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Discorsoni / Analisi

Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università

Note per approfondire la discussione

La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano. Tra questi, la scuola e l’università, punti nodali della riproduzione capitalistica e sociale.

Da una parte, come «industrie della formazione» atte a produrre e disciplinare la merce oggi più preziosa: quei soggetti che verranno chiamati a lavorare e combattere per la guerra dentro fabbriche, magazzini, laboratori, aule e uffici, o direttamente sul campo di battaglia. Dall’altra, tuttavia, come luoghi di mobilitazione giovanile e comportamenti di rifiuto che negli ultimi anni, intorno ai conflitti globali, e in special modo la Palestina, che coinvolge anche le dimensioni decoloniale e della razzializzazione interne alla composizione di classe delle nostre latitudini, hanno visto una nuova generazione politica prendere parola, tra tentativi di conflitto, spontaneità e contraddizioni.

Come si stanno trasformando scuola e università dentro la guerra? Quale funzione sono chiamate a ricoprire, da Stato, imprese e politica, nell’organizzazione, mobilitazione, e produzione bellica? Quale ruolo degli istituti tecnici e professionali, baricentrali per la formazione della forza lavoro specializzata per la fabbrica della guerra e al contempo alla formazione allo sfruttamento, con alta concentrazione di soggettività razzializzate, ma sovente esclusi o impermeabili agli interventi politici? Quali sono i soggetti coinvolti dentro i processi di trasformazione e che istanze, pulsioni e visioni materiali esprimono (o possono esprimere) nelle mobilitazioni contro la «fabbrica della guerra»?

Sono queste alcune piste da cui siamo partiti nella discussione del primo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», organizzato il 12 ottobre 2024 al Dopolavoro Kanalino78 a Modena, con studenti – militanti di collettivi e organizzazioni – attivi nelle lotte di scuole e università. Un ciclo pensato come una macchinetta per inchiestare soggetti, territori e processi coinvolti in questo tempo di guerra da decifrare e sovvertire, e inquadrare nuovi strumenti, punti di vista, elementi in grado di affrontarne la complessità all’altezza giusta – obiettivo sicuramente alto – dei problemi.

Vogliamo qui, in questa introduzione agli interventi, elaborare meglio il nostro punto di vista su alcuni nodi che la discussione con i compagni ci ha permesso di definire meglio. Senza certezze in tasca, se non quella della materialità dei problemi che si pongono collettivamente, e alcuna ricetta per l’avvenire, se non quella di porre tale materialità a verifica e alla proficua discussione, che speriamo possa approfondirsi e costruire un punto di vista più avanzato sui problemi, insieme a tutti i compagni validi come quelli intervenuti al dibattito.

Il protagonismo sociale, o della ricerca dell’autonomia

Tagliando subito con l’accetta, dagli interventi del dibattito crediamo emerga chiaramente un punto critico di questa fase, che non è una novità ma portato lungo di fasi precedenti che non possiamo qui approfondire: la debolezza, quando non proprio assenza, di protagonismo sociale dei soggetti – in questo caso, appunto, studenti, ma il discorso si può generalizzare. Protagonismo sociale che possiamo (e ci piace) chiamare anche autonomia, con la a minuscola. Se c’è un nemico da scardinare, è questo non protagonismo, questa passività, che come Kamo abbiamo toccato con mano direttamente anche a Modena nelle esperienze e negli incontri avuti insieme al soggetto giovanile della nostra città.

Questo non protagonismo, dal nostro punto di vista, può assumere varie forme.

La più immediata è il ritirarsi individuale e individualistico da ogni tipo di partecipazione collettiva, da processi di attivazione e decisione dove mettere in gioco la propria forma di vita che lo status quo capitalistico ha assegnato alla nascita, dal farsi avanti all’interno di una dimensione di mobilitazione che ecceda il proprio io e lo arricchisca, in una sintesi non più scindibile, in un noi. Il ritirarsi, quindi, in un privato oggi sovrapponibile completamente al mondo della merce, al suo più o meno edonistico e nichilistico godimento. Il godimento davvero povero della potenza della vita fatta coincidere col segno impresso su di essa dal rapporto sociale di capitale. Questa è la forma che è stata chiamata e che riteniamo corretto chiamare della diserzione, maggioritaria oggi tra gli studenti oltre che nella società più complessiva, con tutte le sfumature e gradazioni del caso: dal votarsi all’imperativo di arricchimento facile e veloce che la ragione neoliberale, ancora nella sua fase di putrefazione, promette possibile e auspicabile (magari cavalcando la schizofrenia dei flussi tramite app di trading e criptovalute che hanno reso portatile la speculazione finanziaria), al ritagliarsi una nicchia di comfort, civile e moralmente sostenibile, vivibile e discretamente sensibile, nel caos sempre più crescente della realtà percepita.

