precisamente questo il punto sul quale noi ora ci collochiamo per osservare il potere: lo spazio non naturale.

In un contesto così marcatamente contrassegnato dall’influenza dell’evoluzione tecnologica, è da capire che cosa sia la politica nel momento in cui si costituiscono grandi spazi tecnologici che condensano potere di forme diverse (il potere della finanza, il potere della guerra, il potere della comunicazione, eccetera).

 

La politica

Che cos’è, oggi, la politica? Von Clausewitz, senza saperlo, riprende il ruolo che nel lontanissimo passato aveva avuto Sun Tzu, cioè quello di essere al contempo un filosofo e un teorico della guerra. Nella sua trattazione sulla natura della politica, come è noto, fa questa affermazione: «La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi». Poi però dice qualcosa di più. Dice: «La guerra non è solo un atto politico, ma un vero e proprio strumento della politica». Von Clausewitz è consapevole che nell’epoca moderna il fenomeno della guerra è saldamente in mano alla politica e allo Stato sovrano. Ma noi siamo sicuri che oggi sia ancora così?

In realtà, a mio avviso, le cose sono cambiate. La politica, nel quadro che vi ho fatto, è la continuazione della guerra ibrida con altri mezzi. Il rapporto tra guerra e politica è completamente rovesciato.

Quando alla politica sfugge di mano la guerra (cosa che sia prima che durante la modernità, era probabilmente all’ordine del giorno), è la dimensione neoliberistica del caos, cioè il caos funzionale all’estrazione di profitto, che riesce a farsi presente, pressante e dominante rispetto alla forza della politica, ivi compresa la forza del Politico sovrano borghese. Ma anche le altre dimensioni coinvolte nella guerra ibrida – la gestione energetica, le materie prime, la stessa comunicazione, eccetera – tracimano continuamente dal controllo politico. Anzi, è la politica a diventare strumentale, ad essere sussunta dalle dinamiche caotiche della guerra ibrida. E sta precisamente qui questa la radice dell’importanza che ha per noi la corretta comprensione dei fenomeni finanziari.

 

La scienza

Voi mi chiederete: ma quindi, qual è la principale forza produttiva in tutto questo? Ora, converrete con me nel non concedere alcun credito, in questo genere di analisi, a dinamiche antropomorfiche. Come credo anche voi, io non penso che la guerra sia un fenomeno di “impazzimento” del potere o della società. Non ho alcuna idea meccanicistica della guerra, né penso che sia questione di odio e ideologie. Sono tutte cazzate. Ma la domanda resta valida: quali sono, in ultima istanza, gli elementi forti della produzione di guerra nel nostro mondo?

Per come la vedo io, se vogliamo cogliere la dinamica che spiega il continuo susseguirsi di guerre sulla superficie della nostra globalizzazione, noi dobbiamo dimenticarci il fattore umano, e andare a un nodo del potere, oltretutto innestato nella finanza, del mondo di oggi: la scienza contemporanea e le sue modalità di riproduzione. Quello che un tempo si chiamava scienza postmoderna, oggi è evoluta. Nella scienza contemporanea riscontriamo due caratteristiche che, tanto per capirsi, assomigliano molto sia ai fattori produttivi dell’economia e ai fattori distruttivi della guerra.

La prima caratteristica della scienza contemporanea è quella di riproduzioni per brainstorming, attraverso elementi di rottura e di innovazione che tendono a impattare violentemente sul campo. Ciò vale per il marketing come per la produzione di strumenti di guerra. Il secondo aspetto della scienza contemporanea è la capacità di riprodursi affermandosi sul campo a prescindere da diritto e legittimazione. Oggi le armi si fanno, il diritto viene dopo, non so se mi spiego. Per esempio, il grande problema della regolazione etica degli algoritmi bellici può sembrare un tema per nerd o periferico, ma in realtà riassume il cuore tecnologico della guerra contemporanea, trattandosi niente meno che delle esigenze di regolazione di dispositivi che finiscono puntualmente per sfuggire al regolatore. È una caratteristica tipica della scienza postmoderna, che si è riprodotta a prescindere dal diritto e che poi è finita per impattare sulla produzione e sulla guerra. L’ultima caratteristica che è tipica della scienza contemporanea è il fatto di riprodursi attraverso processi di accelerazione.

Tutte queste caratteristiche della scienza moderna – innovazione impietosa, autonomia da diritto e regolazione, riproduzione tramite accelerazione – le ritroviamo nell’economia e nella guerra contemporanea. Ai fattori ideologici ci pensa semmai chi ha voglia di farsi un bel dottorato in mediazione dei conflitti; chi si occupa di politica, no.

Per quanto io non nasconda il mio affetto per Toni Negri, capirete che quello di cui abbiamo parlato è una dimensione di caos e di accelerazione delle dinamiche economiche un po’ diversa dall’Impero, che invece veniva sostanzialmente concepito come un nuovo ordine in procinto di stabilirsi sul mondo.

Insomma, cosa ci serve definire le dinamiche della guerra finanziaria, tratteggiarne il rapporto che intrattiene con la tecnologia e la guerra sul campo, e infine sviscerare l’origine della subordinazione della politica in questa congiuntura? Da qui occorre partire per individuare quali possano essere le direzioni lungo le quali una politica radicale, coraggiosamente estrema (delle altre ci interessa poco), deve saper innovare per uscire da questa gabbia.

 

Ucraina e Gaza

A mio avviso riusciamo a capire la connessione tra guerra finanziaria e guerra sul campo attraverso due scenari differenti. Il primo è il terreno russo-ucraino, il secondo palestinese-israeliano.

Che rapporto c’è tra guerra finanziaria e guerra sul campo in Ucraina?

Nel 2008 esplode la crisi di Lehman Brothers, ed esplode anche l’Ucraina. Almeno metà della ricchezza viene spazzata via, e si creano dinamiche di separazione dello Stato ucraino per cui una parte degli ucraini guarda all’Est e una parte guarda all’Ovest. L’Ucraina è un epifenomeno, un effetto collaterale di Lehman Brothers. Ci sono effetti collaterali della guerra finanziaria che possono scatenarsi anche a distanza di quindici anni, che alla generazione successiva arrivano come guerra sul campo. È una dimensione storica che dobbiamo riconoscere. Poi però, quando scoppiano le guerre, i due elementi, quello della guerra finanziaria e della guerra sul campo, finiscono per toccarsi e fondersi. Noi sappiamo benissimo che questa guerra è scoppiata nel 2014. In quel momento di fatto c’è stata, da una parte, una secessione dall’Ucraina delle due repubbliche di Donetsk e Lugansk, dall’altra l’attacco alla borsa di Mosca da parte di speculatori finanziari legati allo Stato federale americano, e a seguire da uno sciame di speculatori privati che semplicemente volevano razziare come piraña attraverso questa dimensione.

Quindi c’è un processo a fisarmonica tra guerra finanziaria e guerra sul campo: i due piani tendono a unificarsi e a separarsi.

Gli effetti collaterali sono figli del caos, ed entrano in sincronia nel momento in cui le crisi si fanno sempre più devastanti. Guardiamo alle primavere arabe del 2011. Rivolte provocate anche da un effetto collaterale del quantitative easing americano, che innescò un rialzo dei costi delle materie prime alimentari che alimentò le rivolte nel Nord Africa e in Medio Oriente.

Ora, che cos’è lo Stato israeliano? Il punto è proprio questo. Lo Stato israeliano è un formidabile complesso militare-industriale che gode di un continuo processo di finanziamento da parte di entità finanziarie israelo-americane. Questo complesso militare-industriale ha nutrito una dimensione tecnologico-bellica che è di primissimo livello. A pensare in modo consapevole la guerra ibrida non sono stati solamente i russi, ma con grande intelligenza, va detto, anche gli israeliani.

Lo Stato di Israele ha portato al suo acme la guerra ibrida, sia per la capacità tecnologica (uso dell’intelligenza artificiale nelle azioni di bombardamento da parte dell’Idf), sia con l’asset della comunicazione (sappiamo benissimo che buona parte della comunicazione istituzionale occidentale è assolutamente subordinata alle esigenze di Tel Aviv) sia attraverso quell’elemento ibrido che è la politica della popolazione: sul campo, l’espulsione dei palestinesi da Gaza e dai loro territori è un elemento della guerra ibrida di grande forza. C’è uno strapotere immenso da questo punto di vista.

 

Caos e ordine

Un’idea di ordine non appartiene al complesso finanziario statunitense. Dove c’è la moneta – e in particolare il dollaro – c’è il caos. Però, qui, dobbiamo capire dove sta l’ordine e dove sta il caos. Il mondo finanziario è una dinamica di scambio di beni e di servizi, di moneta e derivati, che contiene, oltre a questa dinamica di scambio, anche la guerra finanziaria. Il problema del capitalismo finanziario è produrre valore nel momento in cui è difficile produrlo, quindi produrre valore tramite il caos rimandando sempre tuttavia a una dimensione di ordine. E qui, per intenderci, entra in gioco la dimensione della complessità.

La complessità è una dimensione intrecciata di livelli incredibili di caos e livelli rigidi di ordine. Se noi andiamo a vedere gli ultimi cinquant’anni vediamo come gli Stati Uniti per risolvere i loro problemi hanno immesso immancabilmente caos nel sistema. Questa emissione di caos nel sistema ha epicentro il 15 agosto 1971, cioè lo sganciamento del dollaro dall’oro da parte di Nixon. Gli Stati Uniti davano inizio a un ciclo di accumulazione di valore finanziario che è arrivato fino a noi. Però l’esigenza dei sistemi economici e politici non è solo quella dello scatenare il caos nei momenti in cui è necessario; c’è sempre, in un approccio complesso, anche il problema della produzione di ordine.

Cos’è che negli Stati Uniti produce ordine? La Banca centrale? Fino a un certo punto. In realtà il vero elemento di ordine americano è il dollaro: ovvero la capacità di far comprare dollari di debito americano dal resto del mondo. Quindi, se i mercati finanziari si possono permettere il caos, di accumulare ricchezza tramite il caos, è perché vi è una dimensione di ordine, che è la dimensione del dollaro. Stiamo attenti che la fine di questa dimensione non è così vicina come magari qualche compagno preconizza. La differenza degli interscambi in dollari rispetto a quelli con altre monete è la stessa che c’è tra Malta e il Canada, due dimensioni assolutamente incomparabili.

 

Complessità e rottura

Chi volesse muovere critica al dominio del presente attraverso la ricerca e la pratica di elementi di rottura, dovrebbe saper cavalcare il caos e rompere gli elementi di ordine della complessità capitalistica. Il capitalismo non è l’ordine, il capitalismo è la complessità, questo continuo intreccio di ordine e di caos con la capacità di attraversare epoche profondamente diverse. Il problema è rompere questa complessità. È evidente che una teoria di rottura radicale deve capire come appunto è cambiata la guerra e soprattutto come è cambiata la politica. Se la guerra oggi è la continuazione della guerra ibrida con altri mezzi, è evidente che si tratta di comprendere quali sono le dimensioni della guerra ibrida nel momento in cui si fa politica dal basso.

 

Appendice dell’autore

– Primo. Dobbiamo innanzitutto capire che questa è una società profondamente invecchiata. Cioè, la curva demografica non può essere ignorata. Noi non potremo avere masse di studenti, militanti, come negli anni Settanta.

– Secondo aspetto, le classi subalterne non sono lontane da processi di radicalizzazione, però sono lontane dalla lingua che fa la politica oggi. Nel mondo di oggi conta molto di più un linguaggio che ha due caratteristiche, apparentemente inconciliabili: l’emotività e l’estrema concretezza. Noi abbiamo proletari che giocano attraverso app fintech del proprio smartphone una parte dei loro redditi (in borsa, in criptovalute, in scommesse) perché hanno bisogno di reddito e quindi sono abituati a ragionare per istinto e per calcolo. Il linguaggio della politica, così come lo conosciamo, ha poco di istintivo, e il calcolo non sa nemmeno dove sta di casa, cioè ripete una serie di temi culturali. Però la politica è un’altra cosa.

– Terzo, oggi non è possibile una politica che non sia leninista, non è possibile una politica che non abbia in sé l’elemento professionale. Cioè, senza il professionismo militante della politica voi oggi la politica non la fate. Fate una stagione di movimenti, gloriosa, la piazza, insomma, tutto quello che conosciamo, però poi finisce lì, venti giorni, un mese, un anno, due anni, poi alla fine si esaurisce.

–  Quarto, una dimensione professionale che sia tecnologica. Ogni proletario ha i propri device e se non siamo in grado di comunicare con i device del proletario probabilmente è meglio darsi allo sport, che è anche un po’ più gratificante. Quindi le classi subalterne vanno sapute intercettare con una capacità, un linguaggio molto istintivo e molto compresso, che guardi più all’onirico.

