La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone lo spartito.
Una guerra che non nasce per caso o per malvage singole volontà, ma dalle condizioni strutturali della “pace” che l’ha preparata. Una pace imperialista, incrinata dalla crisi capitalistica globale, rotta dallo scontro tra potenze in declino e attori in ascesa per determinare la nuova architettura del sistema di mercato mondiale. Europa, Medio Oriente e Pacifico sono i suoi diversi fronti, dove già si combatte a diverse intensità o ci si sta preparando per farlo. E noi in mezzo.
E a Modena? Come la guerra sta già entrando nel nostro territorio e coinvolgendo le nostre vite, trasformando scuola, università e fabbrica sociale? Che tipo di figure la scuola dovrà formare alle necessità del conflitto? Quali relazioni intesse l’università con industrie militari e Stati coinvolti? Come si ristruttura il tessuto industriale emiliano a fronte della crisi globale e in funzione della guerra? Quali contraddizioni potrebbero aprirsi e quali soggetti mobilitarsi dentro e contro la «fabbrica della guerra»?
Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono armi e strumenti politici: punto di vista, metodo, inchiesta.
Un ciclo di incontri per discutere e costruire nuovi arsenali, a partire da ciò che funziona ancora di quelli vecchi, per sabotare e sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.
La tendenza alla guerra è il grande fatto del nostro tempo. Fatto centrale, direttore d’orchestra, intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone il ritmo, suonandone lo spartito. Il carattere del nostro tempo viene definito da questo concerto in movimento, in un processo a cascata frattale che va dalle impercepibili strutture sistemiche alla percezione strutturale del quotidiano, nelle declinazioni assunte nei contesti e nelle realtà in cui siamo collocati.
Sono tempi di guerra. Come sempre, preparati dalla pace che li ha preceduti. Guerra imperialista, pace imperialista. La pace dell’Occidente, in questo caso. Uscito vittorioso dal conflitto mondiale ingaggiato con l’Unione Sovietica dopo la fine del secondo: competizione geopolitica, potenzialmente totale, raffreddata e delimitata dalla minaccia della Bomba e dalla presenza del Politico. Rapporto che ha ordinato il mondo, finché è sussistito. Al suo interno, Occidente trionfante nella guerra di civiltà che ne aveva sconvolto la catena di montaggio sociale: quella tra operai e Capitale. Guerriglia dalle linee alla società la sua forma operaia, il sabotaggio della produzione e della riproduzione della soggettività capitalistica la sua arma. Trasformata la prima in innovazione e la seconda in ristrutturazione, è emersa la nuova partitura del Capitale. La bandiera dei soviet ammainata, in silenzio, sulla Piazza rossa all’inizio degli anni Novanta ha seguito la destrutturazione della fabbrica e della classe nella metropoli lungo i Settanta.
La pax del vincitore l’abbiamo chiamata globalizzazione. Il suo imperium quello americano. Il progresso la sua religione, il suo destino manifesto la democrazia. Sbornia di modernità capitalistica, dei cui postumi abbiamo fatto postmodernità. La storia era finita, tutti a casa. Il caos che divampa sulla polveriera-mondo, oggi, racconta un’altra storia. La temperatura del sistema indica che sono finite semmai le storielle che ci raccontavano, e ci raccontavamo. Washington, minata al suo interno dalle stesse condizioni che ne avevano decretato – brevemente – l’affermazione universale, non può governare, e ordinare, il mondo con le stesse rendite e dividendi di ieri. Figurarsi quando è vecchio, malato, lacerato, depresso. In crisi.
Il mondo è in trasformazione. Krisis. La tempesta sistemica del 2008 non si è risolta. Generatasi nel vortice di contraddizioni al cuore del sistema capitalistico mondiale, gli Usa, è stata soltanto allontanata. Nello spazio e nel tempo. Nel suo percorso lungo i flussi e le correnti dell’economia globalizzata ha lasciato macerie e distruzione dove è passata – Italia 2011. Il suo accumulo di energia non si è fermato. I barometri ne hanno segnalato la permanenza, l’approfondimento, l’estensione, la possibilità di eventi estremi e improvvisi. Il surriscaldamento globale, infatti, non è un fenomeno ascrivibile solamente al clima: coinvolge pienamente anche la dimensione economica, politica, sociale. E quindi militare. Con la pandemia, inaspettata, del 2020 la tempesta ha rimbombato all’orizzonte, vicina. L’atmosfera satura di elettricità, pronta a esplodere. A seguito del 24 febbraio 2022 e del 7 ottobre 2023, la pace che abbiamo chiamato globalizzazione volge definitivamente al termine così come l’abbiamo conosciuta, mentre la partita per determinare il carattere della nuova partitura è appena cominciata.
Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono primariamente armi e strumenti del pensiero. Punto di vista. Metodo. Rispolverare gli arsenali di un tempo ancora validi, costruirne dei nuovi per le condizioni mutate. Combinandoli, ibridandoli, per sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.
È con questa intenzione che abbiamo contribuito, il 25 maggio al Dopolavoro Kanalino78, a organizzare la discussione con Silvano Cacciari, della redazione di «Codice Rosso» (codice-rosso.net) e antropologo, sul suo ultimo lavoro, La finanza è guerra, la moneta è un’arma. Viaggio tra le forme del dominio (La casa Usher 2024), di cui proponiamo la trascrizione.
Il tema è il rapporto tra capitalismo finanziario e forma della guerra. La trasformazione della guerra sul campo alla luce del più alto livello di sviluppo capitalistico, portando Sun Tzu a Wall Street. La finanza non è semplicemente mercato, ma va situata sul terreno geopolitico: è uno dei piani su cui si combatte la guerra ibrida e senza limiti – di cui Ucraina e Gaza non sono che fronti caldi – intorno cui si stanno organizzando apparati statali, economici e sociali dell’Occidente, e non solo. Dollaro, materie prime e algoritmi sono campi di battaglia non secondari tra imperialismo di Washington e potenze riformiste (o sovvertitrici) dell’ordine globale e della globalizzazione, capaci di radere al suolo economie, piegare società, disgregare Stati. Tra fondi speculativi potenti come eserciti, prodotti finanziari scambiati come colpi di artiglieria, sciami di guerriglieri che dai loro smartphone razziano valore tra bolle e criptovalute, la forma-guerra sta cambiando. Quali sono gli attori e gli strumenti del capitalismo finanziario e del cyberwarfare che imperversano nel caos bellico? In quale misura si fondono alla guerra combattuta sul campo? Quali tendenze delle nostre società portano alla luce?
Buona lettura.
Silvano Cacciari
Questo libro si occupa sostanzialmente di tre argomenti: il tribalismo aggressivo delle classi dominanti; l’intreccio tra guerra finanziaria e guerra sul campo, e dunque il ruolo della rivoluzione tecnologica in questo intreccio; e la rarefazione della capacità della politica di fare presa sulla società. La dimensione del politico – non solo quella più vicina alle nostre latitudini, ma anche proprio la dimensione del politico tout court – è infatti sempre più subordinata non solo all’evoluzione, ma soprattutto alle criticità del mondo finanziario. Come sosteneva Carl Schmitt, che non è esattamente un teorico dell’estrema sinistra, nel momento in cui il mondo finanziario fa presa sul pianeta, è la politica ad essere sinistrata.
E se guardiamo alle risposte che, nel corso del XX secolo, la politica (compresa quella istituzionale) ha dato alla finanza, vediamo che, per un certo periodo, furono sorprendentemente aggressive. Per quasi un secolo sono stati proposti una varietà di strumenti di regolazione che hanno, in un certo senso, rinchiuso il genio di nuovo all’interno della lampada: un esempio su tutti sono gli accordi di Bretton Woods del 1944, e a seguire l’avvicendarsi di complesse politiche di regolazione lungo tutti gli anni Cinquanta. Il nostro problema è che, a partire alla fine degli Ottanta, assistiamo a una evidente crisi di accumulazione del capitalismo (all’epoca definito “maturo”), che spinge di nuovo il demone a uscire dalla bottiglia.
Fuor di metafora, possiamo riassumere sbrigativamente la situazione descritta dicendo che negli ultimi quarant’anni il capitalismo finanziario è tornato a riprodursi sul pianeta negli stessi modi nei quali si riproduceva nell’Ottocento, ovvero fondandosi su dinamiche di predazione verso la società e di guerra interna verso i propri avversari. Dunque, la guerra finanziaria è un fenomeno già presente fino all’inizio del Novecento, e che è riemerso al tramonto del periodo fordista e della divisione del mondo in due blocchi. Rimane tuttavia da analizzare come si muove in questa congiuntura specifica e, soprattutto, individuare quale rapporto intrattiene con la guerra guerreggiata – vale da dire con una strategia di aggressione che si fa con strumenti non materialmente cruenti, ma che produce gli stessi danni di una guerra sul campo.
Vi faccio un esempio. Quando l’Italia è stata attaccata dai mercati durante la crisi dei debiti sovrani nel 2011-2012, che cosa è accaduto? È accaduto che durante quel periodo l’Italia ha perso il 15% del Pil derivato dalla produzione industriale in poche settimane. Solo con un bombardamento degno di questo nome potremmo ottenere risultati simili. Ancora prima, nel 2008, nel momento in cui la crisi del subprime si fa sentire al di fuori degli Stati Uniti, c’è un altro paese che subisce profondamente. Questo paese è l’Iran, che nel corso del primo semestre dallo scoppio della crisi perde un terzo del PIL.
Questo per dire cosa? Che la distruttività materiale della guerra finanziaria può essere pari a quella della guerra sul campo. Semplicemente si tratta di una guerra combattuta con altre armi. Ciò che, però, le ultime guerre finanziarie ci obbligano a interrogare è l’intreccio tra guerra finanziaria, guerra sul campo, politica e il ruolo assunto dalla tecnologia. Poiché è da questo quadrilatero che riusciamo a capire come si strutturano i campi di forza del mondo moderno e, dunque, è osservando questo quadrilatero che possiamo cogliere non solo l’elemento di criticità interna, ma anche i punti di rottura e, perché no, di oltrepassamento. Le cose si fanno quindi complicate ma, viste con gli occhi del politico, estremamente interessanti.
Intenti teorici
Lasciatemi ora dire due o tre cosette per esporvi gli intenti teorici del mio libro. Per come l’ho concepito io, questo testo è, innanzitutto, una genealogia del potere al livello più alto di dominio, che nasce da un’esigenza teorica di fondo, ovvero la necessità di fare un salto di complessità nell’analisi del potere. Cosa intendo con salto di complessità? Quando ho iniziato a scrivere questo libro, avendo io una prospettiva essenzialmente foucaultiana, e quindi provenendo dalle analisi del potere disciplinare, ero anche parecchio stanco di leggere gli ennesimi studi, sempre uguali, sulle dinamiche di potere negli ospedali, nelle cliniche, nella prigione e via discorrendo. Cose da far slogare le mandibole per gli sbadigli. La mia ipotesi però è che Foucault consegnasse un apparato teorico sofisticato anche per andare su campi che lui stesso non aveva analizzato (è morto abbastanza precoce), cioè la tecnologia e la finanza. Ma la prima scintilla, la molla che mi spinge con urgenza a interrogarmi su un possibile uso alternativo degli strumenti foucaultiani, è l’osservazione in presa diretta della crisi del debito sovrano e di tutto quello che stava accadendo in Grecia.
Per l’inquadramento interpretativo, ho utilizzato anche altri classici, soprattutto tre: Marx, che riecheggia in molte pagine, a volte esplicitamente, a volte in maniera un po’ più caché; Hilferding e il totem Il capitale finanziario (è anche una questione di formazione: i vecchi militanti, tutte le volte che si parlava di finanza quando ero ragazzo, sentenziavano «devi studiare Hilferding!», neanche fosse un sacrificio rituale, un battesimo del fuoco); e poi ovviamente Lenin e il suo classico L’imperialismo. Il nocciolo, però, è individuare bene sia l’importanza che le criticità che si trovano in tutti e tre gli autori.
Allora, prima di tutto parliamo di Marx, e ne parlo da marxista – per me Marx sarà superabile quando riusciremo a battere il capitalismo, figuratevi un po’ come la penso. Tuttavia dobbiamo riconoscere che l’immagine che aveva Marx del capitale finanziario conteneva un grosso errore di previsione. Quando Marx, nel Capitale, descrive la disintegrazione dei fiorenti docks di Londra per la crisi finanziaria del 1871-1882, ha in testa un’idea ben precisa: a un certo punto, il capitale produttivo, che è razionalizzatore di tendenze, comportamenti, organizzazioni del lavoro, avrebbe razionalizzato anche le banche. Questa tesi, che non sposta di un millimetro l’importanza della sua critica al capitalismo, è un errore di previsione e, forse, anche di profondità storica. In realtà, infatti, furono le banche a impossessarsi del terreno produttivo, iniettando il caos del potere finanziario dentro la dimensione produttiva. Cosa che oggi è sotto gli occhi di tutti.
Passiamo a Hilferding, un quadro socialdemocratico sicuramente da conteggiare tra i grandi classici. Leggendolo in tedesco per inserirmi meglio nei meandri del suo modo di ragionare, mi sono accorto che il problema di Hilferding (così come di Lenin) è che ritornano due importanti storture nella lettura della dinamica tra capitale finanziario e capitale produttivo. Hilferding è assolutamente bancocentrico. Per Hilferding il capitale finanziario è controllato dalle banche e anche oggi, nelle teorie del capitale monopolistico che arrivano fino a noi, c’è sempre questa visione delle banche come organismo ordinatore. Ora, se ci stiamo a recitare il rosario delle crisi bancarie degli ultimi dieci anni, finiamo a settembre. L’ordine bancario e l’ordine finanziario non sono altro che una convenzione teorica, che nella realtà non esiste.
L’ultimo classico, Lenin, scrive nel momento in cui si trova davanti al problema, teorico e politico insieme, della censura. Lenin in quel momento può studiare solo su un campione molto ristretto di fonti; guarda caso, Lenin e le sue fonti parlano solo del potere concentrazionario della Deutsche Bank all’inizio del XX secolo. In realtà, se Lenin avesse avuto l’opportunità di studiare il caos finanziario dell’Ottocento americano, che già dominava il mondo, avrebbe avuto uno sguardo molto, molto meno dipendente da Hilferding e dalle sue concezioni del potere bancario.
Questo per dire cosa? Che stando così le cose, per rimettere su binari più proficui le nostre ricerche su cos’è, oggi, la guerra finanziaria – e quindi sui suoi legami con la guerra sul campo, con lo sviluppo tecnologico e con la politica istituzionale – dobbiamo sgomberare il campo di ciò che, nei testi della nostra tradizione, agirebbero alla stregua di luoghi comuni, come convinzioni ingiustificate affermate a priori e dunque come ostacoli all’interpretazione oggettiva. Dopotutto, come diceva un mio vecchio compagno, i classici non hanno la barba del Profeta.
Ancora meno in soccorso ci viene la pubblicistica liberale e mainstream, orbitante in una maniera più o meno consapevole intorno alle teorie dell’equilibrio economico generale. Spesso infatti, anche in autori molto sofisticati, le crisi finanziarie vengono viste come crisi di efficienza, o addirittura qualcosa mosso – l’ho letto in testi di alcuni premi Nobel – da quella che viene chiamata “l’avidità umana”. Ma voi pensate veramente che una categoria così banale spieghi quello che accade in borsa? In realtà le crisi finanziarie sono determinate da una logica conflittuale che non guarda assolutamente in faccia a nessuno, e tende a produrre profitti, nuove occasioni di valore semplicemente o gonfiando all’inverosimile gli indici, oppure deprimendoli quando si fanno le scommesse a ribasso. Questa dinamica caotica ha un rapporto profondo con la guerra. Capirete che è un po’ più complesso della semplice visione primonovecentesca dell’omino con la tuba che finanzia la guerra.
Guerra finanziaria
Allora, noi che cosa sappiamo della guerra finanziaria? Cosa ci dice la letteratura più interessante dedicata all’antropologia di Wall Street e ai comportamenti dei gruppi sociali attivi nella borsa? È presto detto. La dimensione della borsa è una dimensione d’anarchia, di indipendenza dal potere centrale, di tribalismo legato alle aggregazioni spontanee che si formano per estrarre moneta dai conflitti finanziari. Infatti l’autore che, a mio avviso, spiega meglio questo genere di comportamenti è un anarchico, Pierre Clastres. L’idea che mi sono fatto confrontandomi con questi studi è che gli aggregati finanziari, che io definisco neotribali, si riproducono socialmente grazie al conflitto (in questo caso, il conflitto finanziario) e grazie – attenzione – a una profonda indipendenza da ogni potere centrale, ivi compreso il potere di regolazione della borsa. Questo genera una dinamica caotica all’interno dei mercati finanziari, e una dinamica parimenti caotica nei rapporti tra finanza, economia e società.
Prima di procedere, è opportuno avere ben chiaro un altro importante tassello della nostra riflessione. Innanzitutto, se osserviamo la nuova dinamica della guerra, cioè quella che si è aperta a partire dagli anni Novanta, dobbiamo riconoscere che anche la guerra è cambiata. La guerra finanziaria è tornata a esplodere, dopo l’Ottocento, con una furia sempre più sofisticata e devastante poiché gode di una potenza tecnologica imparagonabile rispetto al passato. Se la finanza, per più di un secolo, si è retta su uno strumento molto fragile (e che pure connetteva il mondo) come il telegrafo, con l’accelerazione tecnologica inaugurata dall’informatica aumentano le capacità delle guerre finanziarie di estendersi sulla società e si inaspriscono in intensità le loro capacità di devastazione. Ciononostante, l’elemento dirimente rimane l’incrocio con la guerra guerreggiata, con la guerra sul campo.
La guerra sul campo degli anni Novanta è molto diversa rispetto al modello della battaglia campale, agli scontri di milioni di persone contro milioni di persone. Yugoslavia, la prima guerra del Golfo, poi l’Afghanistan, l’Iraq di nuovo, infine la Siria… Queste vicende testimoniano con crudele inflessibilità che il conflitto sul terreno è sempre meno l’unico fattore a risolvere, stabilmente e non temporaneamente, gli esiti di una guerra. Assomigliano molto di più a quelle guerre premoderne che avevano una certa abitudine a durare: se guardiamo al conflitto tra Israele e Palestina, siamo vicino a una nuova guerra dei cent’anni. Inoltre, il terreno di scontro si estende agli ambiti, a prima vista, di pace. I più acuti osservatori di questa trasformazione della guerra, della sostituzione del momento decisivo con una conflittualità che tende a diventare permanente, sono gli ex colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui in testi di strategia militare fondamentali come Guerra senza limiti e L’arco dell’impero. Sono risorse preziosissime, a cui un militante comunista dovrebbe prestare parecchia attenzione se vuole cogliere le trasformazioni del conflitto sociale e del political warfare.
Nel momento in cui il conflitto sul campo è sempre meno decisivo per risolvere gli esiti di una guerra, allora tutti i fatti della vita umana vengono bellicizzati. Guai a sottovalutare questo punto. La guerra, dunque, è cambiata e i conflitti sul campo sono sempre meno decisivi per vincere; e però, le guerre si fanno, e le guerre si devono vincere.
Di pari passo è cambiata la guerra finanziaria. Grazie all’estensione tecnologica, ogni fatto della vita umana diviene sempre di più uno strumento di guerra. Le pensioni – delle quali in Italia abbiamo ancora un’idea meno liberista che altrove, perché non ci sono riusciti a cambiarle, ma solo a soffocarle – sono uno straordinario elemento di guerra finanziaria. Sono un esempio paradigmatico gli Stati Uniti, il Giappone e i fondi finanziari tedeschi: qui si dispiega al massimo grado la capacità di attirare capitale da chi deve costruirsi una rendita pensionistica, per poi predare valore speculando sui mercati. La pensione, che finora la riflessione accademica ha interpretato come l’istituzionalizzazione di un dispositivo biopolitico, diventa un momento della guerra finanziaria. Quindi, riassumendo, assistiamo a un’estensione della guerra finanziaria e della guerra sul campo ben oltre i terreni dai quali erano originate.
