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Discorsoni / Analisi

Robert Ferro – Dove va l’Europa? Crisi e riarmo nel cuore dell’Unione

Dal welfare al warfare, dall’automotive al carroarmato, dall’«Inno alla gioia» di Beethoven alla «Marcia imperiale» di Dart Fener. Nel cambio di tema che fa da sfondo all’Europa, l’imperialismo colpisce ancora. 

Non «guerra stellare», in una galassia lontana lontana, ma ben più prosaicamente mondiale, è lo scenario per cui gli Stati europei preparano piani.

Guerra terrestre e marittima, sul continente e nei cieli, nelle reti e nei flussi. Guerra di trincee sotto il fuoco dei droni, sabotaggi di gasdotti e infrastrutture civili, di missili sulle metropoli e operazioni terroristiche di intelligence, di eserciti nazionali e legioni di paramilitari, di attacchi cibernetici e finanziari, di sanzioni commerciali e dazi globali. Guerra di materiali, di chip, di intelligenze artificiali, di produzione e ristrutturazione industriale, di innovazione tecnologica, di disarticolazione delle filiere, di estrazione e saccheggio dei territori, delle popolazioni, delle forme di vita.

Guerra preparata da massicci piani di riconversione bellica e da strette repressive del fronte interno. Dalla crisi politica nel cuore dell’Europa alla fine della «fine della storia», dalle debolezze delle borghesie nazionali, dalla subalternità al comando di Washington e ai folli progetti di genocidio di Israele. 

Guerra che già ci coinvolge da vicino, senza però un’«alleanza ribelle», anzi, rivoluzionaria, di classe in grado di sovvertirla, ad ampio respiro, in processo di rottura e fuoriuscita da questo sistema che continuamente l’ha generata e la riproduce, su scala sempre più distruttiva, catastrofica, genocidiaria.

Prepararsi all’inaspettato. Si è già detto che perfino Lenin, nel 1914, a Cracovia, quando arrivò la notizia dello scoppio della guerra, rimase sbalordito: per il tradimento dell’Internazionale, certo, ma anche per il passo decisivo nello scontro militare tra potenze, ipotizzabile, probabile, ma non del tutto prevedibile. Se anche un genio tattico come Volodja fu colto, allora, di sorpresa, chi ne vorrebbe seguire la misteriosa curva, oggi, nella desertificazione di un pensiero strategico materialmente ancorato a una soggettività di classe di là da venire, può dormire sereno. 

Eppure. Eppure il corso della storia può prendere pieghe inaspettate, indipendentemente da ogni attore, da ogni azione soggettiva. Fugaci destabilizzazioni, scosse, sospensioni, dell’apparente linearità. Eventi, movimenti, rotture che rimescolano le carte. Finestre temporali che aprono spazi di manovra, di possibilità. Questi momenti non sono né buoni né cattivi; anzi, possono essere cattivi – quasi sempre lo sono – e possono essere buoni: rapporti di forza che vengono messi in discussione, rapporti di forza che possono essere sovvertiti, riconfigurati, costruiti. Sicuramente, questi momenti saranno tragici. Della tragicità che è propria della libertà, autentica e terribile.

È come arriveremo, e ci staremo dentro, a questi momenti, che farà la differenza. Se saremo riusciti ad arrivarci preparati, all’inaspettato. Se riusciremo a guardarla negli occhi, questa terribile possibilità.  

Per questo, dal punto di vista militante, in tutti i suoi aspetti, pensiamo che il compito minimo che la fase pone oggi sia quello di aguzzare la vista, affinare il fiuto, stimolare la mente e allenare il cuore ad essere pronti. Costruire le condizioni per cui – nella partita che si gioca, nel minuto dell’inaspettato – essere caldi in panchina, per poter entrare in campo. E non farci trovare fuori rosa, sugli spalti, come spettatori. Come, tirando una generosa mediana, siamo oggi.

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Pubblichiamo allora la trascrizione dell’intervento di Robert Ferro, autore del podcast «Il perno originario» e del volume «Le ménage à trois de la lutte des classes», tenuto all’ultimo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», organizzato al Dopolavoro Kanalino78 da ottobre 2024 a maggio 2025 (ciclo suddiviso in due parti: Vol. I – «Modena nel conflitto globale» e Vol. II – «Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema»). Rimandiamo quindi alle introduzioni dei precedenti contributi di Mimmo Porcaro e Raffaele Sciortino, e ancora prima all’approfondimento del primo incontro sull’«industria della formazione», i motivi, gli obiettivi e le prime considerazioni “a caldo” che ci hanno accompagnato lungo questo percorso di inchiesta, analisi e discussione politica, per andare subito alle domande che ci hanno mosso in questo ultimo appuntamento. 

Dove va l’Europa, e quali scenari si aprono, quando i sussulti della crisi, dalle periferie esterne, cominciano a disarticolare il cuore dell’impero, la Germania, e la «fabbrica della guerra» si fa continentale? Dove va l’Europa, quindi, nella ripolarizzazione conflittuale del mondo tra Stati Uniti e Cina? È possibile un’Europa in conflitto con gli Stati Uniti? Cosa significa per il continente, e soprattutto per l’Italia inserita nelle sue catene del valore, la destabilizzazione politica e sociale del modello tedesco? Unione Europea e moneta unica possono essere messe in discussione da Berlino o conquistare una loro “autonomia strategica” imperialistica, in concorrenza con quella americana? Che posizione occupano la Germania e l’Unione Europea nella catena imperialistica globale? Si staglia davanti a noi un processo di radicalizzazione politica del contesto europeo, insieme alla sua rinazionalizzazione? 

Buona lettura.

Robert Ferro

Introduzione. Germania e Versailles, ritorno al futuro

In molti oggi avvertono che il periodo storico più recente – sommariamente, quello della globalizzazione e della sua crisi – è entrato in un frangente delicato, in cui si stanno sciogliendo incognite notevoli, con ricadute altrettanto notevoli sull’evoluzione dei rapporti di classe a qualsiasi latitudine. Il sottoscritto condivide questa impressione. In ciò che segue, si tratterà però di andare oltre le impressioni, cercando di collegarle a dinamiche di lunga durata che riguardano il nostro quadrante di riferimento, quello europeo. La domanda «dove va l’Europa?» è legata a doppio filo alla domanda «dove va la Germania?». 

Per cominciare ad abbozzare una risposta, procederemo in tre tappe: in un primo momento, evidenzieremo alcune invarianti storiche del capitalismo tedesco; in un secondo momento, ci soffermeremo su alcuni passaggi della storia tedesca dall’inizio del secolo scorso ad oggi; in un terzo momento, alla luce degli sviluppi precedenti, arriveremo alle prospettive future.

Ci si potrebbe chiedere quale sia l’utilità di un simile discorso. A mio modo di vedere, è importante per coloro che si definiscono comunisti essere in grado di proiettarsi in un orizzonte temporale di medio-lungo termine con delle ipotesi forti e fondate sui macroprocessi in corso e sul loro punto di caduta. 

Ovviamente, nella storia c’è una componente insopprimibile di incertezza e di contingenza, a cui non sfuggono gli attori più lucidi. Ciò non toglie, per noi, l’esigenza di cercare di anticipare gli eventi, invece che essere costantemente in loro balia o al loro rimorchio. Vista la piega che questi stanno prendendo, non si potrà sfuggire eternamente alla questione del che fare. Affrontarla in maniera quanto più ragionata possibile, significa individuare i due o tre scenari più verosimili e pianificare un intervento in vista di essi. Vi ritorneremo in sede di conclusione. 

Invarianti

Per invarianti, devono qui intendersi invarianti relative, giacché nella storia nulla si ripete mai in maniera identica. Questo detto, chi ha ascoltato il podcast Il perno originario (che va preso per quello che è: un divertissement), avrà forse intuito che accordo una certa importanza alla lunga durata, e più specificamente ai fenomeni di persistenza storica, di inerzia, di tradizione. Questo, per controbilanciare una tendenza molto diffusa nel nostro ambiente, che consiste a concentrarsi unicamente sul divenire, sulle trasformazioni. Non che questa tendenza non abbia la sua legittimità; spinta fino alle sue estreme conseguenze, essa porta però a farsi una rappresentazione errata del processo storico, come fosse un perpetuo stato nascente (in altre parole: come se tutto stesse sempre ricominciando daccapo). Con buona pace dei costruttivismi filosofici divenuti di moda negli ultimi decenni, un materialismo conseguente non può abbandonare il postulato secondo cui nulla si costruisce dal nulla, e il ventaglio di ciò che può essere socialmente «costruito» (o trasformato) è limitato in varie maniere dal materiale a partire da cui si «costruisce». 

Per il caso che ci occupa, questo vuol dire che ogni formazione sociale specifica – cioè ogni declinazione particolare del modo di produzione capitalistico nel tempo e nello spazio – non cade dal cielo bell’e pronta, ma si forma a partire da elementi preesistenti, tra cui (fra gli altri) un territorio e una popolazione. Ovviamente territori e popolazioni non sono immutabili, sono essi stessi plasmati da rapporti sociali pregressi e continuano a trasformarsi nel corso del tempo. Ciononostante, come già anticipato, la portata di queste trasformazioni, in particolare su temporalità ridotte, non è assoluta, e alla scala della nostra storia di specie (300 mila anni circa, allo stato attuale delle conoscenze), uno o due secoli non sono molti. 

Nella storia delle nazioni europee, si distinguono sovente – a mo’ di idealtipi – il caso francese, in cui lo Stato produce la nazione, e il caso germanico, in cui la nazione produce lo Stato. Questo è il primo punto su cui vorrei attirare l’attenzione: l’esistenza di un insieme germanofono e il sentimento di appartenenza nazionale tedesca precedono di gran lunga la sua effettiva territorializzazione sotto forma statale. Nel cuore della penisola europea, nella grande pianura che si estende fino alla Russia senza incontrare ostacoli naturali significativi, lo spazio germanico costituisce un blocco etnico-linguistico denso e piuttosto compatto. Esso è situato al crocevia fra le nazioni occidentali territorializzate dall’Atlantico e dal Mediterraneo, da fiumi e da catene montuose, e l’Est del continente, un vasto spazio geograficamente aperto ed etnicamente frammentato, dove il districarsi delle nazioni non ha potuto imporsi con l’evidenza del fatto naturale. 

La nazione tedesca ha dunque assunto fin dall’inizio una dimensione semicontinentale: in primo luogo ostacolando, in virtù della sua posizione, la proiezione continentale delle nazioni occidentali (Francia, Olanda, Inghilterra, eccetera); in secondo luogo, proiettandosi essa stessa su scala continentale in forma di diaspora, senza con ciò darsi confini territoriali chiaramente definiti. Mi riferisco qui alla storia della Ostsiedlung, cioè alla formazione di colonie di popolamento tedesche al di là del fiume Elba – un processo assai dilatato sia dal punto di vista temporale che spaziale, con prolungamenti che arrivano fin dentro al mondo russo nel XVIII secolo (tedeschi del Volga) e nel XIX secolo (a Bolnissi, in Georgia). Peraltro, questa spinta verso Est comporta anche dei fenomeni di retroazione, che permettono di moderare l’idea abituale secondo cui la concezione tedesca della nazione e della cittadinanza sarebbe strettamente etnicista: in realtà, nello spazio tedesco, il rinnovamento del materiale umano generazione dopo generazione è avvenuto (e continua ad avvenire) in misura non trascurabile attraverso l’assimilazione di popolazioni slave e magiare. 

Questi due elementi – la preesistenza della nazione tedesca rispetto alla sua formalizzazione statale, e la sua proiezione verso Est – non sono una scoperta recente, ma si trovano già nella riflessione dei padri fondatori del socialismo scientifico su questo tema. Ad esempio, si possono trovare indicazioni in tal senso in una lettera del vecchio Engels a Franz Mehring del 14 luglio 1893[1]. Assai più giovane di Engels, Mehring ha fatto in tempo a partecipare all’esperienza della Lega di Spartaco e alla fondazione del Partito comunista tedesco. Come autore, è conosciuto principalmente per la sua biografia di Marx e per una storia in più volumi della socialdemocrazia tedesca. Meno noti sono invece i suoi lavori sulla storia sociale e culturale della Germania, tra cui La leggenda di Lessing (1892), che anticipa molti elementi del dibattito storico sul cosiddetto Sonderweg, la «via originale» tedesca. Nella lettera citata, Engels reagisce in maniera entusiastica all’opera di Mehring, offrendogli in conclusione alcuni spunti supplementari:

«Nello studiare la storia tedesca […] ho sempre trovato che il solo confronto con le corrispondenti epoche della Francia dà il giusto metro di giudizio, perché là accade l’esatto opposto che da noi. […] Là, il conquistatore inglese nel Medioevo rappresenta, nella sua intromissione a favore della nazionalità provenzale contro quella francese-settentrionale, l’ingerenza estera; le guerre con l’Inghilterra prefigurano, per così dire, la guerra dei Trent’anni, che però finisce con la cacciata dello straniero e la sottomissione del Sud al Nord [della Francia, nda]. Viene poi la lotta del potere centrale con il vassallo di Borgogna, che si appoggia a possedimenti esteri recitando la parte del Brandeburgo-Prussia; lotta che però termina definitivamente con la vittoria del potere centrale e la creazione dello Stato nazionale. Esattamente nello stesso periodo, da noi lo Stato nazionale (nei limiti in cui il “regno tedesco” entro i confini del Sacro romano impero può essere chiamato uno Stato nazionale) crolla totalmente e comincia il saccheggio su vasta scala del territorio germanico […]».

E nel paragrafo successivo: 

«Particolarmente significativo per lo sviluppo tedesco è inoltre che i due frammenti di Stato che, alla fine, si sono divisi la Germania non siano, né l’uno né l’altro, Stati puramente tedeschi, ma colonie su territorio slavo conquistato: l’Austria una colonia bavarese, il Brandeburgo una colonia sassone; e che si siano creati una potenza in Germania alla sola condizione di appoggiarsi su possedimenti stranieri, non tedeschi: l’Austria sull’Ungheria (per tacere della Boemia), il Brandeburgo sulla Prussia […]».

In quale maniera questi due elementi si coniugano nella storia socio-economica della Germania moderna? Per cominciare, si può dire che in assenza di un quadro politico-territoriale stabilizzato, l’integrazione economica della nazione tedesca ha preceduto la sua integrazione politica, in particolare attraverso lo Zollverein (1834), una vasta unione doganale promossa non dagli staterelli dell’area renano-vestfaliana, ma dalla Prussia, una regione orientale che dal 1945 non fa più parte dello spazio tedesco. Tale integrazione economica era strettamente legata allo sviluppo del settore ferroviario che, per essere ammortato, doveva necessariamente proiettarsi su un mercato esteso la cui costruzione ha fatto leva su elementi oggettivi di coerenza etnico-linguistica e su un sentimento di appartenenza nazionale comune.

Questo aspetto rimanda a una questione più teorica e generale che mi limiterò solo ad accennare: in un contesto, quello capitalistico, in cui i processi produttivi più efficienti sono generalmente quelli più intensivi in capitale e meno versatili, la redditività del capitale investito è legata alla produzione in serie. Qual è la sua dimensione ottimale? Essa dipende senz’altro dalla natura concreta delle attrezzature in questione, dalla loro indivisibilità tecnica e dal loro grado di specializzazione; ma in generale, si può dire che la dimensione ottimale della produzione in serie nell’ottica di rendere redditizio il capitale investito si ingrandisce nella stessa misura in cui aumentano il progresso tecnico e la divisione del lavoro. 

Il rovescio della medaglia sta nel fatto che è la dimensione del mercato potenziale a determinare, dal punto di vista capitalistico, la scelta tra diverse tecniche produttive, le più efficienti delle quali presuppongono generalmente l’accesso a un mercato più vasto rispetto a quelle meno efficienti. In questo senso, l’esistenza o meno di un vasto insieme nazionale o protonazionale su cui appoggiarsi, predetermina in una certa misura la possibilità per i vari poli capitalistici di emergere come agenti di primo piano dell’accumulazione del capitale. L’estensione crescente dei poli capitalistici egemoni, così come teorizzata da Giovanni Arrighi o da altri autori riconducibili alla World System Theory, non è estranea a questa problematica. 

Novecento

In Germania, lo status di leader legittimo dell’Europa è stato rivendicato esplicitamente solo di recente dai governi in carica (si veda la Zeitenwende proclamata da Olaf Scholz). Le ragioni di questo stato di cose risalgono, a mio modo di vedere, alla prima metà del XX secolo e alla maniera terribilmente violenta e sanguinosa in cui quel periodo si è concluso. 

All’inizio del XX secolo, il relativo declino dell’Impero britannico come «potenza che domina il mercato mondiale» (Marx) apre una competizione tra due poli capitalistici ritardatari, quello americano e quello tedesco, la cui rimonta è stata possibile, in entrambi i casi, solo su basi protezionistiche. In questa competizione, il grande capitale tedesco soffre di una serie di debolezze, la principale delle quali è che il suo Stato – al quale Bismarck, per evitare eccessive ritorsioni, ha dato una forma piccolo-tedesca – non domina il proprio spazio di riferimento. 

Nell’ultimo decennio del XIX secolo, avviene il passaggio dal protezionismo bismarckiano al libero scambio e alla Weltpolitik (politica mondiale) della Germania guglielmina, che reclama il suo «posto al sole» fra le grandi potenze coloniali dell’epoca. Questo passaggio spinge l’Impero tedesco, preso a tenaglia dall’alleanza franco-russa, in un tentativo di presa di controllo delle vie commerciali marittime che lo pone in conflitto diretto con l’Impero inglese (donde, fra l’altro, la dimensione navale del conflitto militare, la guerra sottomarina degli U-Boot tedeschi).

Al termine del conflitto, i debiti di guerra contratti dagli anglo-francesi e ripudiati dalla Russia rivoluzionaria vengono ripercossi sulla Germania, da cui le condizioni draconiane del Trattato di Versailles, che cancella le acquisizioni territoriali degli Imperi centrali ratificate a Brest-Litovsk (1918), amputa il grande capitale tedesco di buona parte dei suoi investimenti esteri, priva la Germania delle sue colonie (principalmente africane: Camerun, Togo, Namibia, e così via) e le impone il pagamento delle riparazioni. L’ordine di Versailles orchestrato dai capitali anglosassoni e francesi ratifica inoltre l’esistenza di tre paesi, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Jugoslavia, con lo scopo di ostacolare la proiezione tedesca verso Est.

Come noto, la sconfitta militare provoca la caduta dell’Impero e una serie di lotte di classe con punte insurrezionali dal 1918 al 1923, la cui sconfitta, combinata con gli effetti devastanti della crisi del 1929, conducono all’ascesa del movimento nazionalsocialista. L’arrivo al potere di Adolf Hitler pone definitivamente fine alla politica di conciliazione con le potenze vincitrici incarnata dalla figura del ministro degli esteri socialdemocratico Gustav Stresemann, e lancia la Germania in una contestazione frontale degli assetti territoriali e geoeconomici usciti dalla Prima guerra mondiale. Fra le altre cose, questa contestazione conduce la Germania a far esplodere i tre paesi riconosciuti a Versailles (nell’ordine: Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia). Come noto, essa si concluderà in maniera catastrofica, alla fine della Seconda guerra mondiale, con una capitolazione senza condizioni implicante smilitarizzazione, smantellamento dello Stato maggiore e smembramento del Reich stesso.

Sia durante la Prima guerra mondiale che durante la Seconda, lo Stato tedesco elabora progetti a lungo termine volti all’integrazione economica, doganale e monetaria del continente europeo. In estrema sintesi, il progetto tedesco di unificazione europea è quello di un grande spazio (si veda il concetto di Großraum nell’opera di Carl Schmitt) retto dall’egemonia regionale della Germania. Nella sua variante nazionalsocialista, esso avrebbe dovuto e potuto contare, se non su un’alleanza con l’Inghilterra, quantomeno sul suo non-intervento sul teatro continentale, in linea con la politica inglese di appeasement degli anni 1930 (che, come noto, viene invece abbandonata dopo la frammentazione della Cecoslovacchia, orchestra dal Reich nel 1938). Per due volte, quindi, il tentativo della Germania di accedere allo statuto di egemone continentale viene sventato.

All’indomani della fine della guerra, gli alleati sono determinati a porre fine alla Germania sia come polo capitalistico avanzato che come Stato unitario e indipendente. Separato dall’Austria, che riacquista rapidamente la sua indipendenza, il territorio tedesco viene balcanizzato tra una Germania occidentale, a sua volta divisa in tre zone (britannica, americana e francese), e una Germania orientale, di cui una parte è sotto il controllo diretto di Mosca (la futura Repubblica democratica tedesca, RDT) e altre due – la Prussia orientale da un lato, la Pomerania unita all’Alta Slesia dall’altro – vengono annesse alla futura Polonia «popolare». 

Il progetto iniziale americano, secondo le raccomandazioni del piano Morgenthau elaborato prima della fine del conflitto, è quello di ridurre la Germania sotto il controllo alleato a un paese di agricoltura e pastorizia. Una politica di riduzione delle capacità industriali tedesche viene effettivamente perseguita fino al 1947, attraverso le riparazioni di guerra. Gli impianti industriali vengono smantellati e trasferiti nei paesi occupanti. Nelle tre zone occidentali della futura Repubblica federale tedesca (RFT), non c’è libera circolazione di beni e servizi e nessuna delle tre è autosufficiente dal punto di vista alimentare. La produzione industriale è scesa al 38% rispetto ai livelli del 1936, mentre il settore agroindustriale risente fortemente della mancanza di macchinari e fertilizzanti. 

Il livello di razionamento alimentare della popolazione è più draconiano di quello in vigore nella futura RDT: 1000 calorie al giorno contro 1500. Le autorità americane sul posto comprendono rapidamente quale sia il rovescio della medaglia. Il generale Clay, responsabile delle forze di occupazione americane, lo esprime in questi termini: «Tra diventare comunisti con 1500 calorie al giorno e credere nella democrazia con 1000, la scelta è presto fatta. La mia sincera opinione è che il razionamento imposto in Germania non solo porterà alla sconfitta dei nostri obiettivi nell’Europa centrale, ma aprirà la strada ad un’Europa comunista». Il passaggio della Cecoslovacchia nel frattempo ricostituita nell’orbita di Mosca nel 1947 e gli scioperi che si moltiplicano nello stesso periodo nei bacini minerari, siderurgici e automobilistici dell’Europa occidentale sembrano confermare questa diagnosi. Inoltre, un mercato così depresso nel cuore dell’Europa non è privo di conseguenze per il capitale americano, che già prima della guerra soffre di un eccesso di capacità produttive domestiche destinato a riproporsi a conflitto terminato, quando i settori economici requisiti e messi al servizio dell’economia di guerra (automobilistico, chimico, eccetera) devono adattarsi alle condizioni postbelliche. 

La combinazione di questi due fattori convince le autorità americane a modificare il loro approccio. Inizia così l’epopea dell’Europa europeista, ovvero la resurrezione del grande capitale tedesco in seno all’impero europeo dell’America. La specificità di questo processo può essere riassunta nel seguente paradosso: il riemergere del capitale tedesco non era voluto, ma si è rivelato passo dopo passo il prezzo necessario e inevitabile del dominio imperiale americano sulla metà «libera» del continente.

Nella vulgata riguardante la ricostruzione postbellica, si insiste spesso sull’importanza del piano Marshall. Ma questo non sarebbe stato sufficiente per rilanciare l’economia dei paesi interessati senza l’Unione europea dei pagamenti introdotta, anch’essa sotto pressione statunitense, nel 1951. Nell’ambito del nuovo sistema monetario internazionale varato a Bretton Woods nel 1944, gli scambi internazionali tra i paesi europei devono essere effettuati in dollari. Tuttavia, alla fine degli anni Quuaranta i dollari sono scarsi in Europa, poiché la bilancia commerciale di tutti i paesi europei nei confronti degli Stati Uniti è in deficit. Questo li costringe, in sostanza, a scegliere se commerciare fra loro o con gli Stati Uniti. Il meccanismo di clearing istituito con l’Unione europea dei pagamenti risponde a questo problema. 

Allo stesso modo, la ripresa economica non può avvenire senza risolvere i problemi di approvvigionamento di materie prime di base come il carbone, la cui produzione è insufficiente a soddisfare il fabbisogno delle industrie, e l’acciaio, settore che invece registra un eccesso di capacità produttiva. La Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) istituisce un’autorità sovranazionale responsabile della gestione delle capacità produttive in questi due settori. Il piano Monnet-Schuman (rispettivamente commissario al Piano e ministro degli Affari esteri francesi) per la CECA viene elaborato per risolvere in via prioritaria i problemi dell’industria francese, ma «venduto» agli americani come una soluzione che consentirebbe di evitare la ricostituzione del grande cartello europeo dell’acciaio, dominato a partire dal 1926 dal gigantesco conglomerato tedesco Stahlverein. 

La CECA agisce tuttavia nel senso della costituzione di grandi gruppi nei settori di sua competenza e, soprattutto, consente di eliminare le ultime misure che impongono un limite massimo alle dimensioni delle imprese tedesche. Il cuore produttivo europeo ricomincia a battere. 

Durante tutta la prima metà degli anni Cinquanta, la priorità degli imprenditori tedeschi è il ripristino di un’unione doganale che consenta loro di puntare sulle economie di scala. Essa viene ottenuta puntualmente nel 1957 con la creazione della Comunità economica europea (CEE, ovvero l’Europa dei sei: RFT, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo). Questa, però, si rivela ben presto troppo ristretta per contenere la rapida crescita del grande capitale tedesco, donde gli allargamenti che avranno luogo in seguito[2]. Allo stesso tempo, lo spazio economico integrato così costituito si rivela una formidabile valvola di sfogo per i capitali americani, che trovano in quest’area non solo un mercato di sbocco, ma sempre più (e in particolare dall’inizio degli anni Sessanta in poi) una zona privilegiata di investimento, attraverso l’apertura di filiali europee di multinazionali americane, volta non di rado ad aggirare i dazi doganali della CEE. Queste filiali dispongono di fonti di finanziamento proprie rispetto a quelle dei capitali tedeschi, francesi, olandesi, italiani, eccetera (si veda il mercato dell’eurodollaro).

L’Europa europeista è dunque il risultato di due imperativi opposti: quello dei grandi capitali americani, che mirano ad assicurarsi una vasta zona riservata all’esportazione di merci e capitali, e quello dei capitali tedeschi, che mirano a ritrovare la dimensione critica che consenta loro di inserirsi efficacemente in un contesto di competizione oligopolistica vieppiù internazionalizzata. 

Questi due imperativi si sono combinati in modo più o meno virtuoso, con alti e bassi, per diversi decenni. Tutto questo è avvenuto nel quadro dell’impero europeo dell’America che, pur ammettendo la crescita e lo sviluppo del capitale tedesco, imponeva forti vincoli alla sovranità della Germania (anche riunificata), secondo il motto della NATO: «Tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto». Il medesimo dualismo si è poi tradotto anche all’interno delle alte istanze dell’UE – Corte di giustizia, Commissione, Consiglio, Banca centrale, Parlamento – che, lungi dall’avere un orientamento univoco, fanno prevalere, a seconda delle loro prerogative e del loro funzionamento, il punto di vista tedesco o quello americano (anche travestendolo da espressione dei paesi europei periferici, se necessario), cosicché l’istituzione nel suo insieme si configura come un organo di mediazione fra l’uno e l’altro, in un quadro generale che escluda il ristabilirsi di una piena sovranità tedesca («i tedeschi sotto»)[3].

Riassumendo: dopo la guerra e la capitolazione senza condizioni del Reich, dopo la sua balcanizzazione tra il 1945 e il 1949, dopo la ricostituzione di due Germanie su una base più limitata all’interno di un’Europa divisa dalla cortina di ferro, la ricostruzione economica della sua parte occidentale finisce per riportare, nel giro di qualche decennio, la Germania federale nel girone dei grandi paesi industrializzati. Restano però numerosi fattori caratteristici del mondo bipolare che rendono ancora prematura la questione dell’egemonia continentale, potenziale o effettiva. 

Verso la fine degli anni Sessanta, il polo capitalistico tedesco nuovamente in rimonta (come quello giapponese, del resto) ha ricominciato a farsi esportatore di capitali, ma questa tendenza risulta ancora assai frenata dai meccanismi di controllo sui movimenti di capitale allora vigenti. Inoltre, la divisione dell’Europa dettata dalla cortina di ferro sottrae tutta la parte orientale del continente europeo alla penetrazione tedesco-occidentale di merci e capitali (per quanto evidentemente degli scambi esistano: inaugurazione dell’oleodotto Druzba nel 1963, Ostpolitik 1969-1974, scambi commerciali RFT-RDT, eccetera). 

Questo fatto costringe il grande capitale tedesco a limitare per lo più la sua espansione commerciale in direzione dell’Europa atlantica e mediterranea, allargando la CEE prima alla Gran Bretagna, all’Irlanda e alla Danimarca (1973), poi alle ex dittature militari periferiche: Grecia (che aderisce alla CEE nel 1981), Spagna e Portogallo (che vi aderiscono nel 1986). Nei decenni Settanta e Ottanta, la dimensione mercantilistica, cioè legata all’esportazione di merci, prevale ancora fortemente sulla dimensione imperialistica, legata all’esportazione di capitali – fatto confermato in controluce dai tentativi di integrazione monetaria «morbida» del Serpente monetario (1972-1978), e del Sistema monetario europeo (SME, 1979-1993), elaborati in risposta alla fluttuazione monetaria del dopo-Bretton Woods, principalmente nell’ottica di evitare le svalutazioni competitive degli altri paesi membri del Mercato comune. 

È alla metà degli anni Ottanta – e in particolare con gli accordi del Plaza (1985) che impongono alla Germania una rivalutazione del marco sul dollaro – che lo scenario inizia a cambiare abbastanza rapidamente, sciogliendo via via i nodi prima elencati. Nel 1986, l’Atto unico europeo, con l’introduzione della libera circolazione dei capitali nella CEE (fortemente voluta dalla Germania) può essere considerato come lo spartiacque che segna l’effettivo ritorno sulla scena storica di un imperialismo tedesco in senso stretto, ovvero come fonte di massicce esportazioni di capitale. 

Questo non significa che la Germania sia in assoluto l’unico imperialismo europeo rimasto sulla scena: semplicemente, la sua portata e il suo potenziale sul piano economico sono incomparabilmente più grandi rispetto a quelli di paesi come la Francia, la Gran Bretagna o l’Italia – come il seguito degli eventi tende a mostrare. 

Nel 1990 la Germania occidentale effettua l’Anschluss della RDT, avviando con ciò la brusca ristrutturazione dell’economia tedesco-orientale, anche a prezzo di mandare in frantumi il SME (tre anni più tardi). Nel 1991 l’URSS si dissolve, aprendo la strada alla rapida frammentazione del blocco dell’Est. Allo stesso tempo, ha inizio il lungo decennio delle guerre jugoslave, innescate dal riconoscimento unilaterale dell’indipendenza slovena e croata da parte della Germania. A questi eventi epocali segue, nel 1992, il «divorzio di velluto», cioè la separazione amichevole della Repubblica Ceca e della Slovacchia, divenuti così degli staterelli da 10 e 6 milioni di abitanti rispettivamente, che in seguito saranno interessati da un intenso movimento di investimenti tedeschi. Da allora, un vasto spazio politicamente frammentato, composto da piccoli Stati con poca autonomia sia economica che politica, viene coinvolto dalla dinamica del capitale tedesco, che ne fa un territorio economicamente integrato. 

Infine, questa fase segna anche il ritorno a una politica estera interventista, caratterizzata dall’invio della Bundeswehr per la prima volta dal 1945 fuori dai confini nazionali, nell’ambito dell’intervento della NATO in Kosovo (1999). Gli anni Novanta segnano dunque una svolta diplomatica, in quanto la Germania mette in discussione in modo volontaristico l’architettura europea ereditata da Versailles. Ma segna anche una svolta economica, in quanto l’Europa orientale è uno spazio già industrializzato, con una forza lavoro qualificata, e una vocazione industriale che viene messa al servizio degli investimenti tedeschi. In tutti i paesi della zona, i conglomerati tedeschi realizzano tra il 25 e il 40% dei loro investimenti, dando vita a un vasto blocco economico organizzato, sinergico, funzionale e compatto. 

La «nuova Europa» si organizza ormai attorno al cuore industriale tedesco e al suo hinterland continentale, uno spazio economicamente vivace che contrasta in maniera crescente con la stagnazione dell’Europa atlantica e mediterranea. 

Tuttavia, per ragioni legate sia alle ipoteche che continuano a pesare sulla sovranità politica dello Stato tedesco, sia ai meccanismi interni di legittimazione politica, sia alla volontà di preservare rapporti di buon vicinato con i paesi occupati durante la guerra, nei successivi anni Duemila nessun leader politico tedesco osa ancora alludere all’egemonia continentale tedesca come un obiettivo auspicabile. In questo frangente, l’esistenza di un interesse nazionale tedesco (che come qualsiasi «interesse nazionale» non è un dato, ma un prodotto di mediazioni e arbitraggi) è politicamente inammissibile, e «l’Europa» diviene il nome ufficiale di questi interessi man mano che la CEE, ora divenuta UE, prende forma e slancio[4].

Pur sfruttando a proprio vantaggio le faglie aperte dalla fine del mondo bipolare, la Germania mantiene dunque un profilo basso, preoccupandosi piuttosto di dotare l’UE di un complesso di regole (Maastricht 1992, Amsterdam 1997, e così via) che consentano una sorta di «governo tecnico» sui paesi membri, surrogato di un’autentica egemonia politica. Alla fine degli anni 1990, l’introduzione della moneta unica completa l’edificio, con l’illusione (soprattutto francese) che essa equivalga alla messa in comune del marco tedesco e, di conseguenza, all’impossibilità definitiva di qualsiasi egemonia o autonomia tedesca. La Germania, dal canto suo, lascia fare e trova persino una certa utilità alle velleità di grandezza del galletto francese, che si sogna capofila politico dell’UE.

Sonderweg del terzo millennio

La prima metà degli anni Duemila è una fase di rallentamento economico, in cui la Germania, come sovente nel corso della sua storia, viene considerata come un paese destinato al declino. Sulla stampa economica internazionale vi si fa riferimento come «il malato d’Europa». È questo il periodo delle dolorose riforme del mercato del lavoro del governo Schröder, che rivedono al ribasso il compromesso sociale (mantenimento dell’occupazione in cambio di maggiori margini di compressione salariale), nell’ottica di rilanciare la competitività industriale in loco. Cosicché, sotto la guida di Angela Merkel (2005-2021), la Germania consolida ampiamente il suo statuto di potenza economica. Diversamente da quanto accade altrove, lo spartiacque della grande crisi del 2008 gioca piuttosto a suo favore.

Non ripercorrerò qui nel dettaglio la storia della crisi dei debiti sovrani in Europa e degli anni successivi. A questo proposito, si può dire che in una prima fase (2008-2015) la Germania si è vista costretta a più riprese a uscire allo scoperto per far valere gli interessi specifici dei suoi settori capitalistici dominanti, in condizioni in cui non era più possibile presentarli come interessi generalmente europei (difesa dell’euro forte tra il 2008 e il 2012, disciplinamento della Grecia, accoglienza dei rifugiati siriani nel 2015 e crisi migratoria associata, eccetera).

Il binomio franco-tedesco, che fino ad allora aveva contribuito a contenere la dinamica tedesca, si spacca sulla gestione della crisi greca: malgrado l’appoggio degli Stati Uniti, la Francia, sostenitrice di una politica più flessibile atta a preservare gli interessi del proprio capitale bancario, ne esce provvisoriamente sconfitta. La Germania, dal canto suo, afferma il suo controllo sugli affari interni dei membri dell’eurozona (in Italia, ad esempio, spinge alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi), mantiene una politica della moneta forte e avvia un nuova fase di accumulazione che inizia a basarsi maggiormente sulle esportazioni, prima di merci e poi di capitali, verso i paesi BRICS – Cina in primis. 