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R. Sciortino, S. Cacciari – Punti di condensazione. La guerra, i media e il «secondo populismo»

«S’i nel mondo ci fosse un po’ di bene» avremmo, come ricetta per l’avvenire, la chiave per una ricomposizione di classe facile, coerente, pulita. Soprattutto in linea con i precetti, i desiderata, i pregiudizi e gli automatismi dei ceti politici (quali?) e intellettuali (dove?) di sinistra, e della loro sinistra ideologia. Saremmo già bell’è pronti, bandiere rosse al vento – o nere, o arcobaleno, scegliete voi al mercato delle identità il vostro pride – e via andare. Ma gli ultimi cicli di mobilitazioni sociali ci hanno ormai definitivamente abituato ad aspettarci qualcosa di ben più complicato, sporco, contraddittorio – ambivalente. Un “guazzabuglio” di soggetti sociali, con un diverso grado di internità alle categorie che usiamo per dare senso e orientarci nel caos del presente – sia di ordine sociale che geopolitico, e i due livelli sono collegati – di cui è difficile sciogliere i nodi. Linguaggi incomunicabili, comportamenti ambigui, potenzialità abortite. Bravo chi ne viene a capo. Ce lo siamo detto tutti.

I feticisti dello spurio e dell’ambivalenza a tutti i costi, così come chi considera il “casino” una maledizione esclusiva di questa fase storica e di questa composizione di classe, se ne stiano a distanza: non siamo noi quello che fa per voi. Non c’è da scandalizzarsi, né da applaudire. Davanti alla realtà concreta, la critica morale di ciò che non si conforma a quello che vorremmo e l’elogio di quello che ancora non c’è portano a ben poco. Occorre, invece, analisi concreta. Come ci stiamo dentro a questa realtà – nello specifico alla guerra, che sta informando il prossimo futuro? Quali lenti e strumenti dobbiamo usare, e quali buttare via? Che uso ne facciamo delle faglie, delle contraddizioni, delle ambiguità che ci stanno intorno e ci determinano? La domanda è politica, non analitica.

Al termine di una densa giornata di riflessione collettiva (quella del 2 aprile a Modena), partendo da questi interrogativi Raffaele Sciortino e Silvano Cacciari ci offrono spunti per affrontare i torbidi del medio periodo. Senza dare ricette, i due interventi ipotizzano domande politiche e passaggi di testimone intorno ad alcuni punti di condensazione – ruolo dei ceti medi, forme del “secondo tempo” populista, enigma della composizione giovanile, precarietà del consenso alla guerra. La trascrizione che segue, la conclusiva di questa serie, apre a una traccia di ricerca militante che dovrà necessariamente proseguire. Il lavoro non manca. Che sia per far saltare la baracca, almeno della nostra assuefazione allo stato di cose presente.

 

Domande:

Potreste dirci qualcosa in più sul crollo della filiera del nichel?

Dal momento che si è parlato di disancoraggio del dollaro nelle transizioni economiche più rilevanti su scala globale, cosa prospetta un ipotetico passaggio verso lo yuan da parte dell’Arabia Saudita per la vendita di petrolio?

– Notoriamente in Francia si era visto nei Gilet Gialli l’emersione, in un primo momento, di un conflitto legato a una materia prima (il prezzo del carburante) e che di lì a poco si è esteso a lotta, diciamo così, per il “potere d’acquisto” e il costo della vita in generale; ma che si è incagliata su di sé e che poi è finita. Nell’ultima fase era rimasto perlopiù un “cittadinismo dalla voce grossa”, una rivendicazione di riconoscimento come “società civile autentica”. Insomma, quella stagione di lotta di ricompositivo aveva certe cose, altre meno. Passando a noi, in Italia c’è qualche lotta sulla circolazione? È possibile anticipare quali possano essere gli ambiti e i contesti in cui un processo di ricomposizione legato alle lotte all’interno della circolazione può presentarsi? Come immaginare l’eventuale mutare della conflittualità sociale nelle lotte sulla circolazione di beni materiali?

Negli interventi si è parlato di primavere arabe, di quantitative easing, e quindi di inflazione. In questo periodo spesso si è parlato della possibilità di un nuovo Volcker Shock, o comunque di strategie basate sull’innalzamento violento dei tassi di interesse. C’è la possibilità che si ripeta qualcosa di simile a quello che è avvenuto negli anni Ottanta, considerando gli effetti che hanno avuto – in particolare sul Nordafrica – alcune manovre finanziarie degli ultimi decenni promosse dalla Federal Reserve e da istituzioni simili?

 

Raffaele Sciortino:

Io partirei da una brevissima riflessione su quello che diceva Silvano, perché, come dire, mi ha risolto un problema sul quale mi sto un po’ arrovellando. In questi giorni sto lavorando appunto nello specifico sullo scontro tra Stati Uniti e Cina. Giustamente tu Silvano parlavi di “previsione e imprevedibilità” le quali, anche se non si sovrappongono, si accompagnano alla ristrutturazione tra ordine e caos. Ovviamente è sempre difficile giudicare il presente dal presente e ancor più il futuro dal presente, ma questa dinamica oggi cosa comporta? Comporta che nella fase attuale, dove sappiamo che si sta sconvolgendo l’ordine globale ma non sappiamo dove si sta andando, tutto ciò mette in discussione la capacità analitica e di azione delle strategie dei grandi attori.

Faccio solo due esempi riguardo ai grandi attori statali, partendo dagli Stati Uniti. Allora, se noi andiamo a riprendere per esempio il testo di un democratico, Brzezinski, La grande scacchiera – un libro del 1997, cioè nel pieno della riflessione a cavallo tra crisi definitiva del socialismo reale e impantanamento dell’Unione Sovietica in Afghanistan da un lato, e inizio della globalizzazione e la cosiddetta terza ondata di democratizzazione dall’altro – lì c’era addirittura scritto che in caso di scontro la Russia in Ucraina sarebbe stata destinata a impantanarsi ancora una volta, e che quindi gli Stati Uniti avrebbero dovuto fare tutto il possibile per favorirlo. Per di più prevedeva (adesso non ricordo bene i dettagli, ma non è questo il punto) che tra il 2005 e il 2015 l’Ucraina sarebbe stata inclusa nell’Unione Europea, il che vuol dire automaticamente nella Nato. In un certo senso si veniva ancora da un certo format mentale, da una condizione politica in cui era possibile stilare delle strategie e quindi in qualche modo tener conto di un certo buon livello di prevedibilità (almeno per le linee di tendenza generali) e lì innestare i propri interventi.

Ora noi, nel 2022, vediamo che Brzezinski aveva perfettamente ragione. Alcune pagine sono illuminanti. Però le conseguenze del conflitto ucraino sono molto più devastanti, o perlomeno più imprevedibili di quello che aveva preventivato la strategia statunitense durante il declino del socialismo reale.

Questo per dire che cosa? Che in certe condizioni storiche le strategie, se ben congegnate e promosse dagli attori potenti, hanno una certa presa. Per dirla con Machiavelli, la virtù ha la meglio sulla fortuna. Dunque, la nostra domanda di fondo è: ma non è che stiamo andando verso una transizione, da un assetto a un altro tale per cui la leva della strategia – ciò che gli americani chiamano la grand strategy – ha meno impatto sul reale? E che quindi, detto in altri termini, la virtù diventa molto più debole della fortuna, delle condizioni oggettive, del caso, dell’imprevedibilità?

Penso in primo luogo alla difficoltà degli Stati Uniti a elaborare una grand strategy nei confronti della Cina per i motivi che diceva Silvano e più in generale per quella contraddizione a cui mi richiamavo prima (riassumibile nell’“abbiamo bisogno della globalizzazione, però la dobbiamo rompere”, e nel frattempo il giocattolo rischia di rompersi per davvero). Oppure pensiamo a come la strategia statunitense sui microchip contro la Cina dovrebbe prevedere – almeno nei piani varati da Biden a tavolino – un sostanziale reshoring, un rientro delle produzioni dei microchip più avanzati da Taiwan e dalla Corea del Sud agli Stati Uniti. Ma questo comporta investimenti talmente enormi per cui non si sa se gli stessi Stati Uniti siano in grado di vararli e comunque nella transizione si genererebbe una sovracapacità mondiale (quindi una diminuzione della profittabilità e via discorrendo) i cui effetti sono assolutamente imprevedibili. Lì puoi innescare, ma non puoi governare. È solo un esempio, ovviamente, ma per dire che la grossa domanda è quanto valgono le grandi strategie degli attori principali (non parliamo poi degli altri) in una fase che potremmo aver imboccato.

E questa questione fa il paio con una seconda: se la struttura del capitalismo globale, o per dirla in termini più marxisti, l’imperialismo si è trasformato in questo modo – inedito, tutto sommato, sia rispetto all’imperialismo su cui riflettevano a inizio Novecento Lenin e compagni, sia rispetto al neocolonialismo post Seconda guerra mondiale e post Bretton Woods –, allora è evidente che le categorie della politica, in principal modo “destra” e “sinistra”, saltano. Non sono più adeguate a comprendere, e tantomeno a intervenire, sul reale.

E qui arrivo alle domande. Nuovo Volcker Shock? Rimanda al problema dell’imprevedibilità e della difficoltà di fare strategie con un minimo di ricadute volute, che in qualche modo superino o compensino gli effetti non voluti. Infatti, considerando quel che è costretta a fare la Federal Reserve per andare contro l’inflazione all’interno degli Stati Uniti, ma più in generale avendo inflazionato il dollaro in tutti questi anni di quantitative easing, a un certo punto avrà bisogno di riattirare capitali e quindi di alzare i tassi. Però, la conseguenza prevedibile e non voluta è quella che diceva Silvano: poiché si è così ingigantita la bolla del capitale finanziario speculativo, alzare i tassi vorrebbe dire una correzione in borsa tremenda, fino a sconvolgere il mercato delle obbligazioni. Già ne vediamo i primi segnali. Nel 1979-1981 è stata una strategia vincente e sebbene non fosse ovviamente del tutto calcolata e pianificata a tavolino, in qualche modo agiva su alcune variabili; mentre oggi le variabili sono molto più numerose e i loro effetti sono contraddittori reciprocamente. Dunque per gli stessi Stati Uniti diviene più difficile usare questa “opzione nucleare” dell’aumento dei tassi per riattirare capitali e scaricare la crisi sull’Europa e la Cina, cosa che peraltro hanno già tentato durante la crisi dell’euro del 2010-2012. Quindi, probabilmente assisteremo a uno stop and go, a un fermarsi e riprovare, nell’ottica che diceva Silvano di tentare di sterilizzare, di limitare gli effetti della crisi, senza alcuna garanzia di successo.

Rispetto invece alle lotte sociali sulla circolazione, non ci ho pensato nei termini di un settore specifico. Secondo me il problema è da porre in termini più generali e più strettamente politici, cioè ripercorrendo (ma non c’è il tempo per farlo adesso) la dinamica delle lotte sociali in Occidente dopo il 2008, e sostanzialmente il tema del cosiddetto momento populista. Quella fase si è chiaramente esaurita, la crisi pandemica ha divaricato i soggetti che in qualche modo erano confluiti in maniera differenziata sulle due sponde dell’Atlantico dentro una mobilitazione (anche solo di opinione e non d’azione, come i Gilets Jaunes) che a sua volta era confluita dentro il cosiddetto momento populista inteso sia da destra che da sinistra, se vogliamo ancora utilizzare queste categorie. Il campo si è definitivamente divaricato. Già prima della pandemia la stessa Unione Europea, recependo la spinta italiana di un minimo di mutualizzazione del debito, da un lato ha in qualche modo spuntato le armi del sovranismo antieuropeo, dall’altro ha dovuto fare proprie alcune richieste che provenivano proprio da quelle spinte populiste o neopopuliste, o come vogliamo chiamarle. Durante la crisi pandemica, i due settori principali – una piccola borghesia e un ceto medio in crisi da un lato, e spinte puramente proletarie ma senza voce e senza rappresentanza dall’altro – be’, queste due linee si sono divaricate.

