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Troppo fuorismo / Inchiesta

Il laboratorio della guerra. Tracce per un’inchiesta sull’università dentro la «fabbrica della guerra» di Modena

0. Un’ipotesi a premessa

Rita Cucchiara è la nuova rettrice dell’Unimore. Prima donna ad assumere questo ruolo nella storia dell’Università di Modena e Reggio, è stata eletta a giugno 2025 al ballottaggio contro Tommaso Fabbri, con un corpo accademico votante spaccato in due.

Come gruppo di inchiesta universitario, è indicativo per il nostro discorso lo spostamento dei rapporti di forza, di bilanciamento e di potere interni all’istituzione Università dal dipartimento di Economia a quello di Ingegneria. Come vedremo, questo elemento può essere già inteso come indizio della direzione e del ruolo che l’istituzione università sta assumendo, in questa fase accelerata e acuta di crisi, sul nostro territorio inteso nelle sue connotazioni produttive e sociali, nel suo rapporto con lo sviluppo capitalistico a vocazione industriale e dei soggetti da esso messi al lavoro, e in relazione alle trasformazioni del contesto politico e capitalistico non solo locale, ma regionale, nazionale ed europeo, dentro la crisi globale che si fa stato di guerra.

La figura della nuova rettrice sta lì a esprimere questa fase di cruciale trasformazione. Partiamo da qui, cominciando a tracciare qualche punto d’inchiesta sull’università come «laboratorio della guerra», da ampliare, mettere a verifica e agire in senso militante, con punto di vista di parte.

1. La nuova rettrice: Rita Cucchiara

Ordinaria di ingegneria informatica e direttrice di numerosi laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale, Rita Cucchiara viene descritta dai giornali come il volto delle donne nelle STEM italiane, con un curriculum accademico invidiabile. Tuttavia, il dato politico reale che emerge ripercorrendo le tappe della sua carriera accademica e istituzionale è il suo ruolo di raccordo, da un lato, tra ricerca pubblica universitaria e il suo impiego nel rilancio del profitto d’impresa e, dall’altro, tra politica (non solo locale) e accesso alle catene globali del valore. In una traiettoria che, seguendo la curva dell’accumulazione capitalistica nel tempo della crisi e della guerra, descrive chiaramente la porosità tra la produzione – industriale, di sapere, e quindi di soggettività – civile e la produzione militare, oggi esplicata nel paradigma del «dual use».

Sarebbe infatti parziale, e quindi limitante, accontentarsi di contestare superficialmente la sua stretta vicinanza a Israele – sebbene durante il genocodio della popolazione palestinese della striscia di Gaza e il salto di livello nel conflitto in Medio Oriente non esistano posizioni neutrali – trascurando di osservare, in profondità, il significato di quanto realizzato nel contesto in cui siamo collocati, l’Italia e in particolare l’Emilia. Tenere come unica prospettiva critica un generico pacifismo rischia infatti di ridurre l’analisi e quindi la prassi politica a polemica moralista, e soprattutto di non riconoscere la portata reale della direzione di trasformazione in «fabbrica della guerra» del nostro territorio, in cui l’industria della formazione tecnico-scientifica – non limitata a sole scuola e università – svolge un ruolo di primissimo piano: quello di «laboratorio della guerra».

2. Unimore e IDF: la relazione strutturale con Israele

Fatta questa opportuna premessa, è incontestabile che Cucchiara ha svolto un ruolo soggettivo d’impulso nello sviluppo della collaborazione tra Unimore e la ricerca tecnologica israeliana, stringendo partnership pluriennali e organizzando enormi congressi. Si prenda, tra i tanti esempi, la presentazione del laboratorio AIIS, diretto da Cucchiara, al Naftali Building dell’Università di Tel Aviv, con la presenza dell’Ambasciata italiana e di Isaac Ben-Israel, ex generale dell’IDF e oggi direttore della Israeli Space Agency , la ECCV European Conference on Computer Vision del 2022, organizzata da Cucchiara a Tel Aviv insieme a figure di primo piano come Amnon Shashua, CEO miliardario di Mobileye e fondatore dell’omonima Shashua Family Foundation, società “filantropica” il cui Nitzanim Program mira a «duplicare il numero di giovani provenienti da zone svantaggiate nei reparti high-tech dell’IDF» (si veda qui e qui). Ma accanto a queste numerose iniziative estemporanee, vanno sottolineati i tentativi di rendere duratura nel tempo, ovvero strutturale, la collaborazione con Israele, lanciando network pensati ad hoc come la rete ELLIS, un «laboratorio di ricerca sulle AI multicentrico composto di unità e istituti situati in Europa e in Israele»; la rete conta appunto anche un’unità modenese, diretta da Cucchiara.

3. Unimore e NATO: progettare la guerra che viene

Non mancano poi i progetti NATO, quale il programma di riconoscimento facciale BESAFE – Behavioral Learning in Surveilled Areas with Feature Extraction – che la rettrice stessa ha coordinato in collaborazione con la Hebrew University. Sempre Cucchiara ha poi lanciato i suoi laboratori Unimore in grossi progetti alle dirette dipendenze della Difesa e dell’intelligence statunitense, come il progetto di videosorveglianza DIVA di IARPA (Intelligence Advanced Research Project Activity) dell’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale (qui una presentazione del progetto in cui Cucchiara casualmente trascura di indicare l’origine spionistica del progetto). Oltre all’AIIS, un altro laboratorio modenese diretto da Cucchiara, l’AImageLab, viene frequentemente presentato come un esempio virtuoso di collaborazione tra l’Unimore e Leonardo(si veda qui e qui), il colosso globale nel settore della Difesa controllato dallo Stato italiano, tra i maggiori attori del complesso militare-industriale e protagonista oggi, sul territorio modenese ed emiliano (ma non solo, come dimostrano le inchieste torinesi e in Piemonte), nel dare il ritmo e la direzione alla riconversione in senso bellico del tessuto d’imprese meccaniche e metalmeccaniche legato all’automotive in crisi.

Va segnalato, inoltre, il progetto STORE (Shared daTabase for Optronics image Recognition and Evaluation), un enorme consorzio di accademici e colossi dell’industria militare come Rheinmetall (tedesca) e Thales (francese), finanziato con 323 milioni di euro dall’UEper la creazione di un database di immagini esplicitamente rivolta all’analisi tattica delle situazioni di combattimento, a cui Unimore partecipa attraverso il laboratorio AIRI, diretto sempre dalla rettrice neoeletta (si veda qui e qui). Sebbene non ci siano fonti pubbliche chiare in materia, sembra che parte della sperimentazione militare che vede nella Cucchiara interlocutore strategico ruoti, oltre che nella cybersicurezza, intorno al mondo dell’aviazione e dei droni – un arma, quest’ultima, avviata alla produzione di massa il cui potenziale è già stato sperimentato sui fronti ucraino e mediorientali, che sarà protagonista nei futuri scenari bellici come il carrarmato nella Seconda guerra mondiale – che incontra i vari tentativi di Confindustria e della Regione emiliano-romagnola a governo PD di sviluppare un distretto locale dell’aerospazio.

4. Unimore, imprese e politica a sistema per il profitto

A questo punto però è necessaria una precisazione, senza la quale si rischia di fraintendere il senso del quadro descritto. La prossimità della nuova rettrice di Unimore ad articolazioni di Israele e ad apparati della NATO non può prescindere dall’ambito della politica istituzionale, con cui sussistono solidi collegamenti e internità. Dal “curriculum” leggiamo infatti una fitta lista di importanti incarichi istituzionali sia con il governo Conte I (“giallo-verde” a trazione M5S e Lega), sia con il governo Conte II (il cosiddetto governo “giallo-rosso” con M5S e PD), sia infine con l’attuale governo Meloni. È possibile notare, quindi, che il raccordo con il mondo della decisione politica (e quindi con le risorse e i finanziamenti statali e comunitari) non vada ridotto solo a una precisa visione ideologica o a un’adesione a un determinato partito politico.