Guerra ibrida
A questo punto, vi anticipo due domande che sicuramente mi farete. Se questa è la guerra, come si risolve? La risposta teorica a un problema aperto dai nostri colonnelli cinesi è una risposta russa. Il concetto di guerra ibrida, che ogni tanto ritorna evocato come uno spettro, è in realtà una elaborazione teorica di alcuni generali dell’ex Armata Rossa e che si condensò in quella che passò alla storia come dottrina Gerasimov. Secondo questa prospettiva, in un contesto di guerra ibrida (o, per usare il lessico russo, di guerra non-lineare) il vantaggio sul nemico si ha qualora si riesca a sincronizzare meglio di lui tutti gli elementi, sul campo e fuori dal campo, presenti in un conflitto. Quindi, oltre alla logistica – la cui rilevanza ormai l’hanno imparata anche i bambini – diviene una questione di vita o di morte sincronizzare la guerra finanziaria, la guerra economica, la guerra commerciale, la guerra di comunicazione e propaganda, la capacità di abbattere le materie prime del nemico, di togliergli i flussi di finanziamento, e di influire anche sullo spostamento delle popolazioni.
E gli americani? Ebbene, un anno dopo la traduzione in inglese del testo canonico del 2005 sulla guerra ibrida formulata dai russi, gli americani hanno cominciato a clonare teorie e tecnologie legate a questo campo. Come sapete meglio di me, a questo punto, se guardiamo al conflitto russo-ucraino, siamo di fronte a due concezioni differenti della guerra ibrida: una basata sul proxy, cioè l’Ucraina, e quella dello Stato maggiore russo, che tende a applicare le strategie apprese sul campo poi a partire dalla Siria.
La tecnologia
A questo punto, diventa naturale chiedersi quale sia il ruolo della tecnologia nell’ibridazione tra guerra finanziaria e guerra sul campo. Il ruolo della tecnologia è fondamentale, poiché ha formato quello che nel testo chiamo uno “spazio non naturale”, ovvero uno spazio di coabitazione, di sinergia tra tattiche della guerra e tattiche finanziarie che diventava uno spazio di potere e di coercizione ben più ampio della dimensione stessa del politico.
Facciamo un passo indietro. Se noi recuperiamo i capisaldi del realismo politico, Weber e Schmitt, dobbiamo operare dei corposi aggiustamenti alle loro teorie – forse persino più ingenti rispetto a quelli alle tesi sull’imperialismo della tradizione marxista. Intanto, il capitalismo finanziario è qualcosa di radicalmente diverso da quello che pensava Weber, convinto com’era che l’accumulazione capitalistica fosse sostanzialmente prodotta da ceti ascetici dedicati solo ed esclusivamente alla razionalità economica dell’accumulazione del denaro: in realtà, la finanza ci mostra esattamente il contrario, per non parlare poi dei comportamenti degli attori in borsa (che non sono certo dei campioni di austerità). Passando all’altro lato della medaglia, ovvero al Politico, dobbiamo distinguere le diverse visioni della politica che ha Schmitt. Perlomeno a partire dagli anni Trenta, come è noto, Schmitt inizia a parlare della politica dei “grandi spazi”, e cerca quindi di superare una concezione della politica incentrata sullo Stato-Nazione; gli sfuggirà il fatto che le tecnologie che si svilupperanno in seguito, dopo la sua morte, sono arrivate a formare uno spazio, appunto, non naturale. Uno spazio più potente, dal punto di vista del politico, dello stesso Großraum, cioè del “grande spazio” e della politica marittima internazionale. Ed è precisamente questo il punto sul quale noi ora ci collochiamo per osservare il potere: lo spazio non naturale.
In un contesto così marcatamente contrassegnato dall’influenza dell’evoluzione tecnologica, è da capire che cosa sia la politica nel momento in cui si costituiscono grandi spazi tecnologici che condensano potere di forme diverse (il potere della finanza, il potere della guerra, il potere della comunicazione, eccetera).
La politica
Che cos’è, oggi, la politica? Von Clausewitz, senza saperlo, riprende il ruolo che nel lontanissimo passato aveva avuto Sun Tzu, cioè quello di essere al contempo un filosofo e un teorico della guerra. Nella sua trattazione sulla natura della politica, come è noto, fa questa affermazione: «La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi». Poi però dice qualcosa di più. Dice: «La guerra non è solo un atto politico, ma un vero e proprio strumento della politica». Von Clausewitz è consapevole che nell’epoca moderna il fenomeno della guerra è saldamente in mano alla politica e allo Stato sovrano. Ma noi siamo sicuri che oggi sia ancora così?
In realtà, a mio avviso, le cose sono cambiate. La politica, nel quadro che vi ho fatto, è la continuazione della guerra ibrida con altri mezzi. Il rapporto tra guerra e politica è completamente rovesciato.
Quando alla politica sfugge di mano la guerra (cosa che sia prima che durante la modernità, era probabilmente all’ordine del giorno), è la dimensione neoliberistica del caos, cioè il caos funzionale all’estrazione di profitto, che riesce a farsi presente, pressante e dominante rispetto alla forza della politica, ivi compresa la forza del Politico sovrano borghese. Ma anche le altre dimensioni coinvolte nella guerra ibrida – la gestione energetica, le materie prime, la stessa comunicazione, eccetera – tracimano continuamente dal controllo politico. Anzi, è la politica a diventare strumentale, ad essere sussunta dalle dinamiche caotiche della guerra ibrida. E sta precisamente qui questa la radice dell’importanza che ha per noi la corretta comprensione dei fenomeni finanziari.
La scienza
Voi mi chiederete: ma quindi, qual è la principale forza produttiva in tutto questo? Ora, converrete con me nel non concedere alcun credito, in questo genere di analisi, a dinamiche antropomorfiche. Come credo anche voi, io non penso che la guerra sia un fenomeno di “impazzimento” del potere o della società. Non ho alcuna idea meccanicistica della guerra, né penso che sia questione di odio e ideologie. Sono tutte cazzate. Ma la domanda resta valida: quali sono, in ultima istanza, gli elementi forti della produzione di guerra nel nostro mondo?
Per come la vedo io, se vogliamo cogliere la dinamica che spiega il continuo susseguirsi di guerre sulla superficie della nostra globalizzazione, noi dobbiamo dimenticarci il fattore umano, e andare a un nodo del potere, oltretutto innestato nella finanza, del mondo di oggi: la scienza contemporanea e le sue modalità di riproduzione. Quello che un tempo si chiamava scienza postmoderna, oggi è evoluta. Nella scienza contemporanea riscontriamo due caratteristiche che, tanto per capirsi, assomigliano molto sia ai fattori produttivi dell’economia e ai fattori distruttivi della guerra.
La prima caratteristica della scienza contemporanea è quella di riproduzioni per brainstorming, attraverso elementi di rottura e di innovazione che tendono a impattare violentemente sul campo. Ciò vale per il marketing come per la produzione di strumenti di guerra. Il secondo aspetto della scienza contemporanea è la capacità di riprodursi affermandosi sul campo a prescindere da diritto e legittimazione. Oggi le armi si fanno, il diritto viene dopo, non so se mi spiego. Per esempio, il grande problema della regolazione etica degli algoritmi bellici può sembrare un tema per nerd o periferico, ma in realtà riassume il cuore tecnologico della guerra contemporanea, trattandosi niente meno che delle esigenze di regolazione di dispositivi che finiscono puntualmente per sfuggire al regolatore. È una caratteristica tipica della scienza postmoderna, che si è riprodotta a prescindere dal diritto e che poi è finita per impattare sulla produzione e sulla guerra. L’ultima caratteristica che è tipica della scienza contemporanea è il fatto di riprodursi attraverso processi di accelerazione.
Tutte queste caratteristiche della scienza moderna – innovazione impietosa, autonomia da diritto e regolazione, riproduzione tramite accelerazione – le ritroviamo nell’economia e nella guerra contemporanea. Ai fattori ideologici ci pensa semmai chi ha voglia di farsi un bel dottorato in mediazione dei conflitti; chi si occupa di politica, no.
Per quanto io non nasconda il mio affetto per Toni Negri, capirete che quello di cui abbiamo parlato è una dimensione di caos e di accelerazione delle dinamiche economiche un po’ diversa dall’Impero, che invece veniva sostanzialmente concepito come un nuovo ordine in procinto di stabilirsi sul mondo.
Insomma, cosa ci serve definire le dinamiche della guerra finanziaria, tratteggiarne il rapporto che intrattiene con la tecnologia e la guerra sul campo, e infine sviscerare l’origine della subordinazione della politica in questa congiuntura? Da qui occorre partire per individuare quali possano essere le direzioni lungo le quali una politica radicale, coraggiosamente estrema (delle altre ci interessa poco), deve saper innovare per uscire da questa gabbia.
Ucraina e Gaza
A mio avviso riusciamo a capire la connessione tra guerra finanziaria e guerra sul campo attraverso due scenari differenti. Il primo è il terreno russo-ucraino, il secondo palestinese-israeliano.
Che rapporto c’è tra guerra finanziaria e guerra sul campo in Ucraina?
Nel 2008 esplode la crisi di Lehman Brothers, ed esplode anche l’Ucraina. Almeno metà della ricchezza viene spazzata via, e si creano dinamiche di separazione dello Stato ucraino per cui una parte degli ucraini guarda all’Est e una parte guarda all’Ovest. L’Ucraina è un epifenomeno, un effetto collaterale di Lehman Brothers. Ci sono effetti collaterali della guerra finanziaria che possono scatenarsi anche a distanza di quindici anni, che alla generazione successiva arrivano come guerra sul campo. È una dimensione storica che dobbiamo riconoscere. Poi però, quando scoppiano le guerre, i due elementi, quello della guerra finanziaria e della guerra sul campo, finiscono per toccarsi e fondersi. Noi sappiamo benissimo che questa guerra è scoppiata nel 2014. In quel momento di fatto c’è stata, da una parte, una secessione dall’Ucraina delle due repubbliche di Donetsk e Lugansk, dall’altra l’attacco alla borsa di Mosca da parte di speculatori finanziari legati allo Stato federale americano, e a seguire da uno sciame di speculatori privati che semplicemente volevano razziare come piraña attraverso questa dimensione.
Quindi c’è un processo a fisarmonica tra guerra finanziaria e guerra sul campo: i due piani tendono a unificarsi e a separarsi.
Gli effetti collaterali sono figli del caos, ed entrano in sincronia nel momento in cui le crisi si fanno sempre più devastanti. Guardiamo alle primavere arabe del 2011. Rivolte provocate anche da un effetto collaterale del quantitative easing americano, che innescò un rialzo dei costi delle materie prime alimentari che alimentò le rivolte nel Nord Africa e in Medio Oriente.
Ora, che cos’è lo Stato israeliano? Il punto è proprio questo. Lo Stato israeliano è un formidabile complesso militare-industriale che gode di un continuo processo di finanziamento da parte di entità finanziarie israelo-americane. Questo complesso militare-industriale ha nutrito una dimensione tecnologico-bellica che è di primissimo livello. A pensare in modo consapevole la guerra ibrida non sono stati solamente i russi, ma con grande intelligenza, va detto, anche gli israeliani.
Lo Stato di Israele ha portato al suo acme la guerra ibrida, sia per la capacità tecnologica (uso dell’intelligenza artificiale nelle azioni di bombardamento da parte dell’Idf), sia con l’asset della comunicazione (sappiamo benissimo che buona parte della comunicazione istituzionale occidentale è assolutamente subordinata alle esigenze di Tel Aviv) sia attraverso quell’elemento ibrido che è la politica della popolazione: sul campo, l’espulsione dei palestinesi da Gaza e dai loro territori è un elemento della guerra ibrida di grande forza. C’è uno strapotere immenso da questo punto di vista.
Caos e ordine
Un’idea di ordine non appartiene al complesso finanziario statunitense. Dove c’è la moneta – e in particolare il dollaro – c’è il caos. Però, qui, dobbiamo capire dove sta l’ordine e dove sta il caos. Il mondo finanziario è una dinamica di scambio di beni e di servizi, di moneta e derivati, che contiene, oltre a questa dinamica di scambio, anche la guerra finanziaria. Il problema del capitalismo finanziario è produrre valore nel momento in cui è difficile produrlo, quindi produrre valore tramite il caos rimandando sempre tuttavia a una dimensione di ordine. E qui, per intenderci, entra in gioco la dimensione della complessità.
La complessità è una dimensione intrecciata di livelli incredibili di caos e livelli rigidi di ordine. Se noi andiamo a vedere gli ultimi cinquant’anni vediamo come gli Stati Uniti per risolvere i loro problemi hanno immesso immancabilmente caos nel sistema. Questa emissione di caos nel sistema ha epicentro il 15 agosto 1971, cioè lo sganciamento del dollaro dall’oro da parte di Nixon. Gli Stati Uniti davano inizio a un ciclo di accumulazione di valore finanziario che è arrivato fino a noi. Però l’esigenza dei sistemi economici e politici non è solo quella dello scatenare il caos nei momenti in cui è necessario; c’è sempre, in un approccio complesso, anche il problema della produzione di ordine.
Cos’è che negli Stati Uniti produce ordine? La Banca centrale? Fino a un certo punto. In realtà il vero elemento di ordine americano è il dollaro: ovvero la capacità di far comprare dollari di debito americano dal resto del mondo. Quindi, se i mercati finanziari si possono permettere il caos, di accumulare ricchezza tramite il caos, è perché vi è una dimensione di ordine, che è la dimensione del dollaro. Stiamo attenti che la fine di questa dimensione non è così vicina come magari qualche compagno preconizza. La differenza degli interscambi in dollari rispetto a quelli con altre monete è la stessa che c’è tra Malta e il Canada, due dimensioni assolutamente incomparabili.
Complessità e rottura
Chi volesse muovere critica al dominio del presente attraverso la ricerca e la pratica di elementi di rottura, dovrebbe saper cavalcare il caos e rompere gli elementi di ordine della complessità capitalistica. Il capitalismo non è l’ordine, il capitalismo è la complessità, questo continuo intreccio di ordine e di caos con la capacità di attraversare epoche profondamente diverse. Il problema è rompere questa complessità. È evidente che una teoria di rottura radicale deve capire come appunto è cambiata la guerra e soprattutto come è cambiata la politica. Se la guerra oggi è la continuazione della guerra ibrida con altri mezzi, è evidente che si tratta di comprendere quali sono le dimensioni della guerra ibrida nel momento in cui si fa politica dal basso.
Appendice dell’autore
– Primo. Dobbiamo innanzitutto capire che questa è una società profondamente invecchiata. Cioè, la curva demografica non può essere ignorata. Noi non potremo avere masse di studenti, militanti, come negli anni Settanta.
– Secondo aspetto, le classi subalterne non sono lontane da processi di radicalizzazione, però sono lontane dalla lingua che fa la politica oggi. Nel mondo di oggi conta molto di più un linguaggio che ha due caratteristiche, apparentemente inconciliabili: l’emotività e l’estrema concretezza. Noi abbiamo proletari che giocano attraverso app fintech del proprio smartphone una parte dei loro redditi (in borsa, in criptovalute, in scommesse) perché hanno bisogno di reddito e quindi sono abituati a ragionare per istinto e per calcolo. Il linguaggio della politica, così come lo conosciamo, ha poco di istintivo, e il calcolo non sa nemmeno dove sta di casa, cioè ripete una serie di temi culturali. Però la politica è un’altra cosa.
– Terzo, oggi non è possibile una politica che non sia leninista, non è possibile una politica che non abbia in sé l’elemento professionale. Cioè, senza il professionismo militante della politica voi oggi la politica non la fate. Fate una stagione di movimenti, gloriosa, la piazza, insomma, tutto quello che conosciamo, però poi finisce lì, venti giorni, un mese, un anno, due anni, poi alla fine si esaurisce.
– Quarto, una dimensione professionale che sia tecnologica. Ogni proletario ha i propri device e se non siamo in grado di comunicare con i device del proletario probabilmente è meglio darsi allo sport, che è anche un po’ più gratificante. Quindi le classi subalterne vanno sapute intercettare con una capacità, un linguaggio molto istintivo e molto compresso, che guardi più all’onirico.
Sabato 17 giugno, ore 15.30, Modena, @ spazio Happen, via Canaletto Sud 43, sotto l’RNord
Quarto e ultimo appuntamento del ciclo di incontri MILITANTI.
La militanza non va in vacanza. Dagli anni Ottanta a oggi, e oltre
Nella memoria collettiva, la militanza politica sembra scomparire dopo l’assalto al cielo degli anni Settanta. La fase iniziata con gli anni Ottanta, ancora in corso, appare come un buco nero.
È il periodo della reazione ai grandi cicli di lotte, quello della controrivoluzione capitalistica, del riflusso nel privato, dell’epidemia di eroina, dell’edonismo dilagante, della precarietà generalizzata, dell’avvento di internet e del mondo unipolare, che ha portato al mondo come lo conosciamo oggi.
Tuttavia, gli ultimi quattro decenni non sono stati affatto privi di conflitti, sperimentazioni, movimenti e forme di organizzazione politica anche originali, tra ambivalenze e contraddizioni, che si sono dovuti confrontare con la crisi della militanza: dal movimento antinucleare a quelli studenteschi della Pantera e dell’Onda, dalla stagione dei centri sociali alle mobilitazioni noglobal, dalle tute bianche al blocco nero, fino agli “ultimi fuochi” del 15 ottobre 2011 e alle “piazze populiste” degli anni recenti.
Quali sono stati i soggetti sociali protagonisti degli ultimi movimenti? Quali sono stati pregi e limiti delle loro forme di organizzazione? Come si è trasformata la militanza e il conflitto di fronte all’attivismo e alla testimonianza? Se siamo di fronte all’esaurimento di un ciclo, come immaginare (e praticare) di andare oltre?
Ripercorrere questi “decenni smarriti” vuol dire confrontarsi con i nodi irrisolti del presente, per riarmare il pensiero di fronte all’attualità, e costruire una prospettiva solida dentro e contro la storia di oggi. È quello che vuol dire essere militanti.
Ne parliamo con Gigi Roggero, ricercatore militante, collaboratore della rivista «Machina», autore di Elogio della militanza (2016), Il treno contro la Storia (2017), L’operaismo politico italiano (2019), Per la critica della libertà (2023), pubblicati con Deriveapprodi.