Ora, la crisi ucraina con tutte le ricadute che dicevamo prima, potrebbe generare degli effetti su questo contesto, soprattutto in Europa. Negli Stati Uniti la situazione è più complessa: teniamo conto che Biden all’interno è profondamente zoppicante, presumibilmente perderà di brutto le elezioni di midterm di novembre e il trumpismo può riprendersi, anche se non sarà il trumpismo del 2016-2017. Per quanto riguarda l’Europa, la cosa interessante è che se noi probabilmente potremmo avere una ripresa di conflitti sociali o comunque di istanze sociali a partire dalle ripercussioni della crisi ucraina – e, a catena, della crisi energetica, dei prezzi, della trasformazione green e via discorrendo, le quali, come diceva giustamente Silvano, ricadranno sulla gente comune –, ebbene tale ripresa di conflittualità sociale potrebbe vedersi accompagnata da una nuova richiesta, diciamo, “sovranista”. Questa richiesta sovranista però, a differenza dalla fase precrisi pandemica, potrebbe connotarsi in Europa in senso più esplicitamente antiamericano. Perché?

Perché sostanzialmente agli occhi di questi strati sociali (e lo vediamo già oggi dai sondaggi in Italia su chi non vuole mandare armi in Ucraina, chi non vuole spendere per il riarmo e insomma, su chi rischia di perderci da questa crisi) diventa sempre più evidente che la strategia statunitense dell’attizzare e continuare il conflitto in Ucraina comporta per l’Europa spaccature, crisi, deindustrializzazione, eccetera. Quindi se (ed è un grande “se”) scatterà una mobilitazione sociale, un conflitto o quantomeno un grosso scontento, io credo che in qualche modo il sovranismo si ripresenterà in forme mutate, con una connotazione non tanto antieuropea, quanto più esplicitamente antiamericana e più declinato verso le classi lavoratrici, le classi proletarie, diversamente da quanto è avvenuto nel primo momento in cui il proletariato c’era, ma era silente, e a dar voce erano i ceti medi in crisi e la piccola borghesia.

Sinceramente più di questo non mi arrischierei a dire, se non una cosa sola: sarà molto importante come si piazzeranno i giovani. Perché?

Perché durante tutta la globalizzazione ascendente e ancora nella fase dopo il 2008, gran parte della gioventù (in Occidente e in Europa nello specifico) il messaggio che ha ricevuto a grandi linee è: «possiamo farcela», «siamo ceto medio in formazione». Questo vale anche per dei giovani e per degli studenti perfettamente proletari che non avranno mai nessuna possibilità di riuscirci, e ciononostante al fatto di essere giovane e studente è stato equiparato il fatto di avere un capitale nella propria intelligenza, un capitale che si può spendere individualmente sul mercato e che quindi ti può far accedere al ceto medio. Che poi, guardate, non è così distante dall’illusione che hanno avuto le masse ucraine rispetto all’Occidente e all’Europa, e che ha portato alla tragedia che abbiamo sotto gli occhi.

Sarà dunque molto importante come si collocheranno i giovani, e su questo pende veramente un grosso punto di domanda, perché mi sembra che propendano oggi per un certo realismo e sono consapevoli della gravità della situazione e del problema; ma per ora questo realismo, a differenza di quello machiavelliano, è più un realismo dell’accettazione dell’impotenza che non della trasformazione. Le cose, però, potrebbero cambiare.

 

Silvano Cacciari:

Allora, mi tocca fare un po’ la pastorale e la benedizione degli astanti tipico di una chiusura rituale. Mi limito a un paio di osservazioni, spero incisive, e partirei da una premessa.

Io non sono un economista. Figuratevi, il corso che tengo è di antropologia filosofica, e questo fa già capire la crisi di una disciplina. Ora, per avvicinarsi a qualcosa di sensato sul piano antropologico oggi bisogna cominciare, a mio avviso, a scavare sul grande mistero del denaro, e di lì si hanno risposte anche un po’, come potremmo chiamarle, “inaspettate”.

Per quanto riguarda la questione del nichel, mi ero trovato tre compagnie di trading (di cui onestamente non mi ricordo il nome, però sono un bravo ragazzo e me le ero segnate negli appunti, e nel caso le farò avere ai compagni modenesi, ma non è quello il punto) e c’ho anche un bel grafico che fa notare la crisi di questo soggetto finanziario. Il bello è che si legge molto bene, fa così [mima un aereo che precipita] e i grafici che fanno così li trovi in due momenti della vita: i fumetti di Paperino o le crisi di Wall Street.

Ripreso da https://codice-rosso.net/nichel-e-russia-sai-che-guerra-finanziaria-ti-aspetta

Alla domanda successiva io risponderei con un criterio di metodo. Le due tesi all’ordine del giorno sono o la sostituzione del dollaro come principale divisa internazionale, oppure una coabitazione conflittuale tra moneta americana e moneta cinese con deperimento dell’euro; però stiamo attenti anche a dove queste tesi circolano. Che voi ci crediate o no, attualmente sono molte le testate speculative che scommettono sulla sostituzione del dollaro. Però quando ci scommettono le testate speculative starei molto attento a dare previsioni così secche, perché la speculazione notoriamente segue la volatilità, che nella fattispecie significa inseguire i momenti in cui si fanno soldi investendo e scommettendo contro il dollaro, e poi i momenti in cui magari se ne fanno continuando a scommettere a favore del dollaro. Quindi me la tengo come domanda, perché se devo dirla fino in fondo, ci sono dei segnali contrastanti e questa potrebbe essere tranquillamente una guerra che fa compiere al dollaro lo stesso destino che poi ebbe la sterlina tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, così come potrebbe essere (e ho letto analisi che ritengo altrettanto attendibili) un momento di conferma della forza del dollaro per un’altra trentina d’anni ancora. I conflitti servono a sciogliere il nodo nell’una o nell’altra direzione.

Il problema della Volcker Rule è già stato risposto, e a mio avviso in maniera esauriente. Quindi è inutile che mi metta a chiosare, e mi soffermerei piuttosto sulla questione del trasferimento di capitali. Cos’è avvenuto nell’ultimo mese? È abbastanza semplice. Basta andare un po’ su internet, senza nemmeno una grossissima preparazione tecnica, si cerca di capire come è andato il Dax, come è andata la Borsa di Londra, come è andata la Borsa di Parigi e poi come è andata Wall Street. Be’, vedrete che se c’è qualcuno che ha guadagnato in questo mese è Wall Street e se c’è qualcuno che ha perso sono le borse europee. Questo, lungi da voler fare un ragionamento complottista, non vuol dire che sono le borse ad aver scatenato la guerra, ma un’altra cosa: che una delle esigenze insite della politica monetaria americana per adesso è stata naturalmente trascinata dal mercato.

In soldoni, il mercato ha cominciato a dire “c’è la guerra, spostiamoci verso gli Stati Uniti”. Tuttavia rimangono aperti degli interrogativi anche su questo piano, perché se Wall Street deve tenere questo ruolo di catalizzatore dei capitali, è evidente che i bond governativi (a due, a cinque, a dieci, a trent’anni) devono reggere. Questo è il primo elemento. È anche abbastanza evidente che comunque l’economia americana in qualche modo deve andare avanti. Se questa tendenza continua (e ci sono diversi analisti che dicono, e io condivido, che la crisi europea non sia una grossa preoccupazione per l’economia americana), allora è evidente che uno dei nodi della crisi americana, cioè la capacità di attirare capitali (e quella delle borse formali e informali americane è comunque considerevole) terrà. Probabilmente sarà uno di quei fattori capaci di fornire una comprensione della crisi. In caso contrario, chiaramente, la faccenda sarà completamente diversa. A ogni modo, da un punto di vista politico si sono oggettivamente creati due blocchi, uno attorno agli Stati Uniti (che ha ovviamente i suoi elementi di contraddizione e conflittuali) e uno attorno alla Cina-Russia (che per ora raccoglie il 60% della popolazione mondiale, e anche questo è carico dei suoi aspetti di contraddizione).

Per chiudere, mi sento anche io di dire una cosa sul piano politico. Ve lo dico chiaramente: se ci sono dei fenomeni che si sono manifestati negli ultimi cinque anni e che sono evidenti, sono quei fenomeni che nel lessico socioantropologico si nominano con la categoria di anomia, cioè di profonda sfiducia nelle istituzioni. Guardate, l’alt right in America e la popolarità di questo genere di mondo con i processi di anomia ha molto a che vedere, e in Italia il movimento novax ha toccato elementi che appartengono (o appartenevano) al mondo antagonista proprio perché parlava il linguaggio dell’anomia e quindi dell’opposizione alle istituzioni. L’anomia, infatti, ha aspetti profondamente conservativi e altri invece, diciamo, “innovativi”.

Ora se uno, in questo contesto, vuol far politica (politica eh, perché poi si possono fare tante altre cose: si può far morale, si può far giudizi etici, e così via), ovverossia cercare una ricomposizione sociale, una ricostruzione dei rapporti di forza e dare perfino qualche sconfitta significativa al nemico, una cosa se la deve proprio scordare: certo, deve avere ben chiaro cosa sta accadendo a livello globale, ma non pretendere di azzeccare un fantomatico mega equilibrio sociale-economico-politico in Russia, in Ucraina, nel mondo, a livello dell’Unione Europea e dio solo sa dove.

Io purtroppo ho visto persone non solo che stimo, ma a cui voglio un gran bene, che si sono già buttate in questo tipo di fantasticherie, cioè cercare un qualche documento che poi si diffonde, che lancia un forum civile, da lì l’incontro a livello europeo di non si capisce chi, per costruire un immaginifico racconto dove tutto quadra e dove tutto torna a uno stato di equilibrio e di fratellanza. Io, a un carissimo amico, l’ho detto: ti voglio bene, auguri, ma ti farai del male.

E allora, come si può fare qualcosa? Essendo io un vecchio provocatore (cioè, vecchio no, però provocatore sì), starei attento al fatto che il trofeo è ben visibile. C’è un solo elemento su cui si regge questo cavolo di consenso alla guerra, così come c’è un solo elemento fragile su cui si regge l’equilibrio istituzionale: sono i mass media.

Ve lo dico chiaro e tondo: nel momento in cui riesci a delegittimare il comportamento dei mass media sulla guerra salta l’equilibrio istituzionale. E dunque, cosa veramente di meglio che rovesciare tutta questa cloaca fatta di anomia, insoddisfazione, risentimento e, perché no, senso dell’ingiustizia? Essendo il rancore diffuso un mero dato di fatto, tanto vale rovesciarlo sull’unico bersaglio – i  mass media appunto – che ci permette di far saltare il nostro equilibrio sistemico. Il resto, francamente, non conta. Ovviamente non si può cercare di risolvere delle crisi globali che sono molto più grandi di noi; però si può sfruttare in senso tattico gli squilibri del piano su cui possiamo effettivamente intervenire. Il punto fondamentale – a mio modesto parere, per carità d’ Iddio – ­è questo.

Perché ragazzi, anche se ci fosse il Social Forum di vent’anni fa (e sinceramente abbiamo già dato, sia a livello personale ma anche come esperimento politico), non ci sarebbe comunque la forza per impedire lo sviluppo di un conflitto. Si tratta, da un punto di vista tattico, di riuscire a fare danni sul piano sistemico nel momento in cui il piano sistemico è in grave crisi verso la guerra. Questo.

Detto ciò, io non vi sto parlando di soggetti, non vi sto facendo una sociologia di alcune figure precise e non perché mi sfugga, ma, non a caso, ho detto “rovesciamo la cloaca”. Questa società, nella ristrutturazione liberista degli ultimi anni, ha prodotto tanto di quel risentimento per cui la gente non riesce neanche a sodalizzare e questo lo sappiamo benissimo; e allora cerchiamo produttivamente di rovesciare quel liquame che è stato prodotto – e del quale noi facciamo oggettivamente parte – verso un obiettivo ben preciso, quello che legittima questo sistema che abbiamo descritto oggi, cioè i mass media generalisti. Se la cosa è fatta bene, c’è pure da divertirsi.

 

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Silvano Cacciari – Nell’intreccio della guerra. Ordine e caos della crisi globale

Shock energetico, scarsità di materie prime, inflazione galoppante, recessione annunciata, riarmo massiccio: «È l’economia di guerra, bellezza, e tu non puoi farci niente, NIENTE!».

È il coro unanime scandito a reti e firme unificate che in questi giorni, dalle televisioni ai giornali, passando per i social, comincia a essere ripetuto da giornalisti, opinionisti, politici e ministri con molta chiarezza. Economia di guerra: siamo in guerra, quindi? Dichiarata da chi e in nome di chi, per quanto riguarda l’Italia, ancora non è altrettanto chiaro – in apparenza, nella forma: sappiamo benissimo che le decisioni ratificate a Roma vengono prese a Bruxelles, e prima ancora imposte da Washington e Londra, oltre che pagate da noi.

Delle tendenze di ristrutturazione dell’economia, delle catene del valore e degli scenari geopolitici della crisi ne abbiamo parlato a Modena il 2 aprile, alla giornata di discussione sul mondo di domani, la guerra in Europa e il destino della globalizzazione. Dopo quello di Raffaele Sciortino, presentiamo allora la trascrizione dell’intervento di Silvano Cacciari, autore su «Codice Rosso» e che a breve uscirà in libreria con La finanza è guerra, la moneta è un’arma (per La Casa Usher).