Ma vediamo anche la forma della delega del proprio protagonismo a un ceto di attivisti “professionisti”, scegliendosi il “brand” identitario che più aggrada o si addice al proprio curriculum, accontentandosi di seguire, condividere, likeare – nella vita vera come si fa sui social – contenuti fruiti ma mai prodotti dalla propria autonomia, per poi passare ad altro al cambio di trend; fruizione passiva, momentanea, di cause o lotte, da utenti consumatori, che in una città come Modena le articolazioni istituzionali e le cinghie di trasmissione del centrosinistra (spesso coincidenti) hanno buon gioco a sussumere e capitalizzare nei propri meccanismi, con risorse materiali e di posizione adeguate ad assorbire e rendere compatibile ogni piccolo sussulto di protagonismo potenzialmente di rottura. È questa la forma debole e impalpabile della società civile, di cui spesso abbiamo visto processi organizzativi e di lotta finire per scambiare un suo sfruttamento tattico come soggetto di riferimento e fine strategico. Se certi tipi di segnali di protagonismo vengono facilmente assorbiti da questa forma, crediamo che il problema non sia tutto sui limiti dei militanti che non li hanno saputi intercettare e deviare: spesso il problema è nelle soggettività stesse poco interessanti (e interessate) ai fini della rottura.

Infine, per ultimo, ma spesso non meno problematico per lo sviluppo di autonomia, quello che può sembrare un ossimoro: il non protagonismo che rischia di esprimersi attraverso la militanza. Una forma di militanza che coincide con l’adesione a organizzazioni partitiche, gruppi protopartitici, sindacalistici o attivistici che negli ultimi anni, a fronte del blocco dello sviluppo di larghi sommovimenti di classe o di pezzi di classe, tanto reali quanto spuri, su istanze materiali di soggettività altrettanto ambivalenti quanto reali (pensiamo, in questo senso, a ciò che è stata l’Onda tra 2008 e 2011, o all’irrompere delle lotte dei facchini tra 2011-2014), abbiamo visto fiorire e diffondersi, coinvolgendo pezzi non secondari delle nuove generazioni politiche emergenti. Gran parte delle organizzazioni, delle più varie tendenze e strutturazioni nazionali (perfino internazionali), rispondono facilmente alla richiesta di certezze da parte di soggetti giovanili che affrontano i loro tempi con ben poche di esse in tasca. La certezza di un’identità, in questo caso politica, di un percorso strutturato, di un’ideologia canonizzata, di una comunità costituita, di una parola d’ordine, del contenuto di un volantino, di una prassi consolidata, magari già decisi altrove o legati a lotte di altri pezzi di mondo, facilmente solo da seguire o applicare. La sensazione di fare qualcosa non solo di giusto, ma di rilevante, “sul pezzo” della cronaca: anche se non si può cambiare niente della propria vita, almeno ci si sente parte di una comunità o di una potenza lontana che agisce. Qui sono senza dubbio confluite molte energie e intelligenze politiche mosse negli ultimi anni dalla ricerca, non senza ambivalenze o difficoltà, di protagonismo, o che hanno espresso timidi ma importanti segnali di esso. Qui, purtroppo, possono finire per ristagnare, esaurirsi o riprodurre l’esistenza di quei contenitori che, nella nostra particolare esperienza, sono risultati tuttalpiù scatoloni vuoti: collettivi o sigle a uso e consumo della politica “nazionale” o dei politicismi dei gruppi territoriali che, come a un mercato delle vacche, si contendono l’adesione di questo soggetto giovanile a colpi della miglior offerta simbolica, ideologica, organizzativa, secondo anche logiche di targetizzazione. Non di certo strumenti territorialmente e soggettivamente situati di conricerca, espressione e potenziamento delle potenzialità di protagonismo e lotta delle soggettività giovanili a partire dalla materialità situata di esse. Questa forma di militanza, oltre a essere alla lunga impoverente invece che arricchente, crediamo sia anche “rischiosa”: fiorente e apparentemente solida nelle fasi di “calma”, dove la spontaneità sociale è debole e l’autonomia arretrata, quando il rischio è quello di far coincidere la militanza all’esperienza di “marcare il cartellino”, si può dimostrare estremamente fragile invece quando investita dalla potenza di un movimento reale, spurio, di soggetti sociali in tutta la loro contraddittorietà e ambivalenza, capace di squadernare ogni certezza, identità, linguaggio, comunità precostituiti se non radicati in un autonomo punto di vista e un metodo della conricerca. Lo diciamo senza nessuna nostalgia di forme di militanza tanto intense quanto fragili, che richiedono e bruciano tutto nei tempi corti, vuoti e accelerati dell’età giovanile e universitaria, ma non reggono ai tempi dilatati, pieni e anche frustranti della maturità lavorativa, affettiva, anagrafica.