Pubblichiamo la terza e ultima parte (qui e qui le precedenti), relativa al dibattito politico, della presentazione modenese di Raffaele Sciortino del suo ultimo lavoro, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza (Asterios 2022). In queste ultime, incisive battute, l’autore risponde alle domande provenienti dal pubblico: abbiamo quindi optato, per facilitarne la lettura, di unire le risposte in un unico discorso di senso compiuto, apportando un numero minimo di tagli a digressioni e interventi dalla platea. La riflessione complessiva che emerge mette in risalto alcuni, importanti, punti politici, che crediamo si debbano tenere in considerazione, essere dibattuti e approfonditi: la questione baricentrale, nodale, dei ceti medi, che assume forma e valenza differente a seconda di dove collocata e della sua composizione, ma che pervade ogni scenario e che altrettanto dovrà fare per la ricerca militante; il campo di battaglia che sarà lo “stile di vita”, il livello di consumo e lo standard di benessere “di massa” che il piano inclinato di scontro materiale tra Stati Uniti-Occidente e Cina-Russia andrà inevitabilmente e direttamente a intaccare e su cui farà leva per mobilitare (o paralizzare) settori non secondari di società, tra guerra e cambiamento climatico; l’individuazione, non a livello ideologico ma di processi e dinamiche reali, degli Stati Uniti come perno inaggirabile che impedisce una trasformazione sistemica, la contrapposizione verso di essi come porta stretta e obbligata (ma non sufficiente) entro cui passare anche solo per pensarla, l’importanza cruciale che assume per questo ogni loro convulsione, interne ed esterna; le questioni della democrazia e della libertà, nelle declinazioni contraddittorie e anche contrastanti che ne fanno (e faranno) movimenti e istanze, e il necessario punto di vista di parte, e di classe, entro cui leggerle e piegarle; la necessità, speculare a quella di riscrivere una teoria dell’imperialismo, di ritematizzare l’antimperialismo, alle condizione date di esaurimento della parabola del movimento operaio e della natura (e contraddizioni) di nuovi possibili movimenti di là da venire. Tutto questo e molto altro. Buona lettura, e ancora grazie a Raf.
Raffaele Sciortino
Partirei da quanto detto dal compagno sulla continua retorica democraticista, perché davvero non si poteva riassumente meglio. Ormai non c’è un evento occasionale che riguardi il mondo extra-occidentale che non diventi un pretesto per la solita propaganda, tesa come sempre a ribadire che noi siamo i migliori perché “gli unici detentori della democrazia”. Guardate ai Mondiali di calcio in Qatar; sono certamente morti una quantità di operai, ma la questione era sempre, incessantemente ridotta a quella dimensione lì.
Sul piano culturale, parla da sé lo spirito antirusso, che si lega a un conformismo realmente imposto. Altro che “pensiero unico”! Persino quando si cerca di ragionare sulle sanzioni, i vantaggi per l’Europa o anche la possibilità che l’alleanza con gli Usa sia una forma di sfruttamento, resta sempre un nodo di fondo, che sarà tosto da sciogliere in futuro. Alla fin fine, cosa ti dice l’avversario, il “difensore della democrazia”, e quindi dell’Occidente? Che se alla Cina o alla Russia riesce il tentativo di ricollocarsi nella divisione geopolitica del valore, i tuoi livelli di vita devono deteriorarsi.
Per quello che interessa le grandi masse, dietro il discorso sulla Cina come minaccia, c’è la difesa spasmodica dei nostri standard di benessere e i nostri stili di vita. Parte sì dai piani alti della cultura con slogan idealistici, ma via via arriva ad aggredire questi nodi di fondo, fino a incistarsi sul piano dei consumi. Il terreno è molto spinoso e va maneggiato con attenzione, perché c’è una tanto amara quanto sostanziale verità che emerge.
Facciamo rapidamente un confronto con gli anni Sessanta e Settanta: una parte del proletariato e dei giovani in Occidente ha potuto abbracciare la lotta antimperialista, perché questa veniva coniugata, oltre che con un’istanza antiautoritaria, con un’istanza di miglioramento delle condizioni di vita per larghi strati della popolazione. Poi certo, c’erano i richiami cultural-politici al sovietismo e al maoismo. Oggi non è – e in futuro non sarà – più così.
In futuro, infatti, il gioco imporrà la scelta “Occidente vs. resto del mondo”, esattamente perché gli standard di consumo diventeranno insostenibili. La vecchia connessione tra l’istanza sociale (l’antiautoritarismo rivolto contro istituzioni come la scuola e il lavoro), l’istanza materiale (le condizioni di vita) e l’istanza ideale (l’apparente richiamo alla sinistra comunista) è tramontata da tempo.
Al momento è abbastanza tragica. Tuttavia, si deve rilevare che mentre allora né l’Urss né tantomeno la Cina avevano la possibilità di intaccare veramente, materialmente, le basi del compromesso sociale tra classi lavoratrici e borghesie nella sfera imperialista, da questo punto di vista oggi la situazione è mutata. A ben guardare, la “minaccia cinese” o l’ostinazione della Russia davanti ai diktat statunitensi mettono in moto processi economico-sociali che influiscono direttamente sulle nostre condizioni. Se emergessero lotte che affrontassero le risposte del nostro padronato al mondo extraeuropeo, potrebbero smuoversi le carte in tavola.
Ora, mi rendo conto che quanto sto dicendo è molto vago. Quello che è fuori discussione è che la propaganda sui valori occidentali diventerà martellante, e a questo dobbiamo prepararci. Da un lato siamo svantaggiati, dall’altro non c’è il rischio di essere equivocati come filorussi o filocinesi: in termini di soft power, quelle società non hanno il minimo richiamo sulle giovani generazioni. Quindi è bene mettesi nella testa da subito che fabbricarci un mito non ha nessun senso politico.
Ma anche così, rimane una contraddizione difficile da gestire. Solo se si andrà a incrinare l’accumulazione capitalistica qui in Occidente – il che, ricordiamolo, avrà ripercussioni severe sui meccanismi della riproduzione sociale – innescando lotte che possano aprire di nuovo un divario tra i nostri padroni e noi, ebbene, solo allora il discorso della propaganda occidentale vedrebbe indebolite le sue basi materiali. La speranza è questa, e molti indicatori ci dicono che si sta andando in una simile direzione. Ovvio, in una maniera non lineare: non sarà un Sessantotto gioioso, e non sarà facile riconnettere noi e le nostre classi lavoratrici con il mondo extraoccidentale.
Ma è altrettanto chiaro che senza questa connessione si va verso la guerra di tutti contro tutti. È inoltre evidente che questa operazione possa venire rapidamente ascritta dai nostri avversari alla categoria dell’antiamericanismo; e ciononostante, nella piena consapevolezza dei rischi, in questo mio contributo ho dovuto (e voluto) rimarcare che, per come si è strutturato il capitalismo mondiale negli ultimi trenta-quarant’anni, se non si indeboliscono gli Stati Uniti non c’è nessuna possibilità che si riapra un discorso antisistemico.
Lo ripeto ancora una volta: non possiamo aspettarci che l’indebolimento degli Stati Uniti sorga in primis dai suoi alleati-avversari imperialisti (Francia, Germania, Giappone). Il primo elemento che può rendere difficile la vita agli Stati Uniti e indebolirli viene necessariamente dal mondo extraeuropeo, in particolare dalla Cina. Ciò significa diventare filocinesi? Assolutamente no, perché la Cina rimane un paese capitalista che, a differenza dal passato, non ha nessun appeal sulle nuove generazioni.
Il punto non è quello. L’antiamericanismo – cioè l’individuare negli Stati Uniti il perno che impedisce il cambiamento del sistema e quindi, in prospettiva, un agente che ci schiaccia, vuoi nelle condizioni economiche, vuoi nell’indirizzarci verso un mondo sempre più segnato dalla guerra – è una condizione necessaria ma non sufficiente per una risposta antisistemica. Da lì però, in qualche modo, bisogna passare.
Ma questo non perché lo abbiamo scelto noi, non perché abbiamo individuato ideologicamente il nemico numero uno, ma perché i processi reali e le dinamiche già in atto ci dicono che se il capitalismo deve rinnovarsi e rivitalizzarsi, lo può fare solo se gli Stati Uniti riescono a combinare un riordinamento geopolitico globale con una ristrutturazione produttiva interna e internazionale.
Dunque, solo se questo suo tentativo non avrà successo possiamo sperare in, pensare a e, poi, lavorare per una risposta collettiva a dei problemi che diventano sempre più globali – basti pensare alle questioni energetiche e al cambiamento climatico. Solo in questo modo possiamo ipotizzare l’aprirsi una fase di transizione che non sarebbe più intra-sistemica (cioè tra un ordine globale e un altro) bensì, sperabilmente, da un sistema all’altro.
Capisco bene che parlare oggi di una fuoriuscita dal sistema di produzione capitalistico sembra fantascienza. Però, se pensiamo alla maniera catastrofica, alla precipitazione inaspettata con cui si è aperta la guerra in Ucraina e tutte le sue conseguenze, be’, se le contraddizioni vanno ad acuirsi noi di simili precipitazioni impreviste ne vedremo sempre di più. Proprio per questo carattere di instabilità catastrofica potrebbe tornare sul tavolo la discussione su quale può essere un nuovo ordinamento sociale per la comunità umana, visto che ormai i problemi si pongono su questa scala di gravità. Di più, sinceramente, al momento non saprei dire.
Sono sicuro, invece, che questo scenario comporterà per noi delle contraddizioni. Facciamo l’esempio dell’Iran. Puoi forse non essere con le donne che si vogliono togliere il velo? Ma al tempo stesso, in quella mobilitazione, gli Stati Uniti hanno inserito l’Isis; i curdi cercano di fare il gioco filostatunitense che hanno tentato di fare in Siria e prima in Iraq (l’unico posto in cui gli è riuscito)… Capite bene che al momento non siamo assolutamente in grado di padroneggiare contraddizioni di questo genere.
Ma da dove viene la nostra incapacità strategica? Perché non sappiamo più che pesci pigliare?
Perché non c’è una lotta di classe seria che possa richiamare a soluzioni fuori d’Europa al contempo democratiche e anticapitaliste. A guardarci un po’ più da vicino, ecco che in questo vuoto ritorna il problema dei ceti medi.
Lasciamo perdere per un momento la questione dell’impoverimento dei ceti medi in Occidente, che ha dato luogo alla prima fase del populismo, agendo dunque come un fattore di instabilità. All’infuori dell’Occidente la questione dei ceti medi si muove lungo due scenari differenti.
Il primo è quello auspicato da Pechino e dal partito-Stato, sul quale conviene aprire una parentesi. Per Pechino gli obiettivi a medio termine sono: risalire la catena del valore, ampliare l’accesso al benessere, rimpolpare i ceti medi privilegiando sui settori salariati. Da un lato quindi deve investire sui tecnici, sui laureati e sugli ingegneri, soggetti cioè che al tempo stesso fuoriescono dalla condizione strettamente proletaria, e che permetterebbero all’industria cinese di risalire a livelli tecnologici più alti, e quindi se non proprio di stare alla pari della concorrenza imperialista occidentale, quantomeno di giocarsela con buoni numeri. Dall’altro deve controllare i ceti medi di lavoro autonomo e di piccolissima impresa (oggi diffusissima in Cina) che potrebbero sfuggire di mano chiedendo istanze democratiche rivolte verso l’Occidente: un po’ come è successo ad Hong Kong. E in mezzo gli studenti, che potrebbero andare in una direzione come nell’altra, facendo parte della propria identità l’ascesa del capitalismo nazionale o il “pluralismo democratico” e la rottura con il partito-Stato.
A grandi linee, quindi, possiamo dire che la Cina, forse, è l’unico paese che ha la possibilità di indirizzare l’ascesa dei ceti medi facendone un elemento di stabilizzazione e di rafforzamento del capitalismo nazionale; ma se noi guardiamo fuori dalla Cina, vediamo cose molto diverse.
Altrove, il rapporto tra ceti medi e mercato mondiale (e con esso, la forza attrattiva che ha tuttora l’imperialismo occidentale sui giovani) si disegna come una sorta di patto, di contratto tacito. Questa l’offerta: se tu mi aiuti a scompaginare quel poco o tanto che sia rimasto di centralizzazione nel tuo capitalismo nazionale, di controllo statale interno, di barriere difensive rispetto al mercato estero (ovvero, nella terminologia occidentale, se tu mi aiuti a “democratizzare” il tuo paese), io ti faccio accedere direttamente al mercato mondiale, vuoi con l’immigrazione, vuoi con l’interscambio commerciale, con l’arrivo di capitali e così via.
Quindi negli altri paesi, nelle loro legittime aspirazioni democratiche questi settori, e in particolare i giovani – che sono rappresentati e si sentono in gran parte come un ceto medio in formazione, come una “gioventù di ceto medio”, e non perché effettivamente lo siano o lo possano diventare (essendo perlopiù proletari o semiproletari), ma per le aspirazioni indotte dalla capacità attrattiva del modello occidentale – vedono l’atlantismo liberale come la via più corta.
Al contrario di quanto succede in Cina, per questi soggetti saltare l’enorme sforzo di costruire un’economia nazionale un minimo più autocentrata, sbaraccare il proprio ceto politico (perché corrotto, arretrato, e così via), eliminare le residue difese protettive davanti ai capitali occidentali diventa la via per arricchirti, per migliorare la tua condizione. Insomma, come capite, il rapporto ceti medi e Occidente, ceti medi e mercato mondiale si pone in maniera non del tutto omogenea.
E allora ritorniamo al punto, secondo me, centrale: dal momento che emergono, e emergeranno sempre più, istanze democratiche e richieste di libertà (la situazione dell’Iran è paradigmatica: trent’anni sotto le sanzioni americane, ha dovuto necessariamente volgersi verso la Cina per resistere economicamente e tutto ciò ha rafforzato la spinta alla chiusura, e quindi l’accelerata repressiva, dello Stato iraniano), tocca prestare molta attenzione.
La priorità, almeno a livello di analisi, è chiedersi: che tipodi libertà chiedono questi movimenti e questi soggetti? Che tipo di democrazia? Qual è il suo contenuto non meramente ideale, politico, filosofico, valoriale, ma che cosa gli corrisponderebbe, se realizzata, a livello di strutturazione economica e sociale? E, domanda ancora più crudele: quali sarebbero le ripercussioni sugli altri strati sociali?
Detto altrimenti – e uso questo termine che non mi piace tanto, proprio perché fa parte dell’“ideologia globalista occidentale”, però qui ci sta – solo se noi riuscissimo a decostruire quella domanda democratica potremmo iniziare a districarci una via tra le contraddizioni.
Che cosa intendo dire? Facciamo l’esempio delle lotte operaie cinesi. Anche queste, va detto, non portano necessariamente un’istanza anticapitalista o antisistemica, o perlomeno per ora non l’hanno sempre mostrata. Tuttavia, possiamo dire che hanno un’istanza democratica in un doppio senso. Da un lato sono sì lotte per il salario, lotte per il miglioramento delle condizioni economiche (quindi “democraticiste”, o lotte che Lenin definirebbe “tradunioniste”); ma possiamo definirle democratiche anche perché spingono sul proprio capitalismo per una modernizzazione che permetta un compromesso sociale un po’ più avanzato.
Ragionando in termini più precisi ma più complessi, possiamo definirle democratiche perché sì premono per un passaggio di estrazione di forme di plusvalore assoluto (con condizioni di lavoro pessime e orari lunghissimi) a forme di estrazione di plusvalore relativo (dove gli orari di lavoro si accorciano perché la tecnologia ti permette l’intensificazione del processo lavorativo), ma ciononostante i salari reali possono comunque aumentare e quindi aumentare i tuoi consumi, e così permetterti anche di ampliare un welfare.
Queste richieste di democrazia che domandano che più plusvalore rimanga in loco e venga accumulato lì, anche per fini sociali (il che, come vedremo, spinge la Cina a indurire i rapporti con l’imperialismo occidentale), è un’istanza senza dubbio democratica, ma è chiaramente differente dagli studenti di Kong Kong che portano in strada la bandiera britannica.
So bene che questo discorso è difficile, e che potrete dirmi “ma allora cosa sei, sei per lo Stato iraniano degli imam che reprimono le donne e che uccidono i manifestanti?”, ma non è questo il punto. Quello che dobbiamo reimparare a fare è fare analisi di classe, materialistiche, di tutti questi movimenti e di queste istanze.
Su questo punto, parliamoci con franchezza: a riguardo c’è chiaramente stata una cesura nella memoria e nell’organizzazione. Si sono recisi dei fili, tra noi qui (e intendo sia la generazione di voi giovani che la mia di vecchi) e l’esterno. C’è stata fatta terra bruciata intorno. Perché? Perché la globalizzazione ascendente ha confinato tutti i movimenti sociali in Occidente sul terreno dei diritti. Tutto ciò che non è formulato in termini di diritti (e perlopiù di diritti individuali: in queste condizioni, i diritti sociali sono la somma dei diritti individuali) è escluso dal discorso.
E così in Europa anche le sinistre che tentarono un discorso antisistemico (ricordo, per esempio, l’ultimo grande movimento, quello No Global), hanno sostanzialmente imboccato un processo che io chiamo (l’ironia è voluta) radicalizzazione. Le sinistre si sono radicalizzate nel senso anglosassone di radical. In fondo, quello che dicono è: combattiamo contro il capitalismo di oggi, ma accettandolo come piattaforma di fondo, perché solo il “capitalismo democratico” consente mobilitazioni nel senso della democratizzazione e dei diritti. Ciò che invece non è democratico, non ce lo permette. Passo passo, senza volerlo abbiamo introiettato “la superiorità dell’Occidente”.
Lo si vede in continuazione. Quando aiutiamo i profughi con le Ong – vogliamo forse far morire i profughi nel Mediterraneo? Ovviamente no – c’è qualcuno che fa un discorso a monte e a valle? Quando facciamo i passeurs dei profughi e li portiamo in Italia e in Europa, ci occupiamo poi di quello che andranno a fare come lavoro? Andiamo nei campi di pomodoro dove a 45 gradi d’estate si prendono due euro all’ora? Queste Ong vanno lì? E si interrogano, queste Ong, sul dissanguamento, l’impoverimento che il flusso della migliore forza lavoro (perché quelli che vengono qui sono spesso i più scolarizzati, i più motivati) noi provochiamo a quei paesi lì?
È chiaro che se tu fai un discorso di diritti (ricordate il “diritto a migrare”?) non puoi affrontare nemmeno teoricamente tutto quello che sta dietro la questione, cioè il problema, serio, che tu stai comunque contribuendo a creare forza lavoro a basso costo per l’imperialismo occidentale – nonostante questo crei contraddizioni con i nazisti, con i vari pseudo sovranisti e così via.
Le contraddizioni più gravi però non riguardano la nostra purezza morale, ma quello che ci esploderà in mano nei quartieri periferici, perché chiaramente questi non vanno ad abitare nei quartieri bene popolati di gente colta e progressista. Tutto questo è radicalization.
Oppure, altro esempio. Abbiamo visto tutti la stupenda lotta dei neri contro Trump, che fortunatamente si è allargata, è andata oltre il punto di partenza della blackness. Da lì hanno iniziato a buttar giù statue. Benissimo. Poi è arrivata la guerra in Ucraina. Dove è andata a finire la spinta del movimento Black Lives Matter? È chiaramente una guerra per procura, e non sto difendendo Putin: gli ucraini sono carne da macello; ma tutte le tue istanze anticoloniali, per cui buttavi giù le statue di Colombo, non appena scoppia la guerra, kaputt. E non tiriamo fuori il problema del dilettantismo dei movimenti, perché nello stesso pantano sono finiti gli “intellettuali critici”. Che so, Noam Chomsky. Alé, graaaande intellettuale anarchico [tutti ridono], anche lui subito: «Mandiamo armi all’Ucraina».
Il problema in questa fase, difficilissima per le residue forze che abbiamo, è quello di iniziare finalmente, non saprei come dire, a “decostruire la decostruzione”. Perché altrimenti non ci muoviamo. La situazione di oggi ci impone di affrontare di petto le contraddizioni: non nella speranza di risolverle (perché nessuno qui di noi, neanche con un grande movimento, potrebbe riuscire a risolvere grovigli come quello in Iran), ma quantomeno iniziando a leggerle con un punto di vista di classe.
Una prospettiva quindi antimperialista, non antiamericana, quale condizione necessaria ma non sufficiente per reimpostare un futuro politico (che sarà il vostro, non il mio: dopotutto, il processo che ci ha condotto a questo punto si è formato in cinquant’anni, cioè grossomodo due generazioni, e nel frattempo ci ha bruciato il cervello). Se noi non iniziamo a rompere con questa riduzione della sinistra antagonista al radical anglosassone, siam panati. Perché le contraddizioni sono continue!