L’intervento ci regala una grande dimostrazione di metodo. Attraverso l’analisi materiale di diversi indicatori, offre una fotografia mossa del presente, in cui linee tendenziali e traiettorie di possibile sviluppo vanno formandosi, permettendo una possibile anticipazione, appunto, del mondo di domani – che, come vediamo, è già oggi. La bussola resta sempre la ricerca, di parte, delle contraddizioni e ambivalenze su cui la prassi militante può (deve) insistere. Nelle righe che seguono, ripercorreremo la storia delle ultime crisi, nelle traiettorie che si sono prevedibilmente disegnate e nei varchi aperti dall’imprevedibile. Il contributo ci è dunque prezioso perché, nella sua ricchezza, dimostra quanto sia ingenuo concepire la teoria come il regno della previsione e la prassi quello dell’inatteso: entrambe devono vivere in entrambi i momenti, pena ridursi a un’analisi astratta o a un’azione senza direzione.

 

Silvano Cacciari

Il testimone che mi avete lasciato dall’analisi che mi ha preceduto è piuttosto gravoso e cercherò di raccoglierlo dando alcune linee di lettura di ciò che sta accadendo. Partiamo però da una premessa generale: se si vuol fare politica, bisogna pensare politicamente. E pensare politicamente è possibile solo a due condizioni: per prima cosa, se si riesce ad avere capacità di previsione; e al contempo se si tiene a mente che fare politica significa fare i conti con la dimensione del rischio e dell’imprevedibile. L’insegnamento viene da Machiavelli. Dobbiamo cavalcare contemporaneamente due tigri, la prevedibilità (che non è così facile da domare) e l’imprevedibilità (che già dal nome di battesimo fa immaginare quanto sia docile). Chiunque si addentri nel sapere e nella pratica politica ne deve tenere conto; dopodiché ognuno farà le proprie scelte. Detto ciò, riallacciandomi alle parole di Raffaele mi concentrerei su un aspetto, che ci fa subito capire in che dimensione la Storia ci ha cacciato. Guardiamola quindi con l’occhio dello storico.

Se noi andiamo ad analizzare la concentrazione globale del capitale a inizio Novecento, vediamo che poco meno del suo 20% era sostanzialmente sulla borsa americana; il 13% su quella che oggi chiameremmo la borsa di Francoforte; e via a seguire. Se la confrontiamo con la situazione alla vigilia della crisi Covid, vediamo che la concentrazione del capitale a Wall Street riguarda il 51% dei capitali globali e tutto il resto è disperso nelle altre borse del pianeta, siano esse ufficiali (cioè borse riconosciute come tali) o non ufficiali (in gergo over the counter). Per esempio, in Germania passiamo dal 13% al 4%. Questo che cosa vuol dire?

Vuol dire che sono passati un secolo e due globalizzazioni, ma soprattutto che il dominio delle borse è sostanzialmente americano, ammesso e anche concesso che quando si parla di Wall Street si parla di Stati Uniti. Messa così, con la fredda logica dei numeri, potremmo tranquillamente parlare di un’egemonia americana sul mondo. È vero, però solo in parte. Perché qui si ritorna alla tigre dell’imprevedibilità. Infatti, nel momento in cui si controllano i capitali, non ci si limita a controllare il mondo, ma si scatenano delle crisi spaventose all’interno di quello stesso capitale che si possiede. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo. Nel momento in cui è avvenuto il processo di globalizzazione – cioè dalla metà degli anni Ottanta, con la libera circolazione dei capitali e la crescita di Wall Street fino a come l’abbiamo conosciuta noi – seguono non soltanto una profonda accumulazione finanziaria e un’estensione spettacolare del peso di Wall Street nella composizione globale delle borse, ma anche una serie di crisi non controllabili dagli stessi Stati Uniti: una catena di effetti devastanti quanto una guerra sul piano dei danni materiali e soprattutto di difficile risoluzione.

Poi c’è una cosa che a noi marxisti piace moltissimo: ogni volta che si è risolta una crisi finanziaria generata da Wall Street, si sono poste le condizioni per una crisi successiva, sempre peggiore. Qui la storia è molto lineare: si va dalla crisi di Wall Street del 1987 a quella del fondo LTCM (che stava per far saltare il mondo nel 1997-98 prima ancora di Lehmann), alla crisi delle Dot-com e ancora alla Lehmann Brothers. Tutto ciò non è controllato, né dalla politica, né dalle banche centrali. A un certo punto, d’improvviso, esplode; resta invece anticipabile l’egemonia americana non solo sul dollaro come ha brillantemente riportato Raffaele, ma soprattutto sulla composizione e sulla forza del mercato di Wall Street (e badate bene, quando parlo di Wall Street non mi riferisco solamente a ciò che conosciamo, essendo Wall Street la punta dell’iceberg di un sistema di borse over the counter a predominio americano).

Come vedete, anche prescindendo dalle vicende ucraine, già lo stesso terreno che abbiamo tratteggiato è caratterizzato da elementi che si conservano e drammatici stravolgimenti. Sia chiaro, drammatici anche per gli stessi Stati Uniti, sebbene siano in una qualche misura abituati strutturalmente a crisi finanziarie e bancarie di questo tipo. Per darvi un’idea, il primo bailout da crisi finanziaria nel mondo è stato quello della Second Bank americana nel 1838. Infatti, se ripercorrete questi due secoli noterete che gli Stati Uniti crescono in una dinamica di spettacolare accumulazione militare, economica e tecnologica, ma anche in una dinamica di continua ripetizione di gravi crisi finanziarie. Ma torniamo ora alle specificità dei “caratteri prevedibili e imprevedibili” del conflitto in corso. Vi porto due esempi, riferendomi per i primi alla storia, e per i secondi alla storia recente.

Partiamo dal prevedibile. A tal fine, permettetemi di raccontarvi in due parole la guerra finanziaria del ’12, cioè il momento in cui si comincia a rompere la vera spina dorsale della globalizzazione: la libera circolazione dei capitali su scala planetaria. Nel ’12 tutto ciò inizia a rompersi quando gli Stati Uniti cominciano a non investire più nei paesi europei. Ne consegue una complessa reazione a catena per la quale si erode la fiducia reciproca tra potenze economiche, e che infine degenera in uno scenario di tensioni globali che viene ricordato come “guerra finanziaria”. Attenzione però: questo ’12 non è il 2012, è il 1912. È il primo effetto della crisi borsistica del 1907-1908. Tutto ciò impone a JP Morgan di fare pressioni sul Congresso per fondare la Federal Reserve. Siamo nel 1913. A cosa conduce questa situazione? Alla Prima guerra mondiale.

Se noi torniamo a guardare (con occhi clinici e non troppo emotivi) i giorni nostri, vediamo un quadro molto simile a quello di 110 anni fa. Assistiamo per l’appunto a un tentativo di controllo della circolazione dei capitali (perché le sanzioni sono questo) e allo stesso tempo a una crisi economico-militare che è sì di livello internazionale, ma per il momento limitata sul campo. Badate bene, non voglio minimizzare alcunché. Voglio solamente mostrare il passaggio da un secolo all’altro e che si cerca di risolvere le crisi con una guerra finanziaria di tipo limitato (per estensione dei capitali coinvolti) e con una guerra sul campo di tipo regionale. Ciò indica due importanti elementi per questo genere di analisi.

Il primo è che è passato un secolo, un secolo contrassegnato da profondo tentativo (nel mondo occidentale e soprattutto dove circola il denaro) di sterilizzazione dei processi bellici, per cui si tende a limitarli sul terreno materiale e a estenderne le conseguenze a lungo termine. Il secondo riguarda il contenimento degli effetti su di essi della guerra finanziaria. Vi faccio un esempio banalissimo: se la Federal Reserve alzasse sul serio i tassi, si produrrebbe una crisi finanziaria di vastissime proporzioni perché il processo, in questo caso, sarebbe ingestibile. Quindi, che cosa voglio dire? Voglio dire che rispetto a 110 anni fa, abbiamo dinamiche che si ripetono, però in forma differente, in una scala tecnicamente più ridotta; per cui i danni ci sono, i morti ci sono, per carità, sebbene non siamo di fronte a ciò che è accaduto 110 anni fa. Resta tuttavia un problema, quello che Raymond Aron chiamava «il naso di Cleopatra»: le guerre sono incontrollabili. Nel momento in cui si apre un processo che si vuole limitato, non è affatto scontato che lo rimanga. A un certo punto le premesse possono evolvere a delle proporzioni veramente devastanti. E qui mi rifaccio a chi mi ha preceduto.

Un altro indice dell’imprevedibilità della situazione di cui stiamo parlando riguarda quanto è accaduto in Ucraina nel 2008. Ora, chi è stato attento alla storia recente dell’economia ucraina, sa molto bene che tutta questa storia è cominciata con la crisi del sistema economico e finanziario ucraino dovuto al grande botto di Lehmann Brothers. Il motivo è semplice: molte banche ucraine erano in varia misura – sia che lavorassero direttamente, sia che fossero mere mandatarie, sia che avessero appaltato servizi finanziari o persino nascosto denaro sporco – comunque legate a quei circuiti, erano la periferia di un mondo finanziario che gli è esploso in faccia. Tutte queste banche sono saltate (determinando, fra le tante cose, una grossa perdita anche per alcune banche italiane) e l’Ucraina si è trovata in una crisi economica disastrosa. Meno 15% di Pil ogni anno. Ora, se recuperiamo cosa dicevano gli analisti della crisi ucraina del 2008, leggiamo che il mondo che stiamo vivendo non era affatto previsto. Nelle previsioni del 2008 sugli anni successivi, certo, si parlava di rientro del debito, di prestiti ponte, un po’ di disoccupazione, ma tutto ciò che è accaduto dopo – l’Ucraina spaccata in due, una guerra civile, l’economia ucraina che di fatto non si è ancora ripresa dal 2008 e poi la guerra russo-ucraina – neanche Nostradamus sarebbe riuscito a immaginarla con i criteri, gli strumenti e con la capacità di analisi di ormai quindici anni fa.

Insomma, nel momento in cui si innesca, come la chiamava Raffaele, una crisi sistemica è più che lecito prevedere dei tentativi istituzionali di pervenire a una sua soluzione attraverso dei conflitti limitati, sia sul piano bellico che finanziario. Vi faccio un altro esempio: se l’Europa decidesse di fare dazi di importazione verso la Russia sul gas e sul petrolio, si avrebbero delle ripercussioni molto più pericolose di tutte quelle scatenate dalle misure che sono state adottate fino a oggi. Se la Banca centrale americana andasse fino in fondo sulla questione del sequestro delle divise americane detenute dai russi e depositate presso le banche statunitensi, la guerra finanziaria sarebbe veramente un big shot, come lo chiamano loro. In definitiva, per adesso ci troviamo sul crinale di una crisi che per lungo tempo farà danni sul piano economico e sociale, e che tuttavia non è ancora il grande incendio che qualcuno pensa. Sia chiaro, non intendo tranquillizzare nessuno: siamo davanti a una crisi decisamente seria, ma che non ha ancora raggiunto il parossismo di quelle che l’hanno preceduta.

A questo punto vorrei proporvi alcune chiavi di lettura. Prima però bisogna capirsi su un fatto fondamentale: quando diciamo – e sono d’accordo con i compagni che hanno organizzato questo incontro – quando diciamo che niente sarà più come prima, è vero; ma ciò non significa che stiamo osservando il passaggio da un ordine politico-economico-finanziario a uno successivo. Stiamo virando invece da un piano di complessità a un altro piano di complessità. E quando intendiamo piano di complessità intendiamo un contesto dove convivono (in un intreccio straordinario, perlomeno da un punto di vista teorico) enormi livelli di ordine ed enormi livelli di caos.

Bisogna tenerlo a mente, perché molto spesso nelle ricostruzioni, quando riusciamo a capire dove sta il livello di ordine, si pensa veramente di avere di fronte una sorta di monolite politico-teorico storico. Per esempio Vestfalia [l’ordine politico europeo moderno, originato dall’omonimo Trattato del 1648 a conclusione delle Guerre dei Trent’anni, ndr] era tutto meno che una situazione ordinata o anche solo stabile, e ciononostante per gli storici della politica è l’Ordine. E così via il Dopoguerra, e tutta una serie di “fasi epocali”. Se si vuole agire e pensare politicamente, si deve essere capaci di capire che stiamo passando da un livello di complessità – dove convivono livelli di ordine e di caos – a un altro livello di complessità. E nel nostro caso gli Stati Uniti rappresentano tutto questo, perché stabiliscono il livello di ordine con il governo commerciale da parte del dollaro, e contemporaneamente si ritrovano a un livello di caos per le crisi finanziarie. Così funzionano le cose.