In una seconda fase, grossomodo dal 2015 in avanti, essa si trova però a fare i conti con lo scontento che questa politica suscita sia nel contesto europeo che internazionalmente (soprattutto negli Stati Uniti), e deve nuovamente fare un passo indietro. La Germania accetta così di essere messa in minoranza in seno alla direzione della BCE sulla questione della politica monetaria dell’eurozona (il bazooka di Mario Draghi, annunciato nel 2012 e attivato nel 2015) e ancora nel 2020, durante la crisi del Covid, con la ripresa del quantitative easing da parte della BCE, associato a un massiccio piano di aiuti (Next Generation EU) concesso dall’UE sotto la minaccia più o meno esplicita di un Italexit.

Questo approccio riluttante rispetto al ruolo di egemone politico in Europa raggiunge a mio avviso i suoi limiti con la guerra in Ucraina. Presa nel fuoco incrociato del ricatto morale a sostegno dell’Ucraina, della messa sotto accusa delle sue interdipendenze economiche con la Russia, dell’attacco alle sue infrastrutture energetiche (Nord Stream I e II), delle spinte recessive che da allora gravano sul suo tessuto economico interno e su quello del suo hinterland, la Germania deve finalmente decidere a quale gioco vuole giocare. Il momento delle scelte difficili si avvicina.

In parallelo, assistiamo nell’ultimo decennio a un tentativo di autonomizzazione da parte delle alte istanze dell’UE, e in particolare della Commissione europea. A partire dalla Brexit, che giunge a compimento nel 2020, questo tentativo diviene una vera e propria fuga in avanti. Esso si è tradotto in un impiego sempre più incostante e discrezionale del famoso principio di sussidiarietà, applicato in modo ascendente o discendente a seconda delle circostanze, dei compromessi o degli intrighi politici: ascendente quando l’UE, i suoi rappresentanti e i suoi portavoce si attribuiscono funzioni che in linea di principio non sono le loro (come nel caso del dossier ucraino, con l’improvvisa apparizione di una «diplomazia europea» condotta dal duo Von der Leyen-Breton); discendente quando l’UE lascia che i paesi membri se la cavino come possono con questioni che sarebbero di sua competenza, ma che vengono nascoste sotto il tappeto finché che non divengono altamente esplosive.

In sintesi, tutto ciò genera un quadro di difficile lettura, delegittimato e inefficiente (anche quando sono in gioco somme ingenti: si veda il Next Generation EU e i suoi esiti), tanto più che numerosi paesi, nonostante la profusione di annunci roboanti da parte della Commissione, conoscono una stagnazione economica di cui per ora non si vede la via d’uscita. Inoltre, i nazionalismi prosperano ormai anche all’interno delle istituzioni rappresentative dell’UE (in particolare nel Parlamento europeo), per quanto il loro ruolo sia notoriamente ridotto. Quest’ultimo punto, a mio avviso, è indice di una tendenza a lungo termine che sta modificando l’arena europea in base ad accordi e iniziative intergovernative, nonostante gli sforzi in senso contrario della casta politica «europea» situata in cima alla piramide.

Abbiamo dunque a che fare con due tendenze contraddittorie: da un lato, le spinte della Commissione che, attraverso una politica del fatto compiuto, cerca di mantenere per sé l’iniziativa e di serrare i ranghi; dall’altro, la tendenza ad un’Europa delle nazioni, un’Europa a geometria variabile o un’Europa à la carte, destinata a sfuggire in maniera crescente al controllo della Commissione (si veda ad esempio i vertici di «volenterosi» sulla questione ucraina, prima a 15 e più recentemente a quattro, che hanno coinvolto anche la Gran Bretagna post-Brexit).  

La guerra in Ucraina ha reso possibile un ultimo tentativo di centralizzazione sovranazionale da parte dell’UE, soluzione alternativa a quella di un grande spazio esplicitamente dominato dalla Germania. Tuttavia, questo tentativo, incarnato dal protagonismo politico e mediatico di Von der Leyen, è fallito. Tutto l’attivismo di Ursula e dei suoi soldatini per fare della Russia il nemico assoluto, silenziare le voci discordanti e promuovere regime change nei paesi membri recalcitranti, spingere a una rapida adesione dell’Ucraina all’UE nonostante la lista già corposa di paesi candidati, e così via, tutto ciò non è bastato a cambiare l’esito dello scontro militare sul territorio ucraino. La nuova amministrazione americana rincara la dose rompendo ufficialmente con la «diplomazia dei valori» che si supponeva condivisa dall’UE e dagli Stati Uniti, e avviando colloqui per la cessazione del conflitto in Ucraina senza includere rappresentanze dell’UE al tavolo dei negoziati.

Il centralismo di Von der Leyen appare sostenibile solo nel quadro di una prosecuzione dello scontro transatlantico con la Russia, riacceso e pilotato a distanza dagli Stati Uniti. Solo nel quadro di un’alleanza transatlantica stretta, l’Unione europea può tenere assieme i suoi diversi membri[5]. A meno che l’attuale orientamento americano non subisca ulteriori inversioni, questo scenario non è il più probabile, anche malgrado le attuali iniziative europee volte a rilanciare la spesa militare in Europa in maniera coordinata dall’UE (vi ritornerò in sede di conclusione). 

A trent’anni dalla svolta del 1989-1991, dell’ordine mitteleuropeo di Versailles rimane in piedi solo la Polonia. Naturalmente, dal punto di vista economico essa è strettamente annodata al complesso produttivo tedesco: nel 2021, l’interscambio tra Germania e Polonia ha superato quello tra Germania e Italia, la quale resta un importante polo industriale in Europa, forte di una popolazione 60 milioni di abitanti (per quanto in rapido invecchiamento). Tuttavia, la fissazione del confine tedesco sulla linea Oder-Neisse, stabilita a Potsdam nel 1945 e che ha amputato le due Germanie post-belliche della Prussia – confine il cui riconoscimento tardivo è stato imposto dagli Alleati in cambio della riunificazione – lascia in realtà aperta la possibilità di una disputa territoriale tra i due paesi.

La Polonia è un paese di quasi 40 milioni di abitanti, uniti da una forte coscienza nazionale. Essa possiede quindi i due elementi necessari per mettere i bastoni fra le ruote ad un’egemonia politica tedesca esplicitamente affermata: la dimensione critica del suo mercato interno, che le consente di rivendicare una certa autonomia economica sostenendo lo sviluppo di un’industria propriamente nazionale, quantomeno in determinati settori, e quel sentimento nazionale che sostiene la sua capacità di affermare la propria indipendenza nei confronti dell’ingombrante vicino. Dalla disgregazione del blocco dell’Est in poi, la Polonia è riuscita a cavalcare lo sviluppo economico tedesco. In Europa, essa appare come l’unico paese in grado di far fallire un nuovo eventuale tentativo tedesco di instaurare il suo Großraum – fatto che non sfugge agli anglo-americani, i quali vedono in essa il principale vettore dell’atlantismo, e ne hanno fatto il loro avamposto geopolitico sul continente.

Tutto ciò ha implicazioni importanti allorché si consideri l’imperialismo non solo come il dominio di un determinato paese o gruppo di paesi, ma come un processo dinamico di esportazione di una dinamica di sviluppo economico. Giacché, diversamente dal mercantilismo, basato sull’esportazione di merci, l’imperialismo, esportando capitali, esporta necessariamente una dinamica di sviluppo. 

Laddove una simile dinamica giunge a coinvolgere un paese abbastanza grande e coeso, sia dal punto di vista quantitativo (dimensioni del mercato interno) che qualitativo (senso di appartenenza nazionale, necessario a disciplinare la sua classe capitalista), l’imperialismo crea esso stesso gli elementi della propria sovversione. Il rapporto fra Stati Uniti e Cina è un caso esemplare, ma quello tra Germania e Polonia potrebbe costituire un esempio analogo di questo tipo di evoluzione su una scala più ridotta. La contestazione della posizione egemonica, che mette in discussione la supremazia del paese dominante, può quindi portare quest’ultimo a sostituire i mezzi economici con metodi e strumenti politico-militari. 

È evidente come per la Germania vi sia ancora un grande divario tra la prestanza economica del suo grande capitale, e la capacità di tradurre quest’ultima in potere politico e militare nell’arena internazionale. Come già accennato, un simile divario non risulta esclusivamente da un’imposizione esterna (americana), nella misura in cui questa è stata interiorizzata per decenni dalle burocrazie di Stato, dal sistema dei partiti e dalla mentalità di ampi strati della popolazione. 

Gli esiti della Seconda guerra mondiale hanno prodotto una cultura politica molto consensuale, che la caduta del Muro ha reso ancor più conformista. Il grande padronato tedesco ha imparato a farsi discreto, e i partiti di governo si sono abituati a un linguaggio privo di contenuto. «La fine della storia è stata fino a poco tempo fa una realtà per la Germania»[6]. Per lo stesso motivo, però, gli annunci di cambiamenti radicali da parte del ceto politico moderato non devono essere sottovalutati. I segni di accelerazione storica si stanno moltiplicando ovunque e – dalla Zeitenwende alle prospettive di riarmo, passando per la soppressione del freno all’indebitamento – la Germania non fa eccezione.

In definitiva, la visione qui proposta si distanzia dalle analisi del capitalismo tedesco in termini di neomercantilismo – tra le quali la più convincente è senz’altro quella di Joseph Halevi[7]. Ciò non significa che la dimensione mercantilistica (export oriented, direbbero gli economisti) sia necessariamente marginale. Ma bisogna distinguere, da un lato, la natura dei rapporti economici che il grande capitale tedesco ha intrattenuto con i paesi della CEE prima, dell’UE/eurozona poi e, dall’altro, la natura dei rapporti con le aree economiche situate all’esterno di questo perimetro. 

La distinzione fra i due piani suggerisce il succedersi di tre diverse fasi: una prima fase, propriamente mercantilista (1949-1985), nel corso della quale la preoccupazione centrale del grande capitale della RFT è stata quella di ricostruire attorno a sé un’area di mercato sufficientemente estesa da poter assorbire le economie di scala che esso intendeva applicare internamente; una seconda fase (1986-2008) nel corso della quale il grande capitale tedesco si è dispiegato al di fuori della RFT, poi della Germania riunificata, allargando ulteriormente la sua area di mercato privilegiata, ma soprattutto trasformando una parte di essa in una zona di investimento in cui approfondire la divisione del lavoro, strutturando catene del valore complesse; una terza fase (2008-2022), nel corso della quale gli incrementi di produttività preparati dalla fase precedente hanno permesso una più forte penetrazione dei mercati extraeuropei, trasformando inoltre alcuni di questi – in particolare quello americano e quello cinese – in zone di investimento diretto all’estero. 

È ancora troppo presto per definire in maniera soddisfacente la nuova fase, ma quel che si può dire fin da ora è che la sua evoluzione sarà fortemente segnata dalla grande scommessa americana volta a riequilibrare in maniera ricattatoria ed extraeconomica i grandi squilibri globali (global imbalances) intercorrenti tra gli Stati Uniti e i paesi che detengono i maggiori surplus commerciali nei loro confronti. Nel caso della Germania, questa scommessa implica di attirare più investimenti diretti tedeschi verso gli Stati Uniti, sia provocando un’ondata di delocalizzazioni nel contesto domestico, sia dirottando gli investimenti esteri tedeschi già in essere altrove (Cina). 

Dalla fine degli anni Novanta fino in tempi recenti, l’euro ha formalizzato in maniera relativamente adeguata la combinazione di mercantilismo e imperialismo del capitale tedesco sui due piani summenzionati, ovvero in seno alla propria zona monetaria e al di fuori: un’isola di cambi fissi in un oceano di cambi fluttuanti; una valuta allo stesso tempo forte e svalutata quanto basta per accrescere la competitività delle esportazioni tedesche al di fuori dell’eurozona. Quali che siano i lidi verso i quali il capitale tedesco si dirigerà nei prossimi anni, il necessario prevalere dell’esportazione di capitali sull’esportazione di merci renderà probabilmente superflua la svalutazione del Deutsche Mark data dall’euro. Ciò vale anche nell’ipotesi di un ricentramento degli investimenti diretti tedeschi sul continente, corrispettivo economico del grande spazio di schmittiana memoria. 

Conclusione: guerre di oggi… e di domani

Il piano di riarmo europeo ReArm Europe (già ribattezzato Readiness 2030) va visto e analizzato alla luce delle tendenze e dei processi messi in luce fin qui. Verosimilmente, esso avrà effetti differenziati a seconda dei paesi, dei loro tessuti produttivi e delle loro capacità di riconversione dal civile al militare (ad esempio il settore automotive tedesco e il suo indotto). Inoltre, esso verrà attuato in un contesto di perdita di controllo delle alte istanze dell’UE sulle spinte centrifughe, e reciprocamente conflittuali, agite dagli Stati membri o da gruppi di Stati membri. 

Il ruolo della Germania in questo quadro non è ancora definito, e dipende dal suo posizionamento su una scacchiera più grande. Sulla carta, essa ha tre opzioni: a) rafforzare la sua posizione di junior partner di Washington, puntando tutto sull’accesso agli Stati Uniti sia come mercato di sbocco, sia come zona privilegiata di investimento; b) cercare di traghettare l’UE o una parte di essa verso un’intesa «eurasiatista» con la Cina (in attesa di poter riallacciare i rapporti con la Russia); c) decidere di contare sulle proprie forze, tentando ancora una volta la carta dal grande spazio, nell’ottica di svuotare gli altri paesi europei dei loro capitali nazionali. 

L’occasione fa l’uomo ladro: a più di una decina d’anni di distanza dalla crisi dei debiti sovrani in Europa, i paesi della facciata atlantica e mediterranea sono ormai sufficientemente indeboliti da non potersi opporre ad una scalata aggressiva del capitale tedesco nei confronti delle loro economie. Resta una sola vera spina nel fianco: la Polonia. Significativo in questo senso che fra i sedici paesi che hanno finora attivato il principale dispositivo del piano di riarmo europeo (la clausola di esclusione delle loro spese militari dalle regole del Patto di stabilità e crescita), manchino all’appello la Francia, l’Italia e la Spagna, mentre i due principali paesi aderenti siano, guarda caso, Germania e Polonia: per farsi la guerra domani? 

Per la Germania, il piano di riarmo si inscrive in una svolta più generale che la porterà ad aumentare considerevolmente la sua spesa pubblica. Si tratta di un keynesismo tutto sommato tradizionale, i cui eventuali benefici si faranno apprezzare sul lungo periodo. In quale misura questa politica economica sia una risposta al tentativo americano, già da tempo avviato e in fase di escalation, di suscitare un’ondata di delocalizzazioni e di investimenti diretti tedeschi negli Stati Uniti, è un interrogativo destinato a rimanere per il momento senza risposta. Comunque sia, ne va della sostenibilità del compromesso sociale domestico, nel solo paese europeo «occidentale»[8] che abbia conservato in tali proporzioni distretti industriali e grandi concentrazioni operaie sul suo territorio.

Nel frattempo, l’afflusso sul mercato obbligazionario europeo di un volume massiccio di Bund tedeschi, offrendo agli investitori finanziari un titolo di Stato di alta qualità e in quantità ben più grandi che in passato, potrebbe innescare tensioni questa volta focalizzate sulla Francia – tensioni che potrebbero sancire lo scioglimento dell’eurozona. E se fosse questo lo scopo ricercato? Dalla crisi del 2008 in poi, si sono molto rimproverate alla Germania le sue «ossessioni» austeritarie e le ricadute deflazionistiche della sua politica economica sugli altri paesi europei; meno si sono prese in conto le reali conseguenze di una Germania che le abbandona. 

Ma a monte di simili passaggi, incombono in maniera più ravvicinata le conseguenze politiche della vittoria russa in Ucraina. Quando bisognerà infine mettere questa vittoria per iscritto, l’onda di discredito sulle istituzioni europee e sui gruppi dirigenti dei paesi che più hanno spinto l’Ucraina allo sbaraglio contro la Russia sarà prevedibilmente considerevole. 

I movimenti sociali che potranno emergere da un simile scenario non saranno puramente proletari: saranno interclassisti, sovente nazionalisti, diretti contro il declassamento dei loro paesi dettato dalla leggerezza (vera o presunta, poco importa) di ceti politici sciagurati, e traditori del sacrosanto «interesse nazionale». 

Ma è in simili movimenti, e non in altri più conformi ai nostri schemi e ai nostri desiderata, che bisognerà intervenire nell’ottica di far apparire un’opposizione di classe con una visione antisistemica (anticapitalista). È a questo livello che si pone a mio avviso la prospettiva di una ripresa del movimento di classe nei paesi dell’Europa occidentale e centrale, ed è in primo luogo a questo tipo di scenario che dobbiamo prepararci. 


[1] Una traduzione italiana della lettera si può trovare in appendice all’antologia di Karl Marx e Friedrich Engels, La concezione materialistica della storia, Edizioni Lotta Comunista, Sesto San Giovanni, 2008. Reperibile anche qui: https://sinistracomunistainternazionale.com/wp-content/uploads/2015/06/lettera-di-engels-a-franz-mehring-14-luglio-1893.pdf.

[2] Per il resoconto storico di tutta questa parte, ho attinto a piene mani dal prezioso libro di Jean-Christophe Defraigne, De l’intégration nationale à l’intégration continentale. Analyse de la dynamique d’intégration supranationale européenne des origines à nos jours, L’Harmattan, Parigi, 2004.

[3] Per una storia delle alte istanze dell’UE, vedi Perry Anderson, «Ever Closer Union?», London Review of Books, vol. 43, n.1, gennaio 2021. 

[4] Wolfgang Streeck, «Overextended: The Europeans DIsunion at a Crossroads», American Affairs, vol. IX, n.1, primavera 2025, pp. 100-125. 

[5] Ibid

[6] Ulrike Franke, «La questione tedesca secondo una millennial», Limes, n.1, 2022, p. 109.

[7] Vedi ad es. Joseph Halevi, «Il neomercantilismo tedesco alla prova della guerra», Moneta e credito, vol. 75, n. 298, 2022, pp. 203-211.

[8] Le virgolette sono d’obbligo. È solo al prezzo di grandi forzature e amnesie che la Germania può essere considerata come un paese «occidentale». 

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Discorsoni / Analisi

Mimmo Porcaro – L’Italia al fronte. Destre globali e conflitto sociale nell’era Trump

Introduzione

«La fabbrica della guerra» è un ciclo di incontri organizzato a Modena, ospitato dal Dopolavoro Kanalino78, con l’obiettivo di cercare chiavi per comprendere e afferrare la complessità della fase storica in cui siamo immersi, nella quale eventi sempre più accelerati fanno sfuggire la leggibilità del presente. Come coordinata interpretativa abbiamo voluto usare la guerra perché pensiamo sia il grande fatto sociale centrale, la determinante che sta riorganizzando tutto il nostro mondo e le altre dimensioni di questo momento storico, la realtà in cui siamo collocati.

La tendenza alla guerra delle società capitalistiche è diventato un fatto innegabile, lo vediamo sempre più concretamente; ed è una dinamica che arriva a toccarci sempre più direttamente; in altri termini, un fenomeno che sta trasformando non solo il sistema internazionale in cui abbiamo vissuto finora, ma anche la nostra vita quotidiana. Attraversati da questa dinamica, cambiano in profondità i nostri territori, le nostre città, i nostri quartieri, e insieme a loro stili di vita, bisogni, aspettative, punti di vista, comportamenti sociali.

Per i militanti è diventato dunque imprescindibile comprendere queste trasformazioni per agirle, e potenzialmente per ribaltarle. Come recita un vecchio slogan: «Chi pensa deve agire». Noi crediamo che per agire bene bisogna prima pensare bene, ed è questo l’obiettivo del ciclo di incontri.

Il primo tempo di questo ciclo di incontri è stato intitolato «Modena nel conflitto globale».

Quando abbiamo iniziato a riflettere sulla guerra, infatti, non siamo partiti da grandi teorizzazioni, da grandi discorsi di geopolitica. Abbiamo voluto partire dalla visuale del nostro orizzonte, da quello che ci tocca direttamente, quotidianamente. E quindi siamo partiti dal nostro territorio, ossia dall’ambiente geografico e sociale in cui ci muoviamo. L’unico su cui possiamo cominciare ad agire direttamente con i mezzi che abbiamo. Ammettiamolo: non possiamo andare a fermare la guerra in Ucraina e non possiamo fermarla a Gaza, ma invece possiamo agire – dobbiamo agire – qui, dove siamo collocati, sul nostro territorio.

Siamo partiti a inchiestare la «fabbrica della guerra» a cominciare dall’industria della formazione («Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università»), cioè scuola e università, che è parte integrante della catena di montaggio del conflitto. Abbiamo voluto interrogare quei soggetti, studenti delle superiori e universitari, che nei mesi e negli anni scorsi hanno incominciato a mobilitarsi contro la guerra, in particolar modo contro il genocidio a Gaza da parte di Israele. Abbiamo voluto fare una discussione con loro per capire cosa si muovesse a scuola e in università, anche attraverso il metodo della conricerca, presentato dal collettivo Officine della Formazione, attivo nell’università di Bologna, di cui abbiamo presentato un’inchiesta sulla soggettività studentesca. Pensiamo che l’industria della formazione sia baricentrale nella riproduzione capitalistica, andando a formare quelle capacità umane, quei saperi, quelle conoscenze e soprattutto quei soggetti che verranno messi a valore dal sistema capitalistico, e che noi invece dobbiamo provare a “controutilizzare”, “controformare” per andare a combattere la struttura sociale che produce la guerra.

Il secondo incontro è stato invece sulla fabbrica emiliana («La guerra sul territorio. Industria modenese, produzione bellica e operai: come si trasforma la fabbrica emiliana nella crisi globale?», di prossima pubblicazione), l’industria in senso stretto, osservando quelle caratteristiche che contraddistinguono il nostro territorio. Parliamo infatti di un territorio a vocazione industriale, soprattutto meccanica. Nel corso dei decenni si è consolidato un tessuto di fabbriche, soprattutto di media o piccola dimensione, molto particolare, organizzato in distretti, che dagli anni Ottanta in poi è riuscito a internazionalizzarsi ed essere volano dello sviluppo e dell’accumulazione capitalistica italiana. Ci troviamo su uno dei vertici di quel triangolo Lombardia-Emilia-Veneto a propensione per l’export, in cui si producono i macchinari e la componentistica che alimentano le catene di subfornitura a livello internazionale e globale; una parte di territorio nazionale che, ancorandosi soprattutto all’economia tedesca, è riuscito a integrarsi profondamente nelle catene del valore della globalizzazione.

Il punto prospettico su cui è stata focalizzata la nostra inchiesta sul tessuto industriale modenese è stato appunto il rapporto tra la crisi dell’automotive tedesco e la tendenza alla guerra. La nostra ipotesi era che la crisi delle grandi case automobilistiche tedesche, determinata dalla distruzione dei fattori cruciali dello sviluppo tedesco – ossia l’energia a basso costo dalla Russia e la penetrazione nel mercato interno cinese –, e la compromissione radicale dell’economia tedesca in senso lato, avrebbe provocato un effetto a catena che si riflette su quel reticolato di subforniture che coinvolge la provincia di Modena – la Motor Valley appunto. La tesi che abbiamo sviluppato è che questa crisi può essere l’occasione, il volano, per una ristrutturazione delle competenze e degli impianti impiegati nel settore automobilistico in funzione bellica. In sintesi, venute meno le commesse tedesche, queste piccole e medie fabbriche modenesi, inserite strettamente nelle catene globali del valore, si riconvertono per fornire componentistica alle industrie belliche (come, per esempio, Leonardo).

Abbiamo presentato questa inchiesta insieme a Giovanni Iozzoli, che invece ha discusso dell’aspetto interno alle fabbriche, con una ricognizione sugli operai e le rappresentanze sindacali. La nostra ipotesi ce l’ha confermata la stessa Meloni qualche qualche tempo dopo, quando è uscito un articolo sul «Corriere della Sera», ripreso poi da tutti gli altri quotidiani, dove si parlava di questo “piano segreto” di riconversione dell’automotive italiana in industria bellica.

Quindi, attraverso un metodo che abbiamo condiviso nel corso degli anni, siamo riusciti ad anticipare e a vedere sul nostro territorio questi processi in atto, che andranno a trasformare il territorio e soprattutto la condizione di chi ci vive, così come i possibili comportamenti dei soggetti sociali che si muovono in esso. Lo ripetiamo, non intendiamo indagare questa situazione per mera conoscenza sociologica, ma per indirizzare politicamente un’azione che sia pregna di contenuto e che sappia anticipare le situazioni che potranno crearsi a fronte dell’accelerazione degli eventi e soprattutto dell’approfondimento dello scenario di guerra che ci coinvolge sempre di più.

Questi i motivi per cui parliamo di «fabbrica della guerra»: è qua che si produce la guerra, sostanzialmente, nei suoi elementi materiali. Le industrie che prima producevano componentistica per auto oggi lavorano su alettoni per missili, cingoli per carri armati; l’università produce software e sviluppatori di software per l’intelligenza artificiale usata anche a scopo bellico, come i sistemi di identificazione e di puntamento, e via di questo passo. La nostra provincia si dimostra una punta avanzata di questo sviluppo tecnologico, improntato sul passaggio dal welfare al warfare.

Per non cadere vittime del localismo, attraverso il secondo tempo del ciclo («Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema») abbiamo provato ad alzare lo sguardo dal nostro orizzonte quotidiano e raggiungere una contestualizzazione di più ampio respiro. Tenendo sempre ancorato lo sguardo sulle trasformazioni nella composizione di classe, abbiamo allargato via via il punto focale per vedere dove questi processi si iscrivono a livello internazionale e globale, e quale la loro dimensione politica.

Abbiamo iniziato a indagare, con Mimmo Porcaro, su quale linea del fronte si colloca l’Italia, tra ascesa di rinnovate destre globali, da Trump a Meloni, e possibile, inedita riemersione di una “questione nazionale” che, a bene vedere, non potrà essere esaurita dentro le destre, ma intercetterà i movimenti a venire della composizione di classe; con Raffaele Sciortino, abbiamo cercato di definire la strutturazione che l’imperialismo ha assunto, tra continuità e discontinuità, dal Novecento alla crisi del 2008, e di capire cos’è oggi alla luce della configurazione concreta del mercato globale e dello scontro Stati Uniti e Cina; infine, con Robert Ferro, abbiamo ragionato sulla traiettoria dell’Europa a fronte della crisi tedesca, al cuore del progetto europeo, e della chiarificazione del rapporto tra Unione Europea e Stati Uniti.

Tutte questioni che, a nostro parere, si intrecciano. Per questo, partendo da singoli anelli, ricostruire la catena dei fenomeni significa provare a comprenderla e possederla – anche per non farci “incatenare” a terra dal caos montante.

Nel primo incontro con Mimmo abbiamo discusso della posizione dell’Italia nella crisi globale. Dove stiamo andando? Che ruolo ha l’Italia in questo caos politico? Cosa rappresenta il successo delle destre in ascesa un po’ in tutto il mondo, da Trump alla Meloni fino all’Est Europa?  È il ritorno del fascismo, come ci dicono le centrali democratiche progressiste, oppure qualcos’altro? Che differenze ci sono tra di loro e tra gli interessi che rappresentano? E poi, in che modo questo accartocciamento delle relazioni internazionali, questo stato di guerra sempre più approfondito può creare le condizioni, le opportunità dello sviluppo di un nuovo ciclo di lotte di classe, o quantomeno di una ripresa delle lotte di classe? E nel caso, che forme e istanze avranno queste lotte?

Dopotutto, le lotte ripartono da dove avevano trovato una sconfitta, ma sempre portando in strada nuovi istanze e nuovi soggetti. Se ci permettete un’immagine, diremmo che assistiamo in un qualche modo a un ritorno dell’antico: la marea della globalizzazione si ritira e lascia sul terreno questioni che aveva sommerso o che aveva voluto sommergere. Questioni tipiche della Modernità come la nazione, la sovranità politica, la realpolitik, l’equilibrio di potenza, le sfere di influenza… e con queste anche la lotta di classe. Tutto ciò ci porta a domandarci se siamo di fronte, o potremmo essere di fronte, a una ripoliticizzazione del sociale, o piuttosto a una ripolarizzazione dello spettro politico, e quale ruolo, dentro ai processi a venire, potranno e dovranno avere i militanti che del processo vogliono organizzare la rottura rivoluzionaria.

Buona lettura.

Mimmo Porcaro

Quando ho letto il titolo della locandina che mi ha mandato generosamente il compagno, gli ho detto “guarda, porto un amico”, perché rispondere a tutte queste domande qua è diventato un po’ difficile. Teniamo conto infatti che sono questioni complesse per chiunque. Si discuteva prima che ho scritto un articolo contro «Limes» e di loro alcune posizioni importanti; ebbene, pensate che adesso i rumors danno Caracciolo in grossa difficoltà dentro la rivista perché pare che il gruppo editoriale Gedi non accetti molto la sua valutazione sul carattere tra virgolette “razionale” del trumpismo. In effetti, ha dei caratteri di razionalità politica elementare che i democratici americani avevano completamente perduto. Sono chiacchiere, rumors, però sicuramente dietro c’è un problema reale, perché quando qualcuno si mette a fare un’analisi obiettiva (si può dire quello che si vuole di «Limes», ma mi sembra che abbia sempre portato dei contributi seri), comincia a diventare fastidioso anche se è uno dei piani alti, molto alti, come suggerisce il cognome stesso.

Per fare un altro esempio della complessità della questione, io avevo scritto un articolo per «La Fionda» e che avevo mandato ai compagni per dare un’idea di quello che avrei voluto dire. Be’, l’ho riscritto. Già solo qualche giorno dopo ho dovuto riscrivere dei pezzi perché non mi convinceva come avevo reso il rapporto tra Trump e il capitalismo finanziario, o tra Trump e il capitalismo industriale… Insomma, siamo dentro situazioni che cambiano continuamente. La nostra capacità analitica già non era eccelsa prima, perché le grandi strutture di analisi legate ai partiti di un tempo sono scomparse, e andiamo avanti tutti in maniera artigianale; ma dobbiamo comunque avere il coraggio di fare delle ipotesi, sapendo che dopodomani potrebbero essere smentite. La situazione è difficile anche per le grandi potenze internazionali, salvo tre o quattro superpotenze che controllano molte variabili e quindi possono decidere con un livello di rischio di errore diciamo basso, basso ma non zero. Salvo loro, anche le cancellerie delle medie potenze europee e internazionali non sanno che pesci prendere, anche perché non sanno che tipo di eventi verranno prodotti dai rapporti difficilissimi, nonostante l’apparenza, tra le tre superpotenze. Oggi quindi siamo qui per tentare di capire, sapendo con umiltà che potremmo sbagliare moltissimo.

Io in realtà, prima di rispondere direttamente alle domande sull’Italia e sulla lotta di classe, devo per forza dire due cose sull’imperialismo e sull’Europa, rubando quindi un po’ del tempo che poi useranno Sciortino e Ferro – con i quali, tra l’altro, da un anno e mezzo a Torino stiamo costruendo assieme ad altri compagni un seminario proprio sull’imperialismo, che attraverso l’analisi dei rudimenti minimi, anche a partire da una rilettura di Marx, sta arrivando a individuare una serie di nodi. Vi dico quello che penso io: noi non abbiamo la pretesa di arrivare a una posizione unitaria, di fare il nuovo partito o queste cose qua. È una discussione molto franca tra compagni di provenienze molto diverse (andiamo dal centrosocialismo al sovranismo di sinistra), e però con grandi capacità di dialogo perché uniti dall’intento comune di cercare di capire qualcosa in funzione di una ripresa del conflitto sociale.

Allora, Trump.

Dunque, partiamo da una cosa abbastanza significativa, un’intervista che lui diede tempo addietro, non so se al «New York Times» o a quale altro giornale americano, in cui l’intervistatore gli disse: «Ma lei, signor Trump, è filo Putin. Ma lei lo sa che Putin è un killer? È un vero son of a bitch?» E risponde lui: «Bah, sì, un killer. Ma noi abbiamo trattato con una marea di killer. Ma cosa credete, che noi siamo innocenti?» Quando uno sente queste cose, pensa subito: “Toh, che simpatica canaglia. Visto che parliamo di un bieco imperialista eccetera eccetera, meglio uno così che dice la verità piuttosto che quegli altri che ammantano l’imperialismo con le guerre umanitarie, i valori e queste cose qua”. È vero sotto certi aspetti, non per il fatto che non dica la verità – io credo che menta nell’80% dei casi, mente come chi deve negoziare e ha una concezione transazionale della vita – però nella sostanza sicuramente mostra con maggiore durezza i rapporti di forza.

Ma non è vero che faccia la stessa cosa che facevano gli altri prima, con l’unica differenza che lui lo ammetta. Lui fa una cosa molto diversa rispetto a quanto abbiamo visto finora. È un’altra modalità, un’altra declinazione dell’imperialismo, ma è diversa da quella precedente e questa differenza conta. Quella precedente è quella che si ammantava dal termine “globalizzazione”, una macrostruttura capitalistica che pensava di riuscire a conquistare il mondo intero attraverso l’allargamento del sistema americano. Allargamento che, guarda caso, ogni tanto aveva bisogno di qualche colpo militare (e quindi Serbia, e quindi l’Iraq, e quindi Libia e così via), ma che però sostanzialmente si basava sull’apertura del libero mercato con il quale, secondo Clinton, si sarebbe riusciti a comprare la Russia e che, secondo tutto il pensiero neocon americano, avrebbe imposto una prospettiva liberale per la Cina facendo crollare il partito comunista. La cosa non ha funzionato.

È una modalità dell’imperialismo, e non va inteso come un mero slogan ma per capire a fondo cosa stiamo vedendo. Si tratta di una modalità dell’imperialismo perché in realtà anche la semplice transazione economica dal punto di vista capitalistico è già una costruzione di gerarchie ed è per questo che ha bisogno di essere continuamente accompagnata dalla forza armata. Non si dà espansione del libero mercato senza l’esistenza di uno o più eserciti che presidino le zone nevralgiche e che consentano di indebolire tutti gli Stati che possano avere quel minimo di forza tale da porre dei limiti al libero movimento del capitale. Se ci pensate, la colpa maggiore di tutti i famosi “dittatori” che sono stati estromessi dalla politica estera americana non era quella di essere dei dittatori (cosa della quale, agli Stati Uniti, non è mai fregato nulla), ma il fatto di avere costruito degli Stati sufficientemente forti da poter dare fastidio. Questo era, diciamo, il primo tempo di quella che era la globalizzazione, una fase storica che troppi della sinistra, soprattutto della sinistra paracomunista, hanno preso come “la fine degli Stati”, lo sviluppo di un “mondo piatto”, senza conflitti statuali (“Finalmente!”, diceva qualcuno, come nei famosi testi di Negri e compagnia briscola).

Era, si noti bene, una modalità dell’imperialismo che ha prodotto degli squilibri tali da non essere più sostenibile. Paradossalmente rispetto agli scopi iniziali, ha prodotto un indebolimento di quella potenza che si pensava come potenza unipolare – gli Stati Uniti – perché sia l’espansione economica che l’espansione militare si sono rilevate alla fine troppo pesanti. L’espansione economica, per come si è sviluppata realmente, ha prodotto uno scompenso fortissimo dei conti con l’estero degli Stati Uniti, sia nella bilancia commerciale che nella bilancia dei pagamenti (in altri termini, questi signori vivono a debito e il giorno che qualcuno richiedesse il pagamento dei debiti in teoria dovrebbero saltare, cosa che chiaramente non succederà nei nostri tempi); e in più la sola estensione militare, a fronte anche delle sconfitte che sono state patite nei progetti militari americani (prima l’Afghanistan, adesso l’Ucraina, e se anche ci fossero Biden o la Harris dovrebbero comunque trattare la pace) è diventata obiettivamente un peso eccessivo per gli Stati Uniti.