Per una lettura critica della diserzione

Non ci convince del tutto, oggi, la parola d’ordine della diserzione, evocata nelle mobilitazioni in ambito universitario. Utile come concetto suggestivo d’agitazione contro la guerra, ci pare più debole sulla linea della controsoggetivazione, come comportamento su cui fondare un processo organizzativo. Non ci convince la sua potenzialità sovversiva all’interno dell’attuale fase della congiuntura di guerra, dove non c’è ancora mobilitazione di guerra da cui disertare, ma tutta da capire la forma stessa della riorganizzazione del comando sul sociale in funzione della forma guerra che si sta dando o si darà.

Può essere la diserzione una tendenza su cui inserirsi, anticipando e radicandosi nell’ambivalenza di un comportamento sociale spontaneo poi da trasformare in rifiuto organizzato? Senza ricette, con la sola certezza che sarà la messa a verifica nella prassi militante della conricerca a dare la risposta, proviamo ad articolare alcuni punti critici utilizzando la storia, la nostra storia, la tradizione che ci siamo scelti.

La diserzione, la dimissione, il ritirarsi, nella situazione concreta di oggi, è un comportamento ambivalente o di rottura, come è stato, per fare un esempio, il rifiuto del lavoro in un’altra epoca che ci è alle spalle?

Il rifiuto del lavoro è stato espressione di una determinata composizione di classe dentro una determinata organizzazione di fabbrica. Un comportamento, in forme anche passive, di una minoranza non minoritaria di operai, di un’avanguardia però di massa, dentro e contro la fabbrica fordista degli anni Sessanta – anche contro altri pezzi di composizione! – e poi nella fabbrica sociale degli anni Settanta. Comportamento che, prima scoperto e anticipato grazie alla conricerca operaista, e poi organizzato politicamente dai militanti nella lotta dentro la produzione e diffuso conflittualmente nelle articolazioni della riproduzione sociale, ha inceppato per un decennio il profitto come variabile indipendente della riproduzione capitalistica.

Oggi, dalla nostra visuale, la diserzione è un comportamento già maggioritario e generalizzato. Non solo degli studenti medi e universitari, ma dell’individuo democratico complessivo prodotto dalla società neoliberale. La diserzione non la vediamo come il comportamento ambivalente di un’avanguardia potenzialmente conflittuale, ma la normalità della forma di vita della maggioranza, praticata però in forma individuale e individualista, ripiegata nel privato, nella ricerca edonistica del piacere, nella solitudine del lavoro.

Uno studente che “diserta la guerra”, oggi, al tempo della diserzione già sociale, cosa rischia di rompere? Rompe uno status quo, una condizione,  o la riproduce, attraverso lo stesso meccanismo con cui poer esempio l’astensionismo maggioritario oggi non è tanto espressione di una radicalizzazione politica antisistema ma più sintomo dell’assenza di una politicizzazione della società?