Ora, io mi sono segnato alcuni campi in cui si sta giocando la crisi dei prossimi anni e vi invito a leggerli sempre in quest’ottica, cioè con le lenti dell’analisi che cerca di comprendere dove si sta depositando il livello di ordine e dove si sta depositando il livello di caos. Allora, il primo fattore importante è che siamo di fronte (le statistiche non sono mie, ma di diversi istituti internazionali) alla più grande crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale in poi. Ho letto report attendibili che descrivono un flusso di popolazione da Est verso Ovest almeno 15 volte superiore rispetto a quello generato dalla crisi jugoslava e largamente superiore persino alla crisi dei rifugiati del 2015. Questo, badate bene, cambia molte cose. Basti pensare a come ha cambiato la Germania l’ondata dei profughi del 2015 per rendersi conto che siamo di fronte a una rivoluzione demografica e sociale.

Noi non ce ne rendiamo conto – e spesso l’analisi dei compagni accusa un po’ questa mancanza oppure la riduce alla sola questione dell’accoglienza –, ma noi siamo un paese di vecchi. Viviamo in paesi a declino demografico. Se le previsioni sono queste, ovvero un volume di profughi 15 volte superiore alla guerra jugoslava, evidentemente siamo di fronte a un fenomeno che potrebbe cambiare realmente la morfologia delle città, e in ogni caso io non ho mai visto un’ondata migratoria di questo tipo non provocare comunque degli effetti (positivi o negativi che siano) che ti cambiano la faccia della società.

La seconda questione l’avete incontrata tutti i gironi e soprattutto quando andate a pagare le bollette: cambiano forzatamente le politiche energetiche. Ora non ve la sto a menare sul rapporto tra politiche energetiche e speculazione finanziaria perché altrimenti mi metto a sbadigliare anch’io, però questo è un punto nodale. Il nostro paese sta già facendo piani di contingentamento delle risorse energetiche per il prossimo autunno. È una faccenda importante, che non riguarda solamente il presente, ma soprattutto il posizionamento dell’energia nel futuro. Quando il ministro della Transizione ecologica dice che «la transizione ecologica non sarà un pranzo di gala» facendo ovviamente rivoltare nella tomba il povero Mao, dice in primo luogo una cosa: che, se usiamo un linguaggio militante, le politiche energetiche saranno un modo di praticare la lotta di classe sotto altre forme. Perché badate bene, le politiche energetiche saranno pagate dalle famiglie, dalle strutture sociali più basse, dalle piccole e medie imprese, insomma dalla struttura grassrootdella società. Politicamente questo è un altro grosso problema.

Un altro problema, forse poco valorizzato in queste settimane (dopotutto, non si possono scoprire tutte le contraddizioni in un colpo solo) è la sicurezza alimentare. La Russia è il principale esportatore di materiale per fertilizzanti del pianeta, e non è poco. Se la situazione resta critica, si dovranno ripensare le politiche di sicurezza alimentare. Per fare un esempio, la fragilità dell’importazione del grano è molto seria, sebbene si sia fatta sentire in maniera ridicola – avete visto anche meglio di me quelle aziende che strombazzavano «noi abbiamo spaghetti 100% grano italiano» fare delle pubblicità struggenti dicendo «scusate, ma con la crisi del grano ucraino siamo costretti a aumentare i prezzi». Ad ogni modo, la rogna non è solo il contingentamento, ma anche e soprattutto i prezzi. Tanto più ciò che gli americani chiamano food security è sull’agenda politica, tanto più lievitano i prezzi degli alimentari; e, a sua volta, quanto più lievitano i prezzi degli alimentari, e tanto più si producono pesanti criticità sociali. Ricordo qui che le primavere arabe sono un frutto di uno dei quantitative easing della Federal Reserve americana che rese insostenibile il prezzo del grano e del frumento come materie prime.

Ora, c’è un altro aspetto importante. Ne ho già toccati tre, più legati a una sfera biopolitica – la questione demografica, l’energia, il cibo –, ma accanto a questi c’è l’altra faccia della medaglia, emersa in tutta la sua drammaticità nelle ultime settimane: è l’aumento spettacolare dei prezzi delle commodities, cioè delle materie prime. Questo ha due effetti fondamentali. Il primo è di natura ovviamente economica, cioè la ripercussione di questa situazione sulle gerarchie di potere a livello geopolitico e globale. Però ce n’è un altro a mio avviso ancora più determinante, che riguarda la maniera in cui si è scatenata in queste settimane la guerra finanziaria sulle materie prime.

Chi ha avuto la pazienza di leggere su «Codice Rosso» sa che nei giorni scorsi mi sono messo ad osservare un po’ di cose, soprattutto un settore, a mio avviso, benchmark per queste dinamiche: il nichel. Il prezzo del nichel è impazzito. Si è gonfiato fino ad arrivare al 93% di aumento in due giorni, poi il nichel non è stato più trattato alla borsa di Mosca per un paio di settimane proprio perché stava salendo a prezzi vertiginosi. Ora, questo logicamente ha grosse ricadute sui prezzi delle materie prime di diverse componenti; però crea anche un altro problema. Sembrerà assurdo da un punto di vista empirico, ma un volume così alto di prezzo per questo tipo di materie prime mette in difficoltà le stesse compagnie finanziarie che fanno servizi e prodotti finanziari per le materie prime. Almeno tre di esse, secondo alcuni analisti americani, sono considerabili a rischio di esplosione pari a quelle del 2008. Quindi come vedete, da una parte le materie prime sono un problema immediato; dall’altra sono un problema di equilibrio sistemico, perché se la Federal Reserve non trova il modo di salvare queste agenzie come ha fatto per le compagnie dei mutui nel 2007-2008, il rischio è serio. Come vedete lo scenario si fa effervescente.

Un’altra questione ancora è il cambiamento della catena di fornitura, la supply chain. Il covid e la guerra hanno messo a “seria capacità di resilienza” le catene di fornitura globali. Ora, si è vero, da una parte vediamo che Amazon funziona. Poi, se volessimo capire cosa stia veramente mutando e dove va la globalizzazione, potremmo andare a vedere le tariffe, l’efficienza, i costi, la benzina, il petrolio, eccetera; ma soprattutto, se vogliamo capire se la globalizzazione funziona o meno o si sta trasformando, dovete andare a vedere una cosa sola: cosa accade nel mondo dello shipping, della navigazione. Non ve lo dico perché sto in una città di porto, ma perché è una realtà nella quale le mutazioni della globalizzazione trovano un grande elemento di misura. Non è un caso che chi sta cercando di cambiare la globalizzazione, la prima idea che si è messo in testa – e verso il finale ci ritorno – sia dire “restringiamo ruolo e peso dello shipping”. Non è poco. Perché? Perché la nuova supply chain, che ha nello shipping un elemento per tante merci decisivo, ha rimesso in discussione forza e importanza di questo mondo. Allo stesso tempo, se il mondo dello shipping tornerà a prosperare, allora probabilmente tante analisi sulla deglobalizzazione sono destinate ad essere più facilmente messe in archivio rispetto ad altre.

Vi è poi un ulteriore un processo particolarmente pericoloso, che abbiamo visto in questi anni e che con la guerra ucraina si sta accentuando: la separazione degli standard, ovvero la regionalizzazione o (peggio ancora) nazionalizzazione degli standard tecnologici di molti prodotti. Qualcosa di questa dinamica ce lo fa capire la guerra sul 5G, che si è chiusa durante il Covid. È evidente che un mondo dove le tecnologie non si parlano, per cui quello che si usa in una parte del mondo non si può usare da un altro, è un mondo più incline alla deglobalizzazione di altri.

Prima di chiudere toccherei altri tre punti veloci.

Per prima cosa, noi abbiamo visto che le multinazionali hanno un peso politico più forte che in passato. Nel momento in cui Goldmann Sachs, McDonald’s e Amazon lasciano la Russia, è evidente che riconoscono di detenere un’influenza politica e che intendono esercitarla.

C’è poi la ripresa massiccia della vecchia, “sana” spesa militare. Un aspetto direi ineludibile di queste crisi è che comportano da una parte la proliferazione dei prodotti finanziari di rischio, e dall’altra la moltiplicazione degli investimenti per la guerra sul campo. Sono questi gli indicatori con i quali possiamo misurare ciò che sta accadendo, e che ci suggeriscono dove effettivamente si annidano le trasformazioni degli equilibri e gli spostamenti di potere.

Io so bene che la domanda, la vexata quaestio, è: ma stiamo andando verso un processo di globalizzazione o verso un processo di deglobalizzazione? A tal proposito, io starei attento a una cosa. Ci sono due criteri, che nomino innanzitutto per chiudere quest’intervento, ma anche per capire quello che accade. Il primo è la circolazione dei capitali: finché c’è libera circolazione di capitali non c’è deglobalizzazione che tenga. Cioè, forse non è così per chi è abbonato a servizi di tossicità mentale come «Repubblica», «la Stampa» e compagnia cantante – ragazzi, io ho letto cose in questi giorni che se avessi lavorato in una redazione di questo tipo avrei buttato via la tessera da giornalista; quelle che un tempo venivano chiamate “marchette” erano dignità e rispetto a quello che si vede oggi –, ma comunque finché c’è libera circolazione dei capitali c’è comunque globalizzazione. È sempre stato così.

Il secondo parametro per capire effettivamente dove va la globalizzazione, è capire quali sono i device tecnologici che la interpretano. E qui chiudo su un dettaglio che credo essenziale. Nel 2016, poco prima della vittoria di Trump – ora, non mi dite che Trump e Biden sono uguali: ve lo dico subito, per me Trump era enormemente più simpatico, e poi viene dal tipo di cultura televisiva trash in cui sono nato, quindi ho un cuore anche io – nel dibattito economico-militare e nelle riviste del Ministero della Difesa statunitense si apre una discussione sulla deglobalizzazione legata a quei device che semplificando possiamo chiamare stampanti 3D. I reparti militari americani e il Ministero della Difesa cominciano a dire: «Noi possiamo intraprendere una deglobalizzazione nel momento in cui i device industriali per la stampa 3D diventano una cosa seria». È un’ipotesi che ha avuto una certa fortuna in un dibattito molto interessante da questo punto di vista.

Allora, per concludere, le questioni sono due: la globalizzazione ci sarà finché c’è libera circolazione dei capitali; secondo, i processi di deglobalizzazione o globalizzazione saranno comunque determinati dagli standard tecnologici industriali correnti. Quindi, a mio modo di vedere sono questi i due i migliori criteri di lettura di questi processi. Ma badate bene, non ho voluto fare il Nostradamus, per carità. Non ho nemmeno la barba.

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Raffaele Sciortino – La temperatura del sistema. Guerra e scongelamento della crisi globale

Il mondo che conoscevamo prima del 24 febbraio 2022, oggi, non esiste più.

È a partire da questo dato di fatto, terrificante nella sua chiarezza, che il 2 aprile abbiamo voluto organizzare un momento di discussione, a Modena, sul mondo di domani, la guerra in Europa e il destino della globalizzazione, di cui oggi cominciamo a riportare gli interventi. Due invitati d’eccezione: Raffaele Sciortino, autore di I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios 2019) oltre che di numerosi altri contributi, e Silvano Cacciari, della redazione di «Codice Rosso» di Livorno e autore di La finanza è guerra, la moneta è un’arma (in uscita a breve per La Casa Usher). Una discussione di alto livello quindi – o tutto o niente, ormai dovreste conoscerci –, per capire quella che è la “temperatura” del sistema capitalistico globale, al netto del riscaldamento climatico e dei “condizionatori spenti”; un “provare la febbre” a una fase che, già prima della precipitazione ucraina, appariva torrida, e che la messa in mora di un nuovo conflitto armato dentro l’Europa, tra attori e potenze mondiali sull’orlo della crisi di nervi, non può che “accompagnare solo” (cit.) al punto estremo di fusione.

Non ci interessa ripetere la cronaca della guerra o dare cristalline indicazioni politiche. Ci muove, per ora, l’urgenza di possedere la complessità di tendenze, traiettorie e scenari. Sebbene questa crisi sia (fino adesso) localizzata in Ucraina, si dispiega infatti su vari livelli – militari, economici, geopolitici – che abbracciano il mondo intero, sia fisico che immateriale; che chiamano in causa l’egemonia del dollaro, l’ascesa della Cina, la decadenza occidentale – anche se ben vedere ci sono tanti Occidenti, e questa crisi mette in luce i diversi loro interessi: l’Europa, dell’Ovest e dell’Est, quella mediterranea, la Russia eurasiatica, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il resto dell’anglosfera, e via discorrendo. Tutti attori che stanno giocando delle partite su vari livelli: partite molto pericolose, dove si gioca indiscriminatamente col fuoco e il ferro, oltre che con il nucleare, sulla nostra pelle.