La risposta di Trump sotto questo punto di vista si riallaccia a tutta l’elaborazione del cosiddetto realismo politico americano. Per intenderci, quando Clinton, il venerato Clinton, aveva iniziato a dire che bisognava espandere la Nato all’estero verso Est, una cinquantina di osservatori formatisi in questa scuola di realismo politico (gente che aveva gestito la Guerra fredda, quindi non proprio delle colombelle) scrissero una lettera in cui grossomodo dicevano: “Signor Presidente, quello che lei sta commettendo è un gravissimo errore che avrà delle conseguenze incalcolabili”. E Trump non fa che riprendere questo filo di ragionamento dicendo, in sostanza: “Noi dobbiamo dominare, noi dobbiamo essere i primi, ma non possiamo far sì che il mondo sia tutto simile a noi; quindi dobbiamo imporre la nostra volontà all’interno di un rapporto di forze internazionale che, purtroppo, di fatto è multipolare”.

I due punti significativi e interrelati sono questi. Trump riconosce realisticamente che non può far diventare liberale la Cina (e neanche gli interessa), né può far diventare liberaldemocratico Putin. Deve tener conto dei rapporti di forza, ma non per tenerli come sono. Piuttosto, ne tiene conto e accetta il mondo multipolare non come un equilibrio già costruito, ma come un campo di battaglia in cui lui deve in qualche modo primeggiare. Trump rappresenta, diciamo così, una fase di parziale ritirata tattica. Dopo che si era espanso troppo, l’imperialismo americano ha bisogno di rientrare un attimo nei ranghi, di ritornare nel suo mondo (che non è solo costituito dagli Stati Uniti, ma da tutto il blocco occidentale), rafforzare le posizioni all’interno di quel blocco. Per poi? Puntini puntini. Questo lo vedremo perché, come dirò dopo, ci sono anche degli elementi oggettivi che comunque spingono verso una ripresa di una politica aggressiva. Che cosa succede quindi?

Mi riallaccio a un importante studio, poco noto in Italia, svolto da studiosi dell’Università di Amsterdam e raccolto in Trump and the Remaking of American Grand Strategy, che ha il merito di esporre con grande chiarezza e dovizia di elementi la differenza di fondo della situazione odierna. Il precedente corso, iniziato con Clinton e protrattosi fino a Obama, vedeva nell’espansione all’esterno degli Stati Uniti la condizione per la crescita interna e per il benessere interno. Trump, almeno a parole, fa l’operazione contraria: prima rafforzare la base produttiva e finanziaria statunitense, e solo dopo e in funzione di ciò pensare all’espansione all’esterno. È una differenza importante, ma non è una differenza tra la guerra e la pace. Perché?

Spesso si sente dire che Trump sostituisce la logica della guerra con la logica dell’economia, e che un attrito economico è pur sempre preferibile alla guerra aperta. Il problema è che da questo punto di vista la traiettoria di Trump rientra in un quadro che la polemologia ha già individuato da molto tempo, e che in America viene sintetizzata nella formula di Daniel Bell, uno dei più grandi sociologi americani, che sostiene che «l’economia è la continuazione della guerra con altri mezzi». Infatti, come ho detto prima, anche quando l’economia si svolge lungo una dinamica win-win, nascono comunque dei rapporti gerarchici; ma l’economia diventa un elemento bellico e potenzialmente creatore di conflitti bellici soprattutto quando è concepita espressamente come un gioco a somma zero, del tipo io vinco-tu perdi, in cui cioè scompare l’illusione dello scambio che fa contenti tutti. Lo scambio economico è un momento di scontri durissimi, e quindi, in modo o nell’altro, prelude sempre alla possibilità di scontri militari. Ma non finisce qui. C’è sempre da tenere presente che nessuna presidente degli Stati Uniti d’America può ignorare quello che hanno fatto i presidenti precedenti.

Se voi guardate bene c’è una serie di continuità impressionanti su alcuni elementi. Intanto, nel fregarsene dell’Europa tutti sono uguali (solo che lì veramente Trump lo dice a chiare lettere). Però, per esempio, il primo a parlare di dazi è stato Obama, poi è arrivato Trump, poi è arrivato Biden che ha fatto dazi ancora più duri di quanto non avesse fatto Trump, e così via. Perché? Perché da un lato, le scelte dei presidenti precedenti rispondevano comunque a problemi oggettivi, pesanti, reali; dall’altra, quando si muovono gli Stati Uniti non è che si muove il comune sperduto o il paesello, ma creano delle realtà oggettive e dei rapporti sociali che poi non è facile modificare. Si determina così un crescendo tale per cui nessun presidente può far finta che “quello di prima” non abbia fatto niente di buono, e deve in qualche modo proseguire da lì.

Nella fattispecie Trump si troverà di fronte a un nodo fondamentale, ossia la centralità della difesa del dollaro per far sì che gli Stati Uniti si indebitino nella moneta che stampano, rimanendo così a galla. Ma la centralità e la fiducia nel dollaro si può ottenere soprattutto attraverso la costante presenza militare e politica nelle zone centrali del mondo; quindi Trump non potrà – ammesso che lo voglia – tornare completamente indietro rispetto a questa situazione e dovrà farci in qualche modo i conti. Detto ciò, qual è l’ulteriore differenza tra Trump e le presidenze passate che ci interessa più da vicino?

La novità rispetto alle precedenti amministrazioni è l’aperta e decisa rottura con l’Europa e il fatto che quelle forme di scontro che prima venivano indirizzate nei confronti dei paesi fuori dal blocco occidentale, adesso si rivolgono al suo interno per rafforzare dentro l’Occidente la forza degli Stati Uniti d’America e per concentrare tutte le forze possibili e immaginabili ai fini della fase successiva dello scontro. È evidente a tutti che l’Europa sia sotto attacco e che questo sia un problema cruciale per le classi dirigenti. Però, se uno cercasse di guardare con un occhio più storico, si potrebbe chiedere: ma non stanno forse nascendo le condizioni per l’esaurimento degli esiti della Seconda guerra mondiale?

Infatti, per molti studiosi di storia e di geopolitica, la Seconda guerra mondiale non è stata soltanto la sconfitta del nazifascismo, ma soprattutto la sconfitta dell’Europa, perché è stata a) la sconfitta delle pretese coloniali dei grandi imperi, inglese e francese, cosa resa evidentissima nella crisi di Suez del 1956, e b) è stata anche il tentativo ben riuscito di isolare e di combattere quello che poteva essere (e in effetti era) l’avversario economico numero uno degli Stati Uniti in Europa, cioè la Germania. Vi faccio un esempio a mio parere emblematico: il termine “Guerra fredda” non nasce per indicare l’ostilità nei confronti dell’Urss, ma si presenta per la prima volta nel lessico politico americano in ambito giornalistico nel 1943-1944, quando l’esito della guerra in corso era comunque scontato, per indicare l’impellenza vitale di proseguire, anche dopo la pace, un assalto velato nei confronti della Germania, che le avrebbe impedito di avere un ruolo economico in futuro.

Detto ciò, rimangono alcune domande aperte. Infatti, considerando a) che gli americani si disinteressano dell’Europa, b) che dal 1989 lo scontro tra Unione Sovietica e Stati Uniti è finito e c) che oggi non v’è più neanche uno scontro diretto con Putin, perché non si riesce a prendere atto di questo distacco e iniziare una “risovranizzazione” dell’Europa, ossia un percorso che la faccia diventare un vero e proprio soggetto politico? Questo è un bel problema. Riuscire a capire perché gli europei si stiano comportando in questo modo, vale a dire perché continuino una guerra che apparentemente loro non hanno voluto, che hanno solo subito e che oggi gli attori principali vogliono interrompere, è indubbiamente un busillis.

Insomma, come dicono al mio paese d’origine, ccà nisciuno è fess, ma guardarle così certe cose sembrano veramente autolesionistiche. Sarà che abbiamo un ceto politico incapace di fare delle scelte di importanza storica perché è composto di gente cresciuta in un’epoca in cui sembrava che la politica fosse finita (dopo l’‘89 non c’è stato nessuno che avesse la statura dei vecchi leader europei); sarà che finora hanno sostenuto che la guerra in Ucraina è santa e giusta, che ci dovevamo svenare per farla, quindi non è che dall’oggi al domani possano dire «no basta, abbiamo scherzato, non si fa più». Ma questi elementi (pure innegabili) non sono sufficienti a spiegare una situazione che eccede le logiche di comune propaganda politica.

È qualcosa di molto più profondo, perché scegliere la strada del riarmo nei termini in cui l’ha presentata la Von der Leyen significa un cambiamento di paradigma economico, politico e sociale. Ma allora perché siamo a questo punto?

Alcuni elementi mi sento di anticiparli sin da ora. Ovviamente, se tu sai che il tuo alleato principale e protettore ha deciso di diminuire il tasso di protezione, è logico che tu ti ponga un problema di gestione del tuo apparato militare; il che però è diverso da quello che è stato proposto. Il piano presentato a Bruxelles probabilmente dipende da due fattori, tra loro convergenti.

Il primo è il fatto che il cosiddetto capitalismo europeo non è solo europeo, ma è un capitalismo ibrido, misto europeo-americano. Come aveva già brillantemente intuito un grande filosofo marxista negli anni Settanta, Nicos Poulantzas, la presenza dei fondi di investimento americani nel capitalismo europeo è a livelli altissimi. Gli investimenti diretti all’estero (Ide) da parte degli Stati Uniti d’America – Ide che, tra l’altro, secondo Lenin, sono il primo motore dell’imperialismo – negli ultimi decenni sono declinati in tutte le zone del mondo, ma sono invece decisamente aumentati per quanto riguarda il capitale europeo e in particolare per le aziende capitalistiche più centralizzate e a più alto livello tecnologico. Quindi il core del capitalismo europeo è misto, e ha tendenze che sono simili a quelle del capitalismo americano, soprattutto del capitalismo estrovertito che, si noti bene, ha ancora interesse a mantenere comunque un fucile puntato contro la Russia – interesse che peraltro ha lo stesso Trump perché il leitmotiv delle sue ultime dichiarazioni si riassume in “andremo verso la pace e rispetteremo le zone di influenza, però questa è zona mia e deve essere armata, preferibilmente armata con i soldi degli altri”.

Il problema è che poi, lo vedrete, si chiederà all’Unione Europea anche di acquistare il debito pubblico americano in sostituzione di quella fetta di debito che i cinesi non acquisteranno più (e che già stanno già diminuendo vorticosamente). Per ora si tratta ancora di ipotesi e previsioni, ma nell’ultima riunione del seminario che stiamo tenendo, dati alla mano, siamo arrivati a vedere che c’è questa possibilità.

Detta fuori dai denti: se vogliamo capire quello che dobbiamo fare noi, dobbiamo partire da quello che succede in Europa. E in Europa ci troviamo in una situazione per cui quello che i geopolitici chiamano “l’incubo di Mackinder” non si realizza.

Halford Mackinder sosteneva una cosa sacrosanta, che forse con il tempo ha mutato di peso però rimane cruciale prestarle attenzione. Non vi ripeto tutta la formula perché poi ci perdiamo (e perché la geopolitica comincia anche a stufarmi… io sono un filosofo, malriuscito, vedi te se mi devo mettere a studiare ‘ste cose. Ma vabbè, dobbiamo farlo). Ve la faccio breve. Lui parlava dal punto di vista inglese, ma vale a maggior ragione anche per gli Stati Uniti: bisogna evitare che si formi la cosiddetta Eurasia, chiamiamola così. Ovviamente non nel senso dell’euroasiatismo di Dugin, quei blateramenti sulla cultura reazionaria russa che si sposa con la cultura reazionaria europea, no. Il problema è molto più prosaico. Se le risorse tecnologiche e finanziarie dell’Europa e dell’Unione Europea intrecciano le risorse energetiche e politico-strategiche più in generale della Russia, gli Stati Uniti cominciano a declinare veramente, perché oltre a un competitore come la Cina, avremo un competitore euroasiatico fortissimo. E quindi devono fare di tutto per impedire che questa cosa si realizzi.

Come si può impedire l’incubo di Mackinder? Come si può impedire l’unione di europei e di russi? In due modi. O fai la guerra insieme agli europei contro i russi, o ti agganci con i russi con il retropensiero di mantenere divisa l’Europa (così come secondo molti studiosi è stato fatto durante la Guerra fredda, perché quello che teneva in piedi l’equilibrio tra i blocchi era la divisione dell’Europa). Trump sta riuscendo a fare entrambe le cose, perché fa in modo che l’Europa di fatto continui a combattere la sua guerra contro la Russia, e nello stesso tempo lui costruisce un patto con la Russia in barba all’Unione Europea. Quindi, insomma, siamo fregati da tutti i lati.

Tra l’altro, non dimentichiamolo, un ulteriore motivo di giustificazione del bellicismo dell’Unione Europea è il modello di sviluppo che si prospetta. Considerate le difficoltà (tecniche, economiche e politiche) di costruire un modello di accumulazione nuovo attraverso la cosiddetta svolta green: cosa c’è di meglio di un bel riarmo per far ripartire tutto? È quello che mi diceva anche la vecchia saggezza degli avversari: io ho lavorato molto con i commercialisti perché come funzionario del tribunale di Torino facevo anche i giri per i fallimenti, e ne ricordo uno che mi diceva: «Caro dottore mio, ma lo sa cosa ci vuole qui? Una bella guerra come quelle che si facevano una volta!» Ed era uno che i conti li sapeva fare; diceva una castroneria, ma non era del tutto una castroneria. A mio modo di vedere, le vostre analisi e le vostre indagini lo stanno dimostrando in maniera chiara. Come si risponde alla crisi dell’automobile? Non con l’auto elettrica; magari si sarebbe potuta fare se fossimo partiti in maniera diversa, “ma adesso non si può”.

Quindi, per vari motivi, direi che la paura della Russia è la spinta del capitalismo americano – ma comunque questo lasciamo aperto come interrogativo, Robert saprà rispondere molto meglio di me. Di certo il problema è che alla fine, comunque la giri, andiamo verso una prospettiva bellica. E che fa l’Italia della prospettiva bellica? Niente! Rispetto a quello che dovrebbe e potrebbe fare, niente. Allora qui si cominciano a vedere le caratteristiche fondamentali di quello che alcuni giustamente chiamano il “sovranismo di cartone” (posto che si riferiscano solo a questo).

Adesso, non mi interessa saggiare quanto la Meloni sia fascista o meno, ma si trova comunque una costante, una caratteristica fondamentale del nostro nazionalismo. Essendo il nostro, come diceva ancora Lenin, un “imperialismo straccione”, mancando cioè le basi economiche e il patto sociale (sia esso consensuale o autoritario) che ci consentano di avere veramente un ruolo protagonistico in situazioni belliche, cosa fa l’Italia? Il nazionalismo italiano è costretto a scegliersi sempre una potenza a cui appoggiarsi; una potenza che alla fine si rivela più feroce, più determinata, più forte di noi, e quindi condiziona la nostra vita ben oltre le nostre intenzioni. Così ha fatto Mussolini con Hitler; così sta facendo la Meloni con Trump. Addirittura “il capitano” Salvini sta cercando di giocare insieme sia con Trump che con Putin in questa partita (con la differenza che la Meloni fa questo sia per vocazione e per calcolo, però al momento sta giocando un ruolo relativamente centrista, perché la destra estrema continua a stare con Salvini; ma ne parliamo dopo).

Cosa sta facendo il governo in questo caso, con questa scelta di Trump come interlocutore fondamentale? Fa quello che l’Italia ha quasi sempre fatto nelle relazioni internazionali, cioè giocare la carta degli Stati Uniti contro la Francia e la Germania, insieme o a turno. Questo è una invariante della politica italiana. Un’invariante che trovavamo anche nei tempi “eroici”, cioè anche di quando, per capirci, Fanfani faceva il neoatlantista e andava in giro per il Mediterraneo a produrre una politica che effettivamente, se poi messe in parallelo con le scelte di Mattei (anche se i due non lavoravano affatto insieme), significava sicuramente un ruolo progressivo per l’Italia. Ma questo ruolo progressivo è stato giocato perché gli americani in quel momento avevano in odio i francesi e gli inglesi in una sorta di prosecuzione della Seconda guerra mondiale e, data la necessità di tenere gli ex imperi con la testa sotto la sabbia, noi italiani gli servivamo per riuscire a controbilanciare nel Mediterraneo la presenza e la potenza degli altri due attori. Dopodiché, come dicono gli avvocati, male captum bene retentum. Però quello è stato l’unico esempio, l’unico momento virtuoso di questo giochino che noi facciamo con gli americani contro gli altri.

Detto ciò, quali sono le strade che sembrano aprirsi all’Italia in questa competizione?

Poca roba. Al momento le alternative sembrano due – a parte l’adesione integrale alla strategia dei padroni americani del passato, che è una situazione veramente imbarazzante. O vedremo una pseudo-mediazione, che è ciò che sta cercando di portare avanti la Meloni – dico “pseudo” perché non è che Trump aspetti la Meloni per imporre qualcosa all’Europa: noi facciamo solo finta di giocare un ruolo diplomatico da cui lucrare qualche titolo di beneficio per tenere insieme la baracca occidentale facendo, diciamo, il trait d’union tra Trump e la Von der Leyen; secondo me è un ruolo che non porta proprio a nulla se non rimanere sia nel solco del bellicismo europeo, sia nel bellicismo trumpiano – o l’altra scelta, per adesso minoritaria, ma non è detto che lo debba essere sempre, è quella di Salvini, cioè la scelta dell’isolamento relativo dall’Unione Europea e dell’utilizzo dell’accordo potenziale tra Stati Uniti e Russia (o meglio tra Trump e Putin) per riuscire a commerciare con entrambi e a mantenere un duplice rapporto, una duplice investitura internazionale che consentirebbe a questo punto al partito che interpretasse questo ruolo di fare un salto avanti all’interno della situazione politica italiana, in particolare se riuscisse a intercettare i malcontenti.

Se vogliamo descrivere la posizione nostra, così come l’ho sommariamente definita, siamo di nuovo ad alcuni vecchi luoghi comuni dell’analisi geopolitica italiana, in particolare ben studiati da Carlo Maria Santoro, a mio modo di vedere uno dei migliori studiosi del nostro paese. Santoro sostiene che storicamente l’Italia oscilla tra il considerarsi del tutto impotente e il sovrastimare le proprie capacità – quindi ondeggiare tra un liberalismo che se ne sta nascosto alla Giolitti, e un Mussolini; tra un Fanfani tronfio, e le altre soluzioni invece molto più timide; tra un Berlusconi e un Letta. Un’altra fluttuazione tipica della geopolitica italiana è quella, figurativamente parlando, tra l’essere isola o penisola – vale a dire tra comportarsi come un soggetto completamente autonomo che trova la propria legittimità geopolitica ed economica nel Mediterraneo, e solo successivamente media con l’Europa, oppure come soggetto che punta essenzialmente sull’Europa continentale e successivamente porta questa sua forza acquisita dalla mediazione europea nel Mediterraneo.

Allora, io per molto tempo ho pensato alla prospettiva mediterranea come quella “che avrebbe potuto”. Ma non siamo più all’epoca dei Moro, dei Fanfani, dei Mattei, e neanche dei Craxi; quell’epoca in cui il Mediterraneo era in qualche modo, tra molte virgolette, un mare nostrum, un mare in cui comunque non c’erano così tanti conflitti di potenza come oggi. Sì, c’erano gli inglesi che comunque hanno sempre lavorato contro di noi, ma questa era una vecchia storia che ormai sembrava superata. Adesso il Mediterraneo non è un territorio dove tu puoi fare affari, dove puoi portare l’economia estera italiana come un modello non colonialistico… Ora il Mediterraneo è un inferno. Il Mediterraneo è un luogo di guerra latente, e di potenziali conflitti enormi. Nel Mediterraneo si scontrano la Francia e la Russia (e lo scontro Francia-Russia è uno dei motivi del bellicismo europeo, perché la Russia sta scalzando posizioni francesi in Africa), c’è la Turchia… In un contesto simile, con le economie dei paesi costieri in grossa difficoltà, crediamo forse di poter costruire una prospettiva italiana autonoma per poi giocarcela all’interno dell’Unione Europea? Io credo che non sia possibile. Oltretutto, se ci si presenta come isola, saremmo, da soli, sulla linea di confine tra Occidente e Russia: in una relazione che oggi è una relazione di, tra virgolette, “avvicinamento”; ma domani, data la turbolenza mondiale, può essere di nuovo una relazione di scontro. A starci nel mezzo, da solo, finisci male.

[Kamo: Facciamo un inciso. Ricordiamo che dopo la sconfitta della Siria assadista, il grosso della forza navale della Russia nel Mediterraneo è confluita dalle basi siriane di Tartus alla Cirenaica libica. Quindi abbiamo la flotta russa davanti alla Sicilia].

Esatto. Tra l’altro, concedetemi una battuta. Io non capisco (o meglio, lo capisco) perché in Italia non ci sia nessun politico che abbia il coraggio di farlo perché tutti hanno paura di fare i nazionalisti “come si deve”. Il punto è questo: ma è possibile che nessuno si alzi a dire alla Meloni: «Ma che coraggio lei parla di nazione quando un suo governo, con lei ministra degli Affari giovanili e l’attuale presidente del Senato come ministro della Difesa, ha provocato all’Italia la più grande sconfitta strategica dopo la Seconda guerra mondiale e cioè la guerra in Libia? Si vede che ci siete abituati!» Il nazionalismo di cartone si misura da lì. La Libia, sotto certi aspetti, è stato un modello per quanto possibile di relazione tra un paese altamente sviluppato e un paese non sviluppato, perché era sostanzialmente imposto da Gheddafi il massimo regime di parità possibile. Era una relazione utile per entrambi, e per noi decisiva. E poi invece siamo arrivati alla situazione di oggi. La soluzione dell’isola oggi non è praticabile.

Ci sarebbe un’altra soluzione – ma non è praticabile oggi per motivi di classe – ed è l’ipotesi di un diverso rapporto all’interno, non dico dell’Unione Europea, ma dell’Europa. Mi riferisco alla costruzione di rapporti intergovernativi fondati sull’idea di neutralità dell’Europa, o comunque dei paesi che facciano parte di questo accordo; un patto che sia anche un accordo di mutuo aiuto economico, perché uno dei problemi fondamentali per costruire una politica progressiva è quello di riuscire ad essere il più possibile indipendenti dai movimenti internazionali di capitale. Per esserlo tu devi costruire un’area economica relativamente chiusa. Il buon Fassina (che è sempre ottimo nelle diagnosi, non così ottimo nelle terapie) ha sempre detto che l’Europa sarebbe una zona economica chiusa perfetta. Chiaro che quando si dice “zona economica chiusa” se ne parla in senso relativo, cioè a un livello di autosufficienza notevole, soprattutto se nel mentre vengono costruiti rapporti paritetici con la Russia e con il Nord Africa. Con questo interscambio energetico, chi ci ammazza? Ebbene, questa cosa non si può fare perché tutti i governi europei attuali invece puntano ad essere il più aperti possibili al mercato internazionale dei capitali, che è il nemico numero uno di qualunque politica non dico comunista ma anche moderatamente riformista.

Io penso, però, che se ci dobbiamo dare una prospettiva, anche per iniziare a muoverci in termini di lotta di classe, è una delle prospettive da discutere. Con “patto intergovernativo” intendo proprio qualcosa che si realizza sostanzialmente al di fuori dell’Unione Europea. Il che non vuol dire necessariamente una rottura: l’Unione Europea è fatta molto più a buchi di quanto si creda. Quando alcuni governi vogliono, le procedure e i meccanismi fondamentali dell’Unione saltano. Quindi c’è un ventaglio di possibilità enorme. Ovvio, non dobbiamo cadere in semplificazioni secche no euro/si euro, dentro l’Unione/fuori dall’Unione, oppure come diceva Luciano Gallino “usciamo dall’euro ma non dall’Ue”… lasciamo stare. Dobbiamo sapere qual è il nostro obiettivo: costruire una zona finanziariamente autonoma e geopoliticamente neutrale. Dopodiché giochiamocela in concreto per vedere come si può realizzare.

Però, chiaramente, una cosa come quella che ho detto io, implicherebbe l’esistenza di “governi popolari”, diciamo così, non solo in Italia ma quantomeno anche in Francia e Germania. Richiederebbe quindi una svolta nei rapporti di classe: il che non c’è, anche perché credo che la destra di oggi sia talmente forte e radicata da potersi intestare, almeno agli inizi, gli eventuali disagi sociali del bellicismo prodotto dall’Unione Europe. Proprio questa sua doppia faccia, che le consente in questo momento di essere addirittura pacifista, potrebbe giocare (e quasi sicuramente giocherà) per coprire ed egemonizzare una parte del disagio sociale che dovesse manifestarsi. Qui sicuramente abbiamo un problema grosso, particolarmente grosso.

Ora, io posso riportarvi soltanto alcune intuizioni e alcune riflessioni che nascono da una ripresa di considerazione su cosa sono stati gli anni Trenta, cioè gli anni che hanno condotto al nazifascismo. C’è una cosa della situazione attuale che colpisce rispetto all’esperienza del nazifascismo: questa è una reazione senza rivoluzione. I nazifascismi sono stati una risposta a una rivoluzione che si era attuata o comunque si era tentata (in Italia con la settimana rossa; in Germania con la Repubblica di Weimar e l’ingresso del partito socialdemocratico e dei sindacati dentro procedure di concertazione, nonostante si rivelerà una strategia fallimentare), quindi si potevano comprendere le ragioni della reazione avversa delle burocrazie militari e dei centri politici. Ma il punto è che allora c’era effettivamente stata un’ondata rivoluzionaria in tutta l’Europa centrale e meridionale. Oggi invece abbiamo una reazione senza che ci sia stata una precedente minaccia rivoluzionaria, e quindi senza l’esistenza di partiti comunisti che da una parte “giustifichino” la reazione, ma che dall’altra possano costituire comunque una base per un’organizzazione a livello nazionale; per non parlare poi dell’assenza di un intermediario geopolitico con una funzione equivalente all’Unione Sovietica dell’epoca.

Allora, oggi cosa ci si presenta? Si dimostra vera una cosa che diceva Otto Bauer, un grande dirigente della socialdemocrazia austriaca che cercò una via “intermedia” tra bolscevismo e riformismo con esiti forse discutibili, ma con riflessioni molto, molto acute. Bauer sosteneva che la reazione nazifascista non si esercitava veramente contro la minaccia della rivoluzione, perché la rivoluzione all’epoca era già sconfitta: la repressione si esercitava piuttosto contro i risultati del riformismo. Il nazifascismo non sopportava i risultati del riformismo; non sopportava il fatto che fossero state fatte in quegli anni concessioni ai lavoratori (anche perché l’alternativa era davvero la rivoluzione); di pari passo, i ceti intermedi che si rivolgevano al nazismo non sopportavano il fatto che mentre gli operai, organizzati e riconosciuti come interlocutori socioeconomici dal governo e dallo Stato, potevano difendersi dall’inflazione grazie ai sindacati, loro non potevano farlo… Insomma, una reazione contro il riformismo o comunque i suoi residui.

Ciò che secondo me osserviamo oggi, soprattutto negli Stati Uniti (in Italia in maniera forse più sfumata, ma la linea rimane la medesima) è una lotta di classe contro il welfare e contro le mediazioni istituzionali; una lotta operata da alcuni ceti che non possono sopravvivere se non riescono a liberarsi delle regole, degli orpelli e della fiscalità che impedisce loro di fare profitto o di sopravvivere in una situazione sempre più difficile dal punto di vista economico. Per esempio, quando Trump se la piglia contro “la cultura woke”, in realtà se la piglia con i programmi di inclusione nei confronti delle minoranze che questi ambienti hanno sempre sposato, oltre che contro il linguaggio con cui vengono formulati. Il punto è l’ostilità contro i residui del welfare, contro le mediazioni istituzionali che controllano in qualche modo l’impresa, contro la fiscalizzazione, contro le tasse, eccetera.

Vi è poi un’altra differenza abbastanza evidente. La lotta contro l’immigrato non è più semplicemente l’individuazione di un capo espiatorio, come un tempo era l’antisemitismo. Le minacce di deportazione di massa – così come i blocchi o le deportazioni dei vari Salvini – non si realizzeranno perché non devono realizzarsi, e non devono realizzarsi perché quella gente lì serve. Le minacce hanno dunque l’obiettivo di terrorizzare questo strato di proletariato e, su tutto, rendergli più difficile richiedere condizioni di lavoro migliori. Di modo che nella divisione tra proletariato, tra mille virgolette, “garantito” e proletariato non garantito il razzismo trumpiano trova un elemento costitutivo.

Per quanto riguarda invece la destra in Germania, le cose sono diverse ancora, perché l’idea di remigrazione investirebbe una marea di lavoratori che in realtà fa già parte del circuito formale e regolare di lavoro. Non si tratta di sottigliezze, ma di differenze cruciali nei processi di soggettivazione che bisogna sapere se giocare e che avranno un grosso peso per la nostra parte.

Un’altra rilevante novità rispetto al nazifascismo dello scorso secolo è che tanto il fascismo italiano quanto il nazismo tedesco, in maniere diverse, consistettero nell’occupazione dello Stato o quantomeno in una sua trasformazione da parte di un movimento politico che comandava sulle strutture statuali tradizionali o si sostituiva ad esse, a seconda delle situazioni. Ciò in gradazioni molto diverse. Interi settori del nazismo furono apertamente nemici dello Stato, troviamo persino dichiarazioni espresse dai nazisti contro l’idea stessa di sovranità (perché la sovranità dello Stato non è accettabile, l’unica sovranità possibile è quella del Führer come espressione del popolo). Il fascismo fu molto più abile: abilissimo fu Mussolini, per esempio, a non consegnare l’Iri ai suoi uomini e lasciarlo a Beneduce, per dare un’idea. Quindi, mentre il fascismo e il nazismo furono quella roba lì, oggi si assiste invece alla occupazione dello Stato non da parte di movimenti politici ma da parte diretta delle imprese e in particolare delle grandi imprese tecnologiche. Negli Stati Uniti la tendenza impressa da questo nuovo corso trumpista è un chiaro tentativo di sostituzione diretta dell’apparato statale con pezzi dell’apparato industriale, il che fa saltare il ruolo di mediazione dello Stato e può essere prodromo di ulteriori conflitti sociali.

Passiamo quindi a un ultimo aspetto, ma non meno determinante nella destra di questi anni, in particolare di quella americana, poiché dimostra ancora una volta di come Trump non possa fare a meno di operare una scelta conflittuale. I vertici statunitensi hanno un chiaro dilemma davanti: come pagare i progetti di reindustrializzazione negli Stati Uniti e quel po’ di welfare che devono comunque concedere alla parte che li vota? Chi caccia i soldi? Ebbene, i soldi li cacciano “gli altri”. I dazi servono a rimpiazzare quelle tasse che il ceto che porta avanti Trump – un ceto di riccastri, che nemmeno ci sogniamo: stando a quanto rilevano i ricercatori olandesi che nominavo prima, l’amministrazione Trump è stata la più ricca amministrazione di tutta la storia degli Stati Uniti – non vuole pagare. Come nelle migliori tradizioni della destra, i conflitti e le tensioni interne vengono scaricati contro il nemico esterno (ora un nemico interno-esterno come l’immigrato, “l’ebreo” del giorno d’oggi, ora contro il nemico esterno tout court come le altre nazioni, alleate o avversarie).

Arriviamo alla conclusione. In questa situazione, noi cosa diavolo possiamo mai fare?

Io penso che abbiamo veramente tantissime cose da fare. Ipotizzando, come dicevo prima, che in condizioni simili almeno la prima ondata di proteste popolari (ammesso che ce ne saranno) nei confronti della guerra verrà intercettata quasi sicuramente dalla destra, ciò non ci esime da abbozzare un elenco di obiettivi.

Per prima cosa, dobbiamo cercare di ridefinire e di riunire quello che dovrebbe essere il nostro fronte, domandandoci cosa sia oggi quello che un tempo chiamavamo proletariato. È l’interrogativo al quale voi di Kamo state tentando di rispondere con l’analisi e con la pratica quotidiana: come si fa a ricostruire un filo conduttore in una classe che al proprio interno dimostra regimi contrattuali, regimi salariali, nonché idee completamente diverse? La classe operaia è una classe fatta oggi di lavoratori dipendenti garantiti, di lavoratori dipendenti precari, di finte partite Iva… Prendiamo un modello di nucleo familiare sempre più diffuso, per provare a capire come vive la gente e come prova a resistere alla crisi: il maschio, il capo, il padre, che si presenta come il breadwinner ed è lavoratore dipendente; la moglie magari ha un negozietto; un figlio è precario; l’altro figlio studia e cerca di fare del lavoretti anche lui. Bene, una famiglia così è interessata all’aumento salariale? È interessata al taglio del cuneo fiscale? È interessata all’evasione? Risposte che non possiamo generalizzare e che testimoniano quanto sia difficile formare una coalizione come quelle che noi avevamo in mente un tempo.

Ma se anche raggiungessimo l’unità del proletariato, resta il problema di come diavolo si riesca a creare un fronte tra questo proletariato e la marea delle piccole e medie imprese. Perché c’è poco da fare, in Italia non si può fare politica “odiando” la piccola media impresa.

Poi, inutile a dirsi, abbiamo il bisogno di costruire un programma. Ma vogliamo un programma per “l’isola” o un programma per “la penisola”? Un programma ottimale o un programma di risulta?

Domande sempre da rinnovare, perché man mano che costruiamo le nostre idee, ci troveremo in una situazione esterna completamente stravolta. C’è un problema fortissimo di organizzazione, qui ci sarebbe da parlare per una vita sul modello del partito e via discorrendo: io mi limito solo a dire che dovremo cercare di uscire dalla forma-social. La modalità social è un disastro, perché ti dà l’illusione della connessione mentre in realtà la impedisce.

Però, e finisco con questo, in realtà la cosa più importante che dobbiamo costruire per cercare sia di riaggregare un soggetto, sia di motivare noi stessi, è un’idea. E ve lo dico da materialista. Una delle più grandi cose che diceva Lucrezio nel De rerum naturae era che i pesci non nascono sugli alberi di mele. Le idee non derivano solo dal disagio socialista o solo dal conflitto: le idee derivano anche dalle idee, derivano dalla battaglia ideale fatta con i materiali ideali presenti contro determinate idee presenti. Allora, rimanendo fermo il fatto che se non costruiamo una prospettiva socialista, secondo me non andiamo avanti, anche perché il capitalismo non è che stia entrando “nella sua fase finale”. Se noi non riprendiamo un discorso sul socialismo non faremo un solo passo avanti.

Ma c’è un altro discorso che possiamo proporre come idea unificante: il rapporto tra la lotta di classe e l’idea di nazione, intendendo con essa una nazione democratica. C’è un dato di fatto obiettivo: ipotizziamo che stiamo facendo il migliore ciclo di lotta di classe mai visto in Italia; si costruisce un governo popolare; può questo fare una qualunque politica senza avere un’idea di quello che è l’interesse nazionale definito, sia chiaro, dal punto di vista dei lavoratori e la posizione geopolitica del paese? Può farlo? No. Si può raggiungere un’idea di interesse nazionale senza partire da se stessi, cioè rivendicando la propria sovranità non come arma contro le altre nazioni, ma come punto di partenza per una libera rinegoziazione dei rapporti internazionali?

È un punto delicato e scivoloso, ma con cui prima o poi toccherà fare i conti. D’altro canto, secondo me, senza una dinamica di lotta popolare che aumenti la base sociale interessata a un processo trasformativo, nessuna delle forze sociale presenti in Italia è in grado di proporre da sola una dignitosa alternativa politica che non sia regressiva. Non lo possono fare le classi rappresentate dalla Meloni, non lo possono fare i nuclei più forti del capitalismo italiano (che guarda caso sono nuclei bancari, quindi interessati al capitalismo transnazionale). Io penso che oggi uno dei pochi elementi capaci di rinfocolare gli individui a riorganizzare un’identità collettiva contro i rapporti di sfruttamento possa essere quello di farli sentire come membri, cittadini di una repubblica democratica, dentro la quale possono trovare gli elementi di potere che gli consentono di contrastare gli avversari di classe.