Tuttavia, nel contesto modenese ed emiliano, è con il sistema radicato del partito che governa il territorio e lo sviluppo, il PD, che sussistono le maggiori relazioni e affinità.

Per quanto riguarda la politica di Modena, i giornali avevano fatto circolare nell’ottobre 2023 l’ipotesi di una candidatura della Cucchiara a sindaco per il Partito Democratico favorita nientemeno che dall’allora presidente (modenese) della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini; sebbene a questa eventualità non seguirono prese di posizione esplicite, il ruolo raggiunto difficilmente la può vedere estranea a collegamenti, appoggi, internità all’area politica del PD che governa il territorio e il suo sviluppo, in sintonia con l’università.

Vale la pena menzionare, a tal riguardo, almeno due eventi particolarmente rilevanti se declinati nell’ottica di rilevare i legami politici della nuova rettrice, e come questi ultimi vengono contestualizzati nel panorama universitario e industriale emiliano e modenese, nell’ottica di interpretarne le presenti e future trasformazioni.

Cucchiara ha preso parte all’iniziativa organizzata dal PD “Impresa & ripresa: il ruolo delle PMI nel Next Gen EU”, tenutasi il 15 Luglio 2021, finalizzata a rafforzare il tessuto produttivo europeo, con tema centrale il ruolo delle PMI – baricentro dell’economia italiana, con particolare rilevanza nel triangolo industriale lombardo-veneto-emiliano – nel rilancio economico postpandemico. L’intervento portato da Cucchiara ha visto come principale punto di attenzione il profondo scollamento, nel nostro Paese, tra innovazione, con focus su quella universitaria relativa all’AI, e apparato industriale, spesso incapace di assorbire conoscenza e pratiche/tecnologie innovative. La rettrice ha dunque auspicato a una sempre più stretta collaborazione tra centri di ricerca universitari con aziende, figure manageriali, amministrazioni locali, anche in ottica di uno sviluppo tecnologico che non si pieghi a una mera acquisizione da soggetti internazionali distaccati dal territorio, e che permetta quindi di rientrare competitivamente nelle catene del valore globali. Tra gli altri, all’evento hanno presenziato Enrico Letta (allora segretario del PD), Andrea Orlando (allora ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel governo guidato da Mario Draghi), Cesare Fumagalli (ex segretario generale di Confartigianato imprese) e Anna Ascani (allora sottosegretaria di Stato al Ministero dello Sviluppo economico).

Un secondo evento sicuramente di rilievo nell’andare a tracciare i legami tra la rettrice e pezzi di Partito Democratico è la convention del 22 luglio 2023 di Energia Popolare, corrente/area di Stefano Bonaccini – ex presidente della regione Emilia-Romagna, ora mandato a curare gli interessi della borghesia locale a Bruxelles come eurodeputato – interna al partito. In tale circostanza Cucchiara ha tenuto il proprio intervento su un piano di analisi di più alto livello, andando a rispondere alla domanda “Perché la politica si deve occupare di AI?” Ha sottolineato quindi come l’AI rappresenti di per sé un “fatto politico”, facendo riferimento al documento “AI for Europe”, votato e firmato il 25 aprile 2018 dagli Stati membri della Comunità europea, che sancisce l’importanza che l’intelligenza artificiale riveste in relazione alle scelte politiche dei nostri paesi. La rettrice riprendeva il documento in questione specificando in particolare come la rivoluzione tecnologica dell’AI dovesse coniugarsi con i “nostri” valori “etici”, di “democrazia”, di “diritti umani”, di “privacy” e ci capacità di gestire i dati personali.

Queste affermazioni in particolare, tolta l’ipocrita retorica progressista ormi ristagnante, generano sicuramente non pochi contrasti con la realtà concreta e pubblica di una stretta collaborazione tra UNIMORE da una parte e articolazioni di Israele e della Nato dall’altra, impegnati in prima linea nel genocidio della popolazione palestinese e nella guerra per procura contro la Russia cercata, scatenata e sostenuta dall’imperialismo delle consorterie euroatlantiche. Collaborazione attuata proprio tramite progetti e laboratori spesso diretti dalla Cucchiara, messi al lavoro, insieme allo sviluppo dell’AI, per la «fabbrica della guerra», per un sistema che produce e riproduce sfruttamento e guerra come ultima spiaggia della valorizzazione capitalistica e del dominio imperialista, schiacciando qualsiasi sedicente valore etico, democrazia, diritto e privacy a seconda dell’interesse e del profitto del momento.

Crediamo sia importante considerare questi eventi e collaborazioni non come un posizionamento strettamente ideologico da parte di Cucchiara, ma come segnali di un legame continuativo e strategico tra la rettrice e le forze politiche che sul territorio modenese ed emiliano rivestono un ruolo decisionale di primo piano nell’ottica di una sempre crescente integrazione tra università, sistema d’impresa dipendente da una ricerca pubblica “messa a profitto” e accodata al trend del dual use civile-militare, e ristrutturazione industriale del territorio in funzione dello sviluppo bellico.

5. Capitalismo in Stato di guerra

Ciò che va osservato nell’apparentemente contraddittorio, passaggio continuo della rettrice dalla destra alla sinistra è la necessità del suo ruolo di stabilire un legame con le forze politiche che si candidano a gestire il potere ai diversi livelli della società e che vedono nell’intelligenza artificiale un elemento strategico.

Come la Cucchiara stessa scrive su «Gnosis» (rivista ufficiale dell’AISI, Agenzia informazioni e sicurezza interna, ossia l’erede del SISDE), parlando del laboratorio AIIS da lei diretto, «nato sotto l’egida del Dipartimento delle informazione per la sicurezza», l’obiettivo dichiarato è di «rafforzare la crescente cooperazione tra ricerca e industria e tra ricerca e istituzioni».

Politico ed Economico trovano punto di mediazione, raccordo e sintesi nello Stato, che attraverso le sue articolazioni li organizza a sistema. In Emilia possiamo vedere, attraverso il punto di osservazione del laboratorio università e dell’indirizzo rappresentato dalla rettrice Cucchiara, la messa a sistema delle esigenze capitalistiche di rilancio di un’accumulazione locale in affaticamento o che rischia di perdere l’aggancio agli anelli alti delle catene globali del valore con il quadro politico dell’avvicinamento e quindi della preparazione a uno scenario di guerra che vede già impegnato lo Stato nella mobilitazione delle sue risorse (obiettivo del 5% del Pil alla Difesa a scapito della spesa sociale, legislazione repressiva del dissenso e della conflittualità interna con il DDL sicurezza, militarizzazione delle decisioni e dei territori in prossimità di strutture energetiche, logistiche, produttive e militari sensibili come il futuro impianto di accumulo energetico di San Damaso, progetti di formazione e propaganda militare nelle scuole, ipotesi di ripristino della leva, eccetera).

Nel nostro territorio, uno degli apici dello sviluppo industriale italiano insieme a Lombardia e Veneto, infatti, la scienza prodotta dalla mano pubblica attraverso l’università, la ricerca, la formazione e il lavoro di ricercatori, serve per essere infusa nella produzione di merci delle imprese – sopperendo una quota di investimenti in ricerca e sviluppo aziendali tra le più basse d’Europa, in particolare nelle medio-piccole imprese che si concentrano nel tessuto industriale emiliano – le quali nell’accesso a programmi di sviluppo tecnologico e mercati ad alto valore aggiunto possono trovare la porta d’ingresso ai piani più alti e redditizi delle catene del valore, quelle filiere in cui spesso hanno maggior peso gli asset immateriali (design, marketing, brevetti, datasets, ecc.).

E quale settore più redditizio, in tempi di guerra imperialista, che l’industria militare, con cui la guerra viene materialmente preparata? Con tutto il corollario di merci, produzioni, subforniture visto come volano per trainare fuori dai guai un capitalismo in crisi di valorizzazione.