Vogliamo guardare a quello che è successo in Cina? […] Lì, anche io mi sono chiesto il perché di questa governance del covid. Non sanno i cinesi che l’omicron è diversa dalla cosiddetta variante Wuhan? Lì c’è innanzitutto un discorso di sanità. Cioè il welfare, proprio perché stanno solo adesso iniziando a provare un processo di sviluppo di welfare universalistico, lì hanno paura che se scoppia un’epidemia di covid su un miliardo e quattrocento milioni di persone, con una popolazione anziana di circa 260 milioni, non sanno gestirlo con le strutture sanitarie disponibili e la legittimità del Partito – che, ricordiamolo, si basa sul mantenere e migliorare la condizione sociale complessiva – ne verrebbe intaccata. […]
Riassumendo, hanno trattato il covid, da subito, come una questione geopolitica e militare. Se vi ricordate, quando è scoppiato il covid a Wuhan, Trump se la rise, come a dire “ben vi sta”, e i cinesi hanno risposto inscenando una sorta di guerra di popolo: “Noi ce la faremo da soli, non saremo decimati dalla minaccia che si avvicina”. Ovviamente questo, nella volatilità delle situazioni tipica di una fase di allentamento delle strutture globali, si è rovesciato nell’opposto. Si noti però che da Deng in poi, i cinesi hanno spesso adottato una particolare strategia, per cui in certe zone e città localizzate si sperimenta, e se funzionano li si generalizza. Principalmente questo metodo lo si è applicato per le aperture economiche, ma è possibile che vadano ad allentare le misure anticovid in aree specifiche, e poi vedranno dove e quando riprodurle.
Quello che però qui importa, è ritrovare sempre la dialettica democratica tra classi lavoratrici e partito-Stato; “democratica”, lo ripeto, non nel senso fasullo del pluralismo nostrano, ma in quello sostanziale della presa in carico delle istanze provenienti dalle basi sociali (e che addirittura possono essere recuperate e utilizzate per la crescita del capitale locale).
Qui possiamo anche collegarci a un’altra questione importante, che non avevo trattato prima. Molte analisi, fatte anche meglio della mia, arrivano spesso a semplificare, dicendo che finora in Cina si sono viste soprattutto lotte sindacali, ma destinate a evolvere in lotte direttamente contro il potere statuale in quanto capitalistico e rappresentante di una borghesia rossa.
Io non credo che sarà questa la traiettoria. È però un problema non di poco conto, perché tutti vorremmo che le classi operaie delle varie nazioni lottassero contro la propria borghesia, si unissero, e allora viva l’internazionalismo. Ma non può andare così, perché la struttura dell’imperialismo di per sé non omogenizza le condizioni operaie, e quindi nemmeno, né ora né in futuro, i percorsi di lotta anticapitalistici. Ipotizzo che per la Cina siano possibili diversi scenari.
Uno è lo “sbaraccamento”, cioè una crisi economica tale per cui il patto sociale interno salta nel momento in cui si imponesse quella parte dei ceti medi che vuole continuare a commerciare con l’Occidente e minare la centralizzazione politica; e allora avremo un rilancio di altri cinquant’anni di imperialismo statunitense, noi ci salutiamo e ci diamo all’arte.
Se la Cina salta in questo modo non ce n’è più per nessuno, perché sì, la contraddizione nell’accumulazione non sarebbe risolta, ma avremo comunque dei dissesti ancora più dirompenti di quelli determinati dalle aperture successive all’implosione dell’Urss. Abbiamo però anche altri scenari, forse anche più plausibili, perché la Cina non si farà mettere sotto tanto facilmente.
Un’altra ipotesi potrebbe essere quella di ritrovare, nella crisi economica e geopolitica che arriverà, una ripresa delle lotte (e con esse, anche del malcontento dei ceti medi, ma pazienza); ma, attenzione, non saranno lotte puramente anticapitalistiche. L’istanza di classe si incrocerà con l’istanza nazionale. Cioè, probabilmente, insieme alla richiesta di miglioramento della propria condizione, risorgerà un’insistenza antioccidentale, o quantomeno antiamericana.
I segnali ci sono già tutti, anche in una parte di quei giovani che fino a qualche anno fa ammiravano in maniera sconsiderata tutto quanto arrivava dagli Stati Uniti. A partire dalla guerra dei dazi di Trump, e a seguire il tentativo di usare il covid in funzione anticinese e l’incrudimento delle relazioni diplomatiche, una parte della gioventù cinese è andata nella direzione di una sorta d nazionalismo antimperialista.
Ora, può essere che queste parole d’ordine si ripresentino anche nelle lotte sindacali. Ciò, ovviamente, comporterà per noi un’ulteriore contraddizione, perché il cappello sulle lotte sarà più sciovinista, ma in prima luogo volto al rafforzamento del potere di Pechino. È anche vero, però, che in prospettiva se questo permetterà a Pechino di reggere, il boomerang ritornerà in Occidente: la situazione economica interna agli Usa peggiorerà, risorgeranno delle contraddizioni di classe anche da noi, e quindi sul lungo periodo si può pensare a una ricongiunzione tra i vari spezzoni di lotte operaie, sapendo però che comunque si va incontro a un purgatorio sociale pesantissimo.
Leggiamola per un secondo con le lenti dell’analisi di classe, altrimenti, ancora una volta, la scelta sembra semplice. Se vediamo che gli operai cinesi diventano nazionalisti, dobbiamo sperare che resistano, lottino diventando transitoriamente nazionalisti e che tentino di fare il salto (sebbene i problemi attuali non possano essere risolti né dagli Usa né dalla Cina, ma riguardano la comunità umana mondiale)? Oppure è meglio facciano le loro lotte fregandosene del quadro geopolitico internazionale attaccando il potere centrale à laTienanmen, con una democratizzazione (ma “democratizzazione” per chi?) che comporterebbe anche una penetrazione occidentale? Una bella rogna.
Io penso che, ad oggi, non abbiamo nessun strumento né previsionale né politico per rispondere a queste contraddizioni, però nominarle diventa inaggirabile. Altrimenti ci prendiamo in giro. Quindi pensare che lottiamo per i diritti e per la democrazia, dovunque, allo stesso modo, senza guardare cosa ci sta dietro, è un suicidio. Ormai la sinistra si è sparata da sola, è morta per quello. E allora, se dobbiamo lasciare il testimone al futuro, dobbiamo almeno essere onesti. Io non ho più intenzione, sinceramente, di fare l’ala sinistra dei democratici.
Anche parlando a Torino sono venute fuori domande su temi simili, come tematizzare l’antimperialismo oggi. Ciò che preoccupava i compagni è che oggi non è praticabile; quindi, intorno a questo nucleo non riesci a riorganizzare un soggetto, a creare un nuovo tessuto valoriale e una prospettiva di lotta. Un problema al momento inaggirabile. Però vorrei dire una cosa: proviamo a non partire da noi.
Guardiamo dall’alto la situazione: sembra proprio che si vada verso una recessione, l’inflazione non è facilmente aggirabile, la guerra ucraina continuerà e infine c’è il piano inclinato tra Usa e Cina. Benissimo. Dunque, chiediamoci: tenuto conto della morte della sinistra e della fine del vecchio movimento operaio, se rinascono delle lotte, che forma potrebbero avere?
Io penso che non potranno ripresentarsi in forme ideologicamente appetibili, in primo luogo interclassiste. Come ricorderete, questo era uno dei tratti distintivi populismo della prima ondata. La differenza rispetto ad oggi è che se in quella fase a dare voce ai programmi erano soprattutto i ceti medi, io presumo che in una potenziale seconda fase, se mai si apriranno delle mobilitazioni, saranno più spostate verso il proletariato.
Ciò che infatti prosegue dagli anni del covid e al periodo della guerra è la progressiva divaricazione tra ceti medi e proletariato. Lo vediamo anche nelle elezioni italiane: è un governicchio, che galleggia a malapena, ma notiamo che tutta una fetta di piccola borghesia e lavoro autonomo gli si è aggrappata disperatamente, lasciando fuori i settori più poveri. Il reddito di cittadinanza va tolto: la Meloni lo ha detto fin dalla campagna elettorale. I condoni sono rivolti solo da un lato, e nel frattempo si parla direttamente contro i poveri, compresi quelli che lavorano (pensiamo al tema voucher e alle altre strade che prende la nuova precarizzazione).
Se si aprissero delle mobilitazioni, bisognerebbe essere pronti a cogliere questo divario, perlomeno incipiente. A ben guardare, infatti, l’asse del malcontento si sta lentamente spostando non solo verso una composizione ma anche verso temi più proletari, come il reddito di cittadinanza e la sanità universalistica. Fin qui, per la sinistra ufficiale è tutto bello. E però, ciò che mette in difficoltà la classe dirigente europea è il fatto che se comunque l’alleanza con gli Stati Uniti non si tocca, d’ora in poi anche per una lotta sindacale, il tema guerra diventa inaggirabile. Ma non perché lo porremo noi!
Per esempio, in Germania questi discorsi solitamente vengono sventolati dai populisti di destra, ma sempre più spesso c’è chi lo azzarda anche tra i nostri. Fino a non troppo tempo fa, parlare con i compagni tedeschi era assolutamente impossibile se prima non mettevi dieci mani avanti e recitavi le formule d’obbligo del “poveri ucraini”, “bastardo Putin”, “viva la gloriosa resistenza” e via così – se non altro per le condizioni peculiari della Germania, in cui l’antisemitismo resta una ferita apertissima. Eppure, ben prima del sabotaggio, ci sono state manifestazioni per attivare Nord Stream 2. Manifestazioni, è scontato, nelle quali si sono inserite anche la Afd e i nazi, ma attraversate soprattutto da gente comune (dopotutto, l’ex Ddr è tuttora dipendente dai gasdotti russi). E ancora lo scorso primo maggio è stata contestata la Baerbock…
Insomma, se si scampa al binomio passivizzazione-guerra di tutti contro tutti, questi processi prima di porsi a noi passeranno anche da altri lidi. Non sentiremo più uno pseudo sovranismo come quello di Meloni e Salvini, ma piuttosto un’istanza di indipendenza dagli Stati Uniti che assumerà tratti nazionalistici, non propriamente classisti. Ricordo però che, secondo molti compagni, anche il primo populismo aveva in seno dinamiche di classe, che abbiamo però sprecato. Ciò che resta da ammettere è che, essendo morta la sinistra e il movimento operaio, noi non dobbiamo guardare al punto di partenza, ma al punto di arrivo.
Perché non può più essere dato per scontato niente! L’internazionalismo e il posizionamento di classe possono essere semmai i risultati di un lungo processo contraddittorio, non lineare e sporco. A differenza delle speranze delle mobilitazioni civili, saremo sempre più costretti ad affrontare i nodi di fondo della situazione attuale, per esempio il clima. Guardate come è andato a finire il movimento di Greta: ora dice che il nucleare è pulito, che con il lockdown si respirava bene (nonostante fosse la riprova che se anche riduciamo i consumi gli aerei partivano lo stesso)… Solo per dire che tutti questi movimenti di ceto medio, giovanili o meno, non reggono minimamente al livello di profondità delle contraddizioni.
Certo, possiamo andare verso la guerra, perché all’immediato il discorso pare: “Tu cinese vuoi togliere a me”. È un esito possibile, non scontato, tra i molti: la comune rovina delle classi in lotta. Dopodiché io inviterei a non porsi il problema di quello che è immediatamente praticabile, perché altrimenti dobbiamo chiudere bottega. Ormai la linearità tra lotte democratiche e lotte anticapitaliste è completamente saltata e, sotto certi punti di vista, il movimento di classe nei suoi 150 anni di storia non ha mai affrontato una congiuntura così complessa; quantomeno, non c’è mai stata una situazione in cui una soluzione strettamente nazionale abbia meno corso.
Oggi, o risolvi i problemi globalmente, oppure sei parte del problema. Non so se è una magra consolazione: questo lo potrete vedere solo voi.
Se nella prima parte ci si è occupati del versante statunitense dello scontro “in processo”, tra piano inclinato della crisi globale e nuova dinamica dell’imperialismo, passiamo ora a scandagliare il lato cinese, tra retaggio della rivoluzione sulla composizione di classe e contraddizioni in seno al “capitalismo politico” socialista. Si apre uno scenario non scontato, attraversato dal rapporto lotte-sviluppo e dai limiti dell’ascesa cinese, che lascia aperti certi conti con il Capitale.
A queste longitudini la conoscenza del Dragone – o meglio, quello che interessa a noi, della situazione della classe operaia e dello sviluppo del capitalismo in Cina, per dircela come una volta – è spesso offuscata da una coltre di propaganda dozzinale, nel migliore dei casi oggetto di assenza di studio e di fonti, nel peggiore di distorsione ideologica, divisa tra ingenui e volenterosi crociati della narrazione liberal e campisti «fedeli alla linea anche quando la linea non c’è».
La ricchezza e la densità del libro di Raf emergono in particolar modo in questi capitoli, sicuramente i più “faticosi”: riflettono un accurato e difficile “lavorone” a monte dell’autore, che ha saputo sintetizzare e chiarificare nell’intervento che segue, legando la “questione cinese” al più complessivo piano globale. Pensiamo che meriti attento ragionamento e discussione.
In attesa della terza parte… Buona lettura.
Raffaele Sciortino
Come anticipavo prima, il secondo grande tassello nello scacchiere globale è l’inserimento della Cina nel mercato mondiale a partire dagli anni Settanta, ma con un’accelerazione negli anni Ottanta e Novanta. Cosa possiamo dire a riguardo? Azzardiamo un riassunto – la maggior parte del libro è dedicata alla Cina – tenendo insieme i piani indispensabili per ipotizzare delle tendenze minime.
La Cina in trent’anni ha fatto un salto pazzesco. Sorprende tanto più se consideriamo che è passata a un capitalismo peculiare venendo non dal feudalesimo, ma dal modo di produzione asiatico (già ampiamente in disgregazione) con un’intromissione esogena di tipo coloniale avviata dalle Guerre dell’oppio in poi. Si è rialzata come nazione passando attraverso una rivoluzione democratica contadina (quella di Mao, del 1949), caratterizzata da una dirigenza interpretabile tranquillamente come “giacobina” e “populista”: giacobina in quanto modellata sulla Rivoluzione francese e incentrata sul traino di una borghesia rivoluzionaria; populista non nel senso odierno, ma in quello del grande populismo socialista dell’Ottocento russo, cioè che individuava nella classe contadina il soggetto politico principale.
Ciò pone le basi della creazione di un’economia moderna, quindi industriale, prevalentemente isolata. Infatti, il sostegno sovietico iniziale è stato importante nei primi sette-otto anni, e già nel 1958 va esaurendosi (Stalin vedeva Mao come un possibile rivale). Ancor più curioso è il fatto che tale isolamento si accompagnava a una peculiarissima accumulazione originaria capitalistica sentita dalle masse stesse come socialista, che significava sostanzialmente autarchica ed egualitaria («abbiamo contro tutti»). Un percorso verso il capitalismo veramente molto particolare e difficile da decifrare.
Fatto sta che il punto è questo: già Marx e Lenin dicevano che il socialismo in un paese solo non è possibile (e il discorso non cambia anche per chi prende per buona la caratterizzazione della Cina come socialista), perché arriva a delle contraddizioni tali per cui o la rivoluzione si estende, oppure è finita; ma neanche il capitalismo è possibile in un paese solo. E infatti la Cina, gettate le basi della sua industrializzazione, arriva allo stesso nodo a cui storicamente sono arrivati tutti, cioè il rapporto con il mercato mondiale. Senza l’accesso al mercato mondiale, non hai accesso ai capitali e alla tecnologia. Lo sviluppo inchioda.
E così, già durante la rivoluzione culturale, Mao e soprattutto il suo ministro degli esteri Zhou Enlai varano il rapprochement americano per affrontare questo scoglio, in una funzione comunque antirussa e nel loro linguaggio ideologico. Urge quindi aprirsi al mercato mondiale, ma senza svendersi, senza ridursi a una periferia dipendente, tipo l’America Latina. A tal fine è indispensabile: a) tenere il controllo statale delle leve economiche fondamentali, quali l’industria pesante e il sistema bancario b) alimentare una mobilitazione alla base e dunque c) conservare il ruolo del Partito come legame fondamentale tra lo Stato e la società (o per meglio dire, le classi).
La posta in palio è spaventosamente alta. Infatti, se perdi la guida di questo difficilissimo processo di apertura al mercato mondiale – detto altrimenti, di relazioni con l’imperialismo – ne pagherai le conseguenze all’interno, perché certe classi e mezze-classi (in testa una borghesia in ascesa) rialzeranno la testa… e cosa arriveranno inevitabilmente a chiedere? Il “pluralismo politico”, la “democrazia”. E quindi via la centralizzazione, cioè il fattore che ha permesso a quella stessa borghesia di rinascere, di rialzare la testa, forse non di imporsi sui mercati mondiali, ma comunque di giocare il suo ruolo.
Da qui si inserisce la strategia di Deng Xiaoping. Dopo la morte di Mao, nel 1978 Deng avvia la cosiddetta politica di “Riforma e apertura”, che si rivelerà il fulcro di questa ascesa incredibile, nonostante un prezzo da pagare che la dirigenza cinese, oggi come ieri, ha ben chiaro. Il prezzo da pagare è l’asimmetria con cui tu ti inserisci nella divisione internazionale del lavoro. In estrema sintesi, gli Stati Uniti avrebbero permesso alla Cina di aprirsi, ma prima sfruttandola in funzione antisovietica e poi come appiglio per rilanciare la globalizzazione e sconfiggere le lotte operaie interne; se questo non bastasse, l’industria cinese, per tutto il primo trentennio e giù fino a dieci anni fa (in gran parte ancora adesso), viene confinata all’export.
Per lungo tempo l’economia cinese verrà indirizzata verso l’esportazione di prodotti a basso livello tecnologico, assemblati a partire da componenti provenienti dai paesi di nuova industrializzazione dell’Asia orientale e dal Giappone, con macchine di fattura (leggasi: acquisto di capitali fisso) giapponesi, tedeschi e statunitensi. Nella strutturazione internazionale della catena del valore, ci si ritrova in una posizione certamente subalterna. Il beneficio consiste nel guadagnare uno sbocco nei mercati occidentali, nell’esatto momento in cui gli Stati Uniti diventano un’economia al 70% basata sui consumi.
L’asso nella manica, come tutti sappiamo, è l’immane riserva di forza lavoro a basso costo. Il che però alludeva da subito a squilibri di classe da tenere sotto controllo: lotte operaie, borghesia privatistica emergente, nuovi ceti medi, ma in particolar modo il determinarsi di forti dicotomie tra città e campagna da un lato, e tra costa ed entroterra dall’altro. A tutt’oggi ha una forza lavoro agricola di circa 200 milioni, con una produttività che viene calcolata (non so bene come, ma prendiamolo per buono) un cinquantesimo rispetto alla compagine statunitense. Si aggiunga poi un’estrema polverizzazione della proprietà fondiaria: immaginate cosa voglia dire gestire una situazione in cui i residenti in campagna – oltre alla forza lavoro – si aggirano sui 500 milioni di persone, e in cui è ancora prevalente la piccola impresa, a tutt’oggi famigliare, che coltiva mediamente mezzo ettaro. Non so se rendo l’idea!