La diserzione è stata una scelta di campo concreta, materiale, alla base della formazione del movimento partigiano nell’autunno-inverno del ’43. Una scelta di campo imposta dall’alto, praticata con le spalle al muro, che metteva in gioco la vita: o l’arruolamento nella Guardia nazionale repubblicana di Salò, le camicie nere, o la via della clandestinità, che per un pezzo di quella generazione cresciuta nel fascismo ha significato la via dei monti, a raggiungere i primi nuclei di soldati sbandati, fuggitivi, ex detenuti, dove i quadri politico-militari dei partiti antifascisti ancora erano pochi. Fu quella scelta di diserzione di una minoranza a formare le prime bande partigiane: diciannove mesi dopo, sarebbero discese sulle città del Nord Italia in formazione disciplinata di esercito guerrigliero.

In quel momento, la politicizzazione e la militanza, prodotte nella lotta partigiana, hanno visto come passaggio preliminare obbligato una diserzione. Nelle condizioni di oggi la militanza, la controsoggettivazione in una forma di vita militante, riuscirà a costruirsi attraverso un comportamento che è già socialmente maggioritario ma senza alcun tipo di rottura con la forma di vita dominante, che è sì diserzione dal comando di guerra ma anche diserzione da forme di conflittualità, rottura, ricomposizione?

Conclusioni, malgrado il discorso sia lungo e incerto

Ecco allora una domanda a guidarci. Dentro la «fabbrica della guerra», come alimentare i segnali di protagonismo, a Modena ancora timidi e insufficienti, espressi dall’avanzare di una nuova generazione politica che abbiamo visto attraversare varie fasi di mobilitazione (dalla scuola alla Palestina), ma stenta ancora a trovare forme autonome di protagonismo? E poi: come costruire una militanza capace di cavalcare le vertigini, stare sulle ambivalenze, ribaltare le certezze per costruire radicamento, progettualità e ricomposizione?

È ancora e sempre lo stesso ordine di problemi, che come Kamo abbiamo contribuito a discutere e provato a nostro modo ad affrontare; altri, questi ultimi anni, lo hanno sicuramente sviluppato meglio con ben altri strumenti, possibilità ed esperienza. Alla nostra piccola altezza, ci sentiamo di inquadrarlo dentro le suggestioni e le piste di ricerca politiche lasciateci da Mario Tronti nel suo ultimo, postumo, scritto politico e militante. Salvare la rivoluzione dal Socialismo, salvare la libertà della Democrazia, dice Mario – e, aggiungiamo noi, salvare l’autonomia dal Movimento. Da quello che è stato il ciclo, oggi esaurito, dei centri sociali e del centrosocialismo, entro cui per tutta una fase si è espressa la militanza autonoma. Nel presente, per il domani, si tratta di salvare l’autonomia possibile di nuovi soggetti da quello che, per semplicità e in mancanza di termini migliori per capirci, prende oggi le vecchie forme del Movimento. C’è un lavoro da fare, di ricerca, di elaborazione, di immaginazione. Senza l’ambizione di sapere che quel tempo, il più inattuale, verrà. Perché il mondo e il tempo che stanno per arrivare, tutto lascia prevedere che saranno al seguito del mondo e del tempo che sono già arrivati. Facciamoci trovare pronti per domani, preparandoci oggi all’inaspettato.

Di seguito gli interventi che hanno aperto la discussione. Buona lettura.

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Marina – studentessa, militante di Osa

Visto che tutto quello che abbiamo fatto nelle scuole in questi anni come studenti organizzati si è basato sull’analisi della realtà, prima di parlare di scuola due parole sul contesto generale e sul periodo storico in cui ci troviamo.

La guerra, dall’Ucraina al Mar Rosso passando per la Palestina, è diventata il fattore centrale. E l’Italia, nella guerra, assume un ruolo centrale. Segue le politiche della Nato, aumenta le spese militari al 2% del Pil, continua a inviare armi, e per farlo toglie i soldi alle scuole, all’università (la recente manovra finanziaria prevede 500 milioni di tagli al Fondo per il finanziamento ordinario delle università), alla sanità, alle spese sociali.

Come studenti organizzati è stato importante quindi individuare il nostro nemico per mobilitarci: il governo. Un governo guerrafondaio, un governo della guerra, quello delle Destre, della Meloni.