6. Dal laboratorio alla fabbrica della guerra: il pivot militare

A fianco del laboratorio università, spetta dunque alle amministrazioni politiche cittadine e regionali plasmate e occupate dal PD – utilizzando anche “cinghie di trasmissione” come la Cgil, la cooperazione, l’associazionismo progressista tipico della società civile emiliana –  il ruolo di governare e armonizzare lo sviluppo di questa fabbrica sociale che è il nostro territorio in «fabbrica della guerra», coordinando, mediando, i processi decisionali, attirando flussi di capitale, indirizzando saperi “spendibili”, oltre che organizzando il territorio e la sua forza-lavoro a essere “più competitivi”, “più specializzati”, “più pacificati” rispetto ad altri, e gestire le inevitabili ricadute negative sulla composizione sociale di cui facciamo parte e sull’ecosistema già martoriato e nocivo in cui viviamo.

Non è strana, dunque, la timidezza delle burocrazie e delle strutture dei sindacati concertativi “di Stato” (Cgil-Cisl-Uil) verso i processi di rinconversione in senso militare dell’industria emiliano-modenese, o l’inconsapevolezza di questi processi da parte degli stessi delegati sindacali dentro le fabbriche: il complesso militare-industriale porta commesse, quindi lavoro, spesso anche specializzato, quindi magari a più alto salario in un frangente di scarsa disponibilità di manodopera qualificata o giovanile disposta a introiettare tempi della fabbrica e “status” operaio. E lavoro, per i sindacati, vuol dire rappresentanza, e quindi coinvolgimento in tavoli istituzionali, tavoli di trattativa, tavoli per stilare accordi. Tavoli per controllare la forza-lavoro e dare un senso alla propria esistenza nel suo rapporto con le parti Confindustria e Stato.

Il “modello Emilia” è stato un modello di sviluppo peculiare che, dal dopoguerra agli anni Ottanta, ha proiettato il sistema economico della regione dal sottosviluppo agricolo a punte d’avanguardia dell’industria internazionale. E ricordiamo che le basi di questo sviluppo industriale, a Modena, sono state posto da acciaierie e fabbriche messe al lavoro per la produzione bellica fin dal primo Novecento. Oggi, dopo il passaggio di crisi del 2008 e dentro le temperie prima pandemiche e poi belliche che dal 2020-2022 stanno ridefinendo il sistema della globalizzazione, anche l’Emilia è investita da un processo di riconfigurazione dagli esiti non scontati, e insieme ad essa Modena. A partire dalla crisi dell’industria tedesca, in particolare l’automotive, a cui pezzi non secondari di industria modenese ed emiliana sono strettamente legati da rapporti di subfornitura. E dalle necessità geopolitiche dell’egemone americano di reshoring e friendshoring, ovvero di ricostituzione interna al campo NATO – o di paesi “fedeli” e “sicuri” selezionati in esso, tra cui l’Italia sembra ambire la posizione – di una base industriale, di catene della produzione, in particolare nel settore militare, che la fase superata di globalizzazione ascendente (1989-2008) ha disperso e allungato in giro per il mondo. Un mondo, oggi, non più pacificato sotto l’indiscutibile dominio degli Stati Uniti e del suo prolungamento Occidente, ma che a Washington sono determinati a far rimanere tale. Preparandosi alla guerra.

In tale contesto l’opportunità, che si fa urgenza, di ammodernare i settori, le filiere e le lavorazioni di punta utilizzando il pivot militare, con buona pace di quello stuolo di imprese (ancora troppo piccole o arretrate, obsolescenti di managing, con forza lavoro dequalificata e scarsamente presenti nei mercati internazionali) che non avrà capacità, canali e capitali per stare al passo se non un’ulteriore dequalificazione, sfruttamento e comando sul lavoro.

Di qui il peso specifico che acquisisce sempre di più, dentro l’istituzione Unimore, il dipartimento di Ingegneria, e l’importanza sistemica di figure di raccordo come la rettrice Cucchiara, con la sua rete di contatti internazionali “dual use” (civili e militari) nei settori strategici più avanzati di sviluppo tecnologico e a più alto valore aggiunto, tra cui figurano colossi dei semiconduttori e dell’Intelligenza artificiale di calibro geopolitico come NVIDIA.

7. Intelligenza artificiale: dalla Motor alla Silicon valley emiliana?

Dal punto di vista capitalistico, solo se si riconfigura integrando vocazione manifatturiera e ricerca tecnologica, produzione e brevetti, utilizzando l’occasione del pivot del militare, l’Emilia può continuare a garantire alla sua imprenditoria di restare a galla in un Italia e in un’Europa strette nella morsa della crisi globale. Ancor meglio se una singola lavorazione o un singolo brevetto può prestarsi contemporaneamente a più settori: ecco il senso del valore strategico del dual use, ossia della capacità di un prodotto di venire utilizzato sia per il mercato civile che per quello militare.

Non sorprenderà dunque che la rettrice Cucchiara sia nel CDA di ART-ER, il consorzio della Regione finalizzato a rafforzare la proiezione internazionale e la produttività delle imprese e della ricerca locali e nel gruppo di lavoro del Programma Strategico per l’Intelligenza Artificiale 2022-2024. Si noti che a entrambi è da ricondurre la “Data valley” di Bologna, ossia un reticolato di imprese e servizi legati all’elaborazione di dati orbitante intorno al supercomputer Leonardo di Cineca: un progetto dal costo stimato di 240 milioni di euro, che fornisce l’infrastruttura materiale anche per le sperimentazioni sviluppate a Modena.

Peter Thiel, fondatore di Palantir, tecno-oligarca della Silicon Valley e ideologo neoreazionario dell’amministrazione Trump, spiega che, come molti altri investitori di alto profilo, ha deciso di scommettere sull’AI perché senza di essa non resta nient’altro: nessun segno di progresso, nessuna immagine del futuro. Nessun nuovo ciclo di sviluppo in grado di superare la grande stagnazione. Nelle sue parole è palpabile una certa disperazione capitalistica.

Per il capitalismo in crisi l’Intelligenza Artificiale è considerato come elemento decisivo, ultima spiaggia attraverso cui far valorizzare flussi di capitali altrimenti in marcescenza: sia nella ristrutturazione della base produttiva nazionalee nel suo riorientamento verso l’estrazione di plusvalore; sia per la cattura di capitali internazionalizzati da mettere a valorizzazione attraverso investimenti; sia nella riconfigurazione della divisione internazionale del lavoro, in cui la competizione tecnologicatra Stati Uniti (e Occidente) e quella dei suoi avversari (su tutti, la Cina) diventa immediatamente una forma di scontro geopolitico esistenziale.

8. Alcune piste aperte di ricerca politica

Grande crisi significa grande guerra nella storia del capitalismo contemporaneo. Oggi, di fronte a tutti, sembra stagliarsi questo passaggio d’epoca. Non sappiamo quanto grande crisi sociale comporterà, se sarà possibile dopo di esso un ritorno di grande ciclo di sviluppo, e se questo passaggio sarà segnato dal ritorno in grande di lotta di classe e lotta politica. Per quanto ci riguarda, il «che fare?» riguarda come starci dentro a questo passaggio. Dentro al nostro tempo, ma contro di esso. Non si tratta di negare quello che è. Si tratta di anticiparlo e, passateci un’immagine, surfarlo. Prenderne atto senza lasciarsi subordinare dalla sua logica. Rovesciandolo nell’occasione che rimette in discussione, ancora prima che il sistema di produzione e il rapporto di potere, il nostro modo di osservare e agire nella complessità del mondo con punto di vista di parte, a partire dai territori e dalle contraddizioni dove siamo socialmente collocati. Alla ricerca di una forza collettiva possibile in grado di farne una scadenza e un passaggio in avanti, di ricomposizione e organizzazione di momenti di attacco e di rottura, di costruzione autonoma di nuove prospettive di fuoriuscita da questa «fabbrica della guerra» che è il modo di produzione capitalistico, la sua forma di vita e il suo modello di società, a partire dai sui «laboratori» più avanzati, come appunto l’università.