Stando così le cose, diviene di primaria importanza evitare una proletarizzazione selvaggia. E così, gradualmente si assiste a un passaggio di una parte dei contadini nelle fabbriche, che iniziano a essere assorbite dalle multinazionali sbarcate soprattutto negli anni Novanta, quando cioè queste vedono che il processo di decollettivizzazione di Deng si sta stabilizzando e ha tenuta politica. Quanto più avanzano le multinazionali (che ovviamente si appropriano della maggior parte del plusvalore degli operai cinesi) quanto più si trasferiscono, a ondate periodiche, i contadini. Lì li chiamano “mezzi contadini-mezzi operai salariati”, qui li chiamiamo migranti rurali. Però il termine migrante secondo me non rende bene e rischia di portarci verso altre analogie…
Kamo: «A Modena, negli anni Sessanta e Settanta, c’erano i “metalmezzadri”…»
Sì, “metalmezzadri”! [ride] Non suonasse male, li dovremmo chiamare “metal-piccoli produttori”, perché hanno non la proprietà ufficiale (la proprietà della terra è chiaramente nazionalizzata), ma hanno oramai l’accesso perenne al piccolo appezzamento e alla casa garantito come “diritto alla terra” (e questo è cruciale per saldare il legame tra Partito e zone rurali). Quindi sfruttamento pesantissimo della forza lavoro che arriva dalle campagne – non c’è motivo di raccontarcela, queste cose le abbiamo lette e le abbiamo viste – ma al tempo stesso non completa proletarizzazione.
Perché? Perché conviene al partito-Stato avere una valvola di sfogo e soprattutto evitare che si creino gli slum nelle grandi città, conservando così un contatto tra migranti in città e la terra. A tal riguardo, gli strumenti di coesione sociale escogitati dal Partito sono due. In primo luogo, appunto, il diritto d’uso della terra, che via via viene reso mercificabile (cioè può essere contrattato, venduto, dato in gestione) con aiuti statali così da poter superare la polverizzazione della microimpresa agricola; e dall’altro l’utilizzo del welfare. Un welfare minimo (che consiste sostanzialmente nei sussidi sul piano delle pensioni e nella sanità) al quale, soprattutto dagli anni dagli anni Duemila, in campagna puoi accedere se hai il l’hukou (il “certificato di residenza obbligatorio”). Questo documento, inoltre, risulta estremamente vantaggioso in momenti di crisi, poiché offre la possibilità di tornare in campagna e ampliare le tue risorse disponibili, come è avvenuto durante la crisi asiatica del 1998 o nel 2008-2009.
Ovviamente questo discorso vale sempre meno per le nuove generazione di migranti operai-contadini, i quali vogliono realizzare le proprie aspettative in città, e conseguentemente richiedono un welfare apposito per la città. In queste fasce della popolazione, come è facile immaginare, è sempre più minoritaria la prospettiva di lavorare un po’ nell’industria e poi tornare “alla casa”, alla terra, contribuendo ad ampliare il divario geografico e demografico tra rurale e urbano.
Infatti, sebbene questa strategia welfaristica funzioni, la situazione rimane molto complessa. Il rapporto di reddito tra campagna e città è mediamente di uno a tre (nelle grandi città come Pechino e Shangai è molto più alto). Le coste sono nettamente sviluppate (a tratti ricordano le villes occidentali), mentre se ti spingi all’interno trovi ancora chi usa il bufalo per arare la terra. Piccolo aneddoto: io ricordo ancora che quando negli anni Novanta uscì «Limes», la rivista di geopolitica, uno dei primi numeri titolava Quante Cine esistono?, indicando la necessità di scomporre la Cina per poter fare un’analisi sociale plausibile. Eravamo ancora all’inizio di questo processo: figuriamoci oggi.
Ricapitolando: in cambio di un’asimmetria nella produzione internazionale, si conquista l’accesso alla tecnologia e ai mercati occidentali; il tutto – e per ragioni di tempo non posso illustrarlo quanto meriterebbe – sulla spinta di notevoli lotte sociali, sia nelle campagne, sia, soprattutto negli ultimi decenni, nelle città e nelle fabbriche, mosse anche da questo nuovo soggetto, mezzo operaio-mezzo contadino. Una potente spinta dal basso che, attenzione, non è stata semplicemente repressa, ma è stata anche utilizzata, incanalata verso la modernizzazione. Qui abbiamo un esempio da manuale del rapporto tra lotte e sviluppo.
Abbiamo sentito tutti delle lotte alla Foxconn da metà anni Dieci, alla Hyundai e più generalmente nelle multinazionali estere, in primo luogo giapponesi e taiwanesi. La dinamica a cui si assisteva solitamente non era il solito conflitto tra classe operaia nuova, classe operaia vecchia e la multinazionale; ma piuttosto una loro triangolazione. Nel senso che le strutture in fabbrica del Partito e il sindacato ufficiale spesso non si opponevano o persino le appoggiavano, per consentire l’innalzamento dei salari e così iniziare un’accumulazione in loco di surplus maggiore rispetto ai precedenti profitti della Apple, della Foxconn e così via. Inoltre, l’aumento dei salari e le lotte nelle multinazionali impulsavano le imprese cinesi ad acquisire fette di mercato in proprio, rilanciando in avanti l’industrializzazione: fino a metà anni 2010 la maggior parte dell’export era di imprese, al limite, metà cinesi e metà occidentali, mentre adesso una buona metà dell’export è di imprese prevalentemente a proprietà cinese. Tutto ciò contribuiva e contribuisce a ottenere le risorse che alimentano il ciclo di recupero di tecnologie occidentali e riapplicazione creativa.
Quindi un immane tentativo di modernizzazione, tesa a un duplice traguardo: la conquista di fette di plusvalore sottratte all’imperialismo occidentale sempre maggiori e, sul piano sociale, un progressivo miglioramento delle condizioni di vita e lavorative della popolazione. Un compromesso un po’ più socialdemocratico, dopo anni e decenni di sfruttamento spietato (si è parlato – male ma comunque ci si capiva – di “neoliberismo in salsa cinese”). Sullo sfondo, spingere per un’urbanizzazione che traghetti verso una società di ceto medio, dove il ceto medio è correttamente inteso come elemento di pacificazione politica. Un’equazione con molte variabili, estremamente complessa.
Ora, il punto di svolta è il 2008. Con la crisi finanziaria globale, Pechino si accorge di essere troppo dipendente dall’export. Ricostruiamo questo processo per gradi. Inizialmente è la Cina a venire in aiuto all’Occidente (nel pieno dell’amministrazione Obama) con un piano keynesiano di oltre 500 miliardi di dollari destinato a rilanciare la produzione interna e a non fare sgonfiare il mercato mondiale al quale, a quel punto, è strettamente connessa. È in questa congiuntura che si formula una nuova strategia. Che cos’è successo?
Una parte dei surplus commerciali accumulati dalla Cina nei decenni, per tacito accordo, doveva essere investita nei titoli del Tesoro americano, rientrando in quella struttura che ho descritto prima. I titoli del Tesoro vengono utilizzati come riserva in dollari, per vari motivi: in primis perché il dollaro è la moneta mondiale; e soprattutto perché, se non si acquista dollari, lo yuen rischia di salire a causa del surplus commerciale e quindi rendere meno competitive le imprese sul mercato mondiale. Da un punto di vista finanziario, è un vero un cappio al collo. Non a caso questa situazione è stata definita una Chain-Gang: sei legato da questa catena all’altro galeotto (in questo caso, gli Stati Uniti) e, se questo cade, ti trascina con sé.
La crisi del 2008 conferma quanto suggerì la crisi asiatica del 1997: così non si può continuare, se non mettendo a rischio i processi di modernizzazione autonoma, quindi il compromesso sociale interno, il quale, lo ripeto, è quel fattore di stabilità che consente al Partito di guidare un paese enorme, complessissimo, e da un certo punto di vista ingovernabile. Di qui la svolta con l’amministrazione Xi Jinping.
L’elezione di Xi Jinping nel 2012 (entra in carica nel 2013) segna la presa d’atto che si deve cambiare strategia di sviluppo, e che ciò avrebbe comportato grossi cambiamenti nel rapporto, anche geopolitico, con gli Stati Uniti (in quel momento erano, con Obama, in grossi guai) e con l’Europa (stretta nella crisi dei debiti sovrani). Ridotto ai minimi termini, cosa vuol dire cambiare strategia di sviluppo? Ritagliarsi una nuova collocazione nella divisione internazionale del lavoro. Nella fattispecie ciò equivaleva a non avere più soltanto fabbriche che assemblano componenti comprate da fuori, ma iniziare a produrre da sé con quella che chiamano “innovazione indigena”; una volta prodotte queste componenti, le si assembla in altri paesi, che a questo punto diventano il Laos, la Cambogia, il Vietnam e così via. Quindi prendersi una fetta maggiore di plusvalore sulle catene di fornitura mondiali, risalendone la catena.
Tuttavia, diventa prioritario l’ottenimento di tecnologie a livelli ancora più alti rispetto a quelli raggiunti fino ad allora. Per arrivarci, l’“innovazione indigena” va affiancata a un ampliamento del mercato interno. Non è più accettabile che i consumi siano al 30-40%, perché questo ostacolerebbe i processi di industrializzazione rivolti verso i segmenti industriali a valore aggiunto più alto. Da qui l’imperativo categorico: uscire definitivamente dal sottosviluppo. Fate conto che la Cina sconfigge la povertà assoluta soltanto nel 2012-2013, una delle grandi bandiere di Xi Jinping. È grazie a questo che, secondo le stime della Banca Mondiale, le disuguaglianze di reddito a livello globale sono diminuite; se invece noi togliamo la Cina dal calcolo, vediamo che la forbice si divarica, il che indica bene quale sia il peso della Cina negli equilibri tra Nord e Sud del mondo.
Di pari passo, va parzialmente riformulato il compromesso sociale, approfondendone l’impostazione socialdemocratica. Il ruolo del partito-Stato deve diventare sempre meno quello di una gestione diretta delle aziende, e sempre più quello tipico di un capitalismo moderno, cioè di pianificazione macroeconomica. Si tengono, come prima, le leve centrali dell’economica (le banche statali e le grandi imprese), ma conservarne la proprietà statale serve a dettare un indirizzo di politica industriale. È una pianificazione, certo, ma che è tutta dentro e per il mercato. Guardate, tra molte virgolette sembra un po’ l’Italia del boom [degli anni Sessanta, ndK]. Anche per quanto riguarda la proprietà immobiliare, i cinesi sono arrivati ad avere per l’80% la prima casa…
Quindi la strategia di Xi Jinping, il piano “Made in China 2025” del 2015, il quattordicesimo piano quinquennale e via discorrendo si incentrano tutti sulla doppia circolazione, sull’innovazione indigena e la regolazione del mercato interno. Per fare un esempio, avrete tutti sentito delle mazzate date dal partito-Stato a Jack Ma, ad Alibaba e in generale alle piattaforme digitali. Perché questa insistenza? I motivi sono due. In primo luogo, sono canali economici che deviano l’innovazione verso applicazioni, mentre qui si tratta di risalire la catena a monte fin dal manifatturiero, per dipendere sempre meno dai microchip progettati con i design statunitensi e confezionati da fabbriche taiwanesi e sudcoreane (leggi alla voce: guerra dei microchip e semiconduttori). In secondo luogo, perché le piattaforme digitali, profilando l’utente, prima o poi si buttano sul microcredito, e così facendo la creazione di moneta rischia di sfuggire alle banche centrali, esponendosi alla speculazione dei capitali della finanza occidentale. Sa chiaro, non è che non entrino dei capitali speculativi a breve termine, il cosiddetto hot money, ma il problema è regolamentarlo: già nel 2015-2016 è scoppiata una bolla immobiliare in borsa e la Banca centrale dovette intervenire con un esborso notevolissimo, vendendo parte di riserve in dollari per evitare dissesti maggiori.
Contemporaneamente – e qui i giochi diventano strettamente geopolitici – bisogna proiettarsi all’esterno. Nasce allora il grande progetto delle Nuove Vie della Seta. Un’infrastrutturazione innanzitutto di capitale fisso e vie di comunicazione, poi anche digitale, che permetta un maggiore interscambio sia commerciale sia di investimenti di capitali all’estero, iniziando quindi un’internazionalizzazione dello yuen.
Non ci sono assolutamente le condizioni per parlare di una de-dollarizzazione; e tuttavia le Vie della Seta, strumenti baricentrali per la proiezione esterna del capitale cinese, possono diventare appunto vettori di una diversificazione delle valute mondiali. Ci siamo ancora lontani, però è chiaro che, se noi ci mettiamo dal punto di vista di Washington, bisogna bloccare preventivamente questa traiettoria. Semplificando parecchio, nel proiettarsi all’esterno la Cina potrebbe diventare una sponda per quei paesi che non vogliono rimanere completamente subordinati all’ordine del dollaro: la Russia, l’Iran, via via la Turchia, i Brics e – se posso azzardare un’anticipazione – secondo me tra un po’ scoppia un grosso casino tra Stati Uniti e Arabia Saudita, dal momento che questa sta pensando di vendere petrolio in yuen.
Guardiamo poi il problema dei microchip. Non so bene quale paragone si possa fare con le fasi industriali precedenti, sta di fatto che i microchip sono ormai il cuore di ogni processo produttivo e di ogni bene di consumo. La Cina ne importa il 70% mondiale, proprio perché rimane in parte l’officina del mondo, sebbene Xi voglia passare dal Made in China al Made by China. Ad oggi, i microchip di alto livello, sotto i dieci nanometri, sono ancora tutti prodotti o a Taiwan o in Corea del Sud, su progettazione statunitense e con macchine, sofisticatissime, di produzioni ultracentralizzate negli Stati Uniti e in Olanda (qualche cosa anche in Germania). La Cina è indietro almeno di dieci-quindici anni, e tuttavia gli Stati Uniti sono attanagliati dal timore che avanzi, che recuperi. La guerra commerciale di Trump non è nulla in confronto a questo. Il problema non sono i dazi, ma la possibilità di arrestare (e quindi invertire) l’avanzamento tecnologico e industriale di un attore economico come la nazione cinese.
È una cosa veramente seria, al momento direi persino di più delle schermaglie su Taiwan, perché la Cina non è in grado di rispondere tecnologicamente. Mano a mano che le tensioni proseguono, si fanno sempre più esplicite da parte degli americani. Per esempio, adesso gli statunitensi pretendono che la Tsnc (la più grande fabbrica taiwanese) e la Samsung (sudcoreana) investano in Arizona e in Texas, in un’operazione di reshoring che ha la sua potenza retorica anche per quanto riguarda la tutela di quella fragilissima pace sociale interna agli Stati Uniti. Come vedete, si può prendere una qualunque manovra economica e rintracciarne la natura conflittuale, contemporaneamente infra-sociale e geopolitica. Considerando che posta è in gioco, è facile capire che si aprono spiragli di conflitto tremendi.
Vado verso la conclusione. Come avrete ormai capito, davanti a questo scenario, l’obiettivo cinese è chiaro: non farsi sganciare – con una certa ironia terzomondista… – dai circuiti mondiali, perché comprometterebbe la propria possibilità di avanzamento tecnologico. A conti fatti, però, la nuova strategia di sviluppo ha delle fragilità tremende. Iniziano infatti dei processi tesi verso l’indebitamento. Perché?
Perché nel rallentamento dell’accumulazione mondiale, per evitare una crisi economica e quindi compromettere il patto sociale interno, si lanciano investimenti in settori a bassa produttività. Per esempio, sono state fatte ingenti spese nell’edilizia (in cui poi, non a caso, si è generata la bolla edile) e nelle infrastrutture fisse (treni ad alta velocità, autostrade, eccetera), ma ancora resta da capire che uso produttivo possano incentivare. Da lì il rischio di un indebitamento senza produzione di plusvalore con cui ripagare il credito. Si potrebbero determinare quindi delle bolle, forse non ai livelli della finanza occidentale, ma comunque preoccupanti; tant’è vero che Xi Jinping ha più volte intimato a uno «sviluppo economico sano» contrapposto all’«espansione disordinata del capitale» (ma pensiamo anche agli slogan come «la casa è fatta per abitare, non per speculare»). Delle fragilità notevoli, ma tale passaggio o la Cina lo compie o rincula, torna indietro definitivamente e salta il compromesso sociale. Per la Cina è una questione esistenziale.
E da qui il piano inclinato. Perché chiaramente per gli Stati Uniti diventa fondamentale troncare questo salto. Si spiega così non solo la guerra dei microchip, ma anche il crescente caos geopolitico che incontriamo ripercorrendo le Vie della Seta. L’Ucraina e la Russia erano una delle direttrici principali della Via della Seta che unisce Cina e Germania, e dunque l’Europa; anche in Iran una situazione a dir poco drammatica sia per contraddizioni interne reali, sia per fattori indotti dall’esterno; prima ancora la catastrofe in Siria, ovvero lo snodo mediano nella direttrice Iran-Siria-Mediterraneo; ora sorgono screzi con l’India…
Aspettiamoci quindi la continuazione e l’esasperazione della politica del disordine indotta dagli Stati Uniti lungo l’Asia Orientale, dove stanno cercando di rafforzare le loro alleanze in funzione esplicitamente anticinese: quindi il tentativo di coinvolgere l’India; il riarmo giapponese, financo nucleare; i sommergibili nucleari all’Australia e l’alleanza Aukus; e infine la trappola Taiwan, che dovrebbe consistere per gli Stati Uniti nell’analogo dell’Ucraina per la Russia. Quindi capite che portare avanti una nuova strategia di sviluppo in questo vespaio diventa sempre più difficile – per non parlare del problema Covid e della sua governance.
Chiudo. Torniamo un attimo dall’altra parte, sull’altro versante. Anche sul coté statunitense l’ordine che finora li ha favoriti regge sempre meno. La globalizzazione non paga quanto prima e per giunta polarizza tutti i rapporti. All’interno abbiamo già visto il trumpismo e il populismo, e non è che sono scomparsi: a parte il fatto che Trump era il sintomo e non la malattia, i processi di polarizzazione interni alla società statunitense sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso vale per gli sviluppi successivi alla (debolissima) vittoria di Biden alle ultime elezioni.
Ci sono state le mobilitazioni delle donne per l’aborto, così come si sono verificate anche delle lotte operaie, però attenzione: la proposta di Biden è un America first-light, un trumpismo in veste democratica. Si prospetta il reshoring, cioè il ritorno di alcune lavorazioni industriali per la classe operaia bianca; si insiste con l’attacco alla Russia; si moltiplicano le continue provocazioni anticinesi e via di questo passo. Da ultimo, oltre l’immane pacchetto di sussidi erogati in questi anni, c’è l’Inflation Reduction Act, un decreto da 700 miliardi di cui quasi 300 saranno spesi in sussidi a imprese affinché tornino a investire negli Stati Uniti. Una mossa che sta già creando gravissimi problemi nei rapporti con l’Europa. Insieme alla rottura della politica energetica europea, sancita dal sabotaggio statunitense a Nord Stream 1 e 2. Per l’industria tedesca (ovvero il cuore dell’industria europea) il costo dell’energia è divenuto tale per cui la stessa Volkswagen ha detto “altro che passaggio all’auto elettrica, con questi costi non possiamo permetterci nemmeno di produrre le batterie”. Non si tratta di una conseguenza imprevista: gli Stati Uniti stanno puntando ad attirare capitali e investimenti di grandi imprese anche europee, e dunque a deindustrializzare parzialmente la stessa Europa. Stanno cambiando tutti i rapporti e si prepara per i prossimi decenni qualcosa di grosso.
Certo, gli Stati Uniti manterranno i propri alleati; certo, Biden non tratta gli europei come li trattava Trump; però l’onere per questi ultimi è sempre più pesante. Persino i costi di protezione sono diventati insostenibili: basta guardare a come stiamo pagando il coinvolgimento in Ucraina. E così, necessariamente, crescono e cresceranno delle insofferenze antiamericane, oggi anche tra gli alleati. Al tempo stesso si iniziano a vedere alcuni segnali di sofferenza del dollaro. Per fare un esempio, i cinesi non stanno aumentando l’acquisto di treasury bond americani. Non li vendono, ma non li comprano nemmeno.