Per lavorare nelle scuole, abbiamo quindi colto la contraddizione dei soldi che invece che essere usati per la nostra formazione vengono usati dal governo nelle guerre in cui l’Italia è complice e corresponsabile: le conseguenze le vediamo quotidianamente in tutti gli istituti da Nord a Sud, dove ogni giorno cadono pezzi di soffitto sulle classi, mancano le risorse per metterli in sicurezza dopo disastri ambientali come l’alluvione in Romagna, mancano spazi o materiali per fare lezione, mancano veri sportelli d’ascolto e assistenza psicologica, manca una vera educazione alla sessualità.

Abbiamo riconosciuto il nostro nemico in una classe dirigente che utilizza la filiera della formazione per far passare l’ideologia dominante e per mantenere il consenso. Scuola e università come apparati ideologici di Stato, e manganelli e stretta repressiva per chi protesta [si veda il Decreto sicurezza ddl 1160, ndK]. Ci è stata consegnata una scuola che non ha più quel senso di emancipazione che poteva avere negli anni dello sviluppo delle lotte, ma che continua a cristallizzare le condizioni sociali di partenza degli studenti. La scuola non è più un ascensore sociale ma si è trasformata in filiera formativa, centrale per l’aumento della competitività e della produttività, e per la creazione di valore e per la crescita economica.

Questo è evidente con il Pcto (l’alternanza scuola-lavoro) che costituisce una vera e propria aziendalizzazione della scuola, in cui i percorsi di studio degli studenti verranno modificati dalle imprese presenti sul territorio per creare figure di lavoratori specializzati. Inoltre, con la nuova riforma degli istituti tecnici e professionali di Valditara, che consiste nel ridurre un anno di scuola per questi ultimi e accrescere le ore di Pcto, assistiamo anche a un aumento di differenze tra scuole di serie A (come i licei, luoghi deputati a instradare la futura classe dirigente) e scuole di serie B (istituti tecnici e professionali).

Quello che vediamo in generale è una crisi di egemonia dell’Occidente capitalistico che, nel suo contorcersi, produce barbarie. Il discorso dell’Occidente capitalistico si dice portatore di pace, di innovazione, di libertà, ma come vediamo produce guerra, sfruttamento, repressione. E le classi dominanti non hanno e non vogliono trovare soluzioni alle barbarie che producono.

Sappiamo che lotte nelle scuole devono essere fatte pensando alla realtà che abbiamo davanti. E nelle scuole noi vediamo una tendenza tra gli studenti a eludere questi valori proposti dal discorso dominante, a non sentirsi rappresentati in toto da questi valori, quindi a cercare di uscirne, a scapparne, in varie forme e modi, magari cercando altri modelli. Forme e modi che però non vanno a rottura con la società così strutturata, ma che comunque non sono conformi alla narrazione che il sistema ha fatto di sé. Nelle scuole vediamo una serie di fenomeni che vanno dal ribellismo individuale e individualistico, al disagio psicologico, all’autolesionismo, al disinteresse da tutto ciò che succede, fino anche allo scimmiottamento della criminalità e di comportamenti criminali. A Modena, per esempio, quest’anno i rappresentanti d’istituto del Liceo Classico Muratori, dove passano le future classi dirigenti, hanno chiamato la polizia perché c’erano studenti del Tecnico e Professionale che venivano a rubare, a picchiare, a fare brutto agli studenti del Classico davanti alla scuola.

Nelle scuole vediamo che non c’è una spontanea prospettiva di rottura. Dobbiamo quindi essere bravi come militanti organizzati a incanalare questo disagio e questa rabbia degli studenti e portarli ad avere questa prospettiva, facendo come, per esempio, dopo l’uccisione di 3 ragazzi in Pcto da cui è nata l’ondata di occupazioni della Lupa a Roma nel 2022.

Chiaramente non è facile, perché siamo in un contesto di depoliticizzazione e de-conflittualità studentesca, in cui il nemico fa un attento lavoro di deterrenza per impedire ogni ipotesi di mobilitazione. La sfiducia nella possibilità di cambiamento e nell’utilità della lotta è veramente alta.