Uno stretto (anche se mi rendo conto quanto delicato) circolo virtuoso tra lotta di classe e nazione potrebbe essere una delle idee unificanti di un proletariato, il quale altrimenti, secondo me, rischia di essere preda di altre forze.

Alcune domande della discussione

– Come interpreti la piazza che è stata chiamata il 15 marzo da Michele Serra, alla quale hanno aderito tutte le organizzazioni della sinistra liberalprogressista, dalle vecchie catene di trasmissione della Cgil e dei sindacati, al Partito Democratico e all’Arcigay? Una piazza oggettivamente interventista, ma che a differenza degli interventisti del ‘15-‘18 non crediamo sia composta da una composizione che sbava per combattere. Almeno i guerrafondai del 1915 erano coerenti: si sono tutti arruolati – e poi gran parte morti. Questi invece chiamano la guerra, partono da ideali e da slogan di per sé abbastanza vuoti per muovere l’Italia verso un impegno sempre più diretto, ma hanno dietro un blocco sociale? Cioè quali sono i ceti interessati a queste iniziative? Hanno dietro di sé porzioni sociali di peso, o invece si risolve tutto in utile idiotismo? Te lo chiediamo perché oggettivamente la svolta estera di Trump e l’accelerazione che ha impresso alle dinamiche internazionali hanno in qualche modo ribaltato un quadro politico, quantomeno in Europa. Vediamo infatti i liberalprogressisti da sempre culo e camicia con l’America che guardano Trump come il nemico numero uno; vediamo pezzi della Lega,  specialmente quelli che compongono la base produttiva delle regioni in cui la Lega è stata per tanto tempo egemone, invece riscoprirsi estremamente europeisti. Giorgetti un po’ rappresenta a livello governativo l’espressione politica delle piccole e medie imprese, come dicevamo prima, estremamente legate alle catene del valore globale e soprattutto tedesche. In Emilia gli interessi di questo ceto li cura il PD, che ha mandato anche Bonaccini in Europ,a e lui lì a curare interessi appunto della Pmi emiliana. Trump insomma ha innescato tutta una serie di contraddizioni, che possono sembrare ribaltamenti ma sono invece sostanzialmente chiarificazioni.

– Andando un po’ più al profondo dei processi, questo passaggio al warfare può passare solo attraverso la distruzione del welfare, oppure può tirarsi dietro in qualche modo anche uno scambio con la classi popolari? Perché se passiamo al warfare, quindi a un’economia di guerra, ci deve essere qualcuno però a combatterla questa guerra, e per prima cosa appunto servono gli uomini e donne a combatterla, serve una popolazione soprattutto giovane che l’Italia e l’Europa non ha assolutamente, una popolazione quantomeno in salute, quindi il welfare è sempre stato storicamente alla guerra, attraverso il peso politico che hanno potuto avanzare le classi popolari, la classe operaia in guerra si è tirata dietro il welfare. Pensiamo al piano Beveridge, per garantirsi l’appoggio e i sacrifici delle classi popolari, del fronte interno, ha dovuto garantire in qualche modo un tornaconto a livello sociale, di protezione. Pensiamo anche all’Unione Sovietica. Il popolo sovietico non crediamo abbia patito quasi 30 milioni di caduti per salvare i piani quinquennali. C’è stata sicuramente una riscoperta anche di un’idea patriottica, ma soprattutto, secondo noi, c’era un patto sociale interno all’Unione Sovietica – le conquiste della rivoluzione, il potere degli operai e dei contadini che garantivano un certo grado di autonomia nei luoghi di lavoro, un certo grado di potere sociale e quindi con tutte le allocazioni del caso in un fatto di politiche abitative, politiche sanitarie, politiche di welfare, di costituzione sociale – che ha garantito la tenuta di fronte alla peggiore guerra di sterminio mai lanciata in Europa. Questo passaggio al warfare può portarsi dietro un nuovo patto sociale con qualche grado di condizioni positive per segmenti di classe operaia, o oggettivamente può solo abbassare, affossare invece la loro condizione? Ci sono contraddizioni legate alla riconversione industriale, alla possibilità di un nuovo ciclo di sviluppo, alle commesse, che servono per capire dove potrà andare anche la lotta di classe.

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Discorsoni / Analisi

Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema

0. Si apre un tempo di incertezza, che non fa ancora epoca. Per conquistarne l’altezza, occorre rovesciare il punto di vista. E cogliere, nell’incertezza del tempo, il tempo delle opportunità.

1. «La fabbrica della guerra». Abbiamo voluto chiamare così un ciclo di incontri dedicati a guardare in faccia, da diverse angolature e piani, ma sempre dallo stesso punto di vista di parte, il grande fatto del nostro tempo, processo che irrompe al cuore delle nuove costituzioni materiali in definizione delle società capitalistiche entro cui viviamo. Per riportarlo, dai cieli di un piano più astratto d’analisi, impalpabile, dove spesso teoria e ideologia si confondono, con i piedi per terra, lì dove è pensabile e possibile aggredirlo politicamente.

2. Fabbrica della guerra, quindi, come traccia per provare a inchiestare, sul territorio nel quale è situato il punto di vista, dove e come si produce per la guerra, e quindi la guerra stessa. In forma materiale e immateriale. Merci, saperi, poteri e soggetti, e le relazioni tra di essi. Ripercorrere le filiere oggettive e soggettive che la compongono, individuare i diversi pezzi che la assemblano, carpire la logica concreta che la produce e come tecnicamente la produce, attraverso quali reti di attori sistemici, capaci di mobilitare quelli locali e subalterni, e figure messe al lavoro per essa.

3. La guerra è già qua. Ne facciamo parte. Si può affrontarla testimoniando la propria incrollabile e generica opposizione morale. Cercando di mobilitare le “coscienze civili” della società. Appellandosi all’“umanità” e al suo buon cuore. Fino a che, raggiunta finalmente la “maggioranza democratica” delle coscienze, si potrà dire fine alla guerra… Auguri. Chi non è oggi contro la guerra, d’altronde? Chi può dirsene a favore? Chiedetelo a qualsiasi passante, al vostro compagno di banco, al professore, al collega, al sindacalista, all’amministratore locale, al politicante che vi piace, a quello che disprezzate. Tutti sono contro la guerra. Eppure la guerra continua, e continuerà. Tra pause, rallentamenti, strappi, salti e accelerazioni. Approfondendosi, generalizzandosi. Percorrendo e militarizzando piani quali l’economia, la tecnologia, l’energia, la comunicazione, la formazione, la sicurezza, il diritto. Lambendoci, coinvolgendoci, mobilitandoci, a partire dal pagamento dei suoi costi, dalla produzione delle sue merci, dalla messa alla guerra della vita intera. Tutta la libertà d’opinione e nessuna di decidere, nei regimi della “Democrazia reale” che fanno Patto Atlantico, chiamati Occidente.

4. Oppure. Oppure, a partire da dove il punto di vista è collocato, guardare alla specifica conformazione capitalistico-industriale del territorio, sedimentato e intrecciato di storia, società, politica, sviluppo in relazione al posizionamento nazionale e internazionale nelle catene del valore, a come è già diventato e diventerà ingranaggio della fabbrica sistemica della guerra. Capire, per anticipare, quale sarà la direzione delle sue trasformazioni, le modalità e i tempi della sua mobilitazione alla messa a valore, i soggetti che in esso saranno messi al lavoro per la guerra, le nuove figure che saranno formate, quelle che ne verranno espulse. Le istituzioni adibite alla loro formazione, i luoghi che ne diverranno discarica di scarti. Le promesse frustrate, le aspettative disilluse, le forme di vita imposte tra tempi, tecnologie, condizioni di lavoro e salario complessivo. Le soggettività possibili.

5. La ristrutturazione come momento di gestione della crisi o fase preliminare di rilancio di uno sviluppo? Con quali connotazioni, entro quali filiere, su quali prospettive, per quali segmenti di composizione? Soggettività e lotte connotate dal declino e dal collasso sono diverse da soggettività e lotte inscritte in processi di accumulazione e crescita. Contraddizioni. Ambivalenze. Possibilità. Si tratta di inchiestarle per ricercarne una forza, dal di dentro dei processi di trasformazione radicale e accelerata nei quali siamo immersi in questi tempi di incertezza, o di certezza del caos.

6. Non si tratta di fare scienza del capitale, che è scienza del dominio. Ma di un tentativo di fare di scienza operaia, che è «processo in atto di rovesciamento dei fatti». Conoscere la «fabbrica della guerra» nelle sue articolazioni – oggettive e soggettive, produttive e sociali – come la fabbrica l’hanno sempre conosciuta gli operai: per rallentarne i ritmi disumani, per ostacolarne il funzionamento di morte, per sabotarla buttando sabbia, bulloni e chiavi inglesi nelle sue macchine. E infine per sovvertirla in fabbrica di conflitto sociale e politico.

7. Iniziare a guardare in faccia la guerra, o almeno il volto che possiamo concretamente osservare, a livello del nostro orizzonte determinato, per forza di cose limitato. E da lì, poi, risalire verticalmente. Operazione non solo di scienza e conoscenza di parte, che sappiamo indissolubilmente legate alla nemicità, quindi al conflitto, ma di prospettiva. Primariamente politica.

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«Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema» è la seconda parte del ciclo «La fabbrica della guerra» (organizzato negli spazi del Dopolavoro Kanalino78 a Modena). Strumento per risalire e interrogare, dal piano del nostro orizzonte, anello dopo anello, la catena che determina la configurazione concreta dei rapporti di classe, di capitale, intercapitalistici e imperialistici, nella loro fase attuale di traumatica e violenta ridefinizione, la quale si riflette in ciò che abbiamo provato in piccola parte a osservare, tracciare e saggiare nella prima parte del ciclo, «Modena nella crisi globale». La cornice imprescindibile, da discutere e costruire, attraverso cui dare solido sfondo, e quindi significato più generale, alle ipotesi di lavoro militante e definire, anticipandoli, i processi materiali, oggettivi e soggettivi, che vanno a connotare complessivamente il quadro dei nostri tempi, e l’altezza dei problemi che essi pongono. A partire dai tre nodi che abbiamo scelto come guida (l’imperialismo oggi, la crisi tedesca nel cuore d’Europa, il fronte dell’Italia), a cui intrecciare i piani della lotta di classe e della soggettività.

– Quale collocazione, ruolo e teatri sono assunti attivamente dall’Italia nel conflitto globale? Che posizione occupa nella catena imperialista, tra Stati Uniti e Unione Europea? Com’è interpretato tutto ciò dalle Destre al governo e in ascesa nell’“era Trump”, e di cosa esse sono sintomo e strumento? In che modo la “guerra multipolare” appena iniziata potrebbe creare, in Europa e in Italia, le condizioni di un nuovo ciclo di lotte di classe? Quali potranno essere le sue caratteristiche, a fronte dell’assorbimento del primo momento neopopulista e dell’impasse del sovranismo italiano dall’eurocrisi a oggi?

Una discussione con Mimmo Porcaro, autore e collaboratore della rivista «La Fionda», l’8 marzo.

– Che cos’è l’imperialismo oggi, di cui la cosiddetta “era Trump” è precipitato? Come concretamente si configura, a monte dello scontro Usa-Cina? Con quali eventuali discontinuità rispetto a precedenti epoche? Su quali piani, con quali strumenti, attraverso quali anelli la catena imperialistica si definisce sul sistema mondo e nel mercato mondiale? Come si intreccia alle dinamiche di classe, e quale l’anello decisivo? Quali implicazioni politiche comporta per noi tale configurazione? Tracce e appunti per una nuova, e necessaria, riconcettualizzazione dell’imperialismo all’altezza delle nuove questioni pratiche poste dal movimento storico reale.

Con Raf Sciortino, autore di I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios 2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze (Asterios 2022), il 5 aprile.

– Cosa succede quando la crisi, dalle periferie mediterranee, colpisce il cuore industriale e politico dell’Europa? Cosa significa per il continente, e soprattutto per l’Italia inserita nelle sue catene del valore, la destabilizzazione politica e sociale del modello tedesco? Unione Europea e moneta unica possono essere messe in discussione da Berlino o conquistare una loro “autonomia strategica” imperialistica? Che posizione occupano la Germania e l’Unione Europea nella catena imperialistica globale? Si staglia davanti a noi un processo di radicalizzazione politica del contesto europeo, insieme alla sua rinazionalizzazione? Dove va l’Europa nella ripolarizzazione conflittuale del mondo tra Stati Uniti e Cina?

Una discussione con Robert Ferro, autore del podcast Il perno originario. Appunti sul respiro delle rovine di Radio Blackout, il 17 maggio.

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Si dice che Lenin, nel 1914, esule a Cracovia, quando arrivò la notizia dello scoppio della guerra, rimase sbalordito: per il tradimento dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, certo, ma anche per il passo decisivo degli attori di potenza nell’andare allo scontro bellico, ipotizzabile ma non del tutto prevedibile. Anche Lenin fu colto di sorpresa, ma si era reso pronto a guardare negli occhi la terribile occasione dell’inaspettato. Si apre un tempo di incertezza. Per conquistarne l’altezza, occorre rovesciare il punto di vista. E cogliere, nell’incertezza del tempo, il tempo delle opportunità. Iniziamo, nel nostro piccolo, a farlo, formulando le domande giuste.

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Troppo fuorismo / Inchiesta

LA FABBRICA DELLA GUERRA. Modena nel conflitto globale

La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone lo spartito.

Una guerra che non nasce per caso o per malvage singole volontà, ma dalle condizioni strutturali della “pace” che l’ha preparata. Una pace imperialista, incrinata dalla crisi capitalistica globale, rotta dallo scontro tra potenze in declino e attori in ascesa per determinare la nuova architettura del sistema di mercato mondiale. Europa, Medio Oriente e Pacifico sono i suoi diversi fronti, dove già si combatte a diverse intensità o ci si sta preparando per farlo. E noi in mezzo.

E a Modena? Come la guerra sta già entrando nel nostro territorio e coinvolgendo le nostre vite, trasformando scuola, università e fabbrica sociale? Che tipo di figure la scuola dovrà formare alle necessità del conflitto? Quali relazioni intesse l’università con industrie militari e Stati coinvolti? Come si ristruttura il tessuto industriale emiliano a fronte della crisi globale e in funzione della guerra? Quali contraddizioni potrebbero aprirsi e quali soggetti mobilitarsi dentro e contro la «fabbrica della guerra»?

Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono armi e strumenti politici: punto di vista, metodo, inchiesta.

Un ciclo di incontri per discutere e costruire nuovi arsenali, a partire da ciò che funziona ancora di quelli vecchi, per sabotare e sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.

Al Dopolavoro di via canalino 78.

Segnatevi le date, a breve maggiori dettagli.

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Kultur / Cultura

Guido Carpi – FOTTUTI! La formazione del rivoluzionario: Lenin e i bolscevichi

Non si fa la rivoluzione senza rivoluzionari e rivoluzionarie.

È la lezione, ancora oggi tutta da conquistare, dei bolscevichi, che con l’Ottobre sovietico incendiarono il Novecento. Lenin ha speso l’intera propria opera a formare questo tipo di nuovo militante politico. Ogni sua riga è rivolta ai militanti, anche quando essi erano ancora di là da venire. Ipocriti e professori, invece, li voleva fuori dai piedi.

È questo il Lenin di cui abbiamo voluto parlare, nel secondo incontro del ciclo MILITANTI: giovane e sovversivo, audace e sognatore, pieno di intelligenza e odio di parte, lucida rabbia e realismo rivoluzionario, dentro il proprio tempo ma contro di esso, con gli stessi problemi, errori e contraddizioni da affrontare dei militanti di oggi – tra guerra, sfruttamento, mancanza di un orizzonte di trasformazione e l’urgenza del “Che fare?”. Un Lenin quindi ancora vivo, perché non mummificato dalle tristi parrocchie (e spesso inquietanti sette) “marxiste-leniniste-trozkiste-maoiste-sinistre” e chi più ne ha più ne metta, che hanno finito per renderlo inoffensivo.

L’idea-prassi centrale di Volodja, il nucleo della sua forza, è infatti l’«attualità della rivoluzione», la sua declinazione e articolazione concreta in ogni passaggio, momento, sia tattico che strategico, della militanza comunista: dall’inchiesta in fabbrica all’insurrezione nelle strade, dalla stesura di un volantino alla guerra civile. Una rivoluzione che scoppia e vince in Russia non perché fossero mature le condizioni storiche ed economiche del suo capitalismo, ma perché lì era più forte la lotta di classe e l’organizzazione politica degli operai. La lezione leniniana ci dice insomma che c’è da cogliere l’occasione quando si presenta – non solo: l’occasione c’è da prepararla.

«Marx è la scoperta dell’antagonismo, l’assunzione del punto di vista, di parte, per possedere e contrastare la totalità nemica. Lenin è la scoperta dell’organizzazione, di quella parte, per costituirsi come forza in grado di battere quel tutto, altro da te e contro di te», nelle parole di un nostro cattivo maestro.

Come si forma, allora, un militante politico? Qual è il punto di vista del rivoluzionario? Che rapporto c’è tra teoria e pratica, spontaneità e organizzazione? Qual è stata la formazione di Lenin e dei bolscevichi? Di tutto questo ne abbiamo parlato sabato 25 marzo a Modena con Guido Carpi, professore di Letteratura russa all’Università di Napoli, autore della bella biografia di Lenin in più volumi Lenin. La formazione di un rivoluzionario e Lenin. Verso la rivoluzione d’Ottobre (editi entrambi da Stilo Editrice), che ci è piaciuta davvero molto. Questa è la trascrizione del suo intervento. Buona lettura, fottuti.

 

Guido Carpi

Quando ho deciso di occuparmi di questi temi, ho deciso fin dall’inizio di parlare del Lenin rivoluzionario. Primo perché è molto difficile scrivere la vita di un uomo che diventa il fondatore di uno Stato, perché chiaramente la sua biografia diventa la storia di un Paese; poi, io pensavo e penso ancora, che a noi tutti serva, più che altro, conoscere il Lenin prima della rivoluzione, specialmente i suoi primissimi passi. Non ci vuole nulla a fomentarsi leggendo la storia dell’Ottobre e l’epica solita: è facile e anche tutto sommato autoconsolatorio. Quello che, a parer mio, in questo momento storico serve di più a noi è la parte meno conosciuta: cosa facevano i bolscevichi quando erano deboli? Quando l’egemonia ferrea in mano ce l’avevano gli altri? A ben vedere, infatti, ci sono molti aspetti avvicinabili allo sfondo contemporaneo che avete descritto: la necessità, per un «piccolo gruppo compatto», di reinventare gli strumenti della lotta; il problema di assumersi i rischi più pungenti durante la crisi dei gruppi e il tramonto di un ciclo; e infine, ovviamente, la guerra alle porte.

Certo, non bisogna neanche spingere eccessivamente avanti questa similitudine, perché come dicevate anche voi moltissime cose sono chiaramente diverse, tanto nel contesto macrosociale quanto nella psicologia degli attori: se non altro perché, e qui sta il punto più interessante, non sapevano come sarebbe andata a finire. La difficoltà maggiore nello scrivere di queste cose sta proprio nell’adottare la prospettiva dei personaggi, i loro dubbi, le loro incognite. Paradossalmente, è solo prescindendo dagli sviluppi che si riesce a cogliere come ragionassero, quale fosse il loro metodo e come costruissero una logica. Altrimenti ci viene naturale guardarla tutta dalla fine, quasi ci fosse un piano divino, cosa che nessuno qui chiaramente pensa. Tutte tappe “per arrivare a”. Invece, per i bolscevichi, tutti i passaggi strategici e tattici erano risposte a problemi del momento. Azzardi dunque, che nella pratica e nella teoria aprivano spiragli imprevedibili per lo stesso Lenin. Dopotutto, come amava ripetere, la storia procede a zigzag.

Per pormi su questo piano, è stato fondamentale approfondire la sua corrispondenza privata, una sezione delle sue opere complete che nessuno legge mai, anche perché parliamo di diciassette volumi ognuno sulle 700-800 pagine. Per anni e anni, grossomodo dal 1960 in poi, sono state raccolte tutte le lettere che Lenin, soprattutto grazie alla moglie Nadežda Krupskaja, si scambiava quotidianamente con i militanti all’estero e in Russia. Migliaia e migliaia di pagine fittissime, in cui però emerge nero su bianco come affrontassero ogni momento e ogni crisi. Lì sta la parte più preziosa. Per come la vedo io, l’esperienza dei bolscevichi si può prendere a modello non tanto per cosa abbiano fatto (è impossibile replicarlo nel mondo di oggi, è inutile ripeterlo), ma per il come cercavano di risolvere i problemi.

Per quanto riguarda il giovanissimo Vladimir Il’ič (o Volodja, come lo chiamavano a casa), com’è probabilmente per tutti noi, il 50 per cento lo dovette a una sua non sempre chiara “ambizione di diventare”, e per l’altro 50 per cento era come le circostanze lo hanno formato. Niente di eccezionale: cresciamo tutti in un’epoca alla quale cerchiamo di dare la nostra impronta, ma da cui veniamo a sua volta condizionati. Se quindi ci volgiamo a guardare la Russia di quegli anni, troviamo un paese con delle contraddizioni fortissime. Un paese in cui si stava sviluppando un capitalismo rapace (che Lenin è stato notoriamente uno dei primi a studiare), ma ancora con una struttura di base prevalentemente agricola; un paese arretrato che da secoli cercava di stare disperatamente alla pari dei concorrenti europei, soprattutto sul piano militare, sfruttando spietatamente i contadini. Si può forse dire che su questa constatazione poggia una delle intuizioni del Lenin maturo: quando scoppierà il ’17, se ai ceti operai verranno affidati il compito d’avanguardia, di indicare la linea costruendo un’egemonia nelle lotte, il grosso della massa ribelle sarà costruita sui contadini. Non a caso, i menscevichi e gli altri marxisti sottovalutavano ampiamente i contadini, per poi ricredersi a giochi fatti sulla loro funzione come forza d’urto per abbattere lo Stato.

Passiamo poi a un altro importante punto che avete sottolineato, ovvero che i bolscevichi si trovassero alla fine di un ciclo. È vero. Naturalmente la rivoluzione non comincia con Lenin, e c’era già stata una stagione gloriosa di rivoluzionari, i narodniki, i populisti (traduzione di una parola che significa “servizio nei confronti del popolo”, niente a che vedere con quelli di oggi). Socialisti delle più diverse tendenze e grado di radicalità, i populisti erano soprattutto gente scolarizzata e convinta che chi ha studiato, o quantomeno ha una cultura, deve tutto “al popolo”, a quel popolo che ha sofferto per secoli. L’unico dovere di un uomo di cultura diventa dunque quello di aiutare questo popolo a riscattarsi.

È una convinzione che arriva anche a Lenin, direttamente dalla famiglia. Suo padre, per esempio, la declinava fondando scuole, collocandosi nell’ala più moderata del populismo; manco a dirlo, dopo l’attentato allo Zar del 1881, tutte le scuole verranno chiuse perché viste come focolai di libero pensiero. La pesantezza del fallimento è tale che lo porta a un colpo apoplettico e muore. Suo fratello Aleksandr, invece, tenta la strada più radicale. Si unisce giovanissimo ad alcune frange terroriste, cercano di organizzare l’assassinio dello Zar successivo, ma li beccano prima di lanciare l’attacco. E così, quando deve sostenere l’equivalente della prova di matematica alla maturità, a Volodja arriva la notizia dell’impiccagione di suo fratello.

Sebbene resterà sempre apertamente debitore verso il populismo, in questo momento Vladimir capisce che le cose vanno organizzate in modo diverso. Capisce cioè che non ci si può limitare a un riformismo al ribasso, accontentandosi di quel che c’è, o a un gioco di guardie e ladri con la corona cercando di capire chi ammazza per primo chi (perché tanto ce ne mettono subito un altro e non si va granché lontano comunque). Il giovane Lenin, per quel poco che si può ricostruire, è un ragazzo certamente segnato, ma su molte cose mi pare di rivederci i miei vent’anni, con tutti i suoi elementi di cazzonaggine: fughe con gli amicastri in riva sulla Volga, gare a chi beveva più birra – [rivolgendosi al presentatore] come stiamo facendo ora io e te – e di mezzo le letture. Disparate, confuse, ma formative.

Ripeto, sappiamo poco proprio della sua vita di tutti i giorni – alla fine dei conti, è attraverso questi elementi che una persona diventa comprensibile quando si esprime nelle sue forme più alte – perché si è cercato di cancellarne larghe tracce. Forse perché poco si prestavano a farne un “apostolo” politico, forse perché il “ragazzaccio” non rientra nell’immaginario del socialismo ufficiale… chi può dirlo. Fatto sta che scorrendo le memorie dei suoi compagni pubblicate negli anni Venti e confrontandole con le riedizioni di cinque o sei anni dopo, vediamo che tutte le parti più interessanti, più belle, più vive, dove ci sono le cose che rendono di più il senso dell’uomo, sono state tagliate. Non parliamo poi delle sue opere pubblicate in vita: da una parte c’è una quantità di materiale mostruosa (in russo sono 75 volumi e cambiano parecchio da quelle italiane), dall’altra c’è tutto il rimaneggiamento fattoci per costruire il “santino” del rivoluzionario.

Tornando a noi, la prima cosa comunque che ha fatto Lenin da ragazzo è stato quello di porsi il problema della fine di questo ciclo del populismo, cioè questo doppio corno di riforme civili e terrorismo populista. Terrorismo che, si badi, all’epoca era perfettamente giustificato, cosa che pensava anche lo stesso Lenin. Li considerava dei velleitari sul piano strategico, pensò sempre che la violenza andasse organizzata e che quella individuale non servisse a un cazzo, ma certamente quando un uomo di Stato andava in mille pezzi si fregava le mani per la goduria. Insomma, era un terrorismo che trovava un largo consenso. Non è un caso che, nonostante i loro limiti intrinseci, i populisti continueranno ad esistere nel susseguirsi dei decenni come lato alternativo ai socialisti russi: da un lato i marxisti, i socialdemocratici, i bolscevichi e i menscevichi; dall’altra gli esery, cioè i “socialisti rivoluzionari” che venivano dal populismo (leggasi: puntare sui contadini, spontaneismo e soprattutto bombe, tante tante tante bombe contro i ministri). E non sorprenderà quindi neanche che nel 1905-106, gli esery e i bolscevichi si prestassero in leasing i laboratori per la fabbricazione degli esplosivi. Poi ognuno ci faceva quello che voleva e buonanotte.

Un’altra cosa interessante del primo Lenin era la sua capacità di leggere Marx, ma fin da subito cercando di applicarlo alla situazione in cui si trovava la Russia, un paese che Marx non aveva mai immaginato come il detonatore per una rivoluzione mondiale. Secondo il marxismo, diciamo “classico”, la rivoluzione non scoppia in un contesto a industria arretrata. Per di più, sul piano sociale, il Moro vedeva la Russia suppergiù come una cittadella della reazione. Invece Lenin studia veramente, immergendosi nell’osservazione e costruendo di fatto dal nulla una macrosociologia del suo terreno di lotta. La quantità di cose che riusciva a fare è incredibile, io mi chiedo a volte quando dormisse. Leggendo, osservando e dialogando con una mole di lavoratori scandaglia a tappeto l’economia di un paese sconfinato. Scopre così che si va sviluppando un capitalismo moderno non in contrasto con il retroterra agrario, ma piuttosto incistandosi in quel mondo arcaico, brutale, con forme di intimidazione para-mafiosa.

Dunque, per Lenin se vuoi agire su un complesso sociale, la prima cosa da fare è capire esattamente cosa sta succedendo, qui e ora, con buona pace delle teorie a cui si è affezionati. E poi, ovviamente, ci vogliono i militanti. Ma si rende anche conto fin da subito che i militanti non stanno da una qualche parte e non basta andarli a scovare, pescandoli uno dopo l’altro: i militanti vanno creati, specialmente quelli del tipo che servono in una fase peculiare. Siamo infatti in un periodo abbastanza delicato, che finisce con la pubblicazione del Che fare? – ma prima una premessa, specialmente per i più giovani.

Leggere Lenin non è facile. Tutti i suoi testi, tranne una manciata minima, sono scritti per motivi contingenti, specifici, e quindi intrisi di polemica momentanea su questioni delle quali, spesso e volentieri, non sappiamo nulla. Non parliamo poi della ripetitività o della loro pesantezza. Di sicuro non sono testi propriamente teorici, con formule applicabili a tutte le situazioni della vita. Lenin non lo avrebbe mai fatto. Se, come imparerà dall’esperienza, le teorie nascono dalla pratica, ne consegue che quando fissi sulla carta le idee che ti balzano in testa, queste sono ancora sature di quello che stai facendo. Immaginiamo per esempio che voi, dopo un ciclo di lotte che avete fatto coi compagni qui a Modena, scriviate un libro intitolato una roba come “Modena e rivoluzione”. Benissimo. Questo sarà chiaramente pieno di polemiche contro compagni di altri gruppi (che so, di Bologna), di riferimenti più o meno velati a cose che avete vissuto, e a meno che uno non sia venuto a fare a mazzate insieme a voi, non ci capirà fondamentalmente una sega. Ecco, in questo sareste dei leninisti da manuale.

Questo perché la teoria deve sgorgare, deve essere la sintesi, il succo della lotta. Non si dà teoria senza lotta. In principio era la lotta, da questa ne scende la teoria e allo stesso tempo la pratica nell’organizzazione. Non credo che Lenin lo abbia mai detto in una formulazione così schematica, ma per lui è un dato indiscutibile.

Ritorniamo così al problema della formazione. Non è che i militanti, fino a quel momento, non ci fossero; la rogna semmai era che erano del tipo populista. Ossia erano quasi tutti del ceto colto (per com’era messa la Russia dell’epoca; la massa popolare era senza diritti, senza cultura, tutti analfabeti…) e si dedicavano alla rivoluzione nel modo detto prima, cioè cercando di migliorare la società per quella che era o creando piccoli gruppi di bombaroli, ma senza nessun legame con il movimento operaio che andava sviluppandosi. C’era semmai qualche contatto con il mondo contadino, ma quest’ultimo restava comunque poco permeabile a certo idealismo. In tutta franchezza, questi disgraziati vivevano poco meglio che nel neolitico e per giunta stavano subendo l’arrivo del capitalismo. Dico, avete presente cosa succede in un paese “arretrato” quando arriva il capitalismo, come avviene oggi nei paesi del Centrafrica? Arriva un capitale doppiamente rapace, doppiamente brutale, che si innesta su debolezze strutturali e schiavitù pregresse…

Lenin, almeno su questo, non aveva dubbi: da bravo marxista per lui la rivoluzione la fanno gli operai. Oggi forse andrebbe rivisto e andarci cauti, così come del resto cauto era anche lui. Perché sì, gli operai saranno anche l’avanguardia, ma la Russia rimaneva un paese a maggioranza contadina e già si assisteva a quella doppia cinghia tra operai e contadini. Contadini, si badi, che non vogliono il socialismo, ma piuttosto una rivoluzione (come si diceva allora, in termini che oggi suonano dottrinari), “piccolo borghese”. Cioè vogliono la libertà, la democrazia e specialmente il loro pezzettino di terra, con quel minimo di tutele legali per venire considerati cittadini al pari degli altri. Per i contadini la rivoluzione era questa roba qua. Lenin certamente li assecondava: “Va benissimo, lasciamoli fare, così loro intanto fanno piazza pulita delle scorie feudali e poi noi proseguiremo”. Però, per questo passaggio ulteriore servono militanti di un tipo nuovo. Ma come si formano?

Be’, da realista Lenin ragiona sulla base di quello che passa il convento. Da una parte c’erano i populisti vecchio stile, magari giovani e con un’etica un po’ idealista del sacrificio esemplare e purificatore; e dall’altra i nuovi operai di un paese non ancora industriale, e dunque concentrati in aree precise come le periferie di Mosca, Pietroburgo e Kiev. Questo il panorama. L’intuizione politica, invece, è notare che si andava compattando del materiale esplosivo tutto nello stesso punto, cioè le periferie appunto. E aggiungiamo che già si osservava una possibile internazionalizzazione degli effetti delle lotte, dal momento che in quelle aree industriali finivano le delocalizzazioni (nessuno ha inventato niente) di imprese estere come la Siemens, la Falck e la Nobel. Enormi stabilimenti nelle periferie delle grandi città in cui arrivavano i contadini spinti dalla fame, dunque una classe operaia di prima generazione. È lì che Lenin e i suoi (allora pochi) compagni vanno.

Occhio però a non abboccare alle solite visioni caricaturali, del tipo che se non fosse stato per quattro fanatici che andavano a rompergli i coglioni tutti i sabati sera, i proletari sarebbero ancora lì a patire e non sarebbe successo nulla. Gli operai russi di allora facevano una vita terrificante, lovecraftiana. Il livello di sfruttamento, di abbruttimento e disperazione arrivava a un punto tale che anche la persona più tonta e meno portata per il pensiero politico prima o poi andava a cercare qualcuno che gli spiegasse come uscirne. Si vive una volta sola e… ti sale la carogna. Ancora una volta, in condizioni diverse oggi troviamo risposte simili. Per esempio, la mancanza di prospettive per un ragazzo giovane è tale che probabilmente anche se non ne si ha voglia, la domanda su come cazzo uscirne te la fai.

A Lenin servivano gli operai, ma anche lui serviva a loro. Si fanno quindi i loro bei circolini dopolavoro, e progressivamente inizia a delinearsi un tipo di militante diverso, che coniuga la sicurezza teorica (magari oggi può sembrare un marxismo tagliato con l’accetta, ma anche la loro vita era tagliata con l’accetta, e non c’era tempo per troppe raffinatezze) con l’energica decisione di impegnarcisi fino in fondo (se tanto la tua vita è una merda, non hai niente da perdere). Forse questi due elementi non confluivano sempre nel singolo individuo, ma di certo nello spirito di gruppo. Passo passo, pescando dalla preparazione dei marxisti e dall’etica dei populisti, emerge un atteggiamento caratteristico che non è però la somma delle parti. Leggendo i carteggi si nota, per esempio, un elemento quasi giocoso, guascone, nella sfida alle guardie zariste; è un gioco serissimo, perché se ti prendono sono cazzi amari, ma c’è poco da fare, a vent’anni il piacere di fare casino ce l’hai.

Naturalmente, una volta che nasce la rete di militanti, si pone il problema di come tenerla insieme a livello informativo. La Russia è grande e il regime è oppressivo, quindi tanti baci alla stampa libera. Comunicare diventa una rogna senza un coordinamento, e così fondano un giornale che abbia funzioni direttive. La sede è, per forza di cose, all’estero, e i modi per farlo entrare in Russia costituiscono un’epica di per sé. Chili di giornali nascosti sotto i giubbotti, tuffi dai finestrini dei treni durante le perquisizioni, catene infinite di passamano tra barcaioli… Ne succedono di ogni, ma ancora è presto per le sparatorie. Impareranno a sparare dopo, con il 1905 (hai voglia se imparano…) unendosi a persone che lo sanno già fare, tra cui il vostro amico Kamo, Ter-Petrosian (lui sì che lo trovano già bello che pronto!). Ma sto andando in fretta. Per farla breve, a voler cambiare le cose siamo in tanti, ed erano in tanti anche allora in quel posto di merda che era l’Impero russo; il problema era che non sapevano niente gli uni degli altri. Quando con la rivista hanno cominciato a comunicare e ad organizzarsi, è arrivato lo step successivo, il partito.