Ecco spiegato perché gli Stati Uniti si stanno aggressivizzando radicalmente contro la Cina: per ciò che è, ovvero la possibile sponda economica prima e politica poi dell’“asse dell’insofferenza” antiamericana sparso sul mondo; e quello che potrebbe diventare qualora le riuscisse la risalita della catena del valore, l’internazionalizzazione dello yuen e l’ampliamento del mercato interno servito da proprie aziende – e non come nel Brasile del primo Lula, dove sì aumenti i consumi interni e fai salire un ceto medio di giovani e studenti, ma acquistando dall’esterno, cosicché quando arriva la crisi questi ti si rivolgono contro e allora “viva Bolsonaro”.
In estrema sintesi, per gli Stati Uniti il decoupling, cioè sganciare la Cina dai segmenti alti del mercato mondiale, significa imporre agli alleati una rottura. Il viaggio di Scholtz in Cina delle scorse settimane, preoccupatissimo, rientra in quest’ottica. I tedeschi sono preoccupatissimi, perché dopo la cesura con la Russia per le politiche energetiche, rompere anche i legami commerciali con la Cina sarebbe una catastrofe senza pari.
Ora – e qui chiudo veramente – ci dobbiamo porre una domanda fondamentale. Il decoupling combinato con una parziale rilocalizzazione delle produzioni è già una grand strategy? Ovvero, è un analogo di quella politica di contenimento scagliata nella Guerra fredda contro l’Urss?
Ecco, io qui avanzo alcuni dubbi, che mi portano a dire che andiamo ancora più verso il caos. Non si può escludere che gli Stati Uniti ce la facciano, cioè che riescano a innestare alla Cina delle contraddizioni, interne ed esterne, tali da farla implodere (un regime change sistemico); e però, a tutti è evidente che la Cina di oggi non è l’Unione Sovietica di ieri. Anche solo provare a farla saltare sarà molto più difficile (leggasi: molto più doloroso per lo stesso Occidente).
Insomma, il caos che monta ci sta conducendo a contraddizioni economiche che diventeranno, e già diventano oggi, sociali e che, prospettate in tendenza nei prossimi due decenni, ci fanno dire: i nostri conti con il Capitale non sono chiusi.
Il punto per gli Stati Uniti è fin dove portare il decoupling in maniera tale che non rompa la globalizzazione, che è la gallina dalle uova d’oro che finora ha permesso il comando globale del dollaro sul plusvalore prodotto globalmente. Rompere la globalizzazione è fuori discussione: condurrebbe molto probabilmente a un conflitto armato oggi inimmaginabile nella sua portata. Ma fino a che punto puoi tirare la corda con gli alleati? Guardate alle insofferenze che ribollono nella popolazione lavoratrice e nella borghesia produttiva tedesca, dove un forte antiamericanismo, prima tabù, inizia a circolare.
Persino uno come Lafontaine, che è stato un dirigente importante dell’Spd, nei giorni scorsi ha lasciato un’intervista durissima in cui ha detto chiaro e tondo che i sabotatori di Nord Stream 1 e 2 sono gli americani, che la classe dirigente tedesca è «vile e codarda», che la Baerbock (cioè i Verdi) sono il peggio che possa esserci… Badate che questi discorsi sono molto più spesso a destra, nel populismo. Quindi attenzione, perché le contraddizioni da una qualche parte devono uscir fuori, e se non escono a sinistra è una bella rogna.
Per ora siamo davanti, in un certo senso, a uno stallo economico-politico-diplomatico già intaccato e alla crisi ordinativa degli Stati Uniti. Come erano usciti dalla crisi degli anni Settanta? Combinando il riordinamento geopolitico globale con una profonda ristrutturazione produttiva e di classe (borghese) all’interno. Ora, a me sembra che al momento sì, attacchino la Cina e la Russia in quanto Stati rivali, ma soprattutto per congelare, per rinviare una ristrutturazione produttiva che sconvolgerebbe la società statunitense. Il ceto medio, che continua a vivere a debito, verrebbe falcidiato: per ora la questione dei ceti medi è emersa nella forma del trumpismo, ma quello era solo un primo segnale. La stessa cosa qui. Le classi dirigenti stanno finora facendo ricadere l’inflazione sui proletari, ma il ceto medio sente benissimo l’acqua che sale. I bottegai possono pure sperare in un qualche condono dalla Meloni, ma tutti capiscono che durerà poco.
Sullo sfondo della guerra in Ucraina e della recessione economica globale, l’urto possente che segnerà il prossimo futuro e sta già rimodellando il nostro presente: lo scontro tra Stati Uniti e Cina.
È su questo cambiamento di fase che, sabato 3 dicembre, abbiamo voluto ragionare con Raffaele Sciortino a Modena, per costruire un punto di vista e un’analisi approfondita che non si trovano nelle aule universitarie, sui podcast di Dario Fabbri o tra le infografiche di Instagram. Allargando il campo sull’epoca dei torbidi e di caos crescente che avevamo già cominciato a decifrare nel Mondo di domani, nella precedente iniziativa con Raf e Silvano Cacciari, di cui avevamo già riportato gli interventi su questo blog.
È questo scontro, oggi, il nodo cruciale del sistema-mondo capitalistico, imperniato su una globalizzazione giunta a un punto di non ritorno, tra equazioni impossibili e necessità di rilancio. Un conflitto che non si limita alle sfere alte della politica e dell’economia, ma inciderà sempre di più nella vita quotidiana di milioni di persone, e non in modo secondario a queste latitudini.
Che forma prenderà il caos internazionale da un punto di vista di classe? Da quali contraddizioni strutturali si darà il senso di marcia dello scontro? Quali scenari si apriranno per il ritorno del conflitto sociale?
«Gli dèi della fortuna favoriscono solo chi si prepara…», si chiude così il libro che abbiamo voluto presentare. Pertanto, partendo da queste domande, ma soprattutto da questa indicazione di metodo, pubblichiamo in tre puntate il ricco intervento e il proficuo dibattito della presentazione di Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza, ultima, preziosa e non semplice fatica di Raffaele Sciortino. In questo prima tranche, un’introduzione alla crisi della globalizzazione capitalistica a trazione americana, sviluppata sul dollaro e sul ruolo di ordine/disordine di Washington nel sistema-mondo, che traccia fin da ora qualche appunto per una nuova, e necessaria, teoria dell’imperialismo ancora da scrivere.
Per chi non si accontenta di quello che vede e sente intorno a sé. La posta in palio, le lotte di classe a venire, forse meno lontane di quanto si creda…
Raffaele Sciortino
Grazie ai compagni per l’accoglienza qui a Modena, è sempre un piacere tornare. Non preoccupatevi, è sabato e cercherò di non ammazzarvi con la mia relazione. Vorrei fare giusto un’introduzione che disegni il quadro generale e lascerei piuttosto alla discussione i punti più controversi o comunque di maggiore interesse.
Se dovessi dirla tutta, il nocciolo segreto di questo libro è un invito a ritematizzare il concetto di imperialismo, inteso come struttura. Ovviamente non lo fa ritornando indietro a uno sguardo ideologico da anni Sessanta; e tuttavia resto convinto che su questo cardine si avvierà una discussione negli anni a venire, poiché ormai lo stato di cose lo impone, la situazione lo esige. Giustamente i compagni dicevano che ho tentato di affrontare questo problema assumendo un punto di vista di parte, che nel libro traspare al livello dell’inquadramento analitico.
Se dovessimo fotografare lucidamente, fino in fondo, al momento, le attuali dinamiche di classe e di movimento, dovremmo essere pessimisti. Questo non ci esime però dal delineare alcune tendenze che in futuro si incroceranno, che contrasteranno tra di loro, e che potrebbero – a date condizioni – aprire delle prospettive a oggi effettivamente molto remote. Per dare sostanza e concretezza all’elaborazione teorica e analitica, partirei dall’avere ben presente questo obiettivo.
Fotografiamo quindi la situazione da un punto di vista geopolitico iniziando da una premessa metodologica fondamentale. Mi riallaccio a quanto correttamente anticipavano i compagni: contrariamente a quanto si legge per la maggiore, quando parlo di geopolitica cerco di non limitarmi e di non ridurlo al conflitto di potenza tra grandi Stati, alla “tragedia delle grandi potenze”. Per quel che ci riguarda, “geopolitica” è un altro termine per dire “imperialismo”, ovvero economia concentrata la quale, quando le contraddizioni non sono più gestibili altrimenti, diventa sì scontro di potenza, ma al cui centro rimangono delle dinamiche profonde di accumulazione capitalistica, e dunque di rapporti di classe.
Ora, sotto questo aspetto noi notiamo un cambiamento cruciale, o perlomeno un inizio di un cambiamento di fase. Esattamente cinquant’anni fa, Nixon e Mao si incontravano per siglare un punto di svolta nel quadro della Guerra fredda. Eravamo ancora in piena Guerra del Vietnam, sebbene gli Stati Uniti cercassero di uscirne in tutti i modi (si noti, durante una presidenza repubblicana…). Si crea così il cosiddetto rapprochement, il riavvicinamento – diplomatico, prima, ed economico, poi – che apre il mercato mondiale alla Cina, presente e ancor vivo Mao.
Com’è noto, per definire la struttura geopolitica di allora, gli studiosi e i manuali di storia parlano di “bipolarismo” tra Usa e Urss. A ben vedere, però, proprio a partire dai processi antimperialisti e anticoloniali – detti oggi in una maniera politicamente neutra, se non ipocrita, “decolonizzazione” – in realtà la Cina si era già ritagliata un suo ruolo di spicco, che non la vedeva tanto come una potenza in senso militare e in senso classico, quanto come il vettore fondamentale, il motore pulsante di queste dinamiche anticoloniali. In ciò forte, ovviamente, del potenziale generato dalla sua popolazione, dalla sua antica civiltà, e dalla sua storia.
A uno sguardo più attento, quindi, si può osservare come già allora il bipolarismo si stesse in un qualche modo incrinando, andando a costituire quel riavvicinamento geopolitico-diplomatico che gli analisti oggi chiamano il “triangolo strategico”. Con questo termine si schematizza una situazione internazionale gravitante sulla superpotenza statunitense, sull’Unione Sovietica (allora considerata superpotenza, sebbene poi si vide che così non era), ma anche da un altro grande polo: la Cina, che da un punto di vista militare è una media potenza, e ciononostante inizia ad acquisire una rilevanza politica (in parte acquisita, in parte “concessa” dagli Stati Uniti) tale per cui può cambiare gli equilibri mondiali. Ecco il triangolo strategico.
E allora, cosa è veramente successo nel 1972? Ritorniamo al triangolo: il cateto che lega Washington a Pechino si accorcia, mentre va ad allungarsi sicuramente quello tra Pechino e Mosca (per ragioni che adesso non possiamo investigare qui; ma basti dire che c’era stata una rottura iniziale già dieci anni prima) e passo passo, da Reagan in poi, con la “nuova Guerra fredda” degli anni Ottanta, tra Washington e Mosca.
Certo, questa situazione non è l’unica causa dei rapporti internazionali a venire, che hanno sviluppi complessi; e tuttavia ha contribuito a disegnarne la linea principale. Si aggiunga che pochi allora la colsero, specialmente nel campo marxista, abbacinato o meno che fosse dal maoismo e dalla Rivoluzione culturale (che formalmente era ancora in piedi, per quanto in declino). Cinquant’anni dopo noi possiamo dare come tendenziale questo triangolo strategico; e tuttavia intravediamo già dei cambiamenti importanti che potrebbero persino andare a costituire una struttura nuova.
In primo luogo, non c’è più l’Unione Sovietica: c’è la Russia, che ora è senza dubbio il polo minore dei tre. Il grosso però di quello che sta emergendo è il riavvicinamento tra Mosca e Pechino, contemporaneamente all’allontanamento degli Stati Uniti dagli altri due. Queste trasformazioni lavoravano già nel sottosuolo, ma adesso, specialmente dall’Ucraina in poi, sono palesi.
Un secondo punto di cruciale importanza è che la globalizzazione non è finita, ma sicuramente si sta incrinando, dirigendosi al momento verso un rallentamento degli indici fondamentali (vi risparmio un’analisi tecnica). Non a caso, l’«Economist» parla di slowbalization – una globalizzazione che rallenta e che comunque corre incontro a delle contraddizioni che potrebbero anche aprire a una deglobalizzazione, la quale, ovviamente, non sarebbe un processo puramente economico.
Insomma, molti elementi ci fanno ipotizzare l’apertura di una nuova fase, che potrà durare anche decenni e i cui caratteri contribuiranno a definire come se ne uscirà, così come è avvenuto con il “lungo Sessantotto”. La grossa, ovvia, differenza sta nel fatto che oggi l’innesco del cambio di fase non è dato dalle lotte, né anticoloniali né operaie. Questo certo è una complicazione su cui riflettere; e però le dinamiche sociali ci sono. Una sorta di lotta di classe invisibile, comunque, rimane.
Di qui il piano inclinato dello scontro internazionale che – attenzione – non viene sollevato dagli analisti di professione. Emerge piuttosto dalle percezioni degli stessi due grandi attori, Pechino e Washington, se uno avesse la briga di analizzare la mole di letteratura e dichiarazioni ufficiali. Quantomeno per i cinesi è chiarissimo che si è chiusa definitivamente la fase iniziata con il riavvicinamento e se n’è aperta un’altra qualitativamente differente, rispetto alla quale occorre cambiare strategia.
A questo punto vorrei essere il più sintetico possibile, anche se i temi, come dicevano giustamente i compagni, sono complessi anche per me, e figuriamoci sintetizzarli in una relazione. A ogni modo, il punto mi pare questo: noi arriviamo sempre un po’ in ritardo. Ci stiamo chiedendo soltanto adesso cos’è stata la globalizzazione. E non mi riferisco qui a quella rappresentazione (apologetica o critica poco importa) che grossomodo riportava tutto al “neoliberismo” e così via: ci chiediamo cosa sia stata nel profondo per capire cosa si sta rompendo e che cosa potrebbe uscirne.
Dunque, non essendoci il tempo per una genealogia minuziosa, mettiamo almeno sinteticamente a fuoco i due aspetti fondamentali degli ultimi trenta-quarant’anni, centrali sia nella globalizzazione ascendente sia a partire dalla crisi del 2008-2009: il ruolo ordinativo degli Stati Uniti e l’inserimento della Cina nel mercato mondiale.
Letta attraverso il primo punto, la globalizzazione si disegna come il risultato di un insieme di assemblaggi. La maggior parte non preparati a tavolino, altri frutto di strategie. Per gli Stati Uniti il problema era molteplice: come uscire senza troppi danni dal pantano vietnamita; come reagire al “lungo Sessantotto” (ai movimenti dei neri, alle lotte operaie, eccetera); e come rispondere a un “Terzo Mondo” che aveva alzato la testa sull’onda delle lotte antimperialiste e anticoloniali, il quale ancora trovava una sponda (lasciamo perdere di che tipo) nell’Unione Sovietica. Quindi estreme difficoltà. Tant’è che negli anni Settanta il dibattito politico, sia negli ambienti borghesi che nei nostri, ruotava sul declino degli Stati Uniti.
In realtà non c’è stato nessun declino. Perché gli Stati Uniti sono rimasti gli egemoni mondiali? Non perché “sono una potenza” e quindi impongono una guida; al contrario, guidano perché hanno intrepretato al meglio il capitalismo nella sua complessità e individuato al meglio ciò che urgeva disperatamente all’accumulazione capitalistica per fuoriuscire dalla crisi degli anni Settanta, affrontandola a tutti i livelli (di conflitto di classe, di conflitto intercapitalistico e geopolitico, eccetera).
Che tipo di struttura ne è scaturita? Il punto di svolta emblematico – che fa il paio con il 1972, l’incontro Mao-Nixon di cui parlavo prima – è ormai universalmente individuato nello sganciamento del dollaro dall’oro, nel 1971. Come è noto, ciò conduce alla fine del sistema monetario di Bretton Woods istituito all’uscita dalla Seconda guerra mondiale, a sostituire in larga misura l’egemonia del dollaro a quella della sterlina, fino a elevare il dollaro a moneta mondiale (tenuto pur sempre conto della divisione del mondo in due blocchi).
Questo sganciamento, con le sue origini per certi versi contingenti – la globalizzazione è anche un assemblaggio di contingenze che poi si fa struttura –, si coniuga con delle strategie tutto sommato intelligenti da parte dell’amministrazione americana, si consolida, dura nel tempo e appunto si rilancia in avanti, rivitalizzando l’egemonia statunitense. Sostanzialmente si era partiti dal fatto che, per vari motivi, gli Stati Uniti avevano ormai una bilancia di pagamenti in deficit cronico (soprattutto per quanto riguarda le spese militari), la quale poi è andata ad assommarsi con una bilancia in deficit commerciale cronico (ovvero il rapporto import-export).
Detto in estrema sintesi: gli Stati Uniti escono dalla Seconda guerra mondiale come i banchieri del mondo. Prestanocapitali, investono all’estero e impongono la propria moneta. In parte questo era già successo dopo la Prima guerra mondiale ma, per motivi che adesso non possiamo tematizzare, non si era creata una struttura stabile. Ebbene, a partire dagli anni Settanta questi tendono a diventare il Paese debitore numero uno, con il più grande deficit della bilancia commerciale (quindi i più grandi importatori al mondo: ormai siamo a livello di 800-900 miliardi di dollari l’anno) e della bilancia dei pagamenti (che indica, lo ripeto, il flusso in entrata e in uscita di capitali).
La capacità, la grandezza e perché no, il colpo di genio (se vogliamo metterci al livello degli attori personali, per quanto la questione sia sul piano delle strutture) della dirigenza statunitense è stata nell’idea di usare l’indebitamento come leva per rilanciare l’egemonia. In tutta franchezza, sul fronte marxista dell’epoca praticamente nessuno lo aveva colto, perché si riteneva – con una lettura economica ortodossa e che di per sé sarebbe anche valida, ma non importa – che il deficit indicasse la perdita di terreno della produttività del sistema industriale relativamente alla concorrenza interna al campo occidentale (nella fattispecie, rispetto a Germania e Giappone); ciò significa che sei in declino, e dunque che scatterà presto o tardi una rivalità interimperialistica (appunto con Giappone e Germania, le sconfitte della Seconda guerra mondiale che si sarebbero risollevate e avrebbero rivaleggiato).
Con varie sfumature, la nostra lettura negli anni Settanta era sostanzialmente questa. Non è andata così.
Infatti, il dollaro sganciato dall’oro e trasformato in una moneta con cambi fluttuanti, legato a una bilancia dei pagamenti in deficit cronico, ha permesso di monetizzare i debiti. In una parola: da allora gli Stati Uniti si indebitano ininterrottamente nella propria moneta. È come se emettessero in continuazione un assegno in bianco o chiedessero dei prestiti a conti fatti irredimibili, dove tu praticamente ti indebiti e al contempo sei tu che emetti la moneta con cui quel debito dovrebbe essere ripagato. Non è forse questa una funzione parassitaria, da classico “sfruttamento parassitario della leva del debito”? Ebbene, non è esattamente così.
Non è esattamente così, per il semplice fatto che questo meccanismo ha permesso di avviare quella futura globalizzazione, che non è stata soltanto una congiuntura politica, ma un passaggio, uno stadiodello sviluppo del capitalismo che per la prima volta si è reso pienamente mondiale, costituendo quel mercato mondiale ipotizzato da Marx centocinquant’anni prima.