Riassumendo, il grande tema è capire che ne sarà della globalizzazione che abbiamo visto, e vissuto, circa dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 in poi – per stare mediani tra la crisi degli anni Settanta e quella del 2008. A nostro parere, questa crisi è anche uno degli aspetti lunghi di questa dissoluzione, una delle sue conseguenze lunghe, approfondita dalla frattura del 2008 e che il Covid non ha fatto altro che accelerare. E quindi, cosa ne sarà del mondo che abbiamo abitato fino a oggi? È per questo che abbiamo voluto mettere in relazione la guerra – che dopo decenni ha l’Europa come epicentro (anche se in verità c’era già negli anni Novanta con la guerra nei Balcani, sebbene si tenda un po’ a dimenticarlo), ma che può veramente escalare e diventare mondiale – con il destino del sistema globale, che è il grande punto interrogativo.

L’unica cosa certa, a nostro avviso, è che andiamo verso un nuovo disordine mondiale. L’abbiamo chiamata, non a caso, una nuova “età dei torbidi”. Sta a noi comprenderla, e riuscire ad anticipare il mondo di domani da una prospettiva di parte, o quantomeno autonoma dalle narrazioni dominanti, dalle propagande, dagli “interessi generali” che si si condensano quotidianamente attraverso redazioni, giornali, talkshow, bombardandoci – metaforicamente, s’intende, ma con proporzionale devastazione delle nostre capacità e soggettività. Sempre mossi da cattive intenzioni, con la nostra parte ancora tutta da costruire. Buttiamo, quindi, senza paura lo sguardo nell’abisso: è solo questione di tempo prima che l’abisso guardi noi.

 

Raffaele Sciortino

Cercando di non essere troppo lungo, oggi nominerei tre punti, tre considerazioni, e ne approfondirò sostanzialmente uno: qual è la temperatura del sistema mondo da un punto di vista in primo luogo economico, e quindi anche geopolitico e sociale. Le altre due considerazioni sono invece le seguenti: la prima penso che sia di fondo condivisa dai presenti ed è la sovradeterminazione di questo conflitto – che vede ovviamente nell’avanscena la Russia e l’Ucraina – da parte degli Stati Uniti. Permettetemi dunque un breve preambolo.

Mi è capitato di leggere ultimamente Günther Anders, il suo testo L’uomo è antiquato. Riflettendo sulla cecità dell’umanità uscita dalla Seconda guerra mondiale rispetto all’apocalisse possibile, cioè la bomba e l’autodistruzione nucleare, a un certo punto l’autore fa una riflessione, che butta un po’ lì. Dice che la forza di un una concezione non sta tanto nelle risposte che dà, quanto nelle domande che soffoca, che non lascia venire fuori. Ora, se al posto di “concezione” mettiamo “soft power statunitense” – e cioè uno degli effetti fondamentali dell’egemonia imperiale statunitense negli ultimi decenni – mi pare piuttosto che, sebbene embrionalmente, in maniera contraddittoria, per così dire soffocata, stiano venendo fuori numerose domande. Non solo fuori dall’Occidente, dove la cosa è abbastanza evidente, ma anche in Occidente e tra la gente comune (non c’è bisogno qui di parlare di soggettività politica). E la domanda che ci si fa è: qual è il ruolo degli Stati Uniti in quello che sta succedendo? E non è forse che questo ruolo sia fondamentale, se non prioritario? Questa è la prima considerazione che rimando a voi per la discussione che seguirà.

Il secondo punto è quello che toccherò, ovvero la temperatura complessiva del sistema mondo e quindi la gravità di questa situazione. Ancora una volta non possiamo sapere in che misura, ma siamo sicuramente di fronte a un punto di svolta, come si diceva prima. E una terza domanda che vi rilancio è come sia possibile, a quali condizioni, su che basi costruire un movimento contro la guerra. In altri termini, quali sono le difficoltà (anche, ma non in primo luogo soggettive) che derivano dalla situazione che cercheremo cogliere nel suo insieme.

Voglio qui approfondire con voi – approfondire è una parola grossa; diciamo articolare – un ragionamento sul fatto che la guerra ucraina è il precipitato di una situazione più complessiva che, come si notava prima, rimanda quantomeno allo scoppio della cosiddetta crisi finanziaria del 2008. Ora, per essere il più sintetico possibile e spero non troppo didattico, direi che la crisi scoppiata nel 2008 con l’epicentro negli Stati Uniti, e che solo in superficie è una crisi finanziaria, è una crisi in realtà sistemica.

A partire dalle risposte che le sono state date dal sistema finanziario statunitense, dallo Stato statunitense e poi a cascata da tutti gli altri attori globali, è stata sostanzialmente congelata. Congelata però non senza aver innescato due processi fondamentali, di cui oggi vediamo una prima precipitazione forte a livello geopolitico. Il primo processo è quello che l’«Economist» (la Bibbia del capitalismo mondiale da metà Ottocento in poi) ha chiamato la slowbalization, da slow, lento. La globalizzazione ascendente, dell’ultimo trentennio perlomeno, anche prima della caduta del Muro di Berlino, non ha subito interruzioni perlomeno nei suoi tre indici fondamentali, ovvero nel commercio mondiale rispetto al prodotto netto globale prodotto in un anno, nella costituzione di filiere globali della produzione e chiaramente della logistica, e negli investimenti esteri. Non c’era e non c’è stato finora un arresto vero e proprio, ma osserviamo sicuramente un rallentamento degli indici di crescita. Quindi appunto una slow-balization, una globalizzazione che rallenta.

Contestualmente a livello produttivo e più in generale a livello di capacità di rimettere in moto l’accumulazione capitalistica e quindi la macchina dei profitti, con alti e bassi e in situazioni ovviamente differenziate, per quanto riguarda l’Occidente (diverso il discorso per l’Asia orientale e in particolare per la Cina) noi abbiamo assistito a una sostanziale stagnazione. Il termine non è precisissimo perché appunto le situazioni sono differenziate sia tra l’Europa e gli Stati Uniti, sia internamente all’Europa; ma diciamo fondamentalmente una crescita asfittica e ancor più un’incapacità di lanciare l’accumulazione di capitale. Il che è andato insieme, come effetto-che-diventa-causa, con un indebitamento crescente impulsato (proprio per bloccare gli effetti dirompenti economici, e poi sociali e politici della crisi globale) dalle banche centrali, in particolare dalla Federal Reserve e poi a cascata dalla Banca centrale giapponese, britannica e poi, da ultima, dalla Bce allora guidata da Draghi.

Un indebitamento che non ha pari nella storia del capitalismo e che si è ampliato ulteriormente durante la crisi pandemica. I bilanci delle banche centrali hanno raggiunto indici impensabili, per esempio quello appunto della Banca centrale statunitense (adesso non ricordo precisamente la cifra) che si aggira tra i cinque e i sette trilioni di dollari, che equivale a una cifra tra un terzo e la metà del prodotto interno lordo statunitense. Il che – e non è un punto che possiamo approfondire – ovviamente non è senza ripercussioni su quel fenomeno scattato nell’ultimo annetto e mezzo (nel cosiddetto “rimbalzo” postpandemico) che è l’inflazione.

Beh, già solo il nominare questi macro-processi ci indica che quella che è stata la globalizzazione negli ultimi trenta-quarant’anni non può non essere andata incontro a delle incrinature, se non a delle vere e proprie brecce – anche tenuto conto del fatto che in questi dieci anni tra il 2008 e lo scoppio della crisi globale, la Cina è intervenuta se non a salvare l’economia mondiale e l’Occidente, comunque ad agire come una valvola di sfogo delle difficoltà dell’economia. Ma andiamo per gradi e facciamo un passo indietro.

Cos’è stata la globalizzazione? O meglio, cos’hanno costituito – sul piano geopolitico, sul piano sociale e della lotta di classe, sul piano strettamente economico – quegli assemblaggi che hanno dato come risultato la globalizzazione a guida statunitense?

Alla base ci sono almeno tre grandi processi. Il primo è processo geopolitico, che descrive il riavvicinamento Stati Uniti-Cina, avvenuto a partire dall’inizio degli anni Settanta nel passaggio da Mao a Deng, ossia nel momento in cui gli Stati Uniti stavano subendo una grossissima crisi anche a causa della sconfitta in Vietnam e delle lotte sociali del “lungo Sessantotto”.

Sul piano strettamente economico e monetario, è cruciale lo sganciamento del dollaro dall’oro nel 1971, il che ha dato il via alla fluttuazione delle monete senza una base fisica, per così dire. Sintetizzando, nel regime di Bretton Woods post-Seconda guerra mondiale il legame stretto, fisso, tra dollaro e oro e su cui si innestavano tutte le altre monete, aveva fatto del dollaro la moneta di riserva mondiale e il mezzo di pagamento internazionale. Dal ‘71 in poi, invece, il dollaro segue una traiettoria e una dinamica “a fisarmonica”: nel senso che lo sganciamento dall’oro permette alla Banca centrale statunitense di stampare moneta a volontà, a seconda delle esigenze geostrategiche degli Stati Uniti, ora stampando, ora tirando le redini e stringendo. Nel primo caso, scambiando con il dollaro la produzione mondiale, ci si permetteva attraverso di esso un controllo, un comando su una buona fetta del valore prodotto globalmente; per converso nel secondo caso, in situazioni mutate, si chiudeva la fisarmonica, per riattirarlo negli Stati Uniti, di contro a un dollaro che se troppo inflazionato rischia di perdere valore (e perdeva valore). Una tattica abituale consisteva, per esempio, nell’alzare i tassi e quindi riattirare negli Stati Uniti i capitali che rischiavano di volarsene su altri lidi. Ovviamente la questione è molto più complessa di quello che sto dicendo qui, ma è giusto per dare un’idea di come è andata a costituirsi dagli anni Settanta quello che possiamo chiamare (e che è un fenomeno inedito nella storia del capitalismo mondiale) l’imperialismo finanziario del dollaro.

Governare attraverso il dollaro vuol dire anche governare i flussi di valore globali attraverso l’indebitamento. Perché un dollaro liberamente fluttuante, ora inflazionato ora deflazionato a seconda delle vicende geopolitiche ed economiche interne ed internazionali, ha permesso agli Stati Uniti di accumulare un enorme deficit interno e un disavanzo commerciale delle partite correnti con l’estero altrettanto enorme. In breve, per la prima volta abbiamo un soggetto egemone che comanda il mondo attraverso il debito, il suo debito. Ricordo solo che dalla Prima e poi ancor più dalla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti invece erano usciti come primi creditori di quelle che erano le potenze forti di allora, quelle europee e su tutte la potenza egemone di allora, la Gran Bretagna.

Il terzo macrofenomeno che ha contribuito alla nascita della globalizzazione senza che ci sia stata, come dire, una regia condivisa – cosa che nel capitalismo è impossibile, a meno di abbracciare teorie complottiste – è stata la lotta del “lungo Sessantotto” e il suo assorbimento. A tal proposito è importante una precisazione. Non è che sia stata semplicemente una sconfitta della lotta di classe in Occidente per come si era mossa dagli anni Sessanta agli anni Settanta. C’è stato semmai un suo affievolirsi e anche delle sconfitte importanti, ma soprattutto un assorbimento delle istanze del Sessantotto – quelle istanze libertarie e di ricerca di autonomia che in parte si erano rivolte anche contro la dipendenza dal lavoro salariato – che in qualche modo la globalizzazione ascendente era riuscita ad assorbire portandole e declinandole sul proprio terreno, cioè a favore di una ripartita dell’accumulazione capitalistica.