Capiamoci, io non sono un mistico del partito, ma neanche loro. E infatti, fin da subito si scozzarono non soltanto sulla definizione di partito, ma anche di militante. Chi ammettere e chi no? Militanti di professione o simpatizzanti a maglie larghe? La discussione su questi temi era continua. “Lo dobbiamo prendere o no il professore universitario che alla prima difficoltà si caca in mano e ci tradisce tutti?” “NÒ”, e giù di nuovo con gli insulti. Però parliamoci chiaro, la domanda era tanto cruciale quanto difficile da affrontare fino in fondo. Sinceramente io (che non sono un estremista, che sono vicino a Pap e al Catai, eccetera eccetera) se fossi vissuto allora forse avrei pensato che avevano ragione i menscevichi! Sai no, vista la difficoltà del momento viene naturale pensare che fosse necessario aprire di più le porte, che non fosse il caso di limitarsi ancora di più, perché mai buttare fuori della gente… e invece per Lenin stava dentro solo chi era disposto a fare sul serio. Si spaccarono fino al secondo Congresso – e anche su questo ci sarebbero aneddoti a non finire, come le pulci nei materassi, i pedinamenti della polizia, i ragazzi di strada che gli tirano la frutta marcia dalle finestre…

Potrebbero sembrare questioni di lana caprina. Poi però, quando arriva il momento insurrezionale, scopri che le scelte fatte a monte sul piano della definizione della militanza impongono da sé le loro conclusioni politiche: se tu, non dico hai preso dentro tutti, ma sei stato più a maglie larghe, è normale che una buona parte o persino la maggioranza della tua base sarà orientata ad allearsi con la borghesia, perché è da lì che li hai presi. Soggettivamente magari credono a quello che dicono, però quando il gioco si fa duro, insomma… Alla prova dei fatti la domanda di fondo diventa un’indicazione di metodo fondamentale, che non si può dire conclusa una volta per tutte, ma deve essere riaperta ad ogni cambio di fase: dove si ferma l’allargamento? Che limiti mettere nel bacino di soggetti da aggregare? Per Lenin, visto che nel vivo della mischia ormai diventa impossibile, è meglio avere il coraggio di scremare subito, all’inizio. Quelli che sono con noi al cento per cento, bene, gli altri affanculo.

Questo vale soprattutto per il periodo prima del 1905. Perché contrariamente a quello che si pensa su “Lenin il settario”, l’organizzazione non è mai un feticcio e dipende dal contesto. Come avrete notato leggendo i miei due volumi, lui cambia idea almeno tre o quattro volte, e dopo la rivoluzione la cambia ancora. Altro che dogmi! L’organizzazione che ti dai, lo ripeto, risponde a un determinato momento. Se tu sei debole, isolato, in Paese in cui “la rivoluzione? Boh, chissà quando”, l’idea tattica più adeguata secondo Lenin è quella esposta nel Che fare? ossia: A) delimitarsi prima di unirsi e B) comprendere bene cosa significa che la coscienza di classe arriva “dall’esterno”.

Soffermiamoci un secondo su quest’ultimo punto, che è il più controverso. “Dall’esterno” non vuol dire che arrivo io e spiego agli operai (o ai rider, o ai migranti, o che so) cosa devono pensare (ti mandano a fanculo), ma che la comprensione della politica passa attraverso un’esperienza di lotta che vada oltre le proprie vicende interne al luogo di lavoro. È solo quando le lotte escono da un contesto ristretto, quando si legano ad altri segmenti di società non soltanto in termini di generica solidarietà, ma alzando il tiro dello scontro, allargando e approfondendo il bersaglio – ebbene, è solo lì che tu capisci davvero in cosa possa consistere un’alternativa di sistema. Acquisire coscienza di classe significa alzare progressivamente lo sguardo oltre i propri obiettivi economici immediati per accedere a uno scontro politico più alto, mica ascoltare i pistolotti degli intellettuali radicali.

Non è quindi un caso che il 1905 non scoppi per merito dei bolscevichi. Scoppia perché l’Impero russo era un organismo marcio, e per giunta scoppia nell’occasione di una guerra, la guerra col Giappone. La riflessione sul rapporto tra guerra e scoppio delle contraddizioni non tarderà infatti a partire – e detto per inciso, non vorrei che ci stessimo avvicinando a una situazione di questo tipo, perché questi sconvolgimenti sono imprevisti. In quei mesi la redazione del giornale bombarderà dall’estero le basi locali in patria con articoli e scritti proponendo, ancora una volta, una tattica nuova. Lasciando su due piedi tutti sgomenti, il Lenin esule in Svizzera in quei giorni non fa che ripetere “basta, smettetela di imparare a memoria il Che fare? e basta con la storia dei rivoluzionari di professione, ora serve un partito di massa, trovare gruppi di sostegno alla nostra stampa, perché altrimenti gli attivisti andranno con quegli altri”. Un Lenin movimentista che, stando alle immagini classiche, nessuno si aspetterebbe.

Poi la situazione cambia ancora con il fallimento del 1905 e con la constatazione che un partito di massa diventa impraticabile in una congiuntura di repressione capillare. E tuttavia la situazione non è più quella di partenza, perché nel frattempo si è creato un brulicare di sindacati semilegali, di dopolavoro, persino di associazioni sportive. Per approfondire il radicamento territoriale senza perdere l’efficacia coordinativa, Lenin propone quindi di scommettere su queste strutture. La strategia, in quel preciso momento, diventa quella di permeare tutto questo spazio pubblico sempre in una logica di partito, ma in una maniera reticolare, molecolare. Manco a dirlo, anche su questa fase del bolscevismo si sa poco. Forse ancora di più che per l’infanzia dei leader, questa parentesi si è vista completamente oscurata nel periodo staliniano. Come è facile immaginare, l’amico Baffone e il “molecolare” non è che andassero troppo d’accordo.

Ad ogni modo, l’ho fatta un po’ troppo lunga e prima di chiudere questa prima parte della giornata e passare alle domande, concluderei con la formula del bolscevismo, che non si trova da nessuna parte negli scritti di Lenin ma la possiamo dedurre noi: prima viene la lotta, perché la lotta esiste a prescindere da noi. Non la troviamo già pronta né possiamo orchestrarla da zero, ma possiamo raccoglierla se capiamo esattamente quali sono i suoi termini, quali sono le pedine sulla tavola da gioco. Perché non c’è cosa peggiore in un momento rivoluzionario (e questo invece Lenin lo diceva eccome) di fare il gioco di qualcun altro. Vale a dire portare avanti, con le migliori intenzioni, gli interessi di una classe sociale che non è quella che voglio difendere, sia il re di Prussia o la borghesia democratica.

Prima viene la lotta, ma ci si butta solo ed esclusivamente dopo che si ha compreso fino in fondo quali sono gli interessi reali in gioco e di chi, sulla base di questi interessi, ci si può fidare in un dato momento. Faccio un esempio a caso: come figure sociali, siamo parecchio diversi da come può essere un lavoratore migrante, magari venuto qui dal Sud; eppure, in un una determinata fase storica, i nostri interessi di classe e il tipo di mutamento sociale a cui tendiamo possono collimare con gli interessi oggettivi di questi lavoratori. Ma prima viene la lotta, e poi da essa una teoria che non è una riflessione sui massimi sistemi, ma un ragionamento su quello che succede e la posta in palio. Solo da qui ci si apre alla possibilità di individuare la forma di organizzazione e la figura di militante più adatta.

Io, cosa si debba fare adesso, non lo posso sapere e non lo riesco a capire, se non altro perché mi ritrovo a continuare a ragionare con categorie degli anni Novanta, ma a ragion di più c’è bisogno di individuare qualche altro soggetto che, magari dove non ce lo aspetteremmo, scova nuove intuizioni.

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Discorsoni / Analisi

I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Terza (e ultima) parte – Il prossimo non sarà un Sessantotto gioioso

Pubblichiamo la terza e ultima parte (qui e qui le precedenti), relativa al dibattito politico, della presentazione modenese di Raffaele Sciortino del suo ultimo lavoro, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza (Asterios 2022). In queste ultime, incisive battute, l’autore risponde alle domande provenienti dal pubblico: abbiamo quindi optato, per facilitarne la lettura, di unire le risposte in un unico discorso di senso compiuto, apportando un numero minimo di tagli a digressioni e interventi dalla platea. La riflessione complessiva che emerge mette in risalto alcuni, importanti, punti politici, che crediamo si debbano tenere in considerazione, essere dibattuti e approfonditi: la questione baricentrale, nodale, dei ceti medi, che assume forma e valenza differente a seconda di dove collocata e della sua composizione, ma che pervade ogni scenario e che altrettanto dovrà fare per la ricerca militante; il campo di battaglia che sarà lo “stile di vita”, il livello di consumo e lo standard di benessere “di massa” che il piano inclinato di scontro materiale tra Stati Uniti-Occidente e Cina-Russia andrà inevitabilmente e direttamente a intaccare e su cui farà leva per mobilitare (o paralizzare) settori non secondari di società, tra guerra e cambiamento climatico; l’individuazione, non a livello ideologico ma di processi e dinamiche reali, degli Stati Uniti come perno inaggirabile che impedisce una trasformazione sistemica, la contrapposizione verso di essi come porta stretta e obbligata (ma non sufficiente) entro cui passare anche solo per pensarla, l’importanza cruciale che assume per questo ogni loro convulsione, interne ed esterna; le questioni della democrazia e della libertà, nelle declinazioni contraddittorie e anche contrastanti che ne fanno (e faranno) movimenti e istanze, e il necessario punto di vista di parte, e di classe, entro cui leggerle e piegarle; la necessità, speculare a quella di riscrivere una teoria dell’imperialismo, di ritematizzare l’antimperialismo, alle condizione date di esaurimento della parabola del movimento operaio e della natura (e contraddizioni) di nuovi possibili movimenti di là da venire. Tutto questo e molto altro. Buona lettura, e ancora grazie a Raf.

 

Raffaele Sciortino

Partirei da quanto detto dal compagno sulla continua retorica democraticista, perché davvero non si poteva riassumente meglio. Ormai non c’è un evento occasionale che riguardi il mondo extra-occidentale che non diventi un pretesto per la solita propaganda, tesa come sempre a ribadire che noi siamo i migliori perché “gli unici detentori della democrazia”. Guardate ai Mondiali di calcio in Qatar; sono certamente morti una quantità di operai, ma la questione era sempre, incessantemente ridotta a quella dimensione lì.

Sul piano culturale, parla da sé lo spirito antirusso, che si lega a un conformismo realmente imposto. Altro che “pensiero unico”! Persino quando si cerca di ragionare sulle sanzioni, i vantaggi per l’Europa o anche la possibilità che l’alleanza con gli Usa sia una forma di sfruttamento, resta sempre un nodo di fondo, che sarà tosto da sciogliere in futuro. Alla fin fine, cosa ti dice l’avversario, il “difensore della democrazia”, e quindi dell’Occidente? Che se alla Cina o alla Russia riesce il tentativo di ricollocarsi nella divisione geopolitica del valore, i tuoi livelli di vita devono deteriorarsi.

Per quello che interessa le grandi masse, dietro il discorso sulla Cina come minaccia, c’è la difesa spasmodica dei nostri standard di benessere e i nostri stili di vita. Parte sì dai piani alti della cultura con slogan idealistici, ma via via arriva ad aggredire questi nodi di fondo, fino a incistarsi sul piano dei consumi. Il terreno è molto spinoso e va maneggiato con attenzione, perché c’è una tanto amara quanto sostanziale verità che emerge.

Facciamo rapidamente un confronto con gli anni Sessanta e Settanta: una parte del proletariato e dei giovani in Occidente ha potuto abbracciare la lotta antimperialista, perché questa veniva coniugata, oltre che con un’istanza antiautoritaria, con un’istanza di miglioramento delle condizioni di vita per larghi strati della popolazione. Poi certo, c’erano i richiami cultural-politici al sovietismo e al maoismo. Oggi non è – e in futuro non sarà – più così.

In futuro, infatti, il gioco imporrà la scelta “Occidente vs. resto del mondo”, esattamente perché gli standard di consumo diventeranno insostenibili. La vecchia connessione tra l’istanza sociale (l’antiautoritarismo rivolto contro istituzioni come la scuola e il lavoro), l’istanza materiale (le condizioni di vita) e l’istanza ideale (l’apparente richiamo alla sinistra comunista) è tramontata da tempo.

Al momento è abbastanza tragica. Tuttavia, si deve rilevare che mentre allora né l’Urss né tantomeno la Cina avevano la possibilità di intaccare veramente, materialmente, le basi del compromesso sociale tra classi lavoratrici e borghesie nella sfera imperialista, da questo punto di vista oggi la situazione è mutata. A ben guardare, la “minaccia cinese” o l’ostinazione della Russia davanti ai diktat statunitensi mettono in moto processi economico-sociali che influiscono direttamente sulle nostre condizioni. Se emergessero lotte che affrontassero le risposte del nostro padronato al mondo extraeuropeo, potrebbero smuoversi le carte in tavola.

Ora, mi rendo conto che quanto sto dicendo è molto vago. Quello che è fuori discussione è che la propaganda sui valori occidentali diventerà martellante, e a questo dobbiamo prepararci. Da un lato siamo svantaggiati, dall’altro non c’è il rischio di essere equivocati come filorussi o filocinesi: in termini di soft power, quelle società non hanno il minimo richiamo sulle giovani generazioni. Quindi è bene mettesi nella testa da subito che fabbricarci un mito non ha nessun senso politico.

Ma anche così, rimane una contraddizione difficile da gestire. Solo se si andrà a incrinare l’accumulazione capitalistica qui in Occidente – il che, ricordiamolo, avrà ripercussioni severe sui meccanismi della riproduzione sociale – innescando lotte che possano aprire di nuovo un divario tra i nostri padroni e noi, ebbene, solo allora il discorso della propaganda occidentale vedrebbe indebolite le sue basi materiali. La speranza è questa, e molti indicatori ci dicono che si sta andando in una simile direzione. Ovvio, in una maniera non lineare: non sarà un Sessantotto gioioso, e non sarà facile riconnettere noi e le nostre classi lavoratrici con il mondo extraoccidentale.

Ma è altrettanto chiaro che senza questa connessione si va verso la guerra di tutti contro tutti. È inoltre evidente che questa operazione possa venire rapidamente ascritta dai nostri avversari alla categoria dell’antiamericanismo; e ciononostante, nella piena consapevolezza dei rischi, in questo mio contributo ho dovuto (e voluto) rimarcare che, per come si è strutturato il capitalismo mondiale negli ultimi trenta-quarant’anni, se non si indeboliscono gli Stati Uniti non c’è nessuna possibilità che si riapra un discorso antisistemico.

Lo ripeto ancora una volta: non possiamo aspettarci che l’indebolimento degli Stati Uniti sorga in primis dai suoi alleati-avversari imperialisti (Francia, Germania, Giappone). Il primo elemento che può rendere difficile la vita agli Stati Uniti e indebolirli viene necessariamente dal mondo extraeuropeo, in particolare dalla Cina. Ciò significa diventare filocinesi? Assolutamente no, perché la Cina rimane un paese capitalista che, a differenza dal passato, non ha nessun appeal sulle nuove generazioni.

Il punto non è quello. L’antiamericanismo – cioè l’individuare negli Stati Uniti il perno che impedisce il cambiamento del sistema e quindi, in prospettiva, un agente che ci schiaccia, vuoi nelle condizioni economiche, vuoi nell’indirizzarci verso un mondo sempre più segnato dalla guerra – è una condizione necessaria ma non sufficiente per una risposta antisistemica. Da lì però, in qualche modo, bisogna passare.

Ma questo non perché lo abbiamo scelto noi, non perché abbiamo individuato ideologicamente il nemico numero uno, ma perché i processi reali e le dinamiche già in atto ci dicono che se il capitalismo deve rinnovarsi e rivitalizzarsi, lo può fare solo se gli Stati Uniti riescono a combinare un riordinamento geopolitico globale con una ristrutturazione produttiva interna e internazionale.

Dunque, solo se questo suo tentativo non avrà successo possiamo sperare in, pensare a e, poi, lavorare per una risposta collettiva a dei problemi che diventano sempre più globali – basti pensare alle questioni energetiche e al cambiamento climatico. Solo in questo modo possiamo ipotizzare l’aprirsi una fase di transizione che non sarebbe più intra-sistemica (cioè tra un ordine globale e un altro) bensì, sperabilmente, da un sistema all’altro.

Capisco bene che parlare oggi di una fuoriuscita dal sistema di produzione capitalistico sembra fantascienza. Però, se pensiamo alla maniera catastrofica, alla precipitazione inaspettata con cui si è aperta la guerra in Ucraina e tutte le sue conseguenze, be’, se le contraddizioni vanno ad acuirsi noi di simili precipitazioni impreviste ne vedremo sempre di più. Proprio per questo carattere di instabilità catastrofica potrebbe tornare sul tavolo la discussione su quale può essere un nuovo ordinamento sociale per la comunità umana, visto che ormai i problemi si pongono su questa scala di gravità. Di più, sinceramente, al momento non saprei dire.

Sono sicuro, invece, che questo scenario comporterà per noi delle contraddizioni. Facciamo l’esempio dell’Iran. Puoi forse non essere con le donne che si vogliono togliere il velo? Ma al tempo stesso, in quella mobilitazione, gli Stati Uniti hanno inserito l’Isis; i curdi cercano di fare il gioco filostatunitense che hanno tentato di fare in Siria e prima in Iraq (l’unico posto in cui gli è riuscito)… Capite bene che al momento non siamo assolutamente in grado di padroneggiare contraddizioni di questo genere.

Ma da dove viene la nostra incapacità strategica? Perché non sappiamo più che pesci pigliare?

Perché non c’è una lotta di classe seria che possa richiamare a soluzioni fuori d’Europa al contempo democratiche e anticapitaliste. A guardarci un po’ più da vicino, ecco che in questo vuoto ritorna il problema dei ceti medi.

Lasciamo perdere per un momento la questione dell’impoverimento dei ceti medi in Occidente, che ha dato luogo alla prima fase del populismo, agendo dunque come un fattore di instabilità. All’infuori dell’Occidente la questione dei ceti medi si muove lungo due scenari differenti.

Il primo è quello auspicato da Pechino e dal partito-Stato, sul quale conviene aprire una parentesi. Per Pechino gli obiettivi a medio termine sono: risalire la catena del valore, ampliare l’accesso al benessere, rimpolpare i ceti medi privilegiando sui settori salariati. Da un lato quindi deve investire sui tecnici, sui laureati e sugli ingegneri, soggetti cioè che al tempo stesso fuoriescono dalla condizione strettamente proletaria, e che permetterebbero all’industria cinese di risalire a livelli tecnologici più alti, e quindi se non proprio di stare alla pari della concorrenza imperialista occidentale, quantomeno di giocarsela con buoni numeri. Dall’altro deve controllare i ceti medi di lavoro autonomo e di piccolissima impresa (oggi diffusissima in Cina) che potrebbero sfuggire di mano chiedendo istanze democratiche rivolte verso l’Occidente: un po’ come è successo ad Hong Kong. E in mezzo gli studenti, che potrebbero andare in una direzione come nell’altra, facendo parte della propria identità l’ascesa del capitalismo nazionale o il “pluralismo democratico” e la rottura con il partito-Stato.

A grandi linee, quindi, possiamo dire che la Cina, forse, è l’unico paese che ha la possibilità di indirizzare l’ascesa dei ceti medi facendone un elemento di stabilizzazione e di rafforzamento del capitalismo nazionale; ma se noi guardiamo fuori dalla Cina, vediamo cose molto diverse.

Altrove, il rapporto tra ceti medi e mercato mondiale (e con esso, la forza attrattiva che ha tuttora l’imperialismo occidentale sui giovani) si disegna come una sorta di patto, di contratto tacito. Questa l’offerta: se tu mi aiuti a scompaginare quel poco o tanto che sia rimasto di centralizzazione nel tuo capitalismo nazionale, di controllo statale interno, di barriere difensive rispetto al mercato estero (ovvero, nella terminologia occidentale, se tu mi aiuti a “democratizzare” il tuo paese), io ti faccio accedere direttamente al mercato mondiale, vuoi con l’immigrazione, vuoi con l’interscambio commerciale, con l’arrivo di capitali e così via.

Quindi negli altri paesi, nelle loro legittime aspirazioni democratiche questi settori, e in particolare i giovani – che sono rappresentati e si sentono in gran parte come un ceto medio in formazione, come una “gioventù di ceto medio”, e non perché effettivamente lo siano o lo possano diventare (essendo perlopiù proletari o semiproletari), ma per le aspirazioni indotte dalla capacità attrattiva del modello occidentale – vedono l’atlantismo liberale come la via più corta.

Al contrario di quanto succede in Cina, per questi soggetti saltare l’enorme sforzo di costruire un’economia nazionale un minimo più autocentrata, sbaraccare il proprio ceto politico (perché corrotto, arretrato, e così via), eliminare le residue difese protettive davanti ai capitali occidentali diventa la via per arricchirti, per migliorare la tua condizione. Insomma, come capite, il rapporto ceti medi e Occidente, ceti medi e mercato mondiale si pone in maniera non del tutto omogenea.

E allora ritorniamo al punto, secondo me, centrale: dal momento che emergono, e emergeranno sempre più, istanze democratiche e richieste di libertà (la situazione dell’Iran è paradigmatica: trent’anni sotto le sanzioni americane, ha dovuto necessariamente volgersi verso la Cina per resistere economicamente e tutto ciò ha rafforzato la spinta alla chiusura, e quindi l’accelerata repressiva, dello Stato iraniano), tocca prestare molta attenzione.

La priorità, almeno a livello di analisi, è chiedersi: che tipo di libertà chiedono questi movimenti e questi soggetti? Che tipo di democrazia? Qual è il suo contenuto non meramente ideale, politico, filosofico, valoriale, ma che cosa gli corrisponderebbe, se realizzata, a livello di strutturazione economica e sociale? E, domanda ancora più crudele: quali sarebbero le ripercussioni sugli altri strati sociali?

Detto altrimenti – e uso questo termine che non mi piace tanto, proprio perché fa parte dell’“ideologia globalista occidentale”, però qui ci sta – solo se noi riuscissimo a decostruire quella domanda democratica potremmo iniziare a districarci una via tra le contraddizioni.

Che cosa intendo dire?  Facciamo l’esempio delle lotte operaie cinesi. Anche queste, va detto, non portano necessariamente un’istanza anticapitalista o antisistemica, o perlomeno per ora non l’hanno sempre mostrata. Tuttavia, possiamo dire che hanno un’istanza democratica in un doppio senso. Da un lato sono sì lotte per il salario, lotte per il miglioramento delle condizioni economiche (quindi “democraticiste”, o lotte che Lenin definirebbe “tradunioniste”); ma possiamo definirle democratiche anche perché spingono sul proprio capitalismo per una modernizzazione che permetta un compromesso sociale un po’ più avanzato.

Ragionando in termini più precisi ma più complessi, possiamo definirle democratiche perché sì premono per un passaggio di estrazione di forme di plusvalore assoluto (con condizioni di lavoro pessime e orari lunghissimi) a forme di estrazione di plusvalore relativo (dove gli orari di lavoro si accorciano perché la tecnologia ti permette l’intensificazione del processo lavorativo), ma ciononostante i salari reali possono comunque aumentare e quindi aumentare i tuoi consumi, e così permetterti anche di ampliare un welfare.

Queste richieste di democrazia che domandano che più plusvalore rimanga in loco e venga accumulato lì, anche per fini sociali (il che, come vedremo, spinge la Cina a indurire i rapporti con l’imperialismo occidentale), è un’istanza senza dubbio democratica, ma è chiaramente differente dagli studenti di Kong Kong che portano in strada la bandiera britannica.

So bene che questo discorso è difficile, e che potrete dirmi “ma allora cosa sei, sei per lo Stato iraniano degli imam che reprimono le donne e che uccidono i manifestanti?”, ma non è questo il punto. Quello che dobbiamo reimparare a fare è fare analisi di classe, materialistiche, di tutti questi movimenti e di queste istanze.

Su questo punto, parliamoci con franchezza: a riguardo c’è chiaramente stata una cesura nella memoria e nell’organizzazione. Si sono recisi dei fili, tra noi qui (e intendo sia la generazione di voi giovani che la mia di vecchi) e l’esterno. C’è stata fatta terra bruciata intorno. Perché? Perché la globalizzazione ascendente ha confinato tutti i movimenti sociali in Occidente sul terreno dei diritti. Tutto ciò che non è formulato in termini di diritti (e perlopiù di diritti individuali: in queste condizioni, i diritti sociali sono la somma dei diritti individuali) è escluso dal discorso.

E così in Europa anche le sinistre che tentarono un discorso antisistemico (ricordo, per esempio, l’ultimo grande movimento, quello No Global), hanno sostanzialmente imboccato un processo che io chiamo (l’ironia è voluta) radicalizzazione. Le sinistre si sono radicalizzate nel senso anglosassone di radical. In fondo, quello che dicono è: combattiamo contro il capitalismo di oggi, ma accettandolo come piattaforma di fondo, perché solo il “capitalismo democratico” consente mobilitazioni nel senso della democratizzazione e dei diritti. Ciò che invece non è democratico, non ce lo permette. Passo passo, senza volerlo abbiamo introiettato “la superiorità dell’Occidente”.

Lo si vede in continuazione. Quando aiutiamo i profughi con le Ong – vogliamo forse far morire i profughi nel Mediterraneo? Ovviamente no – c’è qualcuno che fa un discorso a monte e a valle? Quando facciamo i passeurs dei profughi e li portiamo in Italia e in Europa, ci occupiamo poi di quello che andranno a fare come lavoro? Andiamo nei campi di pomodoro dove a 45 gradi d’estate si prendono due euro all’ora? Queste Ong vanno lì? E si interrogano, queste Ong, sul dissanguamento, l’impoverimento che il flusso della migliore forza lavoro (perché quelli che vengono qui sono spesso i più scolarizzati, i più motivati) noi provochiamo a quei paesi lì?

È chiaro che se tu fai un discorso di diritti (ricordate il “diritto a migrare”?) non puoi affrontare nemmeno teoricamente tutto quello che sta dietro la questione, cioè il problema, serio, che tu stai comunque contribuendo a creare forza lavoro a basso costo per l’imperialismo occidentale – nonostante questo crei contraddizioni con i nazisti, con i vari pseudo sovranisti e così via.

Le contraddizioni più gravi però non riguardano la nostra purezza morale, ma quello che ci esploderà in mano nei quartieri periferici, perché chiaramente questi non vanno ad abitare nei quartieri bene popolati di gente colta e progressista. Tutto questo è radicalization.

Oppure, altro esempio. Abbiamo visto tutti la stupenda lotta dei neri contro Trump, che fortunatamente si è allargata, è andata oltre il punto di partenza della blackness. Da lì hanno iniziato a buttar giù statue. Benissimo. Poi è arrivata la guerra in Ucraina. Dove è andata a finire la spinta del movimento Black Lives Matter? È chiaramente una guerra per procura, e non sto difendendo Putin: gli ucraini sono carne da macello; ma tutte le tue istanze anticoloniali, per cui buttavi giù le statue di Colombo, non appena scoppia la guerra, kaputt. E non tiriamo fuori il problema del dilettantismo dei movimenti, perché nello stesso pantano sono finiti gli “intellettuali critici”. Che so, Noam Chomsky. Alé, graaaande intellettuale anarchico [tutti ridono], anche lui subito: «Mandiamo armi all’Ucraina».

Il problema in questa fase, difficilissima per le residue forze che abbiamo, è quello di iniziare finalmente, non saprei come dire, a “decostruire la decostruzione”. Perché altrimenti non ci muoviamo. La situazione di oggi ci impone di affrontare di petto le contraddizioni: non nella speranza di risolverle (perché nessuno qui di noi, neanche con un grande movimento, potrebbe riuscire a risolvere grovigli come quello in Iran), ma quantomeno iniziando a leggerle con un punto di vista di classe.

Una prospettiva quindi antimperialista, non antiamericana, quale condizione necessaria ma non sufficiente per reimpostare un futuro politico (che sarà il vostro, non il mio: dopotutto, il processo che ci ha condotto a questo punto si è formato in cinquant’anni, cioè grossomodo due generazioni, e nel frattempo ci ha bruciato il cervello). Se noi non iniziamo a rompere con questa riduzione della sinistra antagonista al radical anglosassone, siam panati. Perché le contraddizioni sono continue!

Vogliamo guardare a quello che è successo in Cina? […] Lì, anche io mi sono chiesto il perché di questa governance del covid. Non sanno i cinesi che l’omicron è diversa dalla cosiddetta variante Wuhan? Lì c’è innanzitutto un discorso di sanità. Cioè il welfare, proprio perché stanno solo adesso iniziando a provare un processo di sviluppo di welfare universalistico, lì hanno paura che se scoppia un’epidemia di covid su un miliardo e quattrocento milioni di persone, con una popolazione anziana di circa 260 milioni, non sanno gestirlo con le strutture sanitarie disponibili e la legittimità del Partito – che, ricordiamolo, si basa sul mantenere e migliorare la condizione sociale complessiva – ne verrebbe intaccata. […]

Riassumendo, hanno trattato il covid, da subito, come una questione geopolitica e militare. Se vi ricordate, quando è scoppiato il covid a Wuhan, Trump se la rise, come a dire “ben vi sta”, e i cinesi hanno risposto inscenando una sorta di guerra di popolo: “Noi ce la faremo da soli, non saremo decimati dalla minaccia che si avvicina”. Ovviamente questo, nella volatilità delle situazioni tipica di una fase di allentamento delle strutture globali, si è rovesciato nell’opposto. Si noti però che da Deng in poi, i cinesi hanno spesso adottato una particolare strategia, per cui in certe zone e città localizzate si sperimenta, e se funzionano li si generalizza. Principalmente questo metodo lo si è applicato per le aperture economiche, ma è possibile che vadano ad allentare le misure anticovid in aree specifiche, e poi vedranno dove e quando riprodurle.

Quello che però qui importa, è ritrovare sempre la dialettica democratica tra classi lavoratrici e partito-Stato; “democratica”, lo ripeto, non nel senso fasullo del pluralismo nostrano, ma in quello sostanziale della presa in carico delle istanze provenienti dalle basi sociali (e che addirittura possono essere recuperate e utilizzate per la crescita del capitale locale).

Qui possiamo anche collegarci a un’altra questione importante, che non avevo trattato prima. Molte analisi, fatte anche meglio della mia, arrivano spesso a semplificare, dicendo che finora in Cina si sono viste soprattutto lotte sindacali, ma destinate a evolvere in lotte direttamente contro il potere statuale in quanto capitalistico e rappresentante di una borghesia rossa.

Io non credo che sarà questa la traiettoria. È però un problema non di poco conto, perché tutti vorremmo che le classi operaie delle varie nazioni lottassero contro la propria borghesia, si unissero, e allora viva l’internazionalismo. Ma non può andare così, perché la struttura dell’imperialismo di per sé non omogenizza le condizioni operaie, e quindi nemmeno, né ora né in futuro, i percorsi di lotta anticapitalistici. Ipotizzo che per la Cina siano possibili diversi scenari.

Uno è lo “sbaraccamento”, cioè una crisi economica tale per cui il patto sociale interno salta nel momento in cui si imponesse quella parte dei ceti medi che vuole continuare a commerciare con l’Occidente e minare la centralizzazione politica; e allora avremo un rilancio di altri cinquant’anni di imperialismo statunitense, noi ci salutiamo e ci diamo all’arte.

Se la Cina salta in questo modo non ce n’è più per nessuno, perché sì, la contraddizione nell’accumulazione non sarebbe risolta, ma avremo comunque dei dissesti ancora più dirompenti di quelli determinati dalle aperture successive all’implosione dell’Urss. Abbiamo però anche altri scenari, forse anche più plausibili, perché la Cina non si farà mettere sotto tanto facilmente.

Un’altra ipotesi potrebbe essere quella di ritrovare, nella crisi economica e geopolitica che arriverà, una ripresa delle lotte (e con esse, anche del malcontento dei ceti medi, ma pazienza); ma, attenzione, non saranno lotte puramente anticapitalistiche. L’istanza di classe si incrocerà con l’istanza nazionale. Cioè, probabilmente, insieme alla richiesta di miglioramento della propria condizione, risorgerà un’insistenza antioccidentale, o quantomeno antiamericana.

I segnali ci sono già tutti, anche in una parte di quei giovani che fino a qualche anno fa ammiravano in maniera sconsiderata tutto quanto arrivava dagli Stati Uniti. A partire dalla guerra dei dazi di Trump, e a seguire il tentativo di usare il covid in funzione anticinese e l’incrudimento delle relazioni diplomatiche, una parte della gioventù cinese è andata nella direzione di una sorta d nazionalismo antimperialista.

Ora, può essere che queste parole d’ordine si ripresentino anche nelle lotte sindacali. Ciò, ovviamente, comporterà per noi un’ulteriore contraddizione, perché il cappello sulle lotte sarà più sciovinista, ma in prima luogo volto al rafforzamento del potere di Pechino. È anche vero, però, che in prospettiva se questo permetterà a Pechino di reggere, il boomerang ritornerà in Occidente: la situazione economica interna agli Usa peggiorerà, risorgeranno delle contraddizioni di classe anche da noi, e quindi sul lungo periodo si può pensare a una ricongiunzione tra i vari spezzoni di lotte operaie, sapendo però che comunque si va incontro a un purgatorio sociale pesantissimo.

Leggiamola per un secondo con le lenti dell’analisi di classe, altrimenti, ancora una volta, la scelta sembra semplice. Se vediamo che gli operai cinesi diventano nazionalisti, dobbiamo sperare che resistano, lottino diventando transitoriamente nazionalisti e che tentino di fare il salto (sebbene i problemi attuali non possano essere risolti né dagli Usa né dalla Cina, ma riguardano la comunità umana mondiale)? Oppure è meglio facciano le loro lotte fregandosene del quadro geopolitico internazionale attaccando il potere centrale à la Tienanmen, con una democratizzazione (ma “democratizzazione” per chi?) che comporterebbe anche una penetrazione occidentale? Una bella rogna.

Io penso che, ad oggi, non abbiamo nessun strumento né previsionale né politico per rispondere a queste contraddizioni, però nominarle diventa inaggirabile. Altrimenti ci prendiamo in giro. Quindi pensare che lottiamo per i diritti e per la democrazia, dovunque, allo stesso modo, senza guardare cosa ci sta dietro, è un suicidio. Ormai la sinistra si è sparata da sola, è morta per quello. E allora, se dobbiamo lasciare il testimone al futuro, dobbiamo almeno essere onesti. Io non ho più intenzione, sinceramente, di fare l’ala sinistra dei democratici.

Anche parlando a Torino sono venute fuori domande su temi simili, come tematizzare l’antimperialismo oggi. Ciò che preoccupava i compagni è che oggi non è praticabile; quindi, intorno a questo nucleo non riesci a riorganizzare un soggetto, a creare un nuovo tessuto valoriale e una prospettiva di lotta. Un problema al momento inaggirabile. Però vorrei dire una cosa: proviamo a non partire da noi.

Guardiamo dall’alto la situazione: sembra proprio che si vada verso una recessione, l’inflazione non è facilmente aggirabile, la guerra ucraina continuerà e infine c’è il piano inclinato tra Usa e Cina. Benissimo. Dunque, chiediamoci: tenuto conto della morte della sinistra e della fine del vecchio movimento operaio, se rinascono delle lotte, che forma potrebbero avere?

Io penso che non potranno ripresentarsi in forme ideologicamente appetibili, in primo luogo interclassiste. Come ricorderete, questo era uno dei tratti distintivi populismo della prima ondata. La differenza rispetto ad oggi è che se in quella fase a dare voce ai programmi erano soprattutto i ceti medi, io presumo che in una potenziale seconda fase, se mai si apriranno delle mobilitazioni, saranno più spostate verso il proletariato.