Considerate dunque le trasformazioni, dentro e fuori i muri dell’università, in cui il nuovo rettorato dell’Unimore si inserisce e di cui è espressione, si aprono piste di ricerca del conflitto su cui continuare l’inchiesta, dentro il «laboratorio della guerra», reparto baricentrale della «fabbrica della guerra» del nostro territorio. Qui, in conclusione, ne elenchiamo alcune, da ampliare e mettere a verifica nel proseguimento dell’inchiesta.

Composizione studentesca e forza-lavoro dentro l’università.

Quale ruolo e consapevolezza, dentro le trasformazioni dell’università, hanno studenti e lavoratori, in particolare ricercatori, assegnisti di ricerca, dottorandi più o meno precari, coinvolti e messi al lavoro per il «laboratorio della guerra»? Come cambiano la fruizione dell’università e le aspettative studentesche verso di essa in relazione alla «fabbrica della guerra», alla propria formazione in funzione del «dual use», ai percorsi lavorativi interni o coinvolti nel complesso militare-industriale? I lavoratori verranno coinvolti più strettamente, anche grazie a miglioramenti di posizione e di condizione, o il loro lavoro ulteriormente impoverito di autonomia e sfruttato attraverso meccanismi di precarietà? Sono possibili in tale frangente comportamenti di rifiuto della propria condizione e della propria messa al lavoro per la guerra? E di che tipo, su quali basi e in quali settori?

Trasformazione della città e del territorio.

Come si trasformeranno la città di Modena (e il suo territorio allargato alla provincia) a fronte dell’importanza sempre più crescente nel sistema regionale, nazionale e internazionale della propria università in «laboratorio della guerra», di cui Ingegneria avrà sempre più un ruolo preminente? Che tipo di composizione studentesca e lavorativa attirerà, con quali aspettative, a quali condizioni abitative e di possibilità di reddito? Che tipo di infrastrutture dedicate andranno a impattare – e come – sulla popolazione studentesca e cittadina, a fronte di speculazioni edilizie di “studentati” monstre (quello sull’area delle Ex-Officine Corni in via Fanti e via Benassi nel quartiere Sacca) o di lusso, con sventramento e gentrificazione dei quartieri del centro in funzione di movida e turismo (come la trasformazione di via Carteria e zone limitrofe a S. Eufemia, praticata attraverso la cinghia di trasmissione dell’associazionismo progressista), e con quali contraddizioni? Che effettivo ruolo e funzione hanno certe opere impattanti, imposte dall’alto con la scusa della transizione energetica, come il progetto di impianto di accumulo energetico BESS di San Damaso?

Lavoro e fabbrica della guerra.

Che tipo di lavori, con che qualità e salari, si verranno a creare sul territorio trasformato in «fabbrica della guerra» attraverso la filiera del complesso militare-industriale? Che tipo di formazione scolastica e universitaria, tecnica e specialistica, necessiteranno? La piccola-media impresa riuscirà a inserirsi nel processo di riconversione, e come, o assisteremo a processi di ulteriore accentramento? Che tipo di figure operaie e/o tecniche saranno baricentrali in questa settore di produzione? E quale sarà il peso specifico degli ingegneri e tecnici formati dall’Unimore? L’espansione del complesso militare-industriale nella filiera meccanica e metalmeccanica modenese produrrà più scomposizione e frammentazione a livello di classe (salari e inquadramento alti per determinate figure insieme a maggior sfruttamento e dequalificazione per altre) come gestione della crisi o più ambivalenze da poter piegare dentro a un processo di rinnovato sviluppo? Che ruolo avranno i sindacati confederali “di Stato” (Cgil-Cisl-Uil) dentro questo processo e quali possibilità di attivazione conflittuale fuori, oltre, di essi?

Soggettività politica

In un contesto peculiare come Unimore (divisa tra le sedi di Modena e Reggio) che ha sempre faticato a esprimere momenti e spazi conflittualità, perfino dentro le facoltà umanistiche, come si trasforma la composizione studentesca e le soggettività che esprime? Come può e deve cambiare – se è possibile – la militanza politica dentro l’università trasformata in «laboratorio della guerra»? Può essere lo spazio STEM, intrecciato ai più alti processi di sviluppo e trasformazione descritti, essere ambito dove ricercare ambivalenze e potenziali soggetti conflittuali? Attraverso quali canali, linguaggi e forme organizzative? E le figure studentesche delle facoltà umanistiche come si collocano in questo contesto? Quali salti in avanti di metodo e formule organizzative sono necessari per ambire all’altezza dei processi che si vogliono aggredire, sabotare e rovesciare? È possibile pensare percorsi e processi di trasformazione dell’università di Modena da «laboratorio della guerra» a «laboratorio delle lotte»?

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Discorsoni / Analisi

Antonio Alia – «Un po’ di ansietta, ragazzi?» Per una lettura politica della condizione giovanile

«Stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo».

Mario Tronti, Dello spirito libero.

Un bel mondo di merda, non c’è dubbio. Che la guerra sta portando sull’orlo della crisi di nervi. O viceversa.

Guerra. Crisi. Nervi. Dei primi due abbiamo già parlato. Il mondo di domani e il destino della globalizzazione; i figli della crisi e la scuola di oggi. Era giunta l’ora di parlare di nervi. Ansia, angoscia, sofferenza mentale. Un vissuto sempre più diffuso, quasi pandemico. Che sembra attanagliare soprattutto i giovani. O che essi – grazie alla loro età, unita a una maggiore consapevolezza e a una meno pressante assuefazione – riescono a far emergere in modo più radicale. Perché loro necessità, bisogno. Chi ci ha raggiunti, nonostante la stanchezza, le pressioni e l’ansia di un quotidiano senza tregua già a sedici anni, lo ha fatto non a caso, evidentemente.

Abbiamo voluto provare a costruire un punto di vista di parte. Il metodo che sempre ci muove: mettere in prospettiva, produrre discorso politico, stimolare formule organizzative. Ma prima di tutto, inchiestare. Individuare le domande, saper ascoltare. Tentare di trovare le risposte nel processo. Ci interessava una lettura politica dell’ansia, legata alle trasformazioni produttive, all’individualizzazione del disagio, alle nuove logiche del comando. Andare dallo psicologo va benissimo, ma non può essere una soluzione per problemi politici. Denunciare la catastrofe siamo capaci tutti, il difficile è capire con chi dobbiamo prendercela. Invece di diventare specialisti del malessere, rendere un’arma il punto di vista – lo sguardo parziale di chi, come militante politico, può rovesciare il proprio destino.

Il disagio giovanile c’è sempre stato. Perché oggi la forma organizzata, collettiva, sembra non essere più sentita come una risposta? Che tipo di aspettative stanno circolando nella composizione giovanile? Quanto sono diverse rispetto alle sue stratificazioni? E se le aspettative sono cambiate, cosa succede quando si apre uno scenario di guerra che ci riguarda da vicino, su differenti scale ma concreto? Sono alcune domande che ci hanno mosso. Con la consapevolezza che l’ansia, in qualche modo, ce la teniamo in questo mondo di merda, perché disfunzionali al sistema che ci produce. Ce l’abbiamo tutte e tutti in comune, chi più, chi meno, sicuramente in forme diverse.

E allora cosa ce ne facciamo? Come possiamo giocarcela insieme? Come cominciamo a farla venire ai padroni, a chi comanda, a chi ci vuole deboli, isolati e rassegnati? Lottare, lo sappiamo bene, ha sempre comportato ansia e inquietudine. Ma essere compagni, per noi, significa soprattutto questo: fronteggiarla insieme, rovesciandola in forza e militanza.

Pubblichiamo qui l’intervento di Antonio Alia, educatore e redattore della rivista «Commonware», che ha aperta la discussione del primo ottobre. Nonostante questo bel mondo di merda, buona lettura.

 

Antonio Alia

Ringrazio i compagni di Kamo per avermi invitato ad intervenire a questo dibattito. Dato che si parla di giovani e a farlo è un quarantenne, tenterò da un lato di non assumere un atteggiamento giovanilista, per cui tutto quello che fanno i giovani è buono di per sé, e dall’altro di evitare un certo paternalismo, per cui quello che fanno i giovani oggi è sempre sbagliato. Allo stesso tempo cercherò di barcamenarmi nel difficile ruolo di chi deve introdurre un dibattito sui giovani senza però parlare al posto loro, cercando di non spiegare a loro quello che probabilmente conoscono meglio di me. Vorrei quindi limitarmi a sollevare delle questioni, e a problematizzarne delle altre per aprire un confronto e verificare delle ipotesi.