Ora, questo ci spiega anche, o può spiegare e plausibilmente secondo me, anche un altro fenomeno. Cioè il fatto che essendo accidentale il nuovo tipo di dominio che gli Stati Uniti hanno instaurato sul mondo dopo gli anni Settanta, nella fuoriuscita dalla crisi del lungo Sessantotto – un dominio, attenzione, che ha avuto necessariamente come altro pilastro (ovviamente in termini asimmetrici, di potenze e di profitto) la Cina, cioè l’apertura dei mercati occidentali (statunitensi in primis) all’esportazione cinese, il che ha permesso l’internazionalizzazione delle produzioni, la costituzione di filiere globali della produzione che hanno permesso alla Cina di fare quell’incredibile ascesa, in trent’anni sostanzialmente, che gli altri paesi a capitalismo maturo hanno fatto in cento, centocinquant’anni, però sempre con una posizione, ovviamente, asimmetrica, non di predominio comunque quella cinese – ebbene, dicevo, è evidente che in questa architettura, in questo assemblaggio globale – grazie a contraddizioni proprie quali la cosiddetta finanziarizzazione, cioè il fatto che gli Stati Uniti non abbiano deindustrializzato completamente la propria ossatura produttiva, spostandosi piuttosto su segmenti “alti” della tecnologia, mentre il peso dell’economia finanziaria e speculativa cresceva in maniera immane, e attraverso questo controllo della moneta e della finanza che abbiamo descritto – gli Stati Uniti sono riusciti a captare, a catturare una buona parte dei flussi globali di valore, subordinandoli in maniera nuova, inedita. Inedita perché negli anni Settanta si pensava a un declino inesorabile degli Stati Uniti, e non è stato così.

Dunque, è chiaro che questa complessa architettura che ho giusto tratteggiato – spero in maniera non troppo confusa – nel 2008 ha iniziato a mostrare le sue crepe, sia per contraddizioni interne, ma anche perché la Cina a un certo punto è servita a instaurare questo nuovo dominio statunitense, però ha fatto la sua ascesa economica e quindi – sia con l’aumento dei redditi, dei salari, sia con le lotte di classe interne in Cina – ha iniziato in qualche modo, se non a pretendere, comunque ad aspirare a una fetta maggiore di profitti globali.

Che cosa ha comportato tutto ciò? Sul versante cinese, la consapevolezza nelle élites, nei vertici del partito-Stato, di questo rapporto asimmetrico, sbilanciato, eccessivamente sbilanciato, che vuole e voleva sostanzialmente dire fondare la sua ascesa tutta sulle esportazioni per il mercato occidentale. Con la crisi del 2008 questa strategia si rivelava tuttavia una scommessa precaria, il che ha sorpreso la dirigenza cinese, e in un qualche modo hanno subito dovuto farci i conti. Per ovviare alla crisi, la Cina quindi è intervenuta con un’emissione di liquidità pazzesca nel 2009, e in questo modo ha anche aiutato l’Occidente. Ma il suo modello di sviluppo economico non può trapassare a un indebitamento continuo, che creerebbe una bolla simile a quella dell’Occidente e destinata prima o poi a scoppiare, lasciando morti e feriti in un percorso come quello degli ultimi trent’anni che è stato sì eccezionale, ma che comunque è pieno di contraddizioni, economiche sociali e politiche.

Dunque la Cina, a partire grossomodo dall’indomani della crisi globale, ha messo in campo un piano, una politica industriale, una politica economica finalizzata risalire le catene del valore. Per farla breve, si tratta di un ribilanciamento dell’economia interna e del rapporto della sua economia con l’esterno. In termini concreti questo significa dipendere meno dalle esportazioni, incentivare il proprio mercato interno, essere meno esposti agli impulsi finanziari occidentali e proiettarsi all’esterno con le cosiddette Vie della Seta. Ovviamente, in tutto ciò diviene fondamentale per la Cina salire a delle produzioni tecnologicamente più avanzate, soprattutto in un campo in cui è decisamente indietro che è quello dei microchip. Si noti come l’attenzione venga rivolta non tanto e non solo alla produzione digitale per il consumo di massa, quanto al design, alla produzione e alla progettazione dei circuiti integrati che ne stanno alla base (la base poi anche, ovviamente, delle tecnologie militari).

Questo piano di ribilanciamento cinese, se riuscisse, sarebbe per le multinazionali statunitensi e occidentali in generale – e soprattutto per il controllo statunitense attraverso il dollaro – non dico la fine, perché non è questa l’intenzione e neanche la capacità, considerando i rapporti di forza che abbiamo in Cina, ma comunque un serio colpo. È esattamente questa ipotesi che ha scatenato la reazione statunitense, già abbozzata nel corso dell’amministrazione Obama e poi lanciata con la cosiddetta guerra commerciale di Trump. Ricordiamo che la guerra commerciale non ha tanto come vero obiettivo quello di riequilibrare la bilancia commerciale tra Cina e Stati Uniti, perché come dicevo prima non è questo il problema. Gli Stati Uniti dominano il mondo tranquillamente facendo debito. Il problema è mantenere la priorità e il predominio del dollaro, e impedire alla Cina di risalire tecnologicamente a stadi più elevati di accumulazione capitalistica.

E infatti noi vediamo che c’è una perfetta continuità tra l’amministrazione Trump e l’amministrazione Biden. Biden non ha fatto altro che affinare questa strategia che ha preso la forma del cosiddetto decoupling tecnologico selettivo. Con decoupling si intende lo sganciamento della Cina dall’accesso a capitali e tecnologie elevate occidentali, in un contesto internazionale in cui gli Stati Uniti consapevolmente impongono gli stessi meccanismi anche ai paesi dell’Occidente e agli alleati dell’Asia (Giappone e Taiwan). “Selettivo” perché ovviamente per rompere del tutto con la Cina sarebbe per gli Stati Uniti come uccidere la gallina dalle uova d’oro, il che non è, almeno attualmente, né nei piani né fattibile. Contemporaneamente sul piano geopolitico gli Stati Uniti si sono riorientati verso l’Asia orientale e hanno varato una strategia di accerchiamento, di nuovo contenimento, della Cina, il cui fulcro sono il Mar Cinese (settentrionale e meridionale) e Taiwan. Per questo hanno voluto, se non “abbandonare”, almeno rilassare la presenza in Medio Oriente, e allo stesso tempo lasciare l’Afghanistan e buttarsi su quel nuovo versante.

Ora, cosa c’entra la Russia, l’Europa orientale e l’Asia Centrale in tutto questo?

C’entra innanzitutto perché di lì passano alcune direttive strategiche delle Vie della Seta, che per la Cina sono fondamentali perché, essendo stretta sui mari (da cui dipende, per esempio, per l’arrivo del gas, del petrolio e tutta l’esportazione di merci), cerca di spostarsi via terra passando attraverso il centro-Asia e l’Asia meridionale. La Russia è cruciale già solo per questo, e la stessa Ucraina è uno snodo, previsto, fondamentale delle Via della Seta. Ma anche perché da un punto di vista politico e geopolitico è evidente che la Russia ha nella Cina una sponda fondamentale per resistere alla pressione delle Nato e degli Stati Uniti; e a sua volta la Cina ha nella Russia sia una sponda geografica sia una sponda complementare da un punto di vista economico. La Russia esporta principalmente materie prime agricole e minerarie, e la Cina è l’officina del mondo. È intorno a questo rapporto – non un’alleanza ma comunque una partnership strategica – che possono orbitare tutte quelle aree e quei bacini territoriali che non vogliono sottostare completamente al diktat di Washington.

Ora – e vado verso la conclusione – qui emerge la contraddizione di fase che ci accompagnerà ovviamente per qualche decennio se non esploderà prima. La contraddizione di fase sorge dal bisogno, speculare e insieme opposto, per Cina e per Stati Uniti di conservare la globalizzazione; e dalla necessità al tempo stesso di mettere in atto delle strategie che minino la globalizzazione stessa, che quindi tendano verso una sua crisi e poi, eventualmente, verso addirittura un rinculo, una deglobalizzazione.

Cosa voglio dire?  La Cina necessita della globalizzazione perché è in mezzo a un guado. Necessita di continuare ad esportare merci, di importare materie prime da mezzo mondo, ma soprattutto di accedere a tecnologie e capitali che ancora non possiede. Il problema è che la Cina vorrebbe una globalizzazione meno asimmetrica, potremmo dire più multipolarista, multilaterale. “Un’altra globalizzazione”, come si diceva vent’anni fa nel movimento noglobal; il che però produce chiaramente la reazione durissima degli Stati Uniti, di cui però abbiamo visto e stiamo vendendo solo l’inizio. Gli Stati Uniti infatti sono costretti a rispondere con il decoupling, quindi cercando di sganciare e di separare la Cina dal contesto globale (via sanzioni, via dazi, via quello che vedremo), ma al tempo stesso è chiaro che qui il rischio per gli Stati Uniti è di darsi la zappa sui piedi. Cioè di troncare, di interrompere quei flussi, quelle catene del valore che in buona sostanza sono la fonte del dominio mondiale del dollaro e quindi della sua egemonia imperiale mondiale.

Quindi, la contraddizione sta proprio nel produrre effetti che contraddicono quelle che sono le condizioni, ripeto, speculari e opposte per la Cina – una globalizzazione alternativa e meno asimmetrica, meno occidentocentrica, meno dollaro-centrica – e per gli Stati Uniti – interrompere i flussi con la Cina, che però intanto è diventata l’officina globale, senza i quali, come abbiamo visto anche durante la pandemia, si rischiano di bloccare le filiere globali del valore. Contestualmente, e qui veramente vado a chiudere, il problema di fondo è anche quello che, nel frattempo, a ridosso della crisi si è arrivati, attraverso l’indebitamento e ad altri meccanismi, alla creazione di una bolla di capitale fittizio e speculativo enorme che, se l’accumulazione deve riprendere, in qualche modo deve essere sgonfiata, e deve essere sgonfiata anche violentemente. E guardate, con fenomeni come l’inflazione, le guerre (con le distruzioni che comportano, di capitali e ovviamente di esseri umani) e probabilmente passando attraverso una stagflazione (cioè stagnazione produttiva insieme a un’inflazione), si arriverà di nuovo a una grande recessione o comunque una recessione consistente.

Per quanto riguarda l’Europa, leggevo in questi giorni i dati sulla Germania: l’Europa chiaramente è la più colpita da questa crisi ucraina (ma anche gli Stati Uniti non stanno benissimo quanto a inflazione) e be’, tecnicamente è quasi già recessione, soprattutto se confrontiamo i dati con il pre-pandemia, con il 2019. Si avrebbe quindi una grande recessione che comporterebbe svalorizzazioni di capitali, chiusura di aziende, licenziamenti, distruzione: e la distruzione è la conditio sine qua non di una ripresa dell’accumulazione globale. Solo che nel frattempo questo avviene con crisi, guerre, e dove ogni attore a partire dagli Stati Uniti vorrebbe e cercherà di scaricare i costi di questa svalorizzazione sugli altri. Ma lo stiamo già vedendo nella crisi attuale: vediamo chiaramente l’atteggiamento degli Stati Uniti – proseguire la guerra, l’Ucraina deve vincere – e i danni – sia a livello di prezzo dell’energia, ma in generale, con tutto quello che sta rischiando l’Europa – scaricati appunto sull’alleato.

Quindi, e chiudo, può essere (ce lo dirà il futuro, magari anche prossimo) che la guerra in Ucraina sia un primo punto di svolta della situazione; un punto di sblocco, di scongelamento della crisi che ho cercato, forse un po’ male, di descrivere. Un’inversione del ciclo nel quale, non a caso, assistiamo a una politica della Federal Reserve che segna una deviazione (per adesso non proprio a 180 gradi, ma potrebbe comunque arrivarci) rispetto al “denaro facile” di tutti questi anni. Sta infatti innalzando i tassi per ridare forza al dollaro e riattirare capitali negli Stati Uniti: è ancora una volta quell’effetto fisarmonica del dollaro di cui parlavamo prima. Parimenti lo stesso aumento dei prezzi dell’energia danneggia pesantemente l’Europa come fu già nella crisi energetica del 1973; ma a misura che l’energia viene acquistata e scambiata in dollari non penalizza gli Stati Uniti (o non li penalizzerebbe nella stessa misura se non fosse per l’inflazione concomitante). Ripeto, a misura che il dollaro rimanga moneta di scambio internazionale.

E qui, con quello che sta facendo la Russia (per esempio chiedendo di pagare in rubli nel commercio delle materie prime energetiche) e con quello a cui sta puntando la Cina (cioè a sganciarsi un minimo dal dollaro e via discorrendo) per la prima volta, anche se non si arriverà ovviamente alle estreme conseguenze subito, per la prima volta il tabù è nominato, il tabù è infranto. Qualcuno sta pensando a un’economia mondiale non più sottomessa al dollaro, cioè sta pensando a processi di dedollarizzazione. Ora, che cosa ne verrà fuori nessuno lo sa, ma è evidente che il materiale è esplosivo. Tra crisi della globalizzazione e possibile incipiente di deglobalizzazioni, reazione durissima degli Stati Uniti, processi (o comunque intenzioni, strategie) di dedollarizzazione, è evidente – e qui vi lascio – che la crisi ucraina è la precipitazione di un grumo di contraddizioni che sono ormai sistemiche.

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Kultur / Cultura

Gli arsenali dei padroni. Geopolitica, sinistra e realtà

La parola del nostro tempo è «geopolitica».