Ciò che infatti prosegue dagli anni del covid e al periodo della guerra è la progressiva divaricazione tra ceti medi e proletariato. Lo vediamo anche nelle elezioni italiane: è un governicchio, che galleggia a malapena, ma notiamo che tutta una fetta di piccola borghesia e lavoro autonomo gli si è aggrappata disperatamente, lasciando fuori i settori più poveri. Il reddito di cittadinanza va tolto: la Meloni lo ha detto fin dalla campagna elettorale. I condoni sono rivolti solo da un lato, e nel frattempo si parla direttamente contro i poveri, compresi quelli che lavorano (pensiamo al tema voucher e alle altre strade che prende la nuova precarizzazione).

Se si aprissero delle mobilitazioni, bisognerebbe essere pronti a cogliere questo divario, perlomeno incipiente. A ben guardare, infatti, l’asse del malcontento si sta lentamente spostando non solo verso una composizione ma anche verso temi più proletari, come il reddito di cittadinanza e la sanità universalistica. Fin qui, per la sinistra ufficiale è tutto bello. E però, ciò che mette in difficoltà la classe dirigente europea è il fatto che se comunque l’alleanza con gli Stati Uniti non si tocca, d’ora in poi anche per una lotta sindacale, il tema guerra diventa inaggirabile. Ma non perché lo porremo noi!

Per esempio, in Germania questi discorsi solitamente vengono sventolati dai populisti di destra, ma sempre più spesso c’è chi lo azzarda anche tra i nostri. Fino a non troppo tempo fa, parlare con i compagni tedeschi era assolutamente impossibile se prima non mettevi dieci mani avanti e recitavi le formule d’obbligo del “poveri ucraini”, “bastardo Putin”, “viva la gloriosa resistenza” e via così – se non altro per le condizioni peculiari della Germania, in cui l’antisemitismo resta una ferita apertissima. Eppure, ben prima del sabotaggio, ci sono state manifestazioni per attivare Nord Stream 2. Manifestazioni, è scontato, nelle quali si sono inserite anche la Afd e i nazi, ma attraversate soprattutto da gente comune (dopotutto, l’ex Ddr è tuttora dipendente dai gasdotti russi). E ancora lo scorso primo maggio è stata contestata la Baerbock…

Insomma, se si scampa al binomio passivizzazione-guerra di tutti contro tutti, questi processi prima di porsi a noi passeranno anche da altri lidi. Non sentiremo più uno pseudo sovranismo come quello di Meloni e Salvini, ma piuttosto un’istanza di indipendenza dagli Stati Uniti che assumerà tratti nazionalistici, non propriamente classisti. Ricordo però che, secondo molti compagni, anche il primo populismo aveva in seno dinamiche di classe, che abbiamo però sprecato. Ciò che resta da ammettere è che, essendo morta la sinistra e il movimento operaio, noi non dobbiamo guardare al punto di partenza, ma al punto di arrivo.

Perché non può più essere dato per scontato niente! L’internazionalismo e il posizionamento di classe possono essere semmai i risultati di un lungo processo contraddittorio, non lineare e sporco. A differenza delle speranze delle mobilitazioni civili, saremo sempre più costretti ad affrontare i nodi di fondo della situazione attuale, per esempio il clima. Guardate come è andato a finire il movimento di Greta: ora dice che il nucleare è pulito, che con il lockdown si respirava bene (nonostante fosse la riprova che se anche riduciamo i consumi gli aerei partivano lo stesso)… Solo per dire che tutti questi movimenti di ceto medio, giovanili o meno, non reggono minimamente al livello di profondità delle contraddizioni.

Certo, possiamo andare verso la guerra, perché all’immediato il discorso pare: “Tu cinese vuoi togliere a me”. È un esito possibile, non scontato, tra i molti: la comune rovina delle classi in lotta. Dopodiché io inviterei a non porsi il problema di quello che è immediatamente praticabile, perché altrimenti dobbiamo chiudere bottega. Ormai la linearità tra lotte democratiche e lotte anticapitaliste è completamente saltata e, sotto certi punti di vista, il movimento di classe nei suoi 150 anni di storia non ha mai affrontato una congiuntura così complessa; quantomeno, non c’è mai stata una situazione in cui una soluzione strettamente nazionale abbia meno corso.

Oggi, o risolvi i problemi globalmente, oppure sei parte del problema. Non so se è una magra consolazione: questo lo potrete vedere solo voi.

Chi non lo legge è un gioioso Ottantanove.

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Discorsoni / Analisi

I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Seconda parte – L’ascesa cinese e i conti aperti con il Capitale

Pubblichiamo la seconda parte dell’intervento di Raffaele Sciortino alla presentazione del suo ultimo, prezioso lavoro – Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza (Asterios 2022) – di sabato 3 dicembre a Modena.

Se nella prima parte ci si è occupati del versante statunitense dello scontro “in processo”, tra piano inclinato della crisi globale e nuova dinamica dell’imperialismo, passiamo ora a scandagliare il lato cinese, tra retaggio della rivoluzione sulla composizione di classe e contraddizioni in seno al “capitalismo politico” socialista. Si apre uno scenario non scontato, attraversato dal rapporto lotte-sviluppo e dai limiti dell’ascesa cinese, che lascia aperti certi conti con il Capitale.

A queste longitudini la conoscenza del Dragone – o meglio, quello che interessa a noi, della situazione della classe operaia e dello sviluppo del capitalismo in Cina, per dircela come una volta – è spesso offuscata da una coltre di propaganda dozzinale, nel migliore dei casi oggetto di assenza di studio e di fonti, nel peggiore di distorsione ideologica, divisa tra ingenui e volenterosi crociati della narrazione liberal e campisti «fedeli alla linea anche quando la linea non c’è».

La ricchezza e la densità del libro di Raf emergono in particolar modo in questi capitoli, sicuramente i più “faticosi”: riflettono un accurato e difficile “lavorone” a monte dell’autore, che ha saputo sintetizzare e chiarificare nell’intervento che segue, legando la “questione cinese” al più complessivo piano globale. Pensiamo che meriti attento ragionamento e discussione.

In attesa della terza parte… Buona lettura.

 

Raffaele Sciortino

Come anticipavo prima, il secondo grande tassello nello scacchiere globale è l’inserimento della Cina nel mercato mondiale a partire dagli anni Settanta, ma con un’accelerazione negli anni Ottanta e Novanta. Cosa possiamo dire a riguardo? Azzardiamo un riassunto – la maggior parte del libro è dedicata alla Cina – tenendo insieme i piani indispensabili per ipotizzare delle tendenze minime.

La Cina in trent’anni ha fatto un salto pazzesco. Sorprende tanto più se consideriamo che è passata a un capitalismo peculiare venendo non dal feudalesimo, ma dal modo di produzione asiatico (già ampiamente in disgregazione) con un’intromissione esogena di tipo coloniale avviata dalle Guerre dell’oppio in poi. Si è rialzata come nazione passando attraverso una rivoluzione democratica contadina (quella di Mao, del 1949), caratterizzata da una dirigenza interpretabile tranquillamente come “giacobina” e “populista”: giacobina in quanto modellata sulla Rivoluzione francese e incentrata sul traino di una borghesia rivoluzionaria; populista non nel senso odierno, ma in quello del grande populismo socialista dell’Ottocento russo, cioè che individuava nella classe contadina il soggetto politico principale.

Ciò pone le basi della creazione di un’economia moderna, quindi industriale, prevalentemente isolata. Infatti, il sostegno sovietico iniziale è stato importante nei primi sette-otto anni, e già nel 1958 va esaurendosi (Stalin vedeva Mao come un possibile rivale). Ancor più curioso è il fatto che tale isolamento si accompagnava a una peculiarissima accumulazione originaria capitalistica sentita dalle masse stesse come socialista, che significava sostanzialmente autarchica ed egualitaria («abbiamo contro tutti»). Un percorso verso il capitalismo veramente molto particolare e difficile da decifrare.

Fatto sta che il punto è questo: già Marx e Lenin dicevano che il socialismo in un paese solo non è possibile (e il discorso non cambia anche per chi prende per buona la caratterizzazione della Cina come socialista), perché arriva a delle contraddizioni tali per cui o la rivoluzione si estende, oppure è finita; ma neanche il capitalismo è possibile in un paese solo. E infatti la Cina, gettate le basi della sua industrializzazione, arriva allo stesso nodo a cui storicamente sono arrivati tutti, cioè il rapporto con il mercato mondiale. Senza l’accesso al mercato mondiale, non hai accesso ai capitali e alla tecnologia. Lo sviluppo inchioda.

E così, già durante la rivoluzione culturale, Mao e soprattutto il suo ministro degli esteri Zhou Enlai varano il rapprochement americano per affrontare questo scoglio, in una funzione comunque antirussa e nel loro linguaggio ideologico. Urge quindi aprirsi al mercato mondiale, ma senza svendersi, senza ridursi a una periferia dipendente, tipo l’America Latina. A tal fine è indispensabile: a) tenere il controllo statale delle leve economiche fondamentali, quali l’industria pesante e il sistema bancario b) alimentare una mobilitazione alla base e dunque c) conservare il ruolo del Partito come legame fondamentale tra lo Stato e la società (o per meglio dire, le classi).

La posta in palio è spaventosamente alta. Infatti, se perdi la guida di questo difficilissimo processo di apertura al mercato mondiale – detto altrimenti, di relazioni con l’imperialismo – ne pagherai le conseguenze all’interno, perché certe classi e mezze-classi (in testa una borghesia in ascesa) rialzeranno la testa… e cosa arriveranno inevitabilmente a chiedere?  Il “pluralismo politico”, la “democrazia”. E quindi via la centralizzazione, cioè il fattore che ha permesso a quella stessa borghesia di rinascere, di rialzare la testa, forse non di imporsi sui mercati mondiali, ma comunque di giocare il suo ruolo.

Da qui si inserisce la strategia di Deng Xiaoping. Dopo la morte di Mao, nel 1978 Deng avvia la cosiddetta politica di “Riforma e apertura”, che si rivelerà il fulcro di questa ascesa incredibile, nonostante un prezzo da pagare che la dirigenza cinese, oggi come ieri, ha ben chiaro. Il prezzo da pagare è l’asimmetria con cui tu ti inserisci nella divisione internazionale del lavoro. In estrema sintesi, gli Stati Uniti avrebbero permesso alla Cina di aprirsi, ma prima sfruttandola in funzione antisovietica e poi come appiglio per rilanciare la globalizzazione e sconfiggere le lotte operaie interne; se questo non bastasse, l’industria cinese, per tutto il primo trentennio e giù fino a dieci anni fa (in gran parte ancora adesso), viene confinata all’export.

Per lungo tempo l’economia cinese verrà indirizzata verso l’esportazione di prodotti a basso livello tecnologico, assemblati a partire da componenti provenienti dai paesi di nuova industrializzazione dell’Asia orientale e dal Giappone, con macchine di fattura (leggasi: acquisto di capitali fisso) giapponesi, tedeschi e statunitensi. Nella strutturazione internazionale della catena del valore, ci si ritrova in una posizione certamente subalterna. Il beneficio consiste nel guadagnare uno sbocco nei mercati occidentali, nell’esatto momento in cui gli Stati Uniti diventano un’economia al 70% basata sui consumi.

L’asso nella manica, come tutti sappiamo, è l’immane riserva di forza lavoro a basso costo. Il che però alludeva da subito a squilibri di classe da tenere sotto controllo: lotte operaie, borghesia privatistica emergente, nuovi ceti medi, ma in particolar modo il determinarsi di forti dicotomie tra città e campagna da un lato, e tra costa ed entroterra dall’altro. A tutt’oggi ha una forza lavoro agricola di circa 200 milioni, con una produttività che viene calcolata (non so bene come, ma prendiamolo per buono) un cinquantesimo rispetto alla compagine statunitense. Si aggiunga poi un’estrema polverizzazione della proprietà fondiaria: immaginate cosa voglia dire gestire una situazione in cui i residenti in campagna – oltre alla forza lavoro – si aggirano sui 500 milioni di persone, e in cui è ancora prevalente la piccola impresa, a tutt’oggi famigliare, che coltiva mediamente mezzo ettaro. Non so se rendo l’idea!

Stando così le cose, diviene di primaria importanza evitare una proletarizzazione selvaggia. E così, gradualmente si assiste a un passaggio di una parte dei contadini nelle fabbriche, che iniziano a essere assorbite dalle multinazionali sbarcate soprattutto negli anni Novanta, quando cioè queste vedono che il processo di decollettivizzazione di Deng si sta stabilizzando e ha tenuta politica. Quanto più avanzano le multinazionali (che ovviamente si appropriano della maggior parte del plusvalore degli operai cinesi) quanto più si trasferiscono, a ondate periodiche, i contadini. Lì li chiamano “mezzi contadini-mezzi operai salariati”, qui li chiamiamo migranti rurali. Però il termine migrante secondo me non rende bene e rischia di portarci verso altre analogie…

Kamo: «A Modena, negli anni Sessanta e Settanta, c’erano i “metalmezzadri”…»

Sì, “metalmezzadri”! [ride] Non suonasse male, li dovremmo chiamare “metal-piccoli produttori”, perché hanno non la proprietà ufficiale (la proprietà della terra è chiaramente nazionalizzata), ma hanno oramai l’accesso perenne al piccolo appezzamento e alla casa garantito come “diritto alla terra” (e questo è cruciale per saldare il legame tra Partito e zone rurali). Quindi sfruttamento pesantissimo della forza lavoro che arriva dalle campagne – non c’è motivo di raccontarcela, queste cose le abbiamo lette e le abbiamo viste – ma al tempo stesso non completa proletarizzazione.

Perché? Perché conviene al partito-Stato avere una valvola di sfogo e soprattutto evitare che si creino gli slum nelle grandi città, conservando così un contatto tra migranti in città e la terra. A tal riguardo, gli strumenti di coesione sociale escogitati dal Partito sono due. In primo luogo, appunto, il diritto d’uso della terra, che via via viene reso mercificabile (cioè può essere contrattato, venduto, dato in gestione) con aiuti statali così da poter superare la polverizzazione della microimpresa agricola; e dall’altro l’utilizzo del welfare. Un welfare minimo (che consiste sostanzialmente nei sussidi sul piano delle pensioni e nella sanità) al quale, soprattutto dagli anni dagli anni Duemila, in campagna puoi accedere se hai il l’hukou (il “certificato di residenza obbligatorio”). Questo documento, inoltre, risulta estremamente vantaggioso in momenti di crisi, poiché offre la possibilità di tornare in campagna e ampliare le tue risorse disponibili, come è avvenuto durante la crisi asiatica del 1998 o nel 2008-2009.

Ovviamente questo discorso vale sempre meno per le nuove generazione di migranti operai-contadini, i quali vogliono realizzare le proprie aspettative in città, e conseguentemente richiedono un welfare apposito per la città. In queste fasce della popolazione, come è facile immaginare, è sempre più minoritaria la prospettiva di lavorare un po’ nell’industria e poi tornare “alla casa”, alla terra, contribuendo ad ampliare il divario geografico e demografico tra rurale e urbano.

Infatti, sebbene questa strategia welfaristica funzioni, la situazione rimane molto complessa. Il rapporto di reddito tra campagna e città è mediamente di uno a tre (nelle grandi città come Pechino e Shangai è molto più alto). Le coste sono nettamente sviluppate (a tratti ricordano le villes occidentali), mentre se ti spingi all’interno trovi ancora chi usa il bufalo per arare la terra. Piccolo aneddoto: io ricordo ancora che quando negli anni Novanta uscì «Limes», la rivista di geopolitica, uno dei primi numeri titolava Quante Cine esistono?, indicando la necessità di scomporre la Cina per poter fare un’analisi sociale plausibile. Eravamo ancora all’inizio di questo processo: figuriamoci oggi.

Ricapitolando: in cambio di un’asimmetria nella produzione internazionale, si conquista l’accesso alla tecnologia e ai mercati occidentali; il tutto – e per ragioni di tempo non posso illustrarlo quanto meriterebbe – sulla spinta di notevoli lotte sociali, sia nelle campagne, sia, soprattutto negli ultimi decenni, nelle città e nelle fabbriche, mosse anche da questo nuovo soggetto, mezzo operaio-mezzo contadino. Una potente spinta dal basso che, attenzione, non è stata semplicemente repressa, ma è stata anche utilizzata, incanalata verso la modernizzazione. Qui abbiamo un esempio da manuale del rapporto tra lotte e sviluppo.

Abbiamo sentito tutti delle lotte alla Foxconn da metà anni Dieci, alla Hyundai e più generalmente nelle multinazionali estere, in primo luogo giapponesi e taiwanesi. La dinamica a cui si assisteva solitamente non era il solito conflitto tra classe operaia nuova, classe operaia vecchia e la multinazionale; ma piuttosto una loro triangolazione. Nel senso che le strutture in fabbrica del Partito e il sindacato ufficiale spesso non si opponevano o persino le appoggiavano, per consentire l’innalzamento dei salari e così iniziare un’accumulazione in loco di surplus maggiore rispetto ai precedenti profitti della Apple, della Foxconn e così via. Inoltre, l’aumento dei salari e le lotte nelle multinazionali impulsavano le imprese cinesi ad acquisire fette di mercato in proprio, rilanciando in avanti l’industrializzazione: fino a metà anni 2010 la maggior parte dell’export era di imprese, al limite, metà cinesi e metà occidentali, mentre adesso una buona metà dell’export è di imprese prevalentemente a proprietà cinese. Tutto ciò contribuiva e contribuisce a ottenere le risorse che alimentano il ciclo di recupero di tecnologie occidentali e riapplicazione creativa.

Quindi un immane tentativo di modernizzazione, tesa a un duplice traguardo: la conquista di fette di plusvalore sottratte all’imperialismo occidentale sempre maggiori e, sul piano sociale, un progressivo miglioramento delle condizioni di vita e lavorative della popolazione. Un compromesso un po’ più socialdemocratico, dopo anni e decenni di sfruttamento spietato (si è parlato – male ma comunque ci si capiva – di “neoliberismo in salsa cinese”). Sullo sfondo, spingere per un’urbanizzazione che traghetti verso una società di ceto medio, dove il ceto medio è correttamente inteso come elemento di pacificazione politica. Un’equazione con molte variabili, estremamente complessa.

Ora, il punto di svolta è il 2008. Con la crisi finanziaria globale, Pechino si accorge di essere troppo dipendente dall’export. Ricostruiamo questo processo per gradi. Inizialmente è la Cina a venire in aiuto all’Occidente (nel pieno dell’amministrazione Obama) con un piano keynesiano di oltre 500 miliardi di dollari destinato a rilanciare la produzione interna e a non fare sgonfiare il mercato mondiale al quale, a quel punto, è strettamente connessa. È in questa congiuntura che si formula una nuova strategia. Che cos’è successo?

Una parte dei surplus commerciali accumulati dalla Cina nei decenni, per tacito accordo, doveva essere investita nei titoli del Tesoro americano, rientrando in quella struttura che ho descritto prima. I titoli del Tesoro vengono utilizzati come riserva in dollari, per vari motivi: in primis perché il dollaro è la moneta mondiale; e soprattutto perché, se non si acquista dollari, lo yuen rischia di salire a causa del surplus commerciale e quindi rendere meno competitive le imprese sul mercato mondiale. Da un punto di vista finanziario, è un vero un cappio al collo. Non a caso questa situazione è stata definita una Chain-Gang: sei legato da questa catena all’altro galeotto (in questo caso, gli Stati Uniti) e, se questo cade, ti trascina con sé.

La crisi del 2008 conferma quanto suggerì la crisi asiatica del 1997: così non si può continuare, se non mettendo a rischio i processi di modernizzazione autonoma, quindi il compromesso sociale interno, il quale, lo ripeto, è quel fattore di stabilità che consente al Partito di guidare un paese enorme, complessissimo, e da un certo punto di vista ingovernabile. Di qui la svolta con l’amministrazione Xi Jinping.

L’elezione di Xi Jinping nel 2012 (entra in carica nel 2013) segna la presa d’atto che si deve cambiare strategia di sviluppo, e che ciò avrebbe comportato grossi cambiamenti nel rapporto, anche geopolitico, con gli Stati Uniti (in quel momento erano, con Obama, in grossi guai) e con l’Europa (stretta nella crisi dei debiti sovrani). Ridotto ai minimi termini, cosa vuol dire cambiare strategia di sviluppo? Ritagliarsi una nuova collocazione nella divisione internazionale del lavoro. Nella fattispecie ciò equivaleva a non avere più soltanto fabbriche che assemblano componenti comprate da fuori, ma iniziare a produrre da sé con quella che chiamano “innovazione indigena”; una volta prodotte queste componenti, le si assembla in altri paesi, che a questo punto diventano il Laos, la Cambogia, il Vietnam e così via. Quindi prendersi una fetta maggiore di plusvalore sulle catene di fornitura mondiali, risalendone la catena.

Tuttavia, diventa prioritario l’ottenimento di tecnologie a livelli ancora più alti rispetto a quelli raggiunti fino ad allora. Per arrivarci, l’“innovazione indigena” va affiancata a un ampliamento del mercato interno.  Non è più accettabile che i consumi siano al 30-40%, perché questo ostacolerebbe i processi di industrializzazione rivolti verso i segmenti industriali a valore aggiunto più alto. Da qui l’imperativo categorico: uscire definitivamente dal sottosviluppo. Fate conto che la Cina sconfigge la povertà assoluta soltanto nel 2012-2013, una delle grandi bandiere di Xi Jinping. È grazie a questo che, secondo le stime della Banca Mondiale, le disuguaglianze di reddito a livello globale sono diminuite; se invece noi togliamo la Cina dal calcolo, vediamo che la forbice si divarica, il che indica bene quale sia il peso della Cina negli equilibri tra Nord e Sud del mondo.

Di pari passo, va parzialmente riformulato il compromesso sociale, approfondendone l’impostazione socialdemocratica. Il ruolo del partito-Stato deve diventare sempre meno quello di una gestione diretta delle aziende, e sempre più quello tipico di un capitalismo moderno, cioè di pianificazione macroeconomica. Si tengono, come prima, le leve centrali dell’economica (le banche statali e le grandi imprese), ma conservarne la proprietà statale serve a dettare un indirizzo di politica industriale. È una pianificazione, certo, ma che è tutta dentro e per il mercato. Guardate, tra molte virgolette sembra un po’ l’Italia del boom [degli anni Sessanta, ndK]. Anche per quanto riguarda la proprietà immobiliare, i cinesi sono arrivati ad avere per l’80% la prima casa…

Quindi la strategia di Xi Jinping, il piano “Made in China 2025” del 2015, il quattordicesimo piano quinquennale e via discorrendo si incentrano tutti sulla doppia circolazione, sull’innovazione indigena e la regolazione del mercato interno. Per fare un esempio, avrete tutti sentito delle mazzate date dal partito-Stato a Jack Ma, ad Alibaba e in generale alle piattaforme digitali. Perché questa insistenza? I motivi sono due. In primo luogo, sono canali economici che deviano l’innovazione verso applicazioni, mentre qui si tratta di risalire la catena a monte fin dal manifatturiero, per dipendere sempre meno dai microchip progettati con i design statunitensi e confezionati da fabbriche taiwanesi e sudcoreane (leggi alla voce: guerra dei microchip e semiconduttori). In secondo luogo, perché le piattaforme digitali, profilando l’utente, prima o poi si buttano sul microcredito, e così facendo la creazione di moneta rischia di sfuggire alle banche centrali, esponendosi alla speculazione dei capitali della finanza occidentale. Sa chiaro, non è che non entrino dei capitali speculativi a breve termine, il cosiddetto hot money, ma il problema è regolamentarlo: già nel 2015-2016 è scoppiata una bolla immobiliare in borsa e la Banca centrale dovette intervenire con un esborso notevolissimo, vendendo parte di riserve in dollari per evitare dissesti maggiori.

Contemporaneamente – e qui i giochi diventano strettamente geopolitici – bisogna proiettarsi all’esterno. Nasce allora il grande progetto delle Nuove Vie della Seta. Un’infrastrutturazione innanzitutto di capitale fisso e vie di comunicazione, poi anche digitale, che permetta un maggiore interscambio sia commerciale sia di investimenti di capitali all’estero, iniziando quindi un’internazionalizzazione dello yuen.

Non ci sono assolutamente le condizioni per parlare di una de-dollarizzazione; e tuttavia le Vie della Seta, strumenti baricentrali per la proiezione esterna del capitale cinese, possono diventare appunto vettori di una diversificazione delle valute mondiali. Ci siamo ancora lontani, però è chiaro che, se noi ci mettiamo dal punto di vista di Washington, bisogna bloccare preventivamente questa traiettoria. Semplificando parecchio, nel proiettarsi all’esterno la Cina potrebbe diventare una sponda per quei paesi che non vogliono rimanere completamente subordinati all’ordine del dollaro: la Russia, l’Iran, via via la Turchia, i Brics e – se posso azzardare un’anticipazione – secondo me tra un po’ scoppia un grosso casino tra Stati Uniti e Arabia Saudita, dal momento che questa sta pensando di vendere petrolio in yuen.

Guardiamo poi il problema dei microchip. Non so bene quale paragone si possa fare con le fasi industriali precedenti, sta di fatto che i microchip sono ormai il cuore di ogni processo produttivo e di ogni bene di consumo. La Cina ne importa il 70% mondiale, proprio perché rimane in parte l’officina del mondo, sebbene Xi voglia passare dal Made in China al Made by China. Ad oggi, i microchip di alto livello, sotto i dieci nanometri, sono ancora tutti prodotti o a Taiwan o in Corea del Sud, su progettazione statunitense e con macchine, sofisticatissime, di produzioni ultracentralizzate negli Stati Uniti e in Olanda (qualche cosa anche in Germania). La Cina è indietro almeno di dieci-quindici anni, e tuttavia gli Stati Uniti sono attanagliati dal timore che avanzi, che recuperi. La guerra commerciale di Trump non è nulla in confronto a questo. Il problema non sono i dazi, ma la possibilità di arrestare (e quindi invertire) l’avanzamento tecnologico e industriale di un attore economico come la nazione cinese.

È una cosa veramente seria, al momento direi persino di più delle schermaglie su Taiwan, perché la Cina non è in grado di rispondere tecnologicamente. Mano a mano che le tensioni proseguono, si fanno sempre più esplicite da parte degli americani. Per esempio, adesso gli statunitensi pretendono che la Tsnc (la più grande fabbrica taiwanese) e la Samsung (sudcoreana) investano in Arizona e in Texas, in un’operazione di reshoring che ha la sua potenza retorica anche per quanto riguarda la tutela di quella fragilissima pace sociale interna agli Stati Uniti. Come vedete, si può prendere una qualunque manovra economica e rintracciarne la natura conflittuale, contemporaneamente infra-sociale e geopolitica. Considerando che posta è in gioco, è facile capire che si aprono spiragli di conflitto tremendi.

Vado verso la conclusione. Come avrete ormai capito, davanti a questo scenario, l’obiettivo cinese è chiaro: non farsi sganciare – con una certa ironia terzomondista… – dai circuiti mondiali, perché comprometterebbe la propria possibilità di avanzamento tecnologico. A conti fatti, però, la nuova strategia di sviluppo ha delle fragilità tremende. Iniziano infatti dei processi tesi verso l’indebitamento. Perché?

Perché nel rallentamento dell’accumulazione mondiale, per evitare una crisi economica e quindi compromettere il patto sociale interno, si lanciano investimenti in settori a bassa produttività. Per esempio, sono state fatte ingenti spese nell’edilizia (in cui poi, non a caso, si è generata la bolla edile) e nelle infrastrutture fisse (treni ad alta velocità, autostrade, eccetera), ma ancora resta da capire che uso produttivo possano incentivare. Da lì il rischio di un indebitamento senza produzione di plusvalore con cui ripagare il credito. Si potrebbero determinare quindi delle bolle, forse non ai livelli della finanza occidentale, ma comunque preoccupanti; tant’è vero che Xi Jinping ha più volte intimato a uno «sviluppo economico sano» contrapposto all’«espansione disordinata del capitale» (ma pensiamo anche agli slogan come «la casa è fatta per abitare, non per speculare»). Delle fragilità notevoli, ma tale passaggio o la Cina lo compie o rincula, torna indietro definitivamente e salta il compromesso sociale. Per la Cina è una questione esistenziale.

E da qui il piano inclinato. Perché chiaramente per gli Stati Uniti diventa fondamentale troncare questo salto. Si spiega così non solo la guerra dei microchip, ma anche il crescente caos geopolitico che incontriamo ripercorrendo le Vie della Seta. L’Ucraina e la Russia erano una delle direttrici principali della Via della Seta che unisce Cina e Germania, e dunque l’Europa; anche in Iran una situazione a dir poco drammatica sia per contraddizioni interne reali, sia per fattori indotti dall’esterno; prima ancora la catastrofe in Siria, ovvero lo snodo mediano nella direttrice Iran-Siria-Mediterraneo; ora sorgono screzi con l’India…

Aspettiamoci quindi la continuazione e l’esasperazione della politica del disordine indotta dagli Stati Uniti lungo l’Asia Orientale, dove stanno cercando di rafforzare le loro alleanze in funzione esplicitamente anticinese: quindi il tentativo di coinvolgere l’India; il riarmo giapponese, financo nucleare; i sommergibili nucleari all’Australia e l’alleanza Aukus; e infine la trappola Taiwan, che dovrebbe consistere per gli Stati Uniti nell’analogo dell’Ucraina per la Russia. Quindi capite che portare avanti una nuova strategia di sviluppo in questo vespaio diventa sempre più difficile – per non parlare del problema Covid e della sua governance.

Chiudo. Torniamo un attimo dall’altra parte, sull’altro versante. Anche sul coté statunitense l’ordine che finora li ha favoriti regge sempre meno. La globalizzazione non paga quanto prima e per giunta polarizza tutti i rapporti. All’interno abbiamo già visto il trumpismo e il populismo, e non è che sono scomparsi: a parte il fatto che Trump era il sintomo e non la malattia, i processi di polarizzazione interni alla società statunitense sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso vale per gli sviluppi successivi alla (debolissima) vittoria di Biden alle ultime elezioni.

Ci sono state le mobilitazioni delle donne per l’aborto, così come si sono verificate anche delle lotte operaie, però attenzione: la proposta di Biden è un America first-light, un trumpismo in veste democratica. Si prospetta il reshoring, cioè il ritorno di alcune lavorazioni industriali per la classe operaia bianca; si insiste con l’attacco alla Russia; si moltiplicano le continue provocazioni anticinesi e via di questo passo. Da ultimo, oltre l’immane pacchetto di sussidi erogati in questi anni, c’è l’Inflation Reduction Act, un decreto da 700 miliardi di cui quasi 300 saranno spesi in sussidi a imprese affinché tornino a investire negli Stati Uniti. Una mossa che sta già creando gravissimi problemi nei rapporti con l’Europa. Insieme alla rottura della politica energetica europea, sancita dal sabotaggio statunitense a Nord Stream 1 e 2. Per l’industria tedesca (ovvero il cuore dell’industria europea) il costo dell’energia è divenuto tale per cui la stessa Volkswagen ha detto “altro che passaggio all’auto elettrica, con questi costi non possiamo permetterci nemmeno di produrre le batterie”. Non si tratta di una conseguenza imprevista: gli Stati Uniti stanno puntando ad attirare capitali e investimenti di grandi imprese anche europee, e dunque a deindustrializzare parzialmente la stessa Europa. Stanno cambiando tutti i rapporti e si prepara per i prossimi decenni qualcosa di grosso.

Certo, gli Stati Uniti manterranno i propri alleati; certo, Biden non tratta gli europei come li trattava Trump; però l’onere per questi ultimi è sempre più pesante. Persino i costi di protezione sono diventati insostenibili: basta guardare a come stiamo pagando il coinvolgimento in Ucraina. E così, necessariamente, crescono e cresceranno delle insofferenze antiamericane, oggi anche tra gli alleati. Al tempo stesso si iniziano a vedere alcuni segnali di sofferenza del dollaro. Per fare un esempio, i cinesi non stanno aumentando l’acquisto di treasury bond americani. Non li vendono, ma non li comprano nemmeno.

Ecco spiegato perché gli Stati Uniti si stanno aggressivizzando radicalmente contro la Cina: per ciò che è, ovvero la possibile sponda economica prima e politica poi dell’“asse dell’insofferenza” antiamericana sparso sul mondo; e quello che potrebbe diventare qualora le riuscisse la risalita della catena del valore, l’internazionalizzazione dello yuen e l’ampliamento del mercato interno servito da proprie aziende – e non come nel Brasile del primo Lula, dove sì aumenti i consumi interni e fai salire un ceto medio di giovani e studenti, ma acquistando dall’esterno, cosicché quando arriva la crisi questi ti si rivolgono contro e allora “viva Bolsonaro”.

In estrema sintesi, per gli Stati Uniti il decoupling, cioè sganciare la Cina dai segmenti alti del mercato mondiale, significa imporre agli alleati una rottura. Il viaggio di Scholtz in Cina delle scorse settimane, preoccupatissimo, rientra in quest’ottica. I tedeschi sono preoccupatissimi, perché dopo la cesura con la Russia per le politiche energetiche, rompere anche i legami commerciali con la Cina sarebbe una catastrofe senza pari.

Ora – e qui chiudo veramente – ci dobbiamo porre una domanda fondamentale. Il decoupling combinato con una parziale rilocalizzazione delle produzioni è già una grand strategy? Ovvero, è un analogo di quella politica di contenimento scagliata nella Guerra fredda contro l’Urss?

Ecco, io qui avanzo alcuni dubbi, che mi portano a dire che andiamo ancora più verso il caos. Non si può escludere che gli Stati Uniti ce la facciano, cioè che riescano a innestare alla Cina delle contraddizioni, interne ed esterne, tali da farla implodere (un regime change sistemico); e però, a tutti è evidente che la Cina di oggi non è l’Unione Sovietica di ieri. Anche solo provare a farla saltare sarà molto più difficile (leggasi: molto più doloroso per lo stesso Occidente).

Insomma, il caos che monta ci sta conducendo a contraddizioni economiche che diventeranno, e già diventano oggi, sociali e che, prospettate in tendenza nei prossimi due decenni, ci fanno dire: i nostri conti con il Capitale non sono chiusi.

Il punto per gli Stati Uniti è fin dove portare il decoupling in maniera tale che non rompa la globalizzazione, che è la gallina dalle uova d’oro che finora ha permesso il comando globale del dollaro sul plusvalore prodotto globalmente. Rompere la globalizzazione è fuori discussione: condurrebbe molto probabilmente a un conflitto armato oggi inimmaginabile nella sua portata. Ma fino a che punto puoi tirare la corda con gli alleati? Guardate alle insofferenze che ribollono nella popolazione lavoratrice e nella borghesia produttiva tedesca, dove un forte antiamericanismo, prima tabù, inizia a circolare.

Persino uno come Lafontaine, che è stato un dirigente importante dell’Spd, nei giorni scorsi ha lasciato un’intervista durissima in cui ha detto chiaro e tondo che i sabotatori di Nord Stream 1 e 2 sono gli americani, che la classe dirigente tedesca è «vile e codarda», che la Baerbock (cioè i Verdi) sono il peggio che possa esserci… Badate che questi discorsi sono molto più spesso a destra, nel populismo. Quindi attenzione, perché le contraddizioni da una qualche parte devono uscir fuori, e se non escono a sinistra è una bella rogna.