Partirei dalla definizione di una parola che è stata usata nel testo di lancio di questo dibattito, non perché sia un esperto in materia ma perché mi sembra un modo utile per approssimare i problemi. La parola è ansia.

Parola che non è stata scelta a caso, perché da quello che mi raccontano amici e compagni che lavorano nelle scuole, ma anche da quello che viene raccontato sugli organi di stampa e rappresentato nelle serie tv, pare che l’ansia sia un tratto generazionale. Mi piacerebbe capire con voi, nel corso di questo incontro, se questo è un tratto effettivamente reale, quanto diffuso, quali le fasce giovanili maggiormente interessate, quali le cause ambientali, oppure se si tratta di una semplice rappresentazione mediatica. Certo va detto che deve essere sentito come un problema diffuso se la richiesta di servizi psicologici è stata presente anche nelle rivendicazioni di alcune delle più recenti mobilitazioni studentesche. Su questa rivendicazione ci torno più tardi.

Proprio perché non sono un esperto sono andato a cercarmi su internet le definizioni di ansia. Ne riporto due: una tratta dal sito dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia comportamentale e una da Wikipedia, che a sua volta cita il manuale diagnostico delle malattie mentali dell’associazione psichiatrica americana. Si tratta insomma di fonti relativamente attendibili.

La prima definizione è la seguente: «Ansia è un termine largamente usato per indicare un complesso di reazioni cognitive, comportamentali e fisiologiche che si manifestano in seguito alla percezione di uno stimolo ritenuto minaccioso e nei cui confronti non ci riteniamo sufficientemente capaci di reagire».

La seconda definizione è questa: «L’ansia è uno stato psichico di un individuo, prevalentemente cosciente, caratterizzato da una sensazione di intensa preoccupazione o paura, relativa a uno stimolo ambientale specifico, associato a una mancata risposta di adattamento da parte dell’organismo in una determinata situazione che si esprime sotto forma di stress per l’individuo stesso».

Il primo elemento da trattenere di queste definizioni è che l’ansia è generata da fattori ambientali. Il secondo elemento è che questo stato emotivo e cognitivo ci rende incapaci di agire. Il terzo elemento è che è associato a una mancata risposta di adattamento in una determinata situazione ambientale.

A me pare che sia un po’ difficile negare che questi tre elementi non abbiano una connotazione squisitamente politica, dove per politica intendo che hanno a che fare con il funzionamento della società in cui ognuno di noi è collocato. E già dire questo ci porta a delle conclusioni particolarmente radicali rispetto alla cura. Ma procediamo con ordine.

Quali sono allora questi funzionamenti sociali che generano ansia? Ce ne sono di diversi. Azzardo delle ipotesi che servono soprattutto a individuare una genealogia al problema dell’ansia giovanile. Naturalmente al netto di una ricostruzione storica, le mie sono solo delle ipotesi che partono dalla mia percezione, che non è uguale alla vostra perché abbiamo età diverse e siamo collocati in posizioni sociali diverse. Quindi mi piacerebbe capire cosa ne pensate.

A me sembra che una delle cause più importanti della produzione di ansia, che è la risposta emotiva che anticipa una minaccia futura, sia non tanto l’incertezza per il futuro, perché il futuro è incerto in quanto tale, ma l’imprevedibilità dei costi e dei benefici futuri che possono comportare alcune scelte di vita (il tipo di scuola, per esempio) o di condotta (l’impegno nello studio, altro esempio). Voglio dire che una quota consistente dell’ansia è dovuta all’incremento dei rischi scaricati sugli individui e all’esaurimento dell’efficacia dell’agire strumentale (come dicono i sociologi), ovvero che il rapporto tra mezzi e fini si fa sempre più incerto: per esempio, non è una certezza che il mio impegno nello studio mi porti in futuro risultati soddisfacenti. Questa situazione però non è un dato di natura. Non è sempre stato così, e quindi non è detto che debba essere così.

C’è stato un periodo storico in cui bene o male le biografie individuali erano pressoché già determinate o standardizzate, la rosa delle scelte di vita era limitata e con essa anche il livello dei rischi. Ciò avveniva in virtù di un’organizzazione sociale imperniata sul lavoro salariato “standard”. La fabbrica, con la sua rigidità, organizzava la società. Era il cosiddetto compromesso fordista-keynesiano, che si basava sullo scambio tra legittimità sistemica e prospettive di vita più o meno sicure.

Le lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta se da un lato hanno imposto standard sempre più alti per questo compromesso, dall’altro lo hanno anche radicalmente messo in discussione. Queste lotte sono state importanti non tanto perché hanno conquistato dei diritti o dei salari più alti, ma perché hanno messo in discussione il fatto che per campare, in una società capitalista, si debba vendere la propria forza-lavoro. Gli operai si rifiutavano di essere operai, schifavano l’essere operai, schifavano la vita già segnata dalla fabbrica. Stessa cosa si poteva dire per le donne, che rifiutavano la collocazione nel lavoro domestico imposta dalla divisione del lavoro centrata attorno alla fabbrica. Vi suggerirei di leggere un bellissimo romanzo, che a me è servito più di mille saggi, che ha un titolo bellissimo: Vogliamo tutto di Nanni Balestrini.

Questo rifiuto del lavoro di fabbrica non si è trasformato in una rivoluzione. È stato sconfitto dai padroni, ma non con la semplice repressione, che pure c’è stata (anche perché se non c’è significa che non si è riusciti a far paura al nemico), ma per assimilazione. I padroni hanno detto: volete la libertà dalla catena di montaggio, dalla sua noia? Non c’è problema, potete arricchirvi tutti, potete diventare tutti imprenditori di voi stessi, aprirvi start-up, fare i youtubers, oppure usare i vostri saperi, le vostre competenze, la vostra intelligenza per farvi spazio in un mercato del lavoro competitivo. Sappiate però che tutti i rischi del caso sono a carico vostro. Se fallite, la responsabilità è solo vostra, anche se i rischi delle scelte non sono uguali per tutti.

È il mondo della meritocrazia. È chiaro che questa è una mistificazione: la libertà dalla catena di montaggio è diventata precarietà; la potenza del sapere è diventata “capitale umano” e più che possederlo ne siamo posseduti, tant’è che per valorizzarlo, per non restare indietro nella corsa, siamo costretti ad accumulare titoli di studio e credenziali formative che perdono sempre più valore proprio nella misura in cui continuiamo ad accumularli; infine, senza neanche starlo a sottolineare, dobbiamo continuare a vendere la nostra forza lavoro a qualcuno o sul mercato.

Qui aggiungerei un elemento di critica culturale: il trapper che canta al mondo quanto è figo per aver fatto i soldi con le sue canzoni o con le attività illegali non si sottrae a questa logica individualistica. Non ha proprio nulla di rivoluzionario, anzi direi che tra lui e un Carlo Calenda o un Elon Musk qualsiasi non c’è alcuna differenza, perché resta in una logica tutta individuale del successo.

Un altro elemento ambientale che possiamo rintracciare tra le cause di questa ansia generalizzata è la trasformazione dello stile di potere all’interno della scuola – ma più in generale nei vari ambiti della società – da paternalista a maternalista, come Gigi Roggero diceva in un altro incontro organizzato dai compagni di Kamo. Come sostiene Gigi, il maternalismo non è né peggio né meglio del paternalismo, è semplicemente diverso. Se il paternalismo agiva usando il bastone e la carota per governare le anime, il maternalismo per farlo usa la relazione interpersonale, le qualità emotive, e genera ansia perché funziona secondo la logica del debito morale, sul ricatto della delusione. Il paternalismo ti dice che non puoi fare una certa cosa o che ne puoi fare una cert’altra; il maternalismo ti dice invece «non mi deludere». In questo senso l’ansia mi sembra non tanto una conseguenza accessoria, ma un fine specifico delle relazioni di potere in questi ambiti della riproduzione, sia della forza lavoro che capitalistica.