Per anni vituperata a queste longitudini politiche, ritenuta appannaggio dei sogni bagnati di bruni più o meno rossi e materia di opachi funzionari d’apparato, oggi talmente sdoganata da essere spettacolarizzata. Merce di intrattenimento mainstream, quotata nel mercato in espansione delle piattaforme, venduta e inflazionata da uno stuolo di commessi e analisti con laurea in Scienze politiche e partita iva – «è la Barberizzazione, bellezza» –, è disciplina per eccellenza degli «interessi generali», quindi dell’organizzazione collettiva della classe dominante, la forma-Stato.

Può esistere una geopolitica di parte, la nostra? Quesito cruciale. Se di «uso operaio» della geopolitica non si può ancora parlare, parliamo allora di un punto di vista che della geopolitica può, e deve, avvalersi.

Tagliamo quindi corto. Oggi più che mai – molto più che nell’epoca ordinata dalla guerra fredda, e della breve parentesi di incontrastata potenza unipolare statunitense degli anni Novanta – vediamo come geopolitica e movimenti di classe, della composizione politica di classe, siano in rapporto, legati a doppio filo. Influenzandosi vicendevolmente in maniera sempre più diretta. Quello che succede nell’alto della geopolitica, oggi, precipita nel basso della composizione sociale sempre più velocemente e pesantemente, con strutture di mediazione e contenimento logore o inefficaci, determinando comportamenti, direzioni, scarti: spazi di intervento soggettivo. Quello che succede nel basso, nei processi di ascesa e declino dei ceti medi, nelle stratificazioni sociali, nella ristrutturazione della composizione di classe, ha invece un riflesso non secondario, quanto meno indiretto, verso l’alto. I due livelli, per chi volesse comprendere lucidamente, anticipare tendenze e dismettere i panni di spettatore passivo per farsi attore, collettivo, di parte, vanno quindi tenuti insieme. Il punto di vista militante deve posizionarsi alla mediana di questo rapporto.

Geopolitica operaia. Nel suo primo numero del settembre 1969, in pieno autunno caldo, «Potere Operaio» pubblica in paginona centrale la mappa di Mirafiori. Sono indicate le porte, i reparti, il numero di addetti per ognuno (totale 50 mila), le officine. Dalle 32 e 54, il Fiatnam.
Nel n. 4, da Mirafiori il punto di vista operaio si alza e abbraccia l’Europa occidentale. È la geopolitica delle lotte di classe. Baricentro tra i due termini, sempre in rapporto, l’analisi della composizione – tecnica e politica – di classe. Una postura da recuperare.

«In una società nemica non c’è libera scelta dei mezzi per combatterla. E le armi per le rivolte proletarie sono state sempre prese dagli arsenali dei padroni». Sul numero di «Limes» che ha accompagnato l’incipit della guerra in Ucraina, due interventi ci hanno solleticato. Indicativi del discorso sulla e della guerra. Fotografia dello spettro politico e della sua ridefinizione. Uno di un’accademica della Sapienza, l’altro di un generale in congedo. Punti di vista a confronto.

Ucraina Limes Europae è la tesi dell’accademica. Ucraina prima (o ultima?) trincea d’Europa. Huntington e Brzezinski citati già nella prima riga, niente di nuovo. Indicativo invece altro: come la professoressa assuma e utilizzi esplicitamente il linguaggio, che qua conosciamo bene, della sinistra “di movimento” occidentale – generalmente libertaria e verbosamente radicale – per usarlo in senso fortemente nazionalista, per promuovere, richiedere e giustificare l’intervento della Nato nel conflitto, con tutto ciò che ne conseguirebbe. «La società ucraina ha espresso una grande capacità di autorganizzazione» per decidere, coesa e determinata, di entrare nell’Unione Europea e nella Nato, dopo la «rivoluzione della dignità» di Euromaidan; un «movimento dal basso pronto a difendere la Nazione e i suoi valori», un «movimento dei volontari», di attivisti – come Pravy Sektor, i gruppi paramilitari banderisti e il battaglione Azov? – che hanno contribuito alla «coesione sociale» – o etnica, con il massacro alla Casa dei sindacati di Odessa – in questa decisione, con un «potere costretto ad ascoltare la società» – e soprattutto gli Stati Uniti, gli oligarchi e le frange ultranazionaliste integrate nello Stato post- Maidan e nell’esercito – contro il «terrorismo di Stato» russo. Sono gli ucraini «istruiti e professionalmente competenti», quindi di ceto medio urbano, occidentalizzati, «immuni dai richiami obsoleti e ideologici del mondo (ex) sovietico», considerato povero, ignorante, puzzolente, quindi proletario, che rigetterebbero ogni compromesso.

Cos’è questo se non la rappresentazione plastica della cooptazione di tutto un ciclo politico, nato dalla sconfitta delle rivolte proletarie, nell’arsenale dei padroni? Una convergenza dei residui ideologici movimentisti nella sinistra imperiale, subordinata all’agenda dell’imperatore e dei suoi vassalli, in nome di un interventismo idealista, liberal, democratico che riabilita il nazismo dal volto umano, di un pacifismo peloso intriso di molti sentimenti ed emozioni, ma poca lucidità politica e capacità di analisi, con cui tanti compagni, più o meno consciamente, in odio allo zar di Russia sono finiti a lavorare per il re di Prussia.

Poche, chiare, semplici parole. Striscione davanti al Polo Leonardo, Modena.

La via verso il disastro. Il generale in congedo, con realismo, la vede chiaramente in questa guerra. Perché sono i militari che la guerra, organizzata dalla politica, la devono poi materialmente fare. In tale contesto spesso esprimono posizioni più lucide, e quindi più radicali – che vanno alla radice. C’è poco spazio, qui, per la retorica e l’ideologia. Molto per il materialismo. Rapporti di forza. Equilibri geopolitici. Analisi storica delle contraddizioni. Gli errori – deliberati – compiuti dalla Nato a partire dalla dissoluzione dell’Urss. «L’Ucraina è oggi lo specchio di ciò che gli Stati Uniti, la Nato e l’Europa hanno fatto alla Serbia in e per il Kosovo». Gli interventi in Iraq e Libia a seguire. L’espansione sconsiderata, cieca, provocatoria, verso Est, a detrimento della sicurezza collettiva, globale. Fino a toccare la linea rossa. Fino al punto di non ritorno. E l’ipocrisia arrogante dell’idealismo liberal, che ci vende l’interesse geopolitico degli Stati Uniti, «in galoppo da soli verso la perdita di controllo sul mondo», come guerra di civiltà. Termonucleare. Il prezzo per soffocare la Cina nel suo sbocco europeo – guarda caso, l’Ucraina – della Nuova via della seta. Se la responsabilità militare di aver avviato la guerra non può che essere di Putin, la responsabilità politica della destabilizzazione della pace e della creazione, cosciente, delle condizioni per la guerra sono evidentemente della Nato – in particolare delle potenze anglosassoni, Stati Uniti e Inghilterra.

Siamo arrivati al punto che ci tocca assentire con un generale. E la tragedia, oltre a ciò, è che «tutta questa vicenda era evitabile». La catastrofe umanitaria, sociale, politica che ha luogo in Ucraina, nuova Siria d’Europa, si poteva prevenire.

Non lo si è voluto fare. Lo si è perseguito. Ne pagheremo anche noi, insieme alla gente ucraina e russa, tutto il prezzo.

Lo ribadiamo, a scanso di equivoci. Non con Lui – e i suoi utili idioti, che a Modena conosciamo bene, come Terra dei Padri e fascistume euroasiatico vario – ma contro di Voi. A questi, i nemici della pace più vicini a noi, il nemico in casa nostra, va chiesto il conto. E forte. Perché «le guerre non si vincono più, perché non finiscono mai». Lo dice un generale. E allora prendiamone atto. E organizziamo la guerra ai guerrafondai.

Nel nostro piccolo, cominciando a rompere lo schema di una narrazione della guerra che si fa insieme propaganda e intrattenimento. Costruendo un punto di vista lucido, realistico, autonomo. Un punto di vista di parte.

Quello dei banditi.

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Discorsoni / Analisi

Tranquilli, è solo il primo mese di guerra. Poi peggiora

La guerra ha legato tra loro, con catene di ferro, le potenze belligeranti, i gruppi contendenti di capitalisti, i “padroni” del regime capitalistico, gli schiavisti della schiavitù capitalistica. Un grosso grumo di sangue: ecco che cos’è la vita sociale e politica dell’attuale momento storico.

Lenin, Lettere da Lontano.

 

I democratici antifascisti per il battaglione Azov.

I razzisti sovranisti per la denazificazione.

I tecnocratici europeisti per il presidente comico e populista.

Gli anarchici per i sacri confini dello Stato ucraino.

I comunisti per l’Impero zarista di tutte le Russie.

I nazionalisti per l’Eurasia da Lisbona a Vladivostok.

Gli indipendentisti per l’imperialismo anglosassone Nato.

I pacifisti per la guerra mondiale.

I generali per la pace tra i popoli.

Giletti in diretta da Odessa, con «l’occhio della madre», «la carrozzella col bambino», «gli stivali dei soldati».

E il liberatorio grido fantozziano, «È una cagata pazzesca!», bollato come ignobile propaganda putiniana.

Scusate, sbagliato tempolinea.

Ed è solo il primo mese di una guerra che, lungi dal concludersi brevemente e dal considerarci non coinvolti, vedremo ulteriormente peggiorare, prima di migliorare.

Sempre se potrà migliorare. Per i morti, per i caduti, la guerra è già finita. Per tutti gli altri, continua la danza macabra, sconsiderata, sull’abisso: dell’escalation globale, della mutua catastrofe assicurata. «Siamo pronti a ogni sacrificio», ha annunciato alle Camere il premier-tecnico Mario Draghi all’inizio del conflitto. «L’Italia farà la sua parte». Scrosci di applausi. Sedicenti rappresentanti del popolo italiano a ratificare l’ora delle decisioni irrevocabili, prese altrove: Washington, Londra, Bruxelles. Senza che nessuno avesse, o abbia ancora chiesto, se veramente gli italiani siano disposti a questo sacrificio. L’ennesimo. Il più estremo. Dopo due anni, stremanti, di pandemia. Dopo dieci, durissimi, di crisi, stagnazione, emigrazione, impoverimento. Ci stanno chiedendo il sangue. Questa volta, anche quello vero.

O Kiev o tutti accoppati! L’ora delle decisioni irrevocabili. Ma chi pega?

L’Italia è in guerra, così è stato deciso. Per ora combatte con sanzioni finanziarie, commerciali, economiche, che stravolgeranno irrimediabilmente una già fragile economia – non solo nazionale, ma globale. La finanza come momento della guerra – un avvertimento alla Cina, ma lo sapevamo già – oggi più che mai ibrida. Condotta su più livelli. La globalizzazione che abbiamo conosciuto a partire dal 1991 non sarà più la stessa. E armi agli ucraini, puntualmente arrivate nelle mani di reparti – non più milizie – di neonazisti, come quelli di Azov. «In alcune città, è più facile ottenere una mitragliatrice che il pane», raccontano compagni ucraini che non sentirete nei talk-show, ma che vi traduciamo. «I militari e i gruppi fascisti prendono in ostaggio le popolazioni di Kharkiv, Kiev e Mariupol, usando la gente come scudi umani». A difesa «dei nostri valori», si intende: democratici, inclusivi, occidentali, contro la «barbarie orientale» di sempre. Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia: cancellati in un sol colpo. Tutte le geopolitiche sono uguali, ma la mia è più uguale delle altre. È la Siria 2.0, alle porte di casa, con arsenali atomici e fratricidio di popoli. Una tragedia non solo russa, ma europea.

Questo meme è offerto dalla strutturale tendenza alla guerra del sistema capitalistico nella sua fase suprema, l’imperialismo.

A Ovest già si preparano gli eserciti. Le licenze sono revocate. Gli arsenali si riempiono. I fucili vengono oliati, mentre si trincera il fronte interno. È caccia al “putiniano”, al “russo”, al “traditore”. O con Noi, o con Lui. Se questa non è già guerra… almeno risparmiateci la retorica democratica.

Per questo: non con Lui, ma contro di Voi.

Contro il nemico in casa nostra: l’imperialismo Nato, la tecnocrazia europea, il governo della crisi trasformata in guerra.

Contro il nemico che marcia alla nostra testa: la sinistra imperiale, la sua chiamata alle armi, che soffia sul fuoco appiccato alle nostre porte.

L’unica posizione possibile, da qui dove stiamo.

Dario Fabbri può accompagnare solo. Chi non viene è Giletti bombardato a Odessa da fuoco amico.