Per ora siamo davanti, in un certo senso, a uno stallo economico-politico-diplomatico già intaccato e alla crisi ordinativa degli Stati Uniti. Come erano usciti dalla crisi degli anni Settanta? Combinando il riordinamento geopolitico globale con una profonda ristrutturazione produttiva e di classe (borghese) all’interno. Ora, a me sembra che al momento sì, attacchino la Cina e la Russia in quanto Stati rivali, ma soprattutto per congelare, per rinviare una ristrutturazione produttiva che sconvolgerebbe la società statunitense. Il ceto medio, che continua a vivere a debito, verrebbe falcidiato: per ora la questione dei ceti medi è emersa nella forma del trumpismo, ma quello era solo un primo segnale. La stessa cosa qui. Le classi dirigenti stanno finora facendo ricadere l’inflazione sui proletari, ma il ceto medio sente benissimo l’acqua che sale. I bottegai possono pure sperare in un qualche condono dalla Meloni, ma tutti capiscono che durerà poco.

Che ci aspettano anni veramente durissimi.

Chi non lo legge è Zelensky a Sanremo «conciato come una punk londinese».

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Discorsoni / Analisi

I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Prima parte – Appunti per una nuova teoria dell’imperialismo

Sullo sfondo della guerra in Ucraina e della recessione economica globale, l’urto possente che segnerà il prossimo futuro e sta già rimodellando il nostro presente: lo scontro tra Stati Uniti e Cina.

È su questo cambiamento di fase che, sabato 3 dicembre, abbiamo voluto ragionare con Raffaele Sciortino a Modena, per costruire un punto di vista e un’analisi approfondita che non si trovano nelle aule universitarie, sui podcast di Dario Fabbri o tra le infografiche di Instagram. Allargando il campo sull’epoca dei torbidi e di caos crescente che avevamo già cominciato a decifrare nel Mondo di domani, nella precedente iniziativa con Raf e Silvano Cacciari, di cui avevamo già riportato gli interventi su questo blog.

È questo scontro, oggi, il nodo cruciale del sistema-mondo capitalistico, imperniato su una globalizzazione giunta a un punto di non ritorno, tra equazioni impossibili e necessità di rilancio. Un conflitto che non si limita alle sfere alte della politica e dell’economia, ma inciderà sempre di più nella vita quotidiana di milioni di persone, e non in modo secondario a queste latitudini.

Che forma prenderà il caos internazionale da un punto di vista di classe? Da quali contraddizioni strutturali si darà il senso di marcia dello scontro? Quali scenari si apriranno per il ritorno del conflitto sociale?

«Gli dèi della fortuna favoriscono solo chi si prepara…», si chiude così il libro che abbiamo voluto presentare. Pertanto, partendo da queste domande, ma soprattutto da questa indicazione di metodo, pubblichiamo in tre puntate il ricco intervento e il proficuo dibattito della presentazione di Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza, ultima, preziosa e non semplice fatica di Raffaele Sciortino. In questo prima tranche, un’introduzione alla crisi della globalizzazione capitalistica a trazione americana, sviluppata sul dollaro e sul ruolo di ordine/disordine di Washington nel sistema-mondo, che traccia fin da ora qualche appunto per una nuova, e necessaria, teoria dell’imperialismo ancora da scrivere.

Per chi non si accontenta di quello che vede e sente intorno a sé. La posta in palio, le lotte di classe a venire, forse meno lontane di quanto si creda…

 

Raffaele Sciortino

Grazie ai compagni per l’accoglienza qui a Modena, è sempre un piacere tornare. Non preoccupatevi, è sabato e cercherò di non ammazzarvi con la mia relazione. Vorrei fare giusto un’introduzione che disegni il quadro generale e lascerei piuttosto alla discussione i punti più controversi o comunque di maggiore interesse.

Se dovessi dirla tutta, il nocciolo segreto di questo libro è un invito a ritematizzare il concetto di imperialismo, inteso come struttura. Ovviamente non lo fa ritornando indietro a uno sguardo ideologico da anni Sessanta; e tuttavia resto convinto che su questo cardine si avvierà una discussione negli anni a venire, poiché ormai lo stato di cose lo impone, la situazione lo esige. Giustamente i compagni dicevano che ho tentato di affrontare questo problema assumendo un punto di vista di parte, che nel libro traspare al livello dell’inquadramento analitico.

Se dovessimo fotografare lucidamente, fino in fondo, al momento, le attuali dinamiche di classe e di movimento, dovremmo essere pessimisti. Questo non ci esime però dal delineare alcune tendenze che in futuro si incroceranno, che contrasteranno tra di loro, e che potrebbero – a date condizioni – aprire delle prospettive a oggi effettivamente molto remote. Per dare sostanza e concretezza all’elaborazione teorica e analitica, partirei dall’avere ben presente questo obiettivo.

Fotografiamo quindi la situazione da un punto di vista geopolitico iniziando da una premessa metodologica fondamentale. Mi riallaccio a quanto correttamente anticipavano i compagni: contrariamente a quanto si legge per la maggiore, quando parlo di geopolitica cerco di non limitarmi e di non ridurlo al conflitto di potenza tra grandi Stati, alla “tragedia delle grandi potenze”. Per quel che ci riguarda, “geopolitica” è un altro termine per dire “imperialismo”, ovvero economia concentrata la quale, quando le contraddizioni non sono più gestibili altrimenti, diventa sì scontro di potenza, ma al cui centro rimangono delle dinamiche profonde di accumulazione capitalistica, e dunque di rapporti di classe.

Ora, sotto questo aspetto noi notiamo un cambiamento cruciale, o perlomeno un inizio di un cambiamento di fase. Esattamente cinquant’anni fa, Nixon e Mao si incontravano per siglare un punto di svolta nel quadro della Guerra fredda. Eravamo ancora in piena Guerra del Vietnam, sebbene gli Stati Uniti cercassero di uscirne in tutti i modi (si noti, durante una presidenza repubblicana…). Si crea così il cosiddetto rapprochement, il riavvicinamento – diplomatico, prima, ed economico, poi – che apre il mercato mondiale alla Cina, presente e ancor vivo Mao.

Com’è noto, per definire la struttura geopolitica di allora, gli studiosi e i manuali di storia parlano di “bipolarismo” tra Usa e Urss. A ben vedere, però, proprio a partire dai processi antimperialisti e anticoloniali – detti oggi in una maniera politicamente neutra, se non ipocrita, “decolonizzazione” – in realtà la Cina si era già ritagliata un suo ruolo di spicco, che non la vedeva tanto come una potenza in senso militare e in senso classico, quanto come il vettore fondamentale, il motore pulsante di queste dinamiche anticoloniali. In ciò forte, ovviamente, del potenziale generato dalla sua popolazione, dalla sua antica civiltà, e dalla sua storia.

A uno sguardo più attento, quindi, si può osservare come già allora il bipolarismo si stesse in un qualche modo incrinando, andando a costituire quel riavvicinamento geopolitico-diplomatico che gli analisti oggi chiamano il “triangolo strategico”. Con questo termine si schematizza una situazione internazionale gravitante sulla superpotenza statunitense, sull’Unione Sovietica (allora considerata superpotenza, sebbene poi si vide che così non era), ma anche da un altro grande polo: la Cina, che da un punto di vista militare è una media potenza, e ciononostante inizia ad acquisire una rilevanza politica (in parte acquisita, in parte “concessa” dagli Stati Uniti) tale per cui può cambiare gli equilibri mondiali. Ecco il triangolo strategico.

E allora, cosa è veramente successo nel 1972? Ritorniamo al triangolo: il cateto che lega Washington a Pechino si accorcia, mentre va ad allungarsi sicuramente quello tra Pechino e Mosca (per ragioni che adesso non possiamo investigare qui; ma basti dire che c’era stata una rottura iniziale già dieci anni prima) e passo passo, da Reagan in poi, con la “nuova Guerra fredda” degli anni Ottanta, tra Washington e Mosca.

Certo, questa situazione non è l’unica causa dei rapporti internazionali a venire, che hanno sviluppi complessi; e tuttavia ha contribuito a disegnarne la linea principale. Si aggiunga che pochi allora la colsero, specialmente nel campo marxista, abbacinato o meno che fosse dal maoismo e dalla Rivoluzione culturale (che formalmente era ancora in piedi, per quanto in declino). Cinquant’anni dopo noi possiamo dare come tendenziale questo triangolo strategico; e tuttavia intravediamo già dei cambiamenti importanti che potrebbero persino andare a costituire una struttura nuova.

In primo luogo, non c’è più l’Unione Sovietica: c’è la Russia, che ora è senza dubbio il polo minore dei tre. Il grosso però di quello che sta emergendo è il riavvicinamento tra Mosca e Pechino, contemporaneamente all’allontanamento degli Stati Uniti dagli altri due. Queste trasformazioni lavoravano già nel sottosuolo, ma adesso, specialmente dall’Ucraina in poi, sono palesi.

Un secondo punto di cruciale importanza è che la globalizzazione non è finita, ma sicuramente si sta incrinando, dirigendosi al momento verso un rallentamento degli indici fondamentali (vi risparmio un’analisi tecnica). Non a caso, l’«Economist» parla di slowbalization – una globalizzazione che rallenta e che comunque corre incontro a delle contraddizioni che potrebbero anche aprire a una deglobalizzazione, la quale, ovviamente, non sarebbe un processo puramente economico.

Insomma, molti elementi ci fanno ipotizzare l’apertura di una nuova fase, che potrà durare anche decenni e i cui caratteri contribuiranno a definire come se ne uscirà, così come è avvenuto con il “lungo Sessantotto”. La grossa, ovvia, differenza sta nel fatto che oggi l’innesco del cambio di fase non è dato dalle lotte, né anticoloniali né operaie. Questo certo è una complicazione su cui riflettere; e però le dinamiche sociali ci sono. Una sorta di lotta di classe invisibile, comunque, rimane.

Di qui il piano inclinato dello scontro internazionale che – attenzione – non viene sollevato dagli analisti di professione. Emerge piuttosto dalle percezioni degli stessi due grandi attori, Pechino e Washington, se uno avesse la briga di analizzare la mole di letteratura e dichiarazioni ufficiali. Quantomeno per i cinesi è chiarissimo che si è chiusa definitivamente la fase iniziata con il riavvicinamento e se n’è aperta un’altra qualitativamente differente, rispetto alla quale occorre cambiare strategia.

A questo punto vorrei essere il più sintetico possibile, anche se i temi, come dicevano giustamente i compagni, sono complessi anche per me, e figuriamoci sintetizzarli in una relazione. A ogni modo, il punto mi pare questo: noi arriviamo sempre un po’ in ritardo. Ci stiamo chiedendo soltanto adesso cos’è stata la globalizzazione. E non mi riferisco qui a quella rappresentazione (apologetica o critica poco importa) che grossomodo riportava tutto al “neoliberismo” e così via: ci chiediamo cosa sia stata nel profondo per capire cosa si sta rompendo e che cosa potrebbe uscirne.

Dunque, non essendoci il tempo per una genealogia minuziosa, mettiamo almeno sinteticamente a fuoco i due aspetti fondamentali degli ultimi trenta-quarant’anni, centrali sia nella globalizzazione ascendente sia a partire dalla crisi del 2008-2009: il ruolo ordinativo degli Stati Uniti e l’inserimento della Cina nel mercato mondiale.

Letta attraverso il primo punto, la globalizzazione si disegna come il risultato di un insieme di assemblaggi. La maggior parte non preparati a tavolino, altri frutto di strategie. Per gli Stati Uniti il problema era molteplice: come uscire senza troppi danni dal pantano vietnamita; come reagire al “lungo Sessantotto” (ai movimenti dei neri, alle lotte operaie, eccetera); e come rispondere a un “Terzo Mondo” che aveva alzato la testa sull’onda delle lotte antimperialiste e anticoloniali, il quale ancora trovava una sponda (lasciamo perdere di che tipo) nell’Unione Sovietica. Quindi estreme difficoltà. Tant’è che negli anni Settanta il dibattito politico, sia negli ambienti borghesi che nei nostri, ruotava sul declino degli Stati Uniti.

In realtà non c’è stato nessun declino. Perché gli Stati Uniti sono rimasti gli egemoni mondiali? Non perché “sono una potenza” e quindi impongono una guida; al contrario, guidano perché hanno intrepretato al meglio il capitalismo nella sua complessità e individuato al meglio ciò che urgeva disperatamente all’accumulazione capitalistica per fuoriuscire dalla crisi degli anni Settanta, affrontandola a tutti i livelli (di conflitto di classe, di conflitto intercapitalistico e geopolitico, eccetera).

Che tipo di struttura ne è scaturita? Il punto di svolta emblematico – che fa il paio con il 1972, l’incontro Mao-Nixon di cui parlavo prima – è ormai universalmente individuato nello sganciamento del dollaro dall’oro, nel 1971. Come è noto, ciò conduce alla fine del sistema monetario di Bretton Woods istituito all’uscita dalla Seconda guerra mondiale, a sostituire in larga misura l’egemonia del dollaro a quella della sterlina, fino a elevare il dollaro a moneta mondiale (tenuto pur sempre conto della divisione del mondo in due blocchi).

Questo sganciamento, con le sue origini per certi versi contingenti – la globalizzazione è anche un assemblaggio di contingenze che poi si fa struttura –, si coniuga con delle strategie tutto sommato intelligenti da parte dell’amministrazione americana, si consolida, dura nel tempo e appunto si rilancia in avanti, rivitalizzando l’egemonia statunitense. Sostanzialmente si era partiti dal fatto che, per vari motivi, gli Stati Uniti avevano ormai una bilancia di pagamenti in deficit cronico (soprattutto per quanto riguarda le spese militari), la quale poi è andata ad assommarsi con una bilancia in deficit commerciale cronico (ovvero il rapporto import-export).

Detto in estrema sintesi: gli Stati Uniti escono dalla Seconda guerra mondiale come i banchieri del mondo. Prestanocapitali, investono all’estero e impongono la propria moneta. In parte questo era già successo dopo la Prima guerra mondiale ma, per motivi che adesso non possiamo tematizzare, non si era creata una struttura stabile. Ebbene, a partire dagli anni Settanta questi tendono a diventare il Paese debitore numero uno, con il più grande deficit della bilancia commerciale (quindi i più grandi importatori al mondo: ormai siamo a livello di 800-900 miliardi di dollari l’anno) e della bilancia dei pagamenti (che indica, lo ripeto, il flusso in entrata e in uscita di capitali).

La capacità, la grandezza e perché no, il colpo di genio (se vogliamo metterci al livello degli attori personali, per quanto la questione sia sul piano delle strutture) della dirigenza statunitense è stata nell’idea di usare l’indebitamento come leva per rilanciare l’egemonia. In tutta franchezza, sul fronte marxista dell’epoca praticamente nessuno lo aveva colto, perché si riteneva – con una lettura economica ortodossa e che di per sé sarebbe anche valida, ma non importa – che il deficit indicasse la perdita di terreno della produttività del sistema industriale relativamente alla concorrenza interna al campo occidentale (nella fattispecie, rispetto a Germania e Giappone); ciò significa che sei in declino, e dunque che scatterà presto o tardi una rivalità interimperialistica (appunto con Giappone e Germania, le sconfitte della Seconda guerra mondiale che si sarebbero risollevate e avrebbero rivaleggiato).

Con varie sfumature, la nostra lettura negli anni Settanta era sostanzialmente questa. Non è andata così.

Infatti, il dollaro sganciato dall’oro e trasformato in una moneta con cambi fluttuanti, legato a una bilancia dei pagamenti in deficit cronico, ha permesso di monetizzare i debiti. In una parola: da allora gli Stati Uniti si indebitano ininterrottamente nella propria moneta. È come se emettessero in continuazione un assegno in bianco o chiedessero dei prestiti a conti fatti irredimibili, dove tu praticamente ti indebiti e al contempo sei tu che emetti la moneta con cui quel debito dovrebbe essere ripagato. Non è forse questa una funzione parassitaria, da classico “sfruttamento parassitario della leva del debito”? Ebbene, non è esattamente così.

Non è esattamente così, per il semplice fatto che questo meccanismo ha permesso di avviare quella futura globalizzazione, che non è stata soltanto una congiuntura politica, ma un passaggio, uno stadio dello sviluppo del capitalismo che per la prima volta si è reso pienamente mondiale, costituendo quel mercato mondiale ipotizzato da Marx centocinquant’anni prima.

Gli Stati Uniti inondano di dollari il mercato mondiale (a maggior ragione quando imploderà il socialismo reale) e intanto inseriscono la Cina. In virtù della forza militare statunitense alle sue spalle, questo dollaro funge da liquidità internazionale sempre disponibile, allo scopo di “lubrificare” i circuiti di capitale e di merci che si globalizzano. La produzione si internazionalizza e nascono quelle che oggi si chiamano comunemente le “catene globali del valore” (o “catene di fornitura”, supply chains, e così via). Inoltre, grazie anche alla Guerra del Vietnam, gli anni Settanta sono anche gli anni in cui si inventa il container: si apre così la storia della logistica ipermoderna.

Occorre rilevare, infine, che questi circuiti di debito e credito su cui corre il dollaro inflazionato determinano la creazione di corridoi finanziari enormi, nonché delle relative bolle (che periodicamente esplodono). La finanza – ed è un punto di estrema importanza, da sottolineare con la massima chiarezza – ha quindi alla base l’internazionalizzazione della produzione. Di questo passo in breve la finanza (per dirlo un po’ metaforicamente) diventa costitutivamente un’anticipatrice del ciclo produttivo, spingendolo parossisticamente a mercificare, a “capitalistizzare” tutto il globo terracqueo. Al tempo stesso la finanza diviene una primaria regolatrice degli standard di valore.

È in tale contesto che il dollaro assurge effettivamente a moneta mondiale. Riassumendo, la situazione internazionale generatasi dalle trasformazioni del dollaro risulta chiaramente funzionale, in primo luogo, agli Stati Uniti per rilanciare l’egemonia economica – una traiettoria talvolta sintetizzata come “l’imperialismo finanziario del dollaro”. Di pari passo, infatti, questi complessi circuiti produttivi e di credito-debito consentono di stringere in un’unica maglia il mercato mondiale, anche tutte le altre borghesie e le altre economie e non più soltanto quelle imperialiste europee, facilitando così la fuoriuscita dalla crisi politica degli anni Settanta.

In questa mutazione dei rapporti economici internazionali, cosa conservano gli Stati Uniti? I livelli alti della produzione. È da lì che parte la rivoluzione informatica e digitale, mentre gran parte dell’industria a medio (e soprattutto basso) livello tecnologico e ad alta intensità di lavoro inizia ad essere delocalizzata. Si darà così il varo ai famosi processi di downsizing e di deindustrializzazione, prima negli Stati Uniti e poi estesi via via anche all’Europa, che spingono le manifatture verso la Cina con forza lavoro a basso costo (ne parlerò a breve). Si trasforma così la funzione ordinativa degli Stati Uniti rispetto alla Guerra fredda, già dieci-quindici anni prima che l’Urss crollasse, gettando i semi di quello che conosceremo come il capitale neoliberale. Ripeto, con una rendita di posizione chiarissima degli Stati Uniti. Perché?

Perché chiaramente il dollaro è una struttura, ma è anche una strategia, una leva della strategia statunitense. Al punto tale che da allora è possibile ricostruire i cicli economici anche seguendo l’uso “a fisarmonica” che gli Stati Uniti hanno fatto del dollaro (non è un’analisi originale mia, è una lettura che sta venendo fuori da parecchie parti). In taluni contesti si è trattato di riversare il dollaro sui vari mercati inflazionandolo inizialmente (sul lungo percorso, il prezzo del denaro inflazionato tende a svalutarsi) oppure, a date condizioni e quando se ne sentiva l’esigenza, rialzando i tassi attraverso la Banca centrale statunitense, la Federal Reserve, riattirando così i capitali.

A che fine? I più disparati: per ristrutturare la produzione industriale; per finanziare l’apparato militare mastodontico, che va ben oltre gli 800 miliardi di bilancio (pensate ai rapporti tra la “rivoluzione digitale”, la Silicon Valley e il Pentagono); per eventuali pacchetti di stimolo, come è avvenuto negli ultimi anni per il Covid sia con Trump che con Biden (somme che non hanno pari nemmeno rispetto al Next Generation EU); e permettere, soprattutto, la creazione di bolle finanziarie che vanno a razziare valore su tutto il globo terracqueo. Bolle che poi di volta in volta scoppiano e, quando scoppiano, si tratta di fare ricadere i costi sugli altri.

Per esempio, in Europa questo lo abbiamo visto nel 2010-2011 con la crisi dei cosiddetti “debiti sovrani”, nata dopo la catastrofe del 2008-2009 in cui chiaramente (o almeno, nella mia lettura) ancora una volta parte dei costi di questa crisi è stata riversata sul Vecchio continente. Oggi, con la guerra in Ucraina, siamo al secondo tempo dello scarico degli oneri. Aggiungo poi che negli ultimi mesi la Federal Reserve sta di nuovo alzando i tassi, sebbene ancora sia poco chiaro quale possano essere le conseguenze.

Torniamo quindi alla storia, se vogliamo comprendere bene il funzionamento di questo meccanismo.

Come si sa, a fine anni Settanta scatta la cosiddetta stagflazione, stagnazione + inflazione. Lotte operaie, la rendita petrolifera che sale (poiché, giustamente, i Paesi produttori di petrolio esigono una fetta maggiore dei profitti) e via discorrendo. Nell 1981 arriviamo al 19% di inflazione negli Stati Uniti. La Federal Reserve, guidata allora da Volker (da cui l’espressione Volker Shock), alza tantissimo i tassi di interesse, stroncando rapidamente, con una recessione durissima, tanto l’inflazione quanto le lotte operaie e le pretese del cosiddetto Terzo Mondo a un ordine internazionale più equo. Da lì procederà la controrivoluzione reaganiana, thatcheriana, eccetera, fino ad oggi.

Vi è poi un altro tema, che accenno soltanto: oltre alla strategia del dollaro a fisarmonica, gli Stati Uniti usano sempre più spesso il regime sanzionatorio. Dovendo tutti usare il dollaro, direttamente o indirettamente rientri nell’arbitraggio giudiziario degli Stati Uniti. Quindi o ti sanziono direttamente (tipo l’Iran o la Russia) oppure con le cosiddette sanzioni secondarie, cosa forse ancora più grave. Non so se state seguendo Priolo e la Lukoil… Insomma, perché le banche italiane (secondo me anche la stessa Eni, ma vedremo come va a finire) non erogano lettere di credito per acquistare il petrolio? Perché temono che gli Stati Uniti possano rivalersi con le sanzioni secondarie, vuoi mettendo multe, vuoi tagliandoti fuori. Negli ultimi anni ha dato delle multe pazzesche alla Deutsche Bank, alla Bnp Paribas e così via; e inoltre non è mai decollato il sistema di pagamenti internazionali alternativo europeo per poter commerciare il petrolio iraniano. Perché? Perché anche se l’Europa l’ha varato, le banche se ne guardano bene dall’adottarlo. Su questo discorso ci stanno ben attenti anche i cinesi.

Quindi, vedete, si è andato costituendo una struttura, un dispositivo, chiamiamolo come vogliamo, con una rendita di posizione statunitense – ma, durante la globalizzazione ascendente, a beneficio di tutti. Dico “vantaggio” ovviamente tra virgolette, poiché già allora la situazione era diversa a seconda della propria collocazione nella divisione internazionale del lavoro e a seconda del rapporto geopolitico intrattenuto con gli Stati Uniti: è ben diverso se sei un nemico, un rivale, uno Stato canaglia, o un alleato, un vassallo, un tributario. Ma attenzione (e su questo torneremo): questa struttura sta diventando sempre più onerosa. Questa rendita di posizione, questa funzione ordinativa in qualche modo si sta incrinando anche per gli alleati.

Il punto da evidenziare è che non siamo di fronte a un “declino” degli Stati Uniti (se non in termini molto relativi), quanto piuttosto alla difficoltà del sistema di cui gli Stati Uniti sono il perno. È una precisazione fondamentale, se non vogliamo ricadere in certe discussioni che non hanno portato a nulla, e trarre invece delle lezioni anche dagli anni Settanta.

Chi non lo legge è un editoriale di Rampini.

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Discorsoni / Analisi

R. Sciortino, S. Cacciari – Punti di condensazione. La guerra, i media e il «secondo populismo»

«S’i nel mondo ci fosse un po’ di bene» avremmo, come ricetta per l’avvenire, la chiave per una ricomposizione di classe facile, coerente, pulita. Soprattutto in linea con i precetti, i desiderata, i pregiudizi e gli automatismi dei ceti politici (quali?) e intellettuali (dove?) di sinistra, e della loro sinistra ideologia. Saremmo già bell’è pronti, bandiere rosse al vento – o nere, o arcobaleno, scegliete voi al mercato delle identità il vostro pride – e via andare. Ma gli ultimi cicli di mobilitazioni sociali ci hanno ormai definitivamente abituato ad aspettarci qualcosa di ben più complicato, sporco, contraddittorio – ambivalente. Un “guazzabuglio” di soggetti sociali, con un diverso grado di internità alle categorie che usiamo per dare senso e orientarci nel caos del presente – sia di ordine sociale che geopolitico, e i due livelli sono collegati – di cui è difficile sciogliere i nodi. Linguaggi incomunicabili, comportamenti ambigui, potenzialità abortite. Bravo chi ne viene a capo. Ce lo siamo detto tutti.

I feticisti dello spurio e dell’ambivalenza a tutti i costi, così come chi considera il “casino” una maledizione esclusiva di questa fase storica e di questa composizione di classe, se ne stiano a distanza: non siamo noi quello che fa per voi. Non c’è da scandalizzarsi, né da applaudire. Davanti alla realtà concreta, la critica morale di ciò che non si conforma a quello che vorremmo e l’elogio di quello che ancora non c’è portano a ben poco. Occorre, invece, analisi concreta. Come ci stiamo dentro a questa realtà – nello specifico alla guerra, che sta informando il prossimo futuro? Quali lenti e strumenti dobbiamo usare, e quali buttare via? Che uso ne facciamo delle faglie, delle contraddizioni, delle ambiguità che ci stanno intorno e ci determinano? La domanda è politica, non analitica.

Al termine di una densa giornata di riflessione collettiva (quella del 2 aprile a Modena), partendo da questi interrogativi Raffaele Sciortino e Silvano Cacciari ci offrono spunti per affrontare i torbidi del medio periodo. Senza dare ricette, i due interventi ipotizzano domande politiche e passaggi di testimone intorno ad alcuni punti di condensazione – ruolo dei ceti medi, forme del “secondo tempo” populista, enigma della composizione giovanile, precarietà del consenso alla guerra. La trascrizione che segue, la conclusiva di questa serie, apre a una traccia di ricerca militante che dovrà necessariamente proseguire. Il lavoro non manca. Che sia per far saltare la baracca, almeno della nostra assuefazione allo stato di cose presente.

 

Domande:

Potreste dirci qualcosa in più sul crollo della filiera del nichel?

Dal momento che si è parlato di disancoraggio del dollaro nelle transizioni economiche più rilevanti su scala globale, cosa prospetta un ipotetico passaggio verso lo yuan da parte dell’Arabia Saudita per la vendita di petrolio?

– Notoriamente in Francia si era visto nei Gilet Gialli l’emersione, in un primo momento, di un conflitto legato a una materia prima (il prezzo del carburante) e che di lì a poco si è esteso a lotta, diciamo così, per il “potere d’acquisto” e il costo della vita in generale; ma che si è incagliata su di sé e che poi è finita. Nell’ultima fase era rimasto perlopiù un “cittadinismo dalla voce grossa”, una rivendicazione di riconoscimento come “società civile autentica”. Insomma, quella stagione di lotta di ricompositivo aveva certe cose, altre meno. Passando a noi, in Italia c’è qualche lotta sulla circolazione? È possibile anticipare quali possano essere gli ambiti e i contesti in cui un processo di ricomposizione legato alle lotte all’interno della circolazione può presentarsi? Come immaginare l’eventuale mutare della conflittualità sociale nelle lotte sulla circolazione di beni materiali?

Negli interventi si è parlato di primavere arabe, di quantitative easing, e quindi di inflazione. In questo periodo spesso si è parlato della possibilità di un nuovo Volcker Shock, o comunque di strategie basate sull’innalzamento violento dei tassi di interesse. C’è la possibilità che si ripeta qualcosa di simile a quello che è avvenuto negli anni Ottanta, considerando gli effetti che hanno avuto – in particolare sul Nordafrica – alcune manovre finanziarie degli ultimi decenni promosse dalla Federal Reserve e da istituzioni simili?

 

Raffaele Sciortino:

Io partirei da una brevissima riflessione su quello che diceva Silvano, perché, come dire, mi ha risolto un problema sul quale mi sto un po’ arrovellando. In questi giorni sto lavorando appunto nello specifico sullo scontro tra Stati Uniti e Cina. Giustamente tu Silvano parlavi di “previsione e imprevedibilità” le quali, anche se non si sovrappongono, si accompagnano alla ristrutturazione tra ordine e caos. Ovviamente è sempre difficile giudicare il presente dal presente e ancor più il futuro dal presente, ma questa dinamica oggi cosa comporta? Comporta che nella fase attuale, dove sappiamo che si sta sconvolgendo l’ordine globale ma non sappiamo dove si sta andando, tutto ciò mette in discussione la capacità analitica e di azione delle strategie dei grandi attori.

Faccio solo due esempi riguardo ai grandi attori statali, partendo dagli Stati Uniti. Allora, se noi andiamo a riprendere per esempio il testo di un democratico, Brzezinski, La grande scacchiera – un libro del 1997, cioè nel pieno della riflessione a cavallo tra crisi definitiva del socialismo reale e impantanamento dell’Unione Sovietica in Afghanistan da un lato, e inizio della globalizzazione e la cosiddetta terza ondata di democratizzazione dall’altro – lì c’era addirittura scritto che in caso di scontro la Russia in Ucraina sarebbe stata destinata a impantanarsi ancora una volta, e che quindi gli Stati Uniti avrebbero dovuto fare tutto il possibile per favorirlo. Per di più prevedeva (adesso non ricordo bene i dettagli, ma non è questo il punto) che tra il 2005 e il 2015 l’Ucraina sarebbe stata inclusa nell’Unione Europea, il che vuol dire automaticamente nella Nato. In un certo senso si veniva ancora da un certo format mentale, da una condizione politica in cui era possibile stilare delle strategie e quindi in qualche modo tener conto di un certo buon livello di prevedibilità (almeno per le linee di tendenza generali) e lì innestare i propri interventi.

Ora noi, nel 2022, vediamo che Brzezinski aveva perfettamente ragione. Alcune pagine sono illuminanti. Però le conseguenze del conflitto ucraino sono molto più devastanti, o perlomeno più imprevedibili di quello che aveva preventivato la strategia statunitense durante il declino del socialismo reale.

Questo per dire che cosa? Che in certe condizioni storiche le strategie, se ben congegnate e promosse dagli attori potenti, hanno una certa presa. Per dirla con Machiavelli, la virtù ha la meglio sulla fortuna. Dunque, la nostra domanda di fondo è: ma non è che stiamo andando verso una transizione, da un assetto a un altro tale per cui la leva della strategia – ciò che gli americani chiamano la grand strategy – ha meno impatto sul reale? E che quindi, detto in altri termini, la virtù diventa molto più debole della fortuna, delle condizioni oggettive, del caso, dell’imprevedibilità?

Penso in primo luogo alla difficoltà degli Stati Uniti a elaborare una grand strategy nei confronti della Cina per i motivi che diceva Silvano e più in generale per quella contraddizione a cui mi richiamavo prima (riassumibile nell’“abbiamo bisogno della globalizzazione, però la dobbiamo rompere”, e nel frattempo il giocattolo rischia di rompersi per davvero). Oppure pensiamo a come la strategia statunitense sui microchip contro la Cina dovrebbe prevedere – almeno nei piani varati da Biden a tavolino – un sostanziale reshoring, un rientro delle produzioni dei microchip più avanzati da Taiwan e dalla Corea del Sud agli Stati Uniti. Ma questo comporta investimenti talmente enormi per cui non si sa se gli stessi Stati Uniti siano in grado di vararli e comunque nella transizione si genererebbe una sovracapacità mondiale (quindi una diminuzione della profittabilità e via discorrendo) i cui effetti sono assolutamente imprevedibili. Lì puoi innescare, ma non puoi governare. È solo un esempio, ovviamente, ma per dire che la grossa domanda è quanto valgono le grandi strategie degli attori principali (non parliamo poi degli altri) in una fase che potremmo aver imboccato.

E questa questione fa il paio con una seconda: se la struttura del capitalismo globale, o per dirla in termini più marxisti, l’imperialismo si è trasformato in questo modo – inedito, tutto sommato, sia rispetto all’imperialismo su cui riflettevano a inizio Novecento Lenin e compagni, sia rispetto al neocolonialismo post Seconda guerra mondiale e post Bretton Woods –, allora è evidente che le categorie della politica, in principal modo “destra” e “sinistra”, saltano. Non sono più adeguate a comprendere, e tantomeno a intervenire, sul reale.

E qui arrivo alle domande. Nuovo Volcker Shock? Rimanda al problema dell’imprevedibilità e della difficoltà di fare strategie con un minimo di ricadute volute, che in qualche modo superino o compensino gli effetti non voluti. Infatti, considerando quel che è costretta a fare la Federal Reserve per andare contro l’inflazione all’interno degli Stati Uniti, ma più in generale avendo inflazionato il dollaro in tutti questi anni di quantitative easing, a un certo punto avrà bisogno di riattirare capitali e quindi di alzare i tassi. Però, la conseguenza prevedibile e non voluta è quella che diceva Silvano: poiché si è così ingigantita la bolla del capitale finanziario speculativo, alzare i tassi vorrebbe dire una correzione in borsa tremenda, fino a sconvolgere il mercato delle obbligazioni. Già ne vediamo i primi segnali. Nel 1979-1981 è stata una strategia vincente e sebbene non fosse ovviamente del tutto calcolata e pianificata a tavolino, in qualche modo agiva su alcune variabili; mentre oggi le variabili sono molto più numerose e i loro effetti sono contraddittori reciprocamente. Dunque per gli stessi Stati Uniti diviene più difficile usare questa “opzione nucleare” dell’aumento dei tassi per riattirare capitali e scaricare la crisi sull’Europa e la Cina, cosa che peraltro hanno già tentato durante la crisi dell’euro del 2010-2012. Quindi, probabilmente assisteremo a uno stop and go, a un fermarsi e riprovare, nell’ottica che diceva Silvano di tentare di sterilizzare, di limitare gli effetti della crisi, senza alcuna garanzia di successo.

Rispetto invece alle lotte sociali sulla circolazione, non ci ho pensato nei termini di un settore specifico. Secondo me il problema è da porre in termini più generali e più strettamente politici, cioè ripercorrendo (ma non c’è il tempo per farlo adesso) la dinamica delle lotte sociali in Occidente dopo il 2008, e sostanzialmente il tema del cosiddetto momento populista. Quella fase si è chiaramente esaurita, la crisi pandemica ha divaricato i soggetti che in qualche modo erano confluiti in maniera differenziata sulle due sponde dell’Atlantico dentro una mobilitazione (anche solo di opinione e non d’azione, come i Gilets Jaunes) che a sua volta era confluita dentro il cosiddetto momento populista inteso sia da destra che da sinistra, se vogliamo ancora utilizzare queste categorie. Il campo si è definitivamente divaricato. Già prima della pandemia la stessa Unione Europea, recependo la spinta italiana di un minimo di mutualizzazione del debito, da un lato ha in qualche modo spuntato le armi del sovranismo antieuropeo, dall’altro ha dovuto fare proprie alcune richieste che provenivano proprio da quelle spinte populiste o neopopuliste, o come vogliamo chiamarle. Durante la crisi pandemica, i due settori principali – una piccola borghesia e un ceto medio in crisi da un lato, e spinte puramente proletarie ma senza voce e senza rappresentanza dall’altro – be’, queste due linee si sono divaricate.