È stato difficile come portare nelle scuole di Modena un punto di vista e una prospettiva di rottura. Anche perché a Modena, feudo Pd, sono forti le organizzazioni studentesche che sono l’articolazione di sindacati e di partiti del centrosinistra di governo, filoistituzionali, socialdemocratici, come la rete degli Studenti, l’Udu, eccetera. Abbiamo visto che non portano effettivamente punti politici, ma riescono a sussumere tutto quello che hanno intorno, a far su quello che con difficoltà e spontaneità prova a muoversi; hanno appiattito le lotte che ci sono state, le hanno compatibilizzate, senza offrire una vera alternativa e anche per questo, a Modena e provincia, quest’anno il movimento studentesco non è stato dei migliori.

Chiaramente ora con il movimento per la Palestina si è riuscito sicuramente ad ampliare e mobilitare qualcosa, però ha avuto più successo nelle università che nella scuola, e sicuramente qua a Modena nell’università non è partito niente. Eppure, nonostante anche Forlì sia una città di provincia, lì il movimento è partito dall’università.

A Modena è stato interessante lo sciopero e la successiva mobilitazione scoppiati all’Ites Barozzi. Partito come protestaperché la scuola non faceva andare in gita le classi, non riforniva di cibo le macchinette e faceva perquisire gli zaini degli studenti all’entrata, a seguito della minaccia di sospensione della preside al rappresentante d’istituto per aver rilasciato un’intervista esprimendo i problemi di una “scuola devastata” la mobilitazione ha preso piede in difesa dello studente. La mobilitazione contro la repressione è poi rientrata senza una prospettiva di rottura, senza uscire dal proprio caso particolare, senza guardare all’esterno della propria scuola.

Ci sta, perché comunque questa “coscienza” la porti dall’esterno, non sono cose che vengono su da sole, è qui la funzione del militante; però è una piccola dimostrazione che sotto si muove qualcosa, anche in provincia gli studenti possono muoversi e cercano un cambiamento, non è detto che a Modena non debba accadere mai niente. Bisogna essere bravi a cogliere le contraddizioni quando si manifestano materialmente che poi ti portano a uno scontro diretto.

Scuola e università sono apparati ideologici di Stato, e i luoghi e i percorsi formativi sono sempre pervasi dall’ideologia del nemico, come stiamo vedendo sempre più chiaramente in questo stato di guerra. E noi come studenti dobbiamo continuare ad utilizzare questi luoghi di formazione come campo di battaglia, per portare avanti un’idea di formazione diversa, in una diversa società.

  

Elia – studente universitario, militante di Officine della formazione

Il punto di partenza della nostra inchiesta sulla composizione studentesca universitaria (in forma estesa, i risultati dell’inchiesta si trovano sulla rivista «Machina»: qui e qui) è tutto sommato semplice: la constatazione che in università c’è un vuoto politico.

Questo vuoto politico non è tanto da intendere in senso fenomenologico (“non c’è nessuno, non esiste nulla di politico”). Alcuni gruppi ci sono sempre stati, e ci saranno sempre, in forme e quantità più o meno sparute. Quello che ci interessa considerare, invece, è il loro appiglio sulla composizione studentesca, la loro capacità di muoverla e di agitarla. Insomma, ci sembrava che anche l’università di Bologna fosse pacificata quanto qualunque università anglosassone o nordeuropea.

Dire inchiesta è, però, improprio. L’idea era quella di una conricerca. Ovvero, produrre una conoscenza imperniata sul punto di vista di una soggettività, quella studentesca, al fine di poter indicare la strada, da un lato, alle nuove forme di organizzazione possibili dentro le università, assunta la crisi delle forme esistenti, e dall’altro verso i “punti deboli” del sistema, non tanto in senso oggettivo, ma soggettivo: cosa temono, desiderano e odiano gli studenti?

Quindi, produzione di conoscenza collettiva e comune che, allo stesso tempo, possa aprire uno spazio per l’autoformazione, per la formazione politica. Insomma, ditelo come volete: per dare forma a nuovi militanti.