Gli Stati Uniti inondano di dollari il mercato mondiale (a maggior ragione quando imploderà il socialismo reale) e intanto inseriscono la Cina. In virtù della forza militare statunitense alle sue spalle, questo dollaro funge da liquidità internazionale sempre disponibile, allo scopo di “lubrificare” i circuiti di capitale e di merci che si globalizzano. La produzione si internazionalizza e nascono quelle che oggi si chiamano comunemente le “catene globali del valore” (o “catene di fornitura”, supply chains, e così via). Inoltre, grazie anche alla Guerra del Vietnam, gli anni Settanta sono anche gli anni in cui si inventa il container: si apre così la storia della logistica ipermoderna.
Occorre rilevare, infine, che questi circuiti di debito e credito su cui corre il dollaro inflazionato determinano la creazione di corridoi finanziari enormi, nonché delle relative bolle (che periodicamente esplodono). La finanza – ed è un punto di estrema importanza, da sottolineare con la massima chiarezza – ha quindialla base l’internazionalizzazione della produzione. Di questo passo in breve la finanza (per dirlo un po’ metaforicamente) diventa costitutivamente un’anticipatrice del ciclo produttivo, spingendolo parossisticamente a mercificare, a “capitalistizzare” tutto il globo terracqueo. Al tempo stesso la finanza diviene una primaria regolatrice degli standard di valore.
È in tale contesto che il dollaro assurge effettivamente a moneta mondiale. Riassumendo, la situazione internazionale generatasi dalle trasformazioni del dollaro risulta chiaramente funzionale, in primo luogo, agli Stati Uniti per rilanciare l’egemonia economica – una traiettoria talvolta sintetizzata come “l’imperialismo finanziario del dollaro”. Di pari passo, infatti, questi complessi circuiti produttivi e di credito-debito consentono di stringere in un’unica maglia il mercato mondiale, anche tutte le altre borghesie e le altre economie e non più soltanto quelle imperialiste europee, facilitando così la fuoriuscita dalla crisi politica degli anni Settanta.
In questa mutazione dei rapporti economici internazionali, cosa conservano gli Stati Uniti? I livelli alti della produzione. È da lì che parte la rivoluzione informatica e digitale, mentre gran parte dell’industria a medio (e soprattutto basso) livello tecnologico e ad alta intensità di lavoro inizia ad essere delocalizzata. Si darà così il varo ai famosi processi di downsizing e di deindustrializzazione, prima negli Stati Uniti e poi estesi via via anche all’Europa, che spingono le manifatture verso la Cina con forza lavoro a basso costo (ne parlerò a breve). Si trasforma così la funzione ordinativa degli Stati Uniti rispetto alla Guerra fredda, già dieci-quindici anni prima che l’Urss crollasse, gettando i semi di quello che conosceremo come il capitale neoliberale. Ripeto, con una rendita di posizione chiarissima degli Stati Uniti. Perché?
Perché chiaramente il dollaro è una struttura, ma è anche una strategia, una leva della strategia statunitense. Al punto tale che da allora è possibile ricostruire i cicli economici anche seguendo l’uso “a fisarmonica” che gli Stati Uniti hanno fatto del dollaro (non è un’analisi originale mia, è una lettura che sta venendo fuori da parecchie parti). In taluni contesti si è trattato di riversare il dollaro sui vari mercati inflazionandolo inizialmente (sul lungo percorso, il prezzo del denaro inflazionato tende a svalutarsi) oppure, a date condizioni e quando se ne sentiva l’esigenza, rialzando i tassi attraverso la Banca centrale statunitense, la Federal Reserve, riattirando così i capitali.
A che fine? I più disparati: per ristrutturare la produzione industriale; per finanziare l’apparato militare mastodontico, che va ben oltre gli 800 miliardi di bilancio (pensate ai rapporti tra la “rivoluzione digitale”, la Silicon Valley e il Pentagono); per eventuali pacchetti di stimolo, come è avvenuto negli ultimi anni per il Covid sia con Trump che con Biden (somme che non hanno pari nemmeno rispetto al Next Generation EU); e permettere, soprattutto, la creazione di bolle finanziarie che vanno a razziare valore su tutto il globo terracqueo. Bolle che poi di volta in volta scoppiano e, quando scoppiano, si tratta di fare ricadere i costi sugli altri.
Per esempio, in Europa questo lo abbiamo visto nel 2010-2011 con la crisi dei cosiddetti “debiti sovrani”, nata dopo la catastrofe del 2008-2009 in cui chiaramente (o almeno, nella mia lettura) ancora una volta parte dei costi di questa crisi è stata riversata sul Vecchio continente. Oggi, con la guerra in Ucraina, siamo al secondo tempo dello scarico degli oneri. Aggiungo poi che negli ultimi mesi la Federal Reserve sta di nuovo alzando i tassi, sebbene ancora sia poco chiaro quale possano essere le conseguenze.
Torniamo quindi alla storia, se vogliamo comprendere bene il funzionamento di questo meccanismo.
Come si sa, a fine anni Settanta scatta la cosiddetta stagflazione, stagnazione + inflazione. Lotte operaie, la rendita petrolifera che sale (poiché, giustamente, i Paesi produttori di petrolio esigono una fetta maggiore dei profitti) e via discorrendo. Nell 1981 arriviamo al 19% di inflazione negli Stati Uniti. La Federal Reserve, guidata allora da Volker (da cui l’espressione Volker Shock), alza tantissimo i tassi di interesse, stroncando rapidamente, con una recessione durissima, tanto l’inflazione quanto le lotte operaie e le pretese del cosiddetto Terzo Mondo a un ordine internazionale più equo. Da lì procederà la controrivoluzione reaganiana, thatcheriana, eccetera, fino ad oggi.
Vi è poi un altro tema, che accenno soltanto: oltre alla strategia del dollaro a fisarmonica, gli Stati Uniti usano sempre più spesso il regime sanzionatorio. Dovendo tutti usare il dollaro, direttamente o indirettamente rientri nell’arbitraggio giudiziario degli Stati Uniti. Quindi o ti sanziono direttamente (tipo l’Iran o la Russia) oppure con le cosiddette sanzioni secondarie, cosa forse ancora più grave. Non so se state seguendo Priolo e la Lukoil… Insomma, perché le banche italiane (secondo me anche la stessa Eni, ma vedremo come va a finire) non erogano lettere di credito per acquistare il petrolio? Perché temono che gli Stati Uniti possano rivalersi con le sanzioni secondarie, vuoi mettendo multe, vuoi tagliandoti fuori. Negli ultimi anni ha dato delle multe pazzesche alla Deutsche Bank, alla Bnp Paribas e così via; e inoltre non è mai decollato il sistema di pagamenti internazionali alternativo europeo per poter commerciare il petrolio iraniano. Perché? Perché anche se l’Europa l’ha varato, le banche se ne guardano bene dall’adottarlo. Su questo discorso ci stanno ben attenti anche i cinesi.
Quindi, vedete, si è andato costituendo una struttura, un dispositivo, chiamiamolo come vogliamo, con una rendita di posizione statunitense – ma, durante la globalizzazione ascendente, a beneficio di tutti. Dico “vantaggio” ovviamente tra virgolette, poiché già allora la situazione era diversa a seconda della propria collocazione nella divisione internazionale del lavoro e a seconda del rapporto geopolitico intrattenuto con gli Stati Uniti: è ben diverso se sei un nemico, un rivale, uno Stato canaglia, o un alleato, un vassallo, un tributario. Ma attenzione (e su questo torneremo): questa struttura sta diventando sempre più onerosa. Questa rendita di posizione, questa funzione ordinativa in qualche modo si sta incrinando anche per gli alleati.
Il punto da evidenziare è che non siamo di fronte a un “declino” degli Stati Uniti (se non in termini molto relativi), quanto piuttosto alla difficoltà del sistema di cui gli Stati Uniti sono il perno. È una precisazione fondamentale, se non vogliamo ricadere in certe discussioni che non hanno portato a nulla, e trarre invece delle lezioni anche dagli anni Settanta.
Shock energetico, scarsità di materie prime, inflazione galoppante, recessione annunciata, riarmo massiccio: «È l’economia di guerra, bellezza, e tu non puoi farci niente, NIENTE!».
È il coro unanime scandito a reti e firme unificate che in questi giorni, dalle televisioni ai giornali, passando per i social, comincia a essere ripetuto da giornalisti, opinionisti, politici e ministri con molta chiarezza. Economia di guerra: siamo in guerra, quindi? Dichiarata da chi e in nome di chi, per quanto riguarda l’Italia, ancora non è altrettanto chiaro – in apparenza, nella forma: sappiamo benissimo che le decisioni ratificate a Roma vengono prese a Bruxelles, e prima ancora imposte da Washington e Londra, oltre che pagate da noi.
Delle tendenze di ristrutturazione dell’economia, delle catene del valore e degli scenari geopolitici della crisi ne abbiamo parlato a Modena il 2 aprile, alla giornata di discussione sul mondo di domani, la guerra in Europa e il destino della globalizzazione. Dopo quello di Raffaele Sciortino, presentiamo allora la trascrizione dell’intervento di Silvano Cacciari, autore su «Codice Rosso» e che a breve uscirà in libreria con La finanza è guerra, la moneta è un’arma (per La Casa Usher).
L’intervento ci regala una grande dimostrazione di metodo. Attraverso l’analisi materiale di diversi indicatori, offre una fotografia mossa del presente, in cui linee tendenziali e traiettorie di possibile sviluppo vanno formandosi, permettendo una possibile anticipazione, appunto, del mondo di domani – che, come vediamo, è già oggi. La bussola resta sempre la ricerca, di parte, delle contraddizioni e ambivalenze su cui la prassi militante può (deve) insistere. Nelle righe che seguono, ripercorreremo la storia delle ultime crisi, nelle traiettorie che si sono prevedibilmente disegnate e nei varchi aperti dall’imprevedibile. Il contributo ci è dunque prezioso perché, nella sua ricchezza, dimostra quanto sia ingenuo concepire la teoria come il regno della previsione e la prassi quello dell’inatteso: entrambe devono vivere in entrambi i momenti, pena ridursi a un’analisi astratta o a un’azione senza direzione.
Silvano Cacciari
Il testimone che mi avete lasciato dall’analisi che mi ha preceduto è piuttosto gravoso e cercherò di raccoglierlo dando alcune linee di lettura di ciò che sta accadendo. Partiamo però da una premessa generale: se si vuol fare politica, bisogna pensare politicamente. E pensare politicamente è possibile solo a due condizioni: per prima cosa, se si riesce ad avere capacità di previsione; e al contempo se si tiene a mente che fare politica significa fare i conti con la dimensione del rischio e dell’imprevedibile. L’insegnamento viene da Machiavelli. Dobbiamo cavalcare contemporaneamente due tigri, la prevedibilità (che non è così facile da domare) e l’imprevedibilità (che già dal nome di battesimo fa immaginare quanto sia docile). Chiunque si addentri nel sapere e nella pratica politica ne deve tenere conto; dopodiché ognuno farà le proprie scelte. Detto ciò, riallacciandomi alle parole di Raffaele mi concentrerei su un aspetto, che ci fa subito capire in che dimensione la Storia ci ha cacciato. Guardiamola quindi con l’occhio dello storico.
Se noi andiamo ad analizzare la concentrazione globale del capitale a inizio Novecento, vediamo che poco meno del suo 20% era sostanzialmente sulla borsa americana; il 13% su quella che oggi chiameremmo la borsa di Francoforte; e via a seguire. Se la confrontiamo con la situazione alla vigilia della crisi Covid, vediamo che la concentrazione del capitale a Wall Street riguarda il 51% dei capitali globali e tutto il resto è disperso nelle altre borse del pianeta, siano esse ufficiali (cioè borse riconosciute come tali) o non ufficiali (in gergo over the counter). Per esempio, in Germania passiamo dal 13% al 4%. Questo che cosa vuol dire?
Vuol dire che sono passati un secolo e due globalizzazioni, ma soprattutto che il dominio delle borse è sostanzialmente americano, ammesso e anche concesso che quando si parla di Wall Street si parla di Stati Uniti. Messa così, con la fredda logica dei numeri, potremmo tranquillamente parlare di un’egemonia americana sul mondo. È vero, però solo in parte. Perché qui si ritorna alla tigre dell’imprevedibilità. Infatti, nel momento in cui si controllano i capitali, non ci si limita a controllare il mondo, ma si scatenano delle crisi spaventose all’interno di quello stesso capitale che si possiede. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo. Nel momento in cui è avvenuto il processo di globalizzazione – cioè dalla metà degli anni Ottanta, con la libera circolazione dei capitali e la crescita di Wall Street fino a come l’abbiamo conosciuta noi – seguono non soltanto una profonda accumulazione finanziaria e un’estensione spettacolare del peso di Wall Street nella composizione globale delle borse, ma anche una serie di crisi non controllabili dagli stessi Stati Uniti: una catena di effetti devastanti quanto una guerra sul piano dei danni materiali e soprattutto di difficile risoluzione.
Poi c’è una cosa che a noi marxisti piace moltissimo: ogni volta che si è risolta una crisi finanziaria generata da Wall Street, si sono poste le condizioni per una crisi successiva, sempre peggiore. Qui la storia è molto lineare: si va dalla crisi di Wall Street del 1987 a quella del fondo LTCM (che stava per far saltare il mondo nel 1997-98 prima ancora di Lehmann), alla crisi delle Dot-com e ancora alla Lehmann Brothers. Tutto ciò non è controllato, né dalla politica, né dalle banche centrali. A un certo punto, d’improvviso, esplode; resta invece anticipabile l’egemonia americana non solo sul dollaro come ha brillantemente riportato Raffaele, ma soprattutto sulla composizione e sulla forza del mercato di Wall Street (e badate bene, quando parlo di Wall Street non mi riferisco solamente a ciò che conosciamo, essendo Wall Street la punta dell’iceberg di un sistema di borse over the counter a predominio americano).
Come vedete, anche prescindendo dalle vicende ucraine, già lo stesso terreno che abbiamo tratteggiato è caratterizzato da elementi che si conservano e drammatici stravolgimenti. Sia chiaro, drammatici anche per gli stessi Stati Uniti, sebbene siano in una qualche misura abituati strutturalmente a crisi finanziarie e bancarie di questo tipo. Per darvi un’idea, il primo bailout da crisi finanziaria nel mondo è stato quello della Second Bank americana nel 1838. Infatti, se ripercorrete questi due secoli noterete che gli Stati Uniti crescono in una dinamica di spettacolare accumulazione militare, economica e tecnologica, ma anche in una dinamica di continua ripetizione di gravi crisi finanziarie. Ma torniamo ora alle specificità dei “caratteri prevedibili e imprevedibili” del conflitto in corso. Vi porto due esempi, riferendomi per i primi alla storia, e per i secondi alla storia recente.
Partiamo dal prevedibile. A tal fine, permettetemi di raccontarvi in due parole la guerra finanziaria del ’12, cioè il momento in cui si comincia a rompere la vera spina dorsale della globalizzazione: la libera circolazione dei capitali su scala planetaria. Nel ’12 tutto ciò inizia a rompersi quando gli Stati Uniti cominciano a non investire più nei paesi europei. Ne consegue una complessa reazione a catena per la quale si erode la fiducia reciproca tra potenze economiche, e che infine degenera in uno scenario di tensioni globali che viene ricordato come “guerra finanziaria”. Attenzione però: questo ’12 non è il 2012, è il 1912. È il primo effetto della crisi borsistica del 1907-1908. Tutto ciò impone a JP Morgan di fare pressioni sul Congresso per fondare la Federal Reserve. Siamo nel 1913. A cosa conduce questa situazione? Alla Prima guerra mondiale.
Se noi torniamo a guardare (con occhi clinici e non troppo emotivi) i giorni nostri, vediamo un quadro molto simile a quello di 110 anni fa. Assistiamo per l’appunto a un tentativo di controllo della circolazione dei capitali (perché le sanzioni sono questo) e allo stesso tempo a una crisi economico-militare che è sì di livello internazionale, ma per il momento limitata sul campo. Badate bene, non voglio minimizzare alcunché. Voglio solamente mostrare il passaggio da un secolo all’altro e che si cerca di risolvere le crisi con una guerra finanziaria di tipo limitato (per estensione dei capitali coinvolti) e con una guerra sul campo di tipo regionale. Ciò indica due importanti elementi per questo genere di analisi.
Il primo è che è passato un secolo, un secolo contrassegnato da profondo tentativo (nel mondo occidentale e soprattutto dove circola il denaro) di sterilizzazione dei processi bellici, per cui si tende a limitarli sul terreno materiale e a estenderne le conseguenze a lungo termine. Il secondo riguarda il contenimento degli effetti su di essi della guerra finanziaria. Vi faccio un esempio banalissimo: se la Federal Reserve alzasse sul serio i tassi, si produrrebbe una crisi finanziaria di vastissime proporzioni perché il processo, in questo caso, sarebbe ingestibile. Quindi, che cosa voglio dire? Voglio dire che rispetto a 110 anni fa, abbiamo dinamiche che si ripetono, però in forma differente, in una scala tecnicamente più ridotta; per cui i danni ci sono, i morti ci sono, per carità, sebbene non siamo di fronte a ciò che è accaduto 110 anni fa. Resta tuttavia un problema, quello che Raymond Aron chiamava «il naso di Cleopatra»: le guerre sono incontrollabili. Nel momento in cui si apre un processo che si vuole limitato, non è affatto scontato che lo rimanga. A un certo punto le premesse possono evolvere a delle proporzioni veramente devastanti. E qui mi rifaccio a chi mi ha preceduto.
Un altro indice dell’imprevedibilità della situazione di cui stiamo parlando riguarda quanto è accaduto in Ucraina nel 2008. Ora, chi è stato attento alla storia recente dell’economia ucraina, sa molto bene che tutta questa storia è cominciata con la crisi del sistema economico e finanziario ucraino dovuto al grande botto di Lehmann Brothers. Il motivo è semplice: molte banche ucraine erano in varia misura – sia che lavorassero direttamente, sia che fossero mere mandatarie, sia che avessero appaltato servizi finanziari o persino nascosto denaro sporco – comunque legate a quei circuiti, erano la periferia di un mondo finanziario che gli è esploso in faccia. Tutte queste banche sono saltate (determinando, fra le tante cose, una grossa perdita anche per alcune banche italiane) e l’Ucraina si è trovata in una crisi economica disastrosa. Meno 15% di Pil ogni anno. Ora, se recuperiamo cosa dicevano gli analisti della crisi ucraina del 2008, leggiamo che il mondo che stiamo vivendo non era affatto previsto. Nelle previsioni del 2008 sugli anni successivi, certo, si parlava di rientro del debito, di prestiti ponte, un po’ di disoccupazione, ma tutto ciò che è accaduto dopo – l’Ucraina spaccata in due, una guerra civile, l’economia ucraina che di fatto non si è ancora ripresa dal 2008 e poi la guerra russo-ucraina – neanche Nostradamus sarebbe riuscito a immaginarla con i criteri, gli strumenti e con la capacità di analisi di ormai quindici anni fa.
Insomma, nel momento in cui si innesca, come la chiamava Raffaele, una crisi sistemica è più che lecito prevedere dei tentativi istituzionali di pervenire a una sua soluzione attraverso dei conflitti limitati, sia sul piano bellico che finanziario. Vi faccio un altro esempio: se l’Europa decidesse di fare dazi di importazione verso la Russia sul gas e sul petrolio, si avrebbero delle ripercussioni molto più pericolose di tutte quelle scatenate dalle misure che sono state adottate fino a oggi. Se la Banca centrale americana andasse fino in fondo sulla questione del sequestro delle divise americane detenute dai russi e depositate presso le banche statunitensi, la guerra finanziaria sarebbe veramente un big shot, come lo chiamano loro. In definitiva, per adesso ci troviamo sul crinale di una crisi che per lungo tempo farà danni sul piano economico e sociale, e che tuttavia non è ancora il grande incendio che qualcuno pensa. Sia chiaro, non intendo tranquillizzare nessuno: siamo davanti a una crisi decisamente seria, ma che non ha ancora raggiunto il parossismo di quelle che l’hanno preceduta.