Ora, la crisi ucraina con tutte le ricadute che dicevamo prima, potrebbe generare degli effetti su questo contesto, soprattutto in Europa. Negli Stati Uniti la situazione è più complessa: teniamo conto che Biden all’interno è profondamente zoppicante, presumibilmente perderà di brutto le elezioni di midterm di novembre e il trumpismo può riprendersi, anche se non sarà il trumpismo del 2016-2017. Per quanto riguarda l’Europa, la cosa interessante è che se noi probabilmente potremmo avere una ripresa di conflitti sociali o comunque di istanze sociali a partire dalle ripercussioni della crisi ucraina – e, a catena, della crisi energetica, dei prezzi, della trasformazione green e via discorrendo, le quali, come diceva giustamente Silvano, ricadranno sulla gente comune –, ebbene tale ripresa di conflittualità sociale potrebbe vedersi accompagnata da una nuova richiesta, diciamo, “sovranista”. Questa richiesta sovranista però, a differenza dalla fase precrisi pandemica, potrebbe connotarsi in Europa in senso più esplicitamente antiamericano. Perché?

Perché sostanzialmente agli occhi di questi strati sociali (e lo vediamo già oggi dai sondaggi in Italia su chi non vuole mandare armi in Ucraina, chi non vuole spendere per il riarmo e insomma, su chi rischia di perderci da questa crisi) diventa sempre più evidente che la strategia statunitense dell’attizzare e continuare il conflitto in Ucraina comporta per l’Europa spaccature, crisi, deindustrializzazione, eccetera. Quindi se (ed è un grande “se”) scatterà una mobilitazione sociale, un conflitto o quantomeno un grosso scontento, io credo che in qualche modo il sovranismo si ripresenterà in forme mutate, con una connotazione non tanto antieuropea, quanto più esplicitamente antiamericana e più declinato verso le classi lavoratrici, le classi proletarie, diversamente da quanto è avvenuto nel primo momento in cui il proletariato c’era, ma era silente, e a dar voce erano i ceti medi in crisi e la piccola borghesia.

Sinceramente più di questo non mi arrischierei a dire, se non una cosa sola: sarà molto importante come si piazzeranno i giovani. Perché?

Perché durante tutta la globalizzazione ascendente e ancora nella fase dopo il 2008, gran parte della gioventù (in Occidente e in Europa nello specifico) il messaggio che ha ricevuto a grandi linee è: «possiamo farcela», «siamo ceto medio in formazione». Questo vale anche per dei giovani e per degli studenti perfettamente proletari che non avranno mai nessuna possibilità di riuscirci, e ciononostante al fatto di essere giovane e studente è stato equiparato il fatto di avere un capitale nella propria intelligenza, un capitale che si può spendere individualmente sul mercato e che quindi ti può far accedere al ceto medio. Che poi, guardate, non è così distante dall’illusione che hanno avuto le masse ucraine rispetto all’Occidente e all’Europa, e che ha portato alla tragedia che abbiamo sotto gli occhi.

Sarà dunque molto importante come si collocheranno i giovani, e su questo pende veramente un grosso punto di domanda, perché mi sembra che propendano oggi per un certo realismo e sono consapevoli della gravità della situazione e del problema; ma per ora questo realismo, a differenza di quello machiavelliano, è più un realismo dell’accettazione dell’impotenza che non della trasformazione. Le cose, però, potrebbero cambiare.

 

Silvano Cacciari:

Allora, mi tocca fare un po’ la pastorale e la benedizione degli astanti tipico di una chiusura rituale. Mi limito a un paio di osservazioni, spero incisive, e partirei da una premessa.

Io non sono un economista. Figuratevi, il corso che tengo è di antropologia filosofica, e questo fa già capire la crisi di una disciplina. Ora, per avvicinarsi a qualcosa di sensato sul piano antropologico oggi bisogna cominciare, a mio avviso, a scavare sul grande mistero del denaro, e di lì si hanno risposte anche un po’, come potremmo chiamarle, “inaspettate”.

Per quanto riguarda la questione del nichel, mi ero trovato tre compagnie di trading (di cui onestamente non mi ricordo il nome, però sono un bravo ragazzo e me le ero segnate negli appunti, e nel caso le farò avere ai compagni modenesi, ma non è quello il punto) e c’ho anche un bel grafico che fa notare la crisi di questo soggetto finanziario. Il bello è che si legge molto bene, fa così [mima un aereo che precipita] e i grafici che fanno così li trovi in due momenti della vita: i fumetti di Paperino o le crisi di Wall Street.

Ripreso da https://codice-rosso.net/nichel-e-russia-sai-che-guerra-finanziaria-ti-aspetta

Alla domanda successiva io risponderei con un criterio di metodo. Le due tesi all’ordine del giorno sono o la sostituzione del dollaro come principale divisa internazionale, oppure una coabitazione conflittuale tra moneta americana e moneta cinese con deperimento dell’euro; però stiamo attenti anche a dove queste tesi circolano. Che voi ci crediate o no, attualmente sono molte le testate speculative che scommettono sulla sostituzione del dollaro. Però quando ci scommettono le testate speculative starei molto attento a dare previsioni così secche, perché la speculazione notoriamente segue la volatilità, che nella fattispecie significa inseguire i momenti in cui si fanno soldi investendo e scommettendo contro il dollaro, e poi i momenti in cui magari se ne fanno continuando a scommettere a favore del dollaro. Quindi me la tengo come domanda, perché se devo dirla fino in fondo, ci sono dei segnali contrastanti e questa potrebbe essere tranquillamente una guerra che fa compiere al dollaro lo stesso destino che poi ebbe la sterlina tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, così come potrebbe essere (e ho letto analisi che ritengo altrettanto attendibili) un momento di conferma della forza del dollaro per un’altra trentina d’anni ancora. I conflitti servono a sciogliere il nodo nell’una o nell’altra direzione.

Il problema della Volcker Rule è già stato risposto, e a mio avviso in maniera esauriente. Quindi è inutile che mi metta a chiosare, e mi soffermerei piuttosto sulla questione del trasferimento di capitali. Cos’è avvenuto nell’ultimo mese? È abbastanza semplice. Basta andare un po’ su internet, senza nemmeno una grossissima preparazione tecnica, si cerca di capire come è andato il Dax, come è andata la Borsa di Londra, come è andata la Borsa di Parigi e poi come è andata Wall Street. Be’, vedrete che se c’è qualcuno che ha guadagnato in questo mese è Wall Street e se c’è qualcuno che ha perso sono le borse europee. Questo, lungi da voler fare un ragionamento complottista, non vuol dire che sono le borse ad aver scatenato la guerra, ma un’altra cosa: che una delle esigenze insite della politica monetaria americana per adesso è stata naturalmente trascinata dal mercato.

In soldoni, il mercato ha cominciato a dire “c’è la guerra, spostiamoci verso gli Stati Uniti”. Tuttavia rimangono aperti degli interrogativi anche su questo piano, perché se Wall Street deve tenere questo ruolo di catalizzatore dei capitali, è evidente che i bond governativi (a due, a cinque, a dieci, a trent’anni) devono reggere. Questo è il primo elemento. È anche abbastanza evidente che comunque l’economia americana in qualche modo deve andare avanti. Se questa tendenza continua (e ci sono diversi analisti che dicono, e io condivido, che la crisi europea non sia una grossa preoccupazione per l’economia americana), allora è evidente che uno dei nodi della crisi americana, cioè la capacità di attirare capitali (e quella delle borse formali e informali americane è comunque considerevole) terrà. Probabilmente sarà uno di quei fattori capaci di fornire una comprensione della crisi. In caso contrario, chiaramente, la faccenda sarà completamente diversa. A ogni modo, da un punto di vista politico si sono oggettivamente creati due blocchi, uno attorno agli Stati Uniti (che ha ovviamente i suoi elementi di contraddizione e conflittuali) e uno attorno alla Cina-Russia (che per ora raccoglie il 60% della popolazione mondiale, e anche questo è carico dei suoi aspetti di contraddizione).

Per chiudere, mi sento anche io di dire una cosa sul piano politico. Ve lo dico chiaramente: se ci sono dei fenomeni che si sono manifestati negli ultimi cinque anni e che sono evidenti, sono quei fenomeni che nel lessico socioantropologico si nominano con la categoria di anomia, cioè di profonda sfiducia nelle istituzioni. Guardate, l’alt right in America e la popolarità di questo genere di mondo con i processi di anomia ha molto a che vedere, e in Italia il movimento novax ha toccato elementi che appartengono (o appartenevano) al mondo antagonista proprio perché parlava il linguaggio dell’anomia e quindi dell’opposizione alle istituzioni. L’anomia, infatti, ha aspetti profondamente conservativi e altri invece, diciamo, “innovativi”.

Ora se uno, in questo contesto, vuol far politica (politica eh, perché poi si possono fare tante altre cose: si può far morale, si può far giudizi etici, e così via), ovverossia cercare una ricomposizione sociale, una ricostruzione dei rapporti di forza e dare perfino qualche sconfitta significativa al nemico, una cosa se la deve proprio scordare: certo, deve avere ben chiaro cosa sta accadendo a livello globale, ma non pretendere di azzeccare un fantomatico mega equilibrio sociale-economico-politico in Russia, in Ucraina, nel mondo, a livello dell’Unione Europea e dio solo sa dove.

Io purtroppo ho visto persone non solo che stimo, ma a cui voglio un gran bene, che si sono già buttate in questo tipo di fantasticherie, cioè cercare un qualche documento che poi si diffonde, che lancia un forum civile, da lì l’incontro a livello europeo di non si capisce chi, per costruire un immaginifico racconto dove tutto quadra e dove tutto torna a uno stato di equilibrio e di fratellanza. Io, a un carissimo amico, l’ho detto: ti voglio bene, auguri, ma ti farai del male.

E allora, come si può fare qualcosa? Essendo io un vecchio provocatore (cioè, vecchio no, però provocatore sì), starei attento al fatto che il trofeo è ben visibile. C’è un solo elemento su cui si regge questo cavolo di consenso alla guerra, così come c’è un solo elemento fragile su cui si regge l’equilibrio istituzionale: sono i mass media.

Ve lo dico chiaro e tondo: nel momento in cui riesci a delegittimare il comportamento dei mass media sulla guerra salta l’equilibrio istituzionale. E dunque, cosa veramente di meglio che rovesciare tutta questa cloaca fatta di anomia, insoddisfazione, risentimento e, perché no, senso dell’ingiustizia? Essendo il rancore diffuso un mero dato di fatto, tanto vale rovesciarlo sull’unico bersaglio – i  mass media appunto – che ci permette di far saltare il nostro equilibrio sistemico. Il resto, francamente, non conta. Ovviamente non si può cercare di risolvere delle crisi globali che sono molto più grandi di noi; però si può sfruttare in senso tattico gli squilibri del piano su cui possiamo effettivamente intervenire. Il punto fondamentale – a mio modesto parere, per carità d’ Iddio – ­è questo.

Perché ragazzi, anche se ci fosse il Social Forum di vent’anni fa (e sinceramente abbiamo già dato, sia a livello personale ma anche come esperimento politico), non ci sarebbe comunque la forza per impedire lo sviluppo di un conflitto. Si tratta, da un punto di vista tattico, di riuscire a fare danni sul piano sistemico nel momento in cui il piano sistemico è in grave crisi verso la guerra. Questo.

Detto ciò, io non vi sto parlando di soggetti, non vi sto facendo una sociologia di alcune figure precise e non perché mi sfugga, ma, non a caso, ho detto “rovesciamo la cloaca”. Questa società, nella ristrutturazione liberista degli ultimi anni, ha prodotto tanto di quel risentimento per cui la gente non riesce neanche a sodalizzare e questo lo sappiamo benissimo; e allora cerchiamo produttivamente di rovesciare quel liquame che è stato prodotto – e del quale noi facciamo oggettivamente parte – verso un obiettivo ben preciso, quello che legittima questo sistema che abbiamo descritto oggi, cioè i mass media generalisti. Se la cosa è fatta bene, c’è pure da divertirsi.

 

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Silvano Cacciari – Nell’intreccio della guerra. Ordine e caos della crisi globale

Shock energetico, scarsità di materie prime, inflazione galoppante, recessione annunciata, riarmo massiccio: «È l’economia di guerra, bellezza, e tu non puoi farci niente, NIENTE!».

È il coro unanime scandito a reti e firme unificate che in questi giorni, dalle televisioni ai giornali, passando per i social, comincia a essere ripetuto da giornalisti, opinionisti, politici e ministri con molta chiarezza. Economia di guerra: siamo in guerra, quindi? Dichiarata da chi e in nome di chi, per quanto riguarda l’Italia, ancora non è altrettanto chiaro – in apparenza, nella forma: sappiamo benissimo che le decisioni ratificate a Roma vengono prese a Bruxelles, e prima ancora imposte da Washington e Londra, oltre che pagate da noi.

Delle tendenze di ristrutturazione dell’economia, delle catene del valore e degli scenari geopolitici della crisi ne abbiamo parlato a Modena il 2 aprile, alla giornata di discussione sul mondo di domani, la guerra in Europa e il destino della globalizzazione. Dopo quello di Raffaele Sciortino, presentiamo allora la trascrizione dell’intervento di Silvano Cacciari, autore su «Codice Rosso» e che a breve uscirà in libreria con La finanza è guerra, la moneta è un’arma (per La Casa Usher).

L’intervento ci regala una grande dimostrazione di metodo. Attraverso l’analisi materiale di diversi indicatori, offre una fotografia mossa del presente, in cui linee tendenziali e traiettorie di possibile sviluppo vanno formandosi, permettendo una possibile anticipazione, appunto, del mondo di domani – che, come vediamo, è già oggi. La bussola resta sempre la ricerca, di parte, delle contraddizioni e ambivalenze su cui la prassi militante può (deve) insistere. Nelle righe che seguono, ripercorreremo la storia delle ultime crisi, nelle traiettorie che si sono prevedibilmente disegnate e nei varchi aperti dall’imprevedibile. Il contributo ci è dunque prezioso perché, nella sua ricchezza, dimostra quanto sia ingenuo concepire la teoria come il regno della previsione e la prassi quello dell’inatteso: entrambe devono vivere in entrambi i momenti, pena ridursi a un’analisi astratta o a un’azione senza direzione.

 

Silvano Cacciari

Il testimone che mi avete lasciato dall’analisi che mi ha preceduto è piuttosto gravoso e cercherò di raccoglierlo dando alcune linee di lettura di ciò che sta accadendo. Partiamo però da una premessa generale: se si vuol fare politica, bisogna pensare politicamente. E pensare politicamente è possibile solo a due condizioni: per prima cosa, se si riesce ad avere capacità di previsione; e al contempo se si tiene a mente che fare politica significa fare i conti con la dimensione del rischio e dell’imprevedibile. L’insegnamento viene da Machiavelli. Dobbiamo cavalcare contemporaneamente due tigri, la prevedibilità (che non è così facile da domare) e l’imprevedibilità (che già dal nome di battesimo fa immaginare quanto sia docile). Chiunque si addentri nel sapere e nella pratica politica ne deve tenere conto; dopodiché ognuno farà le proprie scelte. Detto ciò, riallacciandomi alle parole di Raffaele mi concentrerei su un aspetto, che ci fa subito capire in che dimensione la Storia ci ha cacciato. Guardiamola quindi con l’occhio dello storico.

Se noi andiamo ad analizzare la concentrazione globale del capitale a inizio Novecento, vediamo che poco meno del suo 20% era sostanzialmente sulla borsa americana; il 13% su quella che oggi chiameremmo la borsa di Francoforte; e via a seguire. Se la confrontiamo con la situazione alla vigilia della crisi Covid, vediamo che la concentrazione del capitale a Wall Street riguarda il 51% dei capitali globali e tutto il resto è disperso nelle altre borse del pianeta, siano esse ufficiali (cioè borse riconosciute come tali) o non ufficiali (in gergo over the counter). Per esempio, in Germania passiamo dal 13% al 4%. Questo che cosa vuol dire?

Vuol dire che sono passati un secolo e due globalizzazioni, ma soprattutto che il dominio delle borse è sostanzialmente americano, ammesso e anche concesso che quando si parla di Wall Street si parla di Stati Uniti. Messa così, con la fredda logica dei numeri, potremmo tranquillamente parlare di un’egemonia americana sul mondo. È vero, però solo in parte. Perché qui si ritorna alla tigre dell’imprevedibilità. Infatti, nel momento in cui si controllano i capitali, non ci si limita a controllare il mondo, ma si scatenano delle crisi spaventose all’interno di quello stesso capitale che si possiede. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo. Nel momento in cui è avvenuto il processo di globalizzazione – cioè dalla metà degli anni Ottanta, con la libera circolazione dei capitali e la crescita di Wall Street fino a come l’abbiamo conosciuta noi – seguono non soltanto una profonda accumulazione finanziaria e un’estensione spettacolare del peso di Wall Street nella composizione globale delle borse, ma anche una serie di crisi non controllabili dagli stessi Stati Uniti: una catena di effetti devastanti quanto una guerra sul piano dei danni materiali e soprattutto di difficile risoluzione.

Poi c’è una cosa che a noi marxisti piace moltissimo: ogni volta che si è risolta una crisi finanziaria generata da Wall Street, si sono poste le condizioni per una crisi successiva, sempre peggiore. Qui la storia è molto lineare: si va dalla crisi di Wall Street del 1987 a quella del fondo LTCM (che stava per far saltare il mondo nel 1997-98 prima ancora di Lehmann), alla crisi delle Dot-com e ancora alla Lehmann Brothers. Tutto ciò non è controllato, né dalla politica, né dalle banche centrali. A un certo punto, d’improvviso, esplode; resta invece anticipabile l’egemonia americana non solo sul dollaro come ha brillantemente riportato Raffaele, ma soprattutto sulla composizione e sulla forza del mercato di Wall Street (e badate bene, quando parlo di Wall Street non mi riferisco solamente a ciò che conosciamo, essendo Wall Street la punta dell’iceberg di un sistema di borse over the counter a predominio americano).

Come vedete, anche prescindendo dalle vicende ucraine, già lo stesso terreno che abbiamo tratteggiato è caratterizzato da elementi che si conservano e drammatici stravolgimenti. Sia chiaro, drammatici anche per gli stessi Stati Uniti, sebbene siano in una qualche misura abituati strutturalmente a crisi finanziarie e bancarie di questo tipo. Per darvi un’idea, il primo bailout da crisi finanziaria nel mondo è stato quello della Second Bank americana nel 1838. Infatti, se ripercorrete questi due secoli noterete che gli Stati Uniti crescono in una dinamica di spettacolare accumulazione militare, economica e tecnologica, ma anche in una dinamica di continua ripetizione di gravi crisi finanziarie. Ma torniamo ora alle specificità dei “caratteri prevedibili e imprevedibili” del conflitto in corso. Vi porto due esempi, riferendomi per i primi alla storia, e per i secondi alla storia recente.

Partiamo dal prevedibile. A tal fine, permettetemi di raccontarvi in due parole la guerra finanziaria del ’12, cioè il momento in cui si comincia a rompere la vera spina dorsale della globalizzazione: la libera circolazione dei capitali su scala planetaria. Nel ’12 tutto ciò inizia a rompersi quando gli Stati Uniti cominciano a non investire più nei paesi europei. Ne consegue una complessa reazione a catena per la quale si erode la fiducia reciproca tra potenze economiche, e che infine degenera in uno scenario di tensioni globali che viene ricordato come “guerra finanziaria”. Attenzione però: questo ’12 non è il 2012, è il 1912. È il primo effetto della crisi borsistica del 1907-1908. Tutto ciò impone a JP Morgan di fare pressioni sul Congresso per fondare la Federal Reserve. Siamo nel 1913. A cosa conduce questa situazione? Alla Prima guerra mondiale.

Se noi torniamo a guardare (con occhi clinici e non troppo emotivi) i giorni nostri, vediamo un quadro molto simile a quello di 110 anni fa. Assistiamo per l’appunto a un tentativo di controllo della circolazione dei capitali (perché le sanzioni sono questo) e allo stesso tempo a una crisi economico-militare che è sì di livello internazionale, ma per il momento limitata sul campo. Badate bene, non voglio minimizzare alcunché. Voglio solamente mostrare il passaggio da un secolo all’altro e che si cerca di risolvere le crisi con una guerra finanziaria di tipo limitato (per estensione dei capitali coinvolti) e con una guerra sul campo di tipo regionale. Ciò indica due importanti elementi per questo genere di analisi.

Il primo è che è passato un secolo, un secolo contrassegnato da profondo tentativo (nel mondo occidentale e soprattutto dove circola il denaro) di sterilizzazione dei processi bellici, per cui si tende a limitarli sul terreno materiale e a estenderne le conseguenze a lungo termine. Il secondo riguarda il contenimento degli effetti su di essi della guerra finanziaria. Vi faccio un esempio banalissimo: se la Federal Reserve alzasse sul serio i tassi, si produrrebbe una crisi finanziaria di vastissime proporzioni perché il processo, in questo caso, sarebbe ingestibile. Quindi, che cosa voglio dire? Voglio dire che rispetto a 110 anni fa, abbiamo dinamiche che si ripetono, però in forma differente, in una scala tecnicamente più ridotta; per cui i danni ci sono, i morti ci sono, per carità, sebbene non siamo di fronte a ciò che è accaduto 110 anni fa. Resta tuttavia un problema, quello che Raymond Aron chiamava «il naso di Cleopatra»: le guerre sono incontrollabili. Nel momento in cui si apre un processo che si vuole limitato, non è affatto scontato che lo rimanga. A un certo punto le premesse possono evolvere a delle proporzioni veramente devastanti. E qui mi rifaccio a chi mi ha preceduto.

Un altro indice dell’imprevedibilità della situazione di cui stiamo parlando riguarda quanto è accaduto in Ucraina nel 2008. Ora, chi è stato attento alla storia recente dell’economia ucraina, sa molto bene che tutta questa storia è cominciata con la crisi del sistema economico e finanziario ucraino dovuto al grande botto di Lehmann Brothers. Il motivo è semplice: molte banche ucraine erano in varia misura – sia che lavorassero direttamente, sia che fossero mere mandatarie, sia che avessero appaltato servizi finanziari o persino nascosto denaro sporco – comunque legate a quei circuiti, erano la periferia di un mondo finanziario che gli è esploso in faccia. Tutte queste banche sono saltate (determinando, fra le tante cose, una grossa perdita anche per alcune banche italiane) e l’Ucraina si è trovata in una crisi economica disastrosa. Meno 15% di Pil ogni anno. Ora, se recuperiamo cosa dicevano gli analisti della crisi ucraina del 2008, leggiamo che il mondo che stiamo vivendo non era affatto previsto. Nelle previsioni del 2008 sugli anni successivi, certo, si parlava di rientro del debito, di prestiti ponte, un po’ di disoccupazione, ma tutto ciò che è accaduto dopo – l’Ucraina spaccata in due, una guerra civile, l’economia ucraina che di fatto non si è ancora ripresa dal 2008 e poi la guerra russo-ucraina – neanche Nostradamus sarebbe riuscito a immaginarla con i criteri, gli strumenti e con la capacità di analisi di ormai quindici anni fa.

Insomma, nel momento in cui si innesca, come la chiamava Raffaele, una crisi sistemica è più che lecito prevedere dei tentativi istituzionali di pervenire a una sua soluzione attraverso dei conflitti limitati, sia sul piano bellico che finanziario. Vi faccio un altro esempio: se l’Europa decidesse di fare dazi di importazione verso la Russia sul gas e sul petrolio, si avrebbero delle ripercussioni molto più pericolose di tutte quelle scatenate dalle misure che sono state adottate fino a oggi. Se la Banca centrale americana andasse fino in fondo sulla questione del sequestro delle divise americane detenute dai russi e depositate presso le banche statunitensi, la guerra finanziaria sarebbe veramente un big shot, come lo chiamano loro. In definitiva, per adesso ci troviamo sul crinale di una crisi che per lungo tempo farà danni sul piano economico e sociale, e che tuttavia non è ancora il grande incendio che qualcuno pensa. Sia chiaro, non intendo tranquillizzare nessuno: siamo davanti a una crisi decisamente seria, ma che non ha ancora raggiunto il parossismo di quelle che l’hanno preceduta.

A questo punto vorrei proporvi alcune chiavi di lettura. Prima però bisogna capirsi su un fatto fondamentale: quando diciamo – e sono d’accordo con i compagni che hanno organizzato questo incontro – quando diciamo che niente sarà più come prima, è vero; ma ciò non significa che stiamo osservando il passaggio da un ordine politico-economico-finanziario a uno successivo. Stiamo virando invece da un piano di complessità a un altro piano di complessità. E quando intendiamo piano di complessità intendiamo un contesto dove convivono (in un intreccio straordinario, perlomeno da un punto di vista teorico) enormi livelli di ordine ed enormi livelli di caos.

Bisogna tenerlo a mente, perché molto spesso nelle ricostruzioni, quando riusciamo a capire dove sta il livello di ordine, si pensa veramente di avere di fronte una sorta di monolite politico-teorico storico. Per esempio Vestfalia [l’ordine politico europeo moderno, originato dall’omonimo Trattato del 1648 a conclusione delle Guerre dei Trent’anni, ndr] era tutto meno che una situazione ordinata o anche solo stabile, e ciononostante per gli storici della politica è l’Ordine. E così via il Dopoguerra, e tutta una serie di “fasi epocali”. Se si vuole agire e pensare politicamente, si deve essere capaci di capire che stiamo passando da un livello di complessità – dove convivono livelli di ordine e di caos – a un altro livello di complessità. E nel nostro caso gli Stati Uniti rappresentano tutto questo, perché stabiliscono il livello di ordine con il governo commerciale da parte del dollaro, e contemporaneamente si ritrovano a un livello di caos per le crisi finanziarie. Così funzionano le cose.

Ora, io mi sono segnato alcuni campi in cui si sta giocando la crisi dei prossimi anni e vi invito a leggerli sempre in quest’ottica, cioè con le lenti dell’analisi che cerca di comprendere dove si sta depositando il livello di ordine e dove si sta depositando il livello di caos. Allora, il primo fattore importante è che siamo di fronte (le statistiche non sono mie, ma di diversi istituti internazionali) alla più grande crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale in poi. Ho letto report attendibili che descrivono un flusso di popolazione da Est verso Ovest almeno 15 volte superiore rispetto a quello generato dalla crisi jugoslava e largamente superiore persino alla crisi dei rifugiati del 2015. Questo, badate bene, cambia molte cose. Basti pensare a come ha cambiato la Germania l’ondata dei profughi del 2015 per rendersi conto che siamo di fronte a una rivoluzione demografica e sociale.

Noi non ce ne rendiamo conto – e spesso l’analisi dei compagni accusa un po’ questa mancanza oppure la riduce alla sola questione dell’accoglienza –, ma noi siamo un paese di vecchi. Viviamo in paesi a declino demografico. Se le previsioni sono queste, ovvero un volume di profughi 15 volte superiore alla guerra jugoslava, evidentemente siamo di fronte a un fenomeno che potrebbe cambiare realmente la morfologia delle città, e in ogni caso io non ho mai visto un’ondata migratoria di questo tipo non provocare comunque degli effetti (positivi o negativi che siano) che ti cambiano la faccia della società.

La seconda questione l’avete incontrata tutti i gironi e soprattutto quando andate a pagare le bollette: cambiano forzatamente le politiche energetiche. Ora non ve la sto a menare sul rapporto tra politiche energetiche e speculazione finanziaria perché altrimenti mi metto a sbadigliare anch’io, però questo è un punto nodale. Il nostro paese sta già facendo piani di contingentamento delle risorse energetiche per il prossimo autunno. È una faccenda importante, che non riguarda solamente il presente, ma soprattutto il posizionamento dell’energia nel futuro. Quando il ministro della Transizione ecologica dice che «la transizione ecologica non sarà un pranzo di gala» facendo ovviamente rivoltare nella tomba il povero Mao, dice in primo luogo una cosa: che, se usiamo un linguaggio militante, le politiche energetiche saranno un modo di praticare la lotta di classe sotto altre forme. Perché badate bene, le politiche energetiche saranno pagate dalle famiglie, dalle strutture sociali più basse, dalle piccole e medie imprese, insomma dalla struttura grassrootdella società. Politicamente questo è un altro grosso problema.

Un altro problema, forse poco valorizzato in queste settimane (dopotutto, non si possono scoprire tutte le contraddizioni in un colpo solo) è la sicurezza alimentare. La Russia è il principale esportatore di materiale per fertilizzanti del pianeta, e non è poco. Se la situazione resta critica, si dovranno ripensare le politiche di sicurezza alimentare. Per fare un esempio, la fragilità dell’importazione del grano è molto seria, sebbene si sia fatta sentire in maniera ridicola – avete visto anche meglio di me quelle aziende che strombazzavano «noi abbiamo spaghetti 100% grano italiano» fare delle pubblicità struggenti dicendo «scusate, ma con la crisi del grano ucraino siamo costretti a aumentare i prezzi». Ad ogni modo, la rogna non è solo il contingentamento, ma anche e soprattutto i prezzi. Tanto più ciò che gli americani chiamano food security è sull’agenda politica, tanto più lievitano i prezzi degli alimentari; e, a sua volta, quanto più lievitano i prezzi degli alimentari, e tanto più si producono pesanti criticità sociali. Ricordo qui che le primavere arabe sono un frutto di uno dei quantitative easing della Federal Reserve americana che rese insostenibile il prezzo del grano e del frumento come materie prime.

Ora, c’è un altro aspetto importante. Ne ho già toccati tre, più legati a una sfera biopolitica – la questione demografica, l’energia, il cibo –, ma accanto a questi c’è l’altra faccia della medaglia, emersa in tutta la sua drammaticità nelle ultime settimane: è l’aumento spettacolare dei prezzi delle commodities, cioè delle materie prime. Questo ha due effetti fondamentali. Il primo è di natura ovviamente economica, cioè la ripercussione di questa situazione sulle gerarchie di potere a livello geopolitico e globale. Però ce n’è un altro a mio avviso ancora più determinante, che riguarda la maniera in cui si è scatenata in queste settimane la guerra finanziaria sulle materie prime.

Chi ha avuto la pazienza di leggere su «Codice Rosso» sa che nei giorni scorsi mi sono messo ad osservare un po’ di cose, soprattutto un settore, a mio avviso, benchmark per queste dinamiche: il nichel. Il prezzo del nichel è impazzito. Si è gonfiato fino ad arrivare al 93% di aumento in due giorni, poi il nichel non è stato più trattato alla borsa di Mosca per un paio di settimane proprio perché stava salendo a prezzi vertiginosi. Ora, questo logicamente ha grosse ricadute sui prezzi delle materie prime di diverse componenti; però crea anche un altro problema. Sembrerà assurdo da un punto di vista empirico, ma un volume così alto di prezzo per questo tipo di materie prime mette in difficoltà le stesse compagnie finanziarie che fanno servizi e prodotti finanziari per le materie prime. Almeno tre di esse, secondo alcuni analisti americani, sono considerabili a rischio di esplosione pari a quelle del 2008. Quindi come vedete, da una parte le materie prime sono un problema immediato; dall’altra sono un problema di equilibrio sistemico, perché se la Federal Reserve non trova il modo di salvare queste agenzie come ha fatto per le compagnie dei mutui nel 2007-2008, il rischio è serio. Come vedete lo scenario si fa effervescente.

Un’altra questione ancora è il cambiamento della catena di fornitura, la supply chain. Il covid e la guerra hanno messo a “seria capacità di resilienza” le catene di fornitura globali. Ora, si è vero, da una parte vediamo che Amazon funziona. Poi, se volessimo capire cosa stia veramente mutando e dove va la globalizzazione, potremmo andare a vedere le tariffe, l’efficienza, i costi, la benzina, il petrolio, eccetera; ma soprattutto, se vogliamo capire se la globalizzazione funziona o meno o si sta trasformando, dovete andare a vedere una cosa sola: cosa accade nel mondo dello shipping, della navigazione. Non ve lo dico perché sto in una città di porto, ma perché è una realtà nella quale le mutazioni della globalizzazione trovano un grande elemento di misura. Non è un caso che chi sta cercando di cambiare la globalizzazione, la prima idea che si è messo in testa – e verso il finale ci ritorno – sia dire “restringiamo ruolo e peso dello shipping”. Non è poco. Perché? Perché la nuova supply chain, che ha nello shipping un elemento per tante merci decisivo, ha rimesso in discussione forza e importanza di questo mondo. Allo stesso tempo, se il mondo dello shipping tornerà a prosperare, allora probabilmente tante analisi sulla deglobalizzazione sono destinate ad essere più facilmente messe in archivio rispetto ad altre.

Vi è poi un ulteriore un processo particolarmente pericoloso, che abbiamo visto in questi anni e che con la guerra ucraina si sta accentuando: la separazione degli standard, ovvero la regionalizzazione o (peggio ancora) nazionalizzazione degli standard tecnologici di molti prodotti. Qualcosa di questa dinamica ce lo fa capire la guerra sul 5G, che si è chiusa durante il Covid. È evidente che un mondo dove le tecnologie non si parlano, per cui quello che si usa in una parte del mondo non si può usare da un altro, è un mondo più incline alla deglobalizzazione di altri.

Prima di chiudere toccherei altri tre punti veloci.

Per prima cosa, noi abbiamo visto che le multinazionali hanno un peso politico più forte che in passato. Nel momento in cui Goldmann Sachs, McDonald’s e Amazon lasciano la Russia, è evidente che riconoscono di detenere un’influenza politica e che intendono esercitarla.

C’è poi la ripresa massiccia della vecchia, “sana” spesa militare. Un aspetto direi ineludibile di queste crisi è che comportano da una parte la proliferazione dei prodotti finanziari di rischio, e dall’altra la moltiplicazione degli investimenti per la guerra sul campo. Sono questi gli indicatori con i quali possiamo misurare ciò che sta accadendo, e che ci suggeriscono dove effettivamente si annidano le trasformazioni degli equilibri e gli spostamenti di potere.

Io so bene che la domanda, la vexata quaestio, è: ma stiamo andando verso un processo di globalizzazione o verso un processo di deglobalizzazione? A tal proposito, io starei attento a una cosa. Ci sono due criteri, che nomino innanzitutto per chiudere quest’intervento, ma anche per capire quello che accade. Il primo è la circolazione dei capitali: finché c’è libera circolazione di capitali non c’è deglobalizzazione che tenga. Cioè, forse non è così per chi è abbonato a servizi di tossicità mentale come «Repubblica», «la Stampa» e compagnia cantante – ragazzi, io ho letto cose in questi giorni che se avessi lavorato in una redazione di questo tipo avrei buttato via la tessera da giornalista; quelle che un tempo venivano chiamate “marchette” erano dignità e rispetto a quello che si vede oggi –, ma comunque finché c’è libera circolazione dei capitali c’è comunque globalizzazione. È sempre stato così.

Il secondo parametro per capire effettivamente dove va la globalizzazione, è capire quali sono i device tecnologici che la interpretano. E qui chiudo su un dettaglio che credo essenziale. Nel 2016, poco prima della vittoria di Trump – ora, non mi dite che Trump e Biden sono uguali: ve lo dico subito, per me Trump era enormemente più simpatico, e poi viene dal tipo di cultura televisiva trash in cui sono nato, quindi ho un cuore anche io – nel dibattito economico-militare e nelle riviste del Ministero della Difesa statunitense si apre una discussione sulla deglobalizzazione legata a quei device che semplificando possiamo chiamare stampanti 3D. I reparti militari americani e il Ministero della Difesa cominciano a dire: «Noi possiamo intraprendere una deglobalizzazione nel momento in cui i device industriali per la stampa 3D diventano una cosa seria». È un’ipotesi che ha avuto una certa fortuna in un dibattito molto interessante da questo punto di vista.

Allora, per concludere, le questioni sono due: la globalizzazione ci sarà finché c’è libera circolazione dei capitali; secondo, i processi di deglobalizzazione o globalizzazione saranno comunque determinati dagli standard tecnologici industriali correnti. Quindi, a mio modo di vedere sono questi i due i migliori criteri di lettura di questi processi. Ma badate bene, non ho voluto fare il Nostradamus, per carità. Non ho nemmeno la barba.