In qualche modo, quindi, mi sembra che si possa dare una lettura politica dell’ansia intesa come il costo dell’incertezza sistemica scaricata verso gli individui. A questo elemento se ne accompagnano poi tutti degli altri che sono oggetto di cronaca: la guerra, la crisi economica, e così via. Con questo non voglio dire che prima era meglio, perché come abbiamo visto quel prima è stato invece oggetto duramente contestato da lotte; voglio invece che dire che oggi è diverso e che questo diverso va messo bene a fuoco.

Il secondo elemento da riprendere dalle definizioni è che l’ansia ci rende incapaci di agire. Da un lato c’è anche questo effetto, chi ha sperimentato un problema d’ansia anche piccolo sa che ha il potere di immobilizzare. Dall’altro, poiché il capitale ha bisogno del nostro agire produttivo, più che immobilizzare l’ansia accresce la nostra accettazione. Quando sentiamo la minaccia del futuro accettiamo più facilmente lo stato di cose semplicemente perché ci offrono un minimo di sicurezza. In questo senso l’ansia è proprio un dispositivo di governo. E tutto questo parlare di ansia, di patologie, sui giornali, sui social, nelle serie tv, alla fine anche se dà l’impressione di essere una forma di critica della società non fa che produrre accettazione.

Un soggetto ansioso ha bisogno di cure, di aiuto, è infantilizzato, è vittima e non ha autonomia. Quindi l’ansia invece di spingerci a rompere con il funzionamento di un sistema ci porta a chiedere la sua protezione. È soprattutto per questo che, per esempio, dovremmo stare attenti quando usiamo la categoria di catastrofe (ambientale o sociale poco importa). Che non significa negare l’esistenza di un grave problema, né l’urgenza della sua soluzione, ma significa criticare l’ordine del discorso catastrofista, la retorica della catastrofe che pure ha degli effetti materiali sulle nostre vite, perché immobilizza.

Infine il terzo elemento delle definizioni è che l’ansia è associata a un mancato adattamento ad una certa situazione ambientale. Questa parte della definizione mi sembra quella più ideologica, perché implicitamente ci suggerisce che nel caso di una frizione tra l’individuo e il contesto è l’individuo a doversi adattare e non il contesto a doversi trasformare. E la psicologia è lo strumento con cui produrre questo adattamento. Qui però bisogna fare attenzione: quando dico che la psicologia ha una funzione ideologica non intendo dire che non funziona. Al contrario, la psicologia ha una connotazione ideologica proprio nella misura in cui funziona. Infatti, funzionando efficacemente e quindi risolvendo il problema della frizione tra l’individuo e l’ambiente, produce contemporaneamente una mistificazione, cioè nasconde la natura sociale del problema, individualizza il problema e la sua soluzione, salvando il funzionamento del sistema.

Non è un caso per esempio che nelle industrie della riproduzione come quella dove lavoro io, le aziende paghino una psicologa per condurre delle supervisioni relazionali che servono per risolvere i conflitti interni al gruppo di lavoro, o per alleviare l’impatto del carico di lavoro sulla tenuta psichica dei lavoratori. È evidente che attraverso la psicologia problemi di ordine politico (la relazione di potere all’interno del posto di lavoro) e sindacale (i ritmi e il carico di lavoro) vengono trasformati in problemi individuali e psicologici. È un grande inganno a cui si aggiunge un altro elemento: l’apertura emotiva del lavoratore, il conforto “caldo” che in questo spazio maternalista si può trovare produce nel lavoratore fedeltà nei confronti della mission aziendale e senso di colpa per aver titubato, per non averci creduto, e quindi infine accettazione.

Da questo punto di vista la psicologia è la nuova scienza padronale, contro la quale dobbiamo ancora affinare la critica, mentre vedo che fioriscono discorsi su fantomatiche “società della cura” completamente decontestualizzati, e cioè che non tengono conto del fatto che viviamo in una società capitalistica che non solo mette a valore questa cura ma la rende una forma del potere.

Infine mi sembra che i disturbi psicologici siano stati investiti da una potentissima estetizzazione. Pensiamo, ad esempio, a una serie tv come Euphoria, che ha avuto un grandissimo successo, oppure a come il disturbo psicologico viene raccontato sui social non solo da personaggi conosciuti ma anche dalle persone, soprattutto giovani, più comuni. Sembra quasi che se non hai un disturbo sei uno sfigato. Ecco, al di là della concretezza dei disturbi, mi sembra che questa estetizzazione serva a fornire, dentro un campo sociale segnato dalla frantumazione e dalla moltiplicazione delle identità, un ulteriore elemento di distinzione che può anche diventare un vantaggio competitivo, una sorta di capitale simbolico spendibile sul mercato del lavoro e nei processi di valorizzazione capitalistica, come accade già per esempio per le differenze nel campo delle identità sessuali.

So bene che, come dicevo all’inizio, in alcune mobilitazioni studentesche è stata presente la richiesta di servizi di cura psicologica, a dimostrazione di quanto questo ordine di problemi è sentito, e non è mia intenzione dare un giudizio di valore sulla qualità delle istanze che si muovono nelle lotte e nelle mobilitazioni (io e la mia generazione – per dire – abbiamo lottato durante il movimento dell’Onda sostanzialmente per quella schifezza che chiamiamo meritocrazia, e abbiamo visto dove siamo arrivati) ma se ci prendiamo il tempo di riflettere, di andare al fondo delle cose, non possiamo accontentarci di quello che si muove: dobbiamo sempre fare lo sforzo di guardare oltre, di radicalizzare lo sguardo per spingere un po’ più in là critica e la lotta.

Per chiudere direi questo. Un compagno con cui mi sono confrontato per preparare questo incontro – dovete sapere che le cose che dico sono sempre il risultato di ragionamenti collettivi, di cui mi faccio semplicemente portavoce – mi metteva in guardia rispetto al rischio di fare come gli psicologi. Vale a dire di fornire ai diretti interessati, e cioè ai giovani, un’interpretazione, ancorché politica, del sintomo, nel nostro caso l’ansia, e una soluzione facile, che potremmo tradurre nello slogan «ribaltiamo l’ansia contro i padroni», che può generare l’angoscia di non fare abbastanza.

Penso che questo slogan non sia tanto la nostra soluzione già pronta ma rappresenti invece il problema che abbiamo davanti. Forse in parte, ci dobbiamo tenere l’ansia di non sapere qual è il nostro modo di organizzarci e di lottare, perché solo così possiamo avere la libertà di sperimentare e di sbagliare, sapendo però che non stiamo iniziando nulla di nuovo, perché veniamo da lontano.

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La fabbrica sistemica. Sviluppo e ristrutturazione del «modello emiliano»

Partiamo da una premessa. Resta per noi ancora valido un vecchio assunto, che indicava nel medio raggio la collocazione del militante. Quel «livello intermedio tra l’alto e il basso, tra la teoria e la pratica, tra l’astrazione determinata del comando e la determinazione astratta della vita quotidiana». È sul medio raggio che il militante va a verificare le proprie ipotesi politiche verso il basso e a correggerle verso l’alto, determinando in questo modo linea politica e linea di condotta. Il medio raggio, quindi, è il livello fondamentale dell’agire politico, perché è l’unico nel quale la ricerca militante può anticipare, scommettendo, su ambivalenze dei soggetti e tendenze dei conflitti a venire, restando ancorata ai processi reali.

Con questo crediamo che il terreno per ogni sperimentazione politica lo si debba ricercare intorno alla nostra collocazione. Si tratta quindi di scandagliare il quotidiano finché questo non disegna una ragnatela di contraddizioni, abbastanza qualitative da prefigurare possibili conflitti, quanto più prossimi a noi per restare direttamente percorribili. Un’analisi storica, per esempio, ci offre strumenti pratici se e soltanto se ci vieta di vagabondare tra nostalgie del passato e fantasie dell’apocalisse. Allo stesso modo, una mappatura geografica dei rapporti di forza contemporanei che non ipotizzi punti specifici di intervento rischia di condurre a una sterile contemplazione della complessità universale, a un litigio con le stelle. E noi sappiamo che la complessità va posseduta, non ammirata.