A questo punto vorrei proporvi alcune chiavi di lettura. Prima però bisogna capirsi su un fatto fondamentale: quando diciamo – e sono d’accordo con i compagni che hanno organizzato questo incontro – quando diciamo che niente sarà più come prima, è vero; ma ciò non significa che stiamo osservando il passaggio da un ordine politico-economico-finanziario a uno successivo. Stiamo virando invece da un piano di complessità a un altro piano di complessità. E quando intendiamo piano di complessità intendiamo un contesto dove convivono (in un intreccio straordinario, perlomeno da un punto di vista teorico) enormi livelli di ordine ed enormi livelli di caos.
Bisogna tenerlo a mente, perché molto spesso nelle ricostruzioni, quando riusciamo a capire dove sta il livello di ordine, si pensa veramente di avere di fronte una sorta di monolite politico-teorico storico. Per esempio Vestfalia [l’ordine politico europeo moderno, originato dall’omonimo Trattato del 1648 a conclusione delle Guerre dei Trent’anni, ndr] era tutto meno che una situazione ordinata o anche solo stabile, e ciononostante per gli storici della politica è l’Ordine. E così via il Dopoguerra, e tutta una serie di “fasi epocali”. Se si vuole agire e pensare politicamente, si deve essere capaci di capire che stiamo passando da un livello di complessità – dove convivono livelli di ordine e di caos – a un altro livello di complessità. E nel nostro caso gli Stati Uniti rappresentano tutto questo, perché stabiliscono il livello di ordine con il governo commerciale da parte del dollaro, e contemporaneamente si ritrovano a un livello di caos per le crisi finanziarie. Così funzionano le cose.
Ora, io mi sono segnato alcuni campi in cui si sta giocando la crisi dei prossimi anni e vi invito a leggerli sempre in quest’ottica, cioè con le lenti dell’analisi che cerca di comprendere dove si sta depositando il livello di ordine e dove si sta depositando il livello di caos. Allora, il primo fattore importante è che siamo di fronte (le statistiche non sono mie, ma di diversi istituti internazionali) alla più grande crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale in poi. Ho letto report attendibili che descrivono un flusso di popolazione da Est verso Ovest almeno 15 volte superiore rispetto a quello generato dalla crisi jugoslava e largamente superiore persino alla crisi dei rifugiati del 2015. Questo, badate bene, cambia molte cose. Basti pensare a come ha cambiato la Germania l’ondata dei profughi del 2015 per rendersi conto che siamo di fronte a una rivoluzione demografica e sociale.
Noi non ce ne rendiamo conto – e spesso l’analisi dei compagni accusa un po’ questa mancanza oppure la riduce alla sola questione dell’accoglienza –, ma noi siamo un paese di vecchi. Viviamo in paesi a declino demografico. Se le previsioni sono queste, ovvero un volume di profughi 15 volte superiore alla guerra jugoslava, evidentemente siamo di fronte a un fenomeno che potrebbe cambiare realmente la morfologia delle città, e in ogni caso io non ho mai visto un’ondata migratoria di questo tipo non provocare comunque degli effetti (positivi o negativi che siano) che ti cambiano la faccia della società.
La seconda questione l’avete incontrata tutti i gironi e soprattutto quando andate a pagare le bollette: cambiano forzatamente le politiche energetiche. Ora non ve la sto a menare sul rapporto tra politiche energetiche e speculazione finanziaria perché altrimenti mi metto a sbadigliare anch’io, però questo è un punto nodale. Il nostro paese sta già facendo piani di contingentamento delle risorse energetiche per il prossimo autunno. È una faccenda importante, che non riguarda solamente il presente, ma soprattutto il posizionamento dell’energia nel futuro. Quando il ministro della Transizione ecologica dice che «la transizione ecologica non sarà un pranzo di gala» facendo ovviamente rivoltare nella tomba il povero Mao, dice in primo luogo una cosa: che, se usiamo un linguaggio militante, le politiche energetiche saranno un modo di praticare la lotta di classe sotto altre forme. Perché badate bene, le politiche energetiche saranno pagate dalle famiglie, dalle strutture sociali più basse, dalle piccole e medie imprese, insomma dalla struttura grassrootdella società. Politicamente questo è un altro grosso problema.
Un altro problema, forse poco valorizzato in queste settimane (dopotutto, non si possono scoprire tutte le contraddizioni in un colpo solo) è la sicurezza alimentare. La Russia è il principale esportatore di materiale per fertilizzanti del pianeta, e non è poco. Se la situazione resta critica, si dovranno ripensare le politiche di sicurezza alimentare. Per fare un esempio, la fragilità dell’importazione del grano è molto seria, sebbene si sia fatta sentire in maniera ridicola – avete visto anche meglio di me quelle aziende che strombazzavano «noi abbiamo spaghetti 100% grano italiano» fare delle pubblicità struggenti dicendo «scusate, ma con la crisi del grano ucraino siamo costretti a aumentare i prezzi». Ad ogni modo, la rogna non è solo il contingentamento, ma anche e soprattutto i prezzi. Tanto più ciò che gli americani chiamano food security è sull’agenda politica, tanto più lievitano i prezzi degli alimentari; e, a sua volta, quanto più lievitano i prezzi degli alimentari, e tanto più si producono pesanti criticità sociali. Ricordo qui che le primavere arabe sono un frutto di uno dei quantitative easing della Federal Reserve americana che rese insostenibile il prezzo del grano e del frumento come materie prime.
Ora, c’è un altro aspetto importante. Ne ho già toccati tre, più legati a una sfera biopolitica – la questione demografica, l’energia, il cibo –, ma accanto a questi c’è l’altra faccia della medaglia, emersa in tutta la sua drammaticità nelle ultime settimane: è l’aumento spettacolare dei prezzi delle commodities, cioè delle materie prime. Questo ha due effetti fondamentali. Il primo è di natura ovviamente economica, cioè la ripercussione di questa situazione sulle gerarchie di potere a livello geopolitico e globale. Però ce n’è un altro a mio avviso ancora più determinante, che riguarda la maniera in cui si è scatenata in queste settimane la guerra finanziaria sulle materie prime.
Chi ha avuto la pazienza di leggere su «Codice Rosso» sa che nei giorni scorsi mi sono messo ad osservare un po’ di cose, soprattutto un settore, a mio avviso, benchmark per queste dinamiche: il nichel. Il prezzo del nichel è impazzito. Si è gonfiato fino ad arrivare al 93% di aumento in due giorni, poi il nichel non è stato più trattato alla borsa di Mosca per un paio di settimane proprio perché stava salendo a prezzi vertiginosi. Ora, questo logicamente ha grosse ricadute sui prezzi delle materie prime di diverse componenti; però crea anche un altro problema. Sembrerà assurdo da un punto di vista empirico, ma un volume così alto di prezzo per questo tipo di materie prime mette in difficoltà le stesse compagnie finanziarie che fanno servizi e prodotti finanziari per le materie prime. Almeno tre di esse, secondo alcuni analisti americani, sono considerabili a rischio di esplosione pari a quelle del 2008. Quindi come vedete, da una parte le materie prime sono un problema immediato; dall’altra sono un problema di equilibrio sistemico, perché se la Federal Reserve non trova il modo di salvare queste agenzie come ha fatto per le compagnie dei mutui nel 2007-2008, il rischio è serio. Come vedete lo scenario si fa effervescente.
Un’altra questione ancora è il cambiamento della catena di fornitura, la supply chain. Il covid e la guerra hanno messo a “seria capacità di resilienza” le catene di fornitura globali. Ora, si è vero, da una parte vediamo che Amazon funziona. Poi, se volessimo capire cosa stia veramente mutando e dove va la globalizzazione, potremmo andare a vedere le tariffe, l’efficienza, i costi, la benzina, il petrolio, eccetera; ma soprattutto, se vogliamo capire se la globalizzazione funziona o meno o si sta trasformando, dovete andare a vedere una cosa sola: cosa accade nel mondo dello shipping, della navigazione. Non ve lo dico perché sto in una città di porto, ma perché è una realtà nella quale le mutazioni della globalizzazione trovano un grande elemento di misura. Non è un caso che chi sta cercando di cambiare la globalizzazione, la prima idea che si è messo in testa – e verso il finale ci ritorno – sia dire “restringiamo ruolo e peso dello shipping”. Non è poco. Perché? Perché la nuova supply chain, che ha nello shipping un elemento per tante merci decisivo, ha rimesso in discussione forza e importanza di questo mondo. Allo stesso tempo, se il mondo dello shipping tornerà a prosperare, allora probabilmente tante analisi sulla deglobalizzazione sono destinate ad essere più facilmente messe in archivio rispetto ad altre.
Vi è poi un ulteriore un processo particolarmente pericoloso, che abbiamo visto in questi anni e che con la guerra ucraina si sta accentuando: la separazione degli standard, ovvero la regionalizzazione o (peggio ancora) nazionalizzazione degli standard tecnologici di molti prodotti. Qualcosa di questa dinamica ce lo fa capire la guerra sul 5G, che si è chiusa durante il Covid. È evidente che un mondo dove le tecnologie non si parlano, per cui quello che si usa in una parte del mondo non si può usare da un altro, è un mondo più incline alla deglobalizzazione di altri.
Prima di chiudere toccherei altri tre punti veloci.
Per prima cosa, noi abbiamo visto che le multinazionali hanno un peso politico più forte che in passato. Nel momento in cui Goldmann Sachs, McDonald’s e Amazon lasciano la Russia, è evidente che riconoscono di detenere un’influenza politica e che intendono esercitarla.
C’è poi la ripresa massiccia della vecchia, “sana” spesa militare. Un aspetto direi ineludibile di queste crisi è che comportano da una parte la proliferazione dei prodotti finanziari di rischio, e dall’altra la moltiplicazione degli investimenti per la guerra sul campo. Sono questi gli indicatori con i quali possiamo misurare ciò che sta accadendo, e che ci suggeriscono dove effettivamente si annidano le trasformazioni degli equilibri e gli spostamenti di potere.
Io so bene che la domanda, la vexata quaestio, è: ma stiamo andando verso un processo di globalizzazione o verso un processo di deglobalizzazione? A tal proposito, io starei attento a una cosa. Ci sono due criteri, che nomino innanzitutto per chiudere quest’intervento, ma anche per capire quello che accade. Il primo è la circolazione dei capitali: finché c’è libera circolazione di capitali non c’è deglobalizzazione che tenga. Cioè, forse non è così per chi è abbonato a servizi di tossicità mentale come «Repubblica», «la Stampa» e compagnia cantante – ragazzi, io ho letto cose in questi giorni che se avessi lavorato in una redazione di questo tipo avrei buttato via la tessera da giornalista; quelle che un tempo venivano chiamate “marchette” erano dignità e rispetto a quello che si vede oggi –, ma comunque finché c’è libera circolazione dei capitali c’è comunque globalizzazione. È sempre stato così.
Il secondo parametro per capire effettivamente dove va la globalizzazione, è capire quali sono i device tecnologici che la interpretano. E qui chiudo su un dettaglio che credo essenziale. Nel 2016, poco prima della vittoria di Trump – ora, non mi dite che Trump e Biden sono uguali: ve lo dico subito, per me Trump era enormemente più simpatico, e poi viene dal tipo di cultura televisiva trash in cui sono nato, quindi ho un cuore anche io – nel dibattito economico-militare e nelle riviste del Ministero della Difesa statunitense si apre una discussione sulla deglobalizzazione legata a quei device che semplificando possiamo chiamare stampanti 3D. I reparti militari americani e il Ministero della Difesa cominciano a dire: «Noi possiamo intraprendere una deglobalizzazione nel momento in cui i device industriali per la stampa 3D diventano una cosa seria». È un’ipotesi che ha avuto una certa fortuna in un dibattito molto interessante da questo punto di vista.
Allora, per concludere, le questioni sono due: la globalizzazione ci sarà finché c’è libera circolazione dei capitali; secondo, i processi di deglobalizzazione o globalizzazione saranno comunque determinati dagli standard tecnologici industriali correnti. Quindi, a mio modo di vedere sono questi i due i migliori criteri di lettura di questi processi. Ma badate bene, non ho voluto fare il Nostradamus, per carità. Non ho nemmeno la barba.
Per anni vituperata a queste longitudini politiche, ritenuta appannaggio dei sogni bagnati di bruni più o meno rossi e materia di opachi funzionari d’apparato, oggi talmente sdoganata da essere spettacolarizzata. Merce di intrattenimento mainstream, quotata nel mercato in espansione delle piattaforme, venduta e inflazionata da uno stuolo di commessi e analisti con laurea in Scienze politiche e partita iva – «è la Barberizzazione, bellezza» –, è disciplina per eccellenza degli «interessi generali», quindi dell’organizzazione collettiva della classe dominante, la forma-Stato.
Può esistere una geopolitica di parte, la nostra? Quesito cruciale. Se di «uso operaio» della geopolitica non si può ancora parlare, parliamo allora di un punto di vista che della geopolitica può, e deve, avvalersi.
Tagliamo quindi corto. Oggi più che mai – molto più che nell’epoca ordinata dalla guerra fredda, e della breve parentesi di incontrastata potenza unipolare statunitense degli anni Novanta – vediamo come geopolitica e movimenti di classe, della composizione politica di classe, siano in rapporto, legati a doppio filo. Influenzandosi vicendevolmente in maniera sempre più diretta. Quello che succede nell’alto della geopolitica, oggi, precipita nel basso della composizione sociale sempre più velocemente e pesantemente, con strutture di mediazione e contenimento logore o inefficaci, determinando comportamenti, direzioni, scarti: spazi di intervento soggettivo. Quello che succede nel basso, nei processi di ascesa e declino dei ceti medi, nelle stratificazioni sociali, nella ristrutturazione della composizione di classe, ha invece un riflesso non secondario, quanto meno indiretto, verso l’alto. I due livelli, per chi volesse comprendere lucidamente, anticipare tendenze e dismettere i panni di spettatore passivo per farsi attore, collettivo, di parte, vanno quindi tenuti insieme. Il punto di vista militante deve posizionarsi alla mediana di questo rapporto.
«In una società nemica non c’è libera scelta dei mezzi per combatterla. E le armi per le rivolte proletarie sono state sempre prese dagli arsenali dei padroni». Sul numero di «Limes» che ha accompagnato l’incipit della guerra in Ucraina, due interventi ci hanno solleticato. Indicativi del discorso sulla e della guerra. Fotografia dello spettro politico e della sua ridefinizione. Uno di un’accademica della Sapienza, l’altro di un generale in congedo. Punti di vista a confronto.
Ucraina Limes Europae è la tesi dell’accademica. Ucraina prima (o ultima?) trincea d’Europa. Huntington e Brzezinski citati già nella prima riga, niente di nuovo. Indicativo invece altro: come la professoressa assuma e utilizzi esplicitamente il linguaggio, che qua conosciamo bene, della sinistra “di movimento” occidentale – generalmente libertaria e verbosamente radicale – per usarlo in senso fortemente nazionalista, per promuovere, richiedere e giustificare l’intervento della Nato nel conflitto, con tutto ciò che ne conseguirebbe. «La società ucraina ha espresso una grande capacità di autorganizzazione» per decidere, coesa e determinata, di entrare nell’Unione Europea e nella Nato, dopo la «rivoluzione della dignità» di Euromaidan; un «movimento dal basso pronto a difendere la Nazione e i suoi valori», un «movimento dei volontari», di attivisti – come Pravy Sektor, i gruppi paramilitari banderisti e il battaglione Azov? – che hanno contribuito alla «coesione sociale» – o etnica, con il massacro alla Casa dei sindacati di Odessa – in questa decisione, con un «potere costretto ad ascoltare la società» – e soprattutto gli Stati Uniti, gli oligarchi e le frange ultranazionaliste integrate nello Stato post- Maidan e nell’esercito – contro il «terrorismo di Stato» russo. Sono gli ucraini «istruiti e professionalmente competenti», quindi di ceto medio urbano, occidentalizzati, «immuni dai richiami obsoleti e ideologici del mondo (ex) sovietico», considerato povero, ignorante, puzzolente, quindi proletario, che rigetterebbero ogni compromesso.
Cos’è questo se non la rappresentazione plastica della cooptazione di tutto un ciclo politico, nato dalla sconfitta delle rivolte proletarie, nell’arsenale dei padroni? Una convergenza dei residui ideologici movimentisti nella sinistra imperiale, subordinata all’agenda dell’imperatore e dei suoi vassalli, in nome di un interventismo idealista, liberal, democratico che riabilita il nazismo dal volto umano, di un pacifismo peloso intriso di molti sentimenti ed emozioni, ma poca lucidità politica e capacità di analisi, con cui tanti compagni, più o meno consciamente, in odio allo zar di Russia sono finiti a lavorare per il re di Prussia.
La via verso il disastro. Il generale in congedo, con realismo, la vede chiaramente in questa guerra. Perché sono i militari che la guerra, organizzata dalla politica, la devono poi materialmente fare. In tale contesto spesso esprimono posizioni più lucide, e quindi più radicali – che vanno alla radice. C’è poco spazio, qui, per la retorica e l’ideologia. Molto per il materialismo. Rapporti di forza. Equilibri geopolitici. Analisi storica delle contraddizioni. Gli errori – deliberati – compiuti dalla Nato a partire dalla dissoluzione dell’Urss. «L’Ucraina è oggi lo specchio di ciò che gli Stati Uniti, la Nato e l’Europa hanno fatto alla Serbia in e per il Kosovo». Gli interventi in Iraq e Libia a seguire. L’espansione sconsiderata, cieca, provocatoria, verso Est, a detrimento della sicurezza collettiva, globale. Fino a toccare la linea rossa. Fino al punto di non ritorno. E l’ipocrisia arrogante dell’idealismo liberal, che ci vende l’interesse geopolitico degli Stati Uniti, «in galoppo da soli verso la perdita di controllo sul mondo», come guerra di civiltà. Termonucleare. Il prezzo per soffocare la Cina nel suo sbocco europeo – guarda caso, l’Ucraina – della Nuova via della seta. Se la responsabilità militare di aver avviato la guerra non può che essere di Putin, la responsabilità politica della destabilizzazione della pace e della creazione, cosciente, delle condizioni per la guerra sono evidentemente della Nato – in particolare delle potenze anglosassoni, Stati Uniti e Inghilterra.
Siamo arrivati al punto che ci tocca assentire con un generale. E la tragedia, oltre a ciò, è che «tutta questa vicenda era evitabile». La catastrofe umanitaria, sociale, politica che ha luogo in Ucraina, nuova Siria d’Europa, si poteva prevenire.
Non lo si è voluto fare. Lo si è perseguito. Ne pagheremo anche noi, insieme alla gente ucraina e russa, tutto il prezzo.
Lo ribadiamo, a scanso di equivoci. Non con Lui – e i suoi utili idioti, che a Modena conosciamo bene, come Terra dei Padri e fascistume euroasiatico vario – ma contro di Voi. A questi, i nemici della pace più vicini a noi, il nemico in casa nostra, va chiesto il conto. E forte. Perché «le guerre non si vincono più, perché non finiscono mai». Lo dice un generale. E allora prendiamone atto. E organizziamo la guerra ai guerrafondai.
Nel nostro piccolo, cominciando a rompere lo schema di una narrazione della guerra che si fa insieme propaganda e intrattenimento. Costruendo un punto di vista lucido, realistico, autonomo. Un punto di vista di parte.