Una prima fonte di informazioni e strumenti interpretativi più che compatibili con questa prospettiva l’abbiamo trovata in Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali (Deriveapprodi 2021), una raccolta di saggi rivolti alla descrizione dei cambiamenti nel tessuto produttivo dell’Italia settentrionale intercorsi negli ultimi vent’anni. Certo, nel libro non si avanza un progetto politico vero e proprio, se non con vaghi cenni a una volontà di riequilibrare il rapporto tra flussi di capitale e i luoghi di vita, una prospettiva riformistica che – è inutile dirlo – non ci compete, lasciandola volentieri ad altri. Ciononostante, il repertorio analitico ci pare decisamente chiaro, approfondito ed efficace nel riassumere processi multiformi, e quindi a facilitare quell’indispensabile lavoro di inchiesta che i militanti conducono (o dovrebbero condurre) nei propri spazi d’azione.

Il libro si compone, oltre che di un’introduzione di carattere generale, di studi focalizzati su singole aree transregionali – la superficie lombarda, il Nordest, i circuiti economici emiliano-romagnoli e il Piemonte postfordista – che si ritrovano accomunate tra loro per il fatto di reagire a trasformazioni capitalistiche in corso attraverso una medesima macro-traiettoria. Per quanto i contorni della fase a venire siano necessariamente indefiniti e in questi processi abbondino le specificità locali, possiamo riassumere l’attuale congiuntura nella centralità che assume il triangolo produttivo tra la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna (convenientemente soprannominato LO.VE.R), che in parte sostituisce il precedente trinomio Genova-Milano-Torino. A differenza dal precedente, infatti, il nuovo triangolo non fa affidamento ai suoi vertici, situati sulle grandi imprese dei capoluoghi, bensì ai suoi lati, tracciati da grappoli di imprese in evoluzione e poli metropolitani che attraggono risorse qualificate e servizi avanzati. Una diffusione territoriale, dunque, di logiche di valorizzazione industriali.

In questo contesto, sono le città di medie dimensioni a svolgere il ruolo di testa di ponte di tali dinamiche. Intorno ad esse si è infatti stabilita un’ossatura di attività terziare in continua espansione, che garantisce sia un collante tra provincia e grandi flussi di capitale, sia il rinnovamento selettivo delle vecchie città-distretto (a sua volta una momentanea risposta alla crisi del fordismo, ma costretta in ambiti manifatturieri non più all’altezza degli attuali livelli tecnologici o catene del valore), sia un parziale assorbimento di una popolazione in età lavorativa altrimenti eccedentaria. Le città medie si ritrovano quindi ad affrontare il compito di organizzare reti di connessioni per attrezzare i territori di canali di impiego e valorizzazione all’altezza di questo periodo confuso di transizione. A tal fine diventa indispensabile moltiplicare le traiettorie che conducano a stabilire delle clientele robuste internamente ed esternamente, facendo leva su una reale o presunta specificità territoriale. Per questo motivo grosse moli di investimenti monetari e umani sono state indirizzate non solo alla ristrutturazione delle attività manifatturiere locali, ma anche e soprattutto all’assorbimento e all’(iper)industrializzazione (concetto di Romano Alquati) di forme della riproduzione sociale, dell’abitare, della partecipazione cittadina e della vita pubblica che apparentemente sembrerebbero agli antipodi rispetto all’industria.

La fabbrica diffusa, il territorio-fabbrica, si disegna quindi come un reticolato interconnesso ed eterogeneo di poli produttivi, università, ospedali, utility, fiere, piattaforme digitali, grandi progetti di riqualificazione: insomma, come insieme di cluster economici attivi nelle sfere della riproduzione, dall’organizzazione del consumo e giù fino alle infrastrutture che garantiscono le condizioni della vita personale. Una volta ristabilita quale cuore nevralgico della struttura cittadina, questa circolazione di valore reindirizza a monte la produzione tradizionale di beni. È opportuno quindi sottolineare come non si stia parlando di un mero utilizzo opportunistico di retoriche progressiste o ecologiste da parte capitalistica (pinkwashing, greenwashing e simili), ma dell’integrazione reale di elementi chiave della socialità e della qualità della vita (dalla condizione abitativa e la salute alla salvaguardia naturale) come fulcro del rilancio del sistema capitalistico nelle sue forme più internazionalizzate e finanziarizzate. Ma questa ripresa ha il suo prezzo.

Accanto a questi agglomerati produttivo-residenziali in ascesa, si notano infatti un folto numero di coni d’ombra produttivi e di aree di fragilità demografica, che solo a fatica riescono a mantenere un ruolo attivo in una congiuntura di tal fatta, ritrovandosi comunque sempre sull’orlo del declino. Nonostante la fanfara mediatica dei mesi di lockdown, che starnazzava le virtù del ritorno ai borghi e la fuga dalle città, permane il rischio di marginalizzazione e spopolamento per mancanza di sbocchi impiegatizi e di servizi nei comuni appenninici o nella nebulosa di aree a mancata transizione industriale come la Bassa, favorendo l’insorgere di sensazioni e paure di proletarizzazione in pezzi di ceto medio che progressivamente paiono procedere verso un “secondo tempo” del momento populista (apparentemente) lasciatoci alle spalle. Il pendolarismo risulta sempre meno una risposta adeguata a fronteggiare questi deserti lavorativi e abitativi, e il ventaglio delle soluzioni alternative si assottiglia. Tuttavia, anche internamente a questi settori di progressivo svantaggio si osservano disomogeneità e tendenze ambigue.

In alcuni contesti, l’arretramento verso la marginalità e la retrocessione verso forme di lavoro arcaiche risultano compatibili o persino funzionali all’innesto dei canali di verticalizzazione transnazionali – come dimostrato dall’esempio ormai abituale dell’apertura dei magazzini Amazon (a Piacenza, Scandiano, Spilamberto, ecc.) nei comuni con tassi di disoccupazione a crescita più rapida – , mentre altrove si rilevano scenari di netta crisi, collocata nel punto di intersezione tra due diversi campi di forze capitalistiche. Da una parte, un reticolo di imprese locali moribonde, segnate da difficoltà decennali e ormai croniche; dall’altro le dinamiche delle economie globali. Ne derivano continue tensioni tra tendenze alla razionalizzazione o all’automazione e la presunta natura “sociale” e “umana” del capitalismo di territorio. Dove sfuma la possibilità di inserirsi in circuiti più ampi (i quali, inevitabilmente, imporranno le loro traiettorie), intere sezioni di lavoro e imprese sono semplicemente lasciate morire di stenti. Le frizioni si complicano poi ulteriormente osservando che se nel Nord metropolitano – grazie al quale si alimentano i grandi processi delle economie immateriali – la pandemia ha pesato nella maniera più tragica, nelle aree interne e interstiziali questa ha gravato proporzionalmente di meno, ma ha probabilmente accelerato processi di declino antropico e di isolamento.

Come si è visto, una volta adottata una lente temporale e spaziale di medio-raggio diviene possibile seguire più agilmente i contorni dei presenti squilibri nella conformazione urbana e nella composizione sociale, in un contesto nel quale il capitale tenta di sopravvivere alle proprie crisi mostrandosi pronto, dove necessario, a “mangiare se stesso”. Ma cosa vediamo nei nostri luoghi di vita e d’azione, vale a dire l’Emilia centrale e la provincia modenese?

Qui sono due i pilastri su cui si regge la ristrutturazione della produzione: l’innovazione pianificata dall’alto, sostenuta da specifiche policies regionali, e il continuo intreccio di coalizioni tra imprese e corpi intermedi locali in basso. Il meccanismo risulta qui particolarmente rodato, considerando la storia della regione “rossa” e ricordando i tre vettori che hanno costituito il cosiddetto “modello emiliano”, almeno nelle sue ultime fasi: a) forti politiche regionali tese alla costruzione di un ecosistema dell’innovazione tecnologica, collegata soprattutto all’export; b) la progressiva estensione e depoliticizzazione del terzo settore e del volontariato come erogatore di welfare; c) l’enfasi sulla dimensione “civica” e “partecipativa” della vita urbana quale strumento per una governance della crescita. Tuttavia, nel corso degli ultimi venti anni questo blocco amministrativo ha incontrato difficoltà e rallentamenti, che hanno favorito l’affermazione di sfidanti all’egemonia amministrativa tradizionale, M5S e Lega su tutti. Allo stesso tempo però, come hanno indicato le passate elezioni, si ipotizza una ripresa delle élite cittadine classiche, la cui agenda pro-crescita e pro-green potrebbe trovarsi consolidata nei prossimi anni, tenendo presente le parole d’ordine e la via tracciata dal Pnrr.

Molti indicatori fanno infatti ipotizzare un tentativo di ri-creazione di un nuovo ceto medio di “competenti”, tardo-giovanile, a cultura tecnica e civile, messo a valore politico come spina dorsale della ristrutturazione degli assetti economico-gestionali dei territori (post)pandemici. Il frutto di tale progressiva sinergia e organicità tra università e imprese leader, ricerca e servizi avanzati attivi nella digitalizzazione o nella sostenibilità ambientale sarà quindi una fabbrica sistemica, diretta alla qualificazione selettiva delle filiere e all’istituzionalizzazione delle reti collaborative collettive, che presume anche la ristrutturazione stessa della forza-lavoro: la formazione di una classe operaia 4.0 per un’industria 4.0 per la quale il ruolo di Istituti tecnici ed enti formativi regionali diventerà baricentrale. Si prelude quindi a un salto di scala, non soltanto per l’intensità della capitalizzazione, ma anche e soprattutto per l’espansione della fabbrica diffusa come organismo di gestione urbana, e la conseguente produzione capitalistica di nuove soggettività. Citando il volume, si tratta di

un modello di policy che punta ad accompagnare la creazione di esternalità e a incorporare nelle filiere sapere tecnoscientifico nelle culture e modelli produttivi attraverso la formazione condivisa tra imprese e istituzioni di nuove leve di operai, tecnici, quadri, manager, una sorta di “cervello sociale” costituito non solo da saperi astratti e R&S, ma da etica del lavoro, passione collettiva, qualità della vita urbana, servizi, infrastrutture collettive pubbliche e private, start-up e nuova composizione sociale. Un ecosistema/piattaforma che sostiene processi trasversali e che funziona come meccanismo di traduzione di tutte queste risorse sociali in forza competitiva. Una industria che si alimenta non solo di macchine, ma di fattori immateriali, di qualità culturali. Il nucleo motore del “modello emiliano” oggi risiede in primo luogo in una visione progressista e di nuovo umanesimo industriale nel senso della produzione di capitale umano di nuovo tipo, a sostegno di una industria che incorpori la questione del limite ambientale, in cui la crescita industriale equilibrata consiste nel promuovere sistemi industriali diffusi più che singoli settori, e le capacità collettive di produrre “teste ben fatte” e capitale territoriale. (p. 158).

Il capitolo sull’Emilia, scritto da Simone Bertolino e Albino Gusmeroli, a nostro modo di vedere espone in maniera eccellente le sfaccettature di questi processi, descrivendo dettagliatamente le trasformazioni nella cooperazione pubblica e nelle mediazioni istituzionali, nel mecenatismo delle imprese e nella progettualità sociale; ma il merito maggiore resta quello di aver ben evidenziato l’altra faccia dello sviluppo. Come già negli anni Settanta i ricercatori raccolti intorno ai «Quaderni del Territorio» avevano dimostrato, lo sviluppo industriale e tecnologico di alcune aree si determina in funzione di retrocessione e sottosviluppo di altre aree. Per dirla in altri termini, non si comprende fino in fondo cosa comporti il modello delle “valley” (Motor Valley, Food Valley, Data Valley ecc.) strettamente collegato alle catene del valore globali (e tedesche) né la loro trasversalità rispetto alle classiche partizioni tra manifatturiero, terziario, agroalimentare, ICT e reti urbane se non si tiene sullo sfondo il costante decadimento delle aree marginali, interne e appenniniche, segnate da spopolamento crescente, alti tassi di disoccupazione e rarefazione delle risorse comunitarie di base. Le ripercussioni sociali di questi andamenti sono difficili da anticipare, ma già ora sollevano grosse domande.

Potremmo ipotizzare, ma non ci spingiamo più oltre, che la recente ondata di femminicidi, omicidi-suicidi familiari e violenza cruenta nelle retrovie delle “province ricche” sia almeno in parte leggibile in questo contesto. Come spesso accade, chi non vede un domani davanti a sé, e non cerca la trasformazione dell’esistente, può cercare il tramonto, il tramonto tout court. Se poi teniamo presente che, in questi luoghi, insieme allo sfaldamento comunitario si dirada sempre più una militanza complessiva che tenga insieme anticapitalismo e questione di genere, o anche solo che le risorse per case delle donne diventano sempre più inadeguate e che la cura della salute mentale retrocede nelle agende cittadine, appare evidente la dimensione strutturale del fenomeno, che eccede di lungo gli steccati quietistici della cronaca locale. 

Sospendiamo per un momento le ipotesi, e ritorniamo su dati ormai sicuri. Infatti, non dobbiamo dimenticare che anche le aspettative coltivate nel processo di costruzione di questo possibile nuovo ceto medio, legato alle possibilità di rilancio dell’accumulazione capitalistica e dello sviluppo (post)pandemico, saranno con ogni probabilità infrante. Non solo su episodi di forte frustrazione e di nero disincanto una volta addentato il frutto dell’ipocrisia progressista e civica su temi come la partecipazione, l’inclusione o l’ambiente. Anche allargando lo sguardo, in un contesto geopolitico e geoeconomico in forte tensione e segnato per i prossimi anni dal Pnrr – vale a dire uno sfondo interamente segnato dalla ristrutturazione della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, dal peso immane di un debito ormai difficilmente quantificabile e senza alcun margine per far ripartire cicli stabili di accumulazione, per non parlare del collasso ecologico – non si vedono garanzie per la tesaurizzazione dei risparmi o per un moto complessivo di ascesa sociale. Non a caso vari indicatori sottolineano fin da adesso un graduale divario tra le aspettative crescenti di fasce lavorative giovanili (si veda la “Great Resignation”, l’epidemia di dimissioni e di interruzioni volontarie da contratti di lavoro a tempo indeterminato, specialmente impiegatizi o del terziario) e le serie conseguenze a breve termine della ristrutturazione su questi settori (per esempio, l’aumento costante e generalizzato dei prezzi delle soluzioni immobiliari rivolte a ceti riflessivi “cool” e al lavoro autonomo giovanile, come i trilocali in area urbana).

Per concludere. Se queste ipotesi saranno verificate, ci domandiamo se la scommessa da lanciare non sia allora quella di inchiestare, oggi, le ambivalenze di soggettività baricentrali per il tentativo di rilancio sistemico dell’accumulazione capitalistica postpandemica, e anticipare lo scoppio di queste contraddizioni, per iniziare sin da ora un lavoro di medio periodo che consenta di inseguire una possibile, futura, nuova qualità del conflitto ed essere collocati nel vivo dei processi per non accodarcisi una volta manifestati, piuttosto che rincorrere soggetti della marginalità entro cui difficilmente si potrà perseguire una prospettiva qualitativa della rottura. Conviene investire sugli “obsoleti”, i “non rappresentati” di oggi – in cerca di nuova integrazione piuttosto che di inimicizia e sovversione – o i “delusi”, i “traditi” di domani, cioè i soggetti che recano su di sé l’esperienza della trasformazione del medio-raggio? È una pista che soltanto la prassi potrà saggiare, mettere a verifica e valutare. Nulla dunque da dare per scontato.