La tesi principale che è emersa dalla conricerca è che non ci sembra possibile rintracciare un residuo autonomo (un “fuori”), cioè una ricerca di conoscenza pura e incontaminata, dalla volontà e dal desiderio degli studenti di essere formati in quanto forza-lavoro competente e, soprattutto, desiderosa di vendersi sul mercato del lavoro. Chi sceglie di studiare all’università lo fa esclusivamente per questo motivo. Per descrivere questo processo abbiamo utilizzato il concetto di “professionalizzazione”. La produzione – come processo attivo, cioè voluto dal soggetto, e allo stesso tempo passivo, cioè subito – di forza-lavoro specializzata pronta per essere inserita nel processo produttivo.

Questa questione va letta assieme alle aspettative degli studenti sul proprio futuro. La ricerca dimostra un complessivo “innalzamento” delle aspettative rispetto al titolo di studio. In altri termini, si studia poiché si ritiene possibile che il titolo renda favorevole la collocazione nel mercato del lavoro. Tutto questo sommato alle difficoltà e alle fatiche dello studio, che si accettano e subiscono senza troppi problemi – o, comunque, si cercano di superare questi problemi. La possibilità, nel futuro, “di fare quello che ti piace” ripagherà la fatica. Infatti, non è secondario rimarcare come questa predisposizione verso il futuro porti gli studenti ad accettare il sacrificio dello studio e della formazione.

Bisogna sottolineare che l’innalzamento delle aspettative legate al titolo di studio non viene interpretato dagli studenti come un processo lineare e privo di frizioni. Al contrario, è una vera e propria battaglia per il riconoscimento della competenza e della formazione, che porta tratti anche culturali e generazionali. Non mancano ostacoli e incertezze, tuttavia per quel che concerne il titolo di studio sembra esserci davvero la fiducia che l’educazione superiore sia un investimento che possa portare a una posizione favorevole nella società.

Infine, l’ultima riflessione riguarda il cosiddetto “sapere pratico”. Gli studenti intervistati, infatti, richiedono una forma di sapere pratico-teorica, in aperta contrapposizione a uno studio impoverito, standardizzato e nozionistico come quello offerto dall’università oggi.

Il primo lato della medaglia è il rifiuto di una certa verbosità, un certo vecchiume dell’università italiana. Riprendendo le parole degli studenti, il sapere pratico-teorico ti fa osservare, assieme alla professoressa, un certo fenomeno in laboratorio, al di fuori della dimensione della lezione frontale e libresca. Ma accanto a questo tipo di sapere ce n’è un altro che costituisce uno scarto: quello che dà forma a una competenza tecnico-pratica, attiva: fare le cose con le tue mani. Abbiamo chiamato questa forma di sapere semplicemente “tecnico”. È proprio questa la forma di sapere a essere reclamata dal desiderio di professionalizzazione degli studenti: il possesso di una tecnica capitalistica professionalizzante, che li formi come forza-lavoro competente e professionale.

Vi è un altro livello del discorso verso cui prestare attenzione e riflettere. Tagliando con l’accetta, possiamo dire che il sapere della didattica universitaria è così impoverito e standardizzato che l’unica strada percorribile, per gli studenti, risulta essere quella della richiesta di professionalizzazione. La ricerca di sapere e conoscenza “per sé” non si può dare nella realtà capitalistica, dunque si sceglie la via della professionalizzazione perché conviene. In altre parole, conviene perché il sapere è talmente impoverito e modularizzato che tanto vale diventare un professionista che applica quel sapere povero allo status quo capitalistico. Ma questo, banalmente, significa che lo studente finisce per contribuire attivamente e soggettivamente a divenire forza-lavoro specializzata, o forse sarebbe più corretto dire “capitale umano”, realizzando il compito storico dell’università capitalistica.

Crediamo che questo passaggio vada assunto come un dato di realtà.

Non per rassegnazione o ineluttabilità ma, al contrario, perché per rovesciare il tavolo dobbiamo sapere bene di quale materiale questo tavolo è fatto, quali sono le sue crepe, in che punto si può rompere. Questa “utentizzazione” della figura dello studente, questa riduzione alla passività, al contenitore da riempire, ci sembra che spesso si accompagni a una certa “protocollarità” nell’approcciarsi al sapere da parte degli studenti. Una faccia della professionalizzazione è proprio la protocollarità, nel senso dell’algoritmo: la richiesta di possedere una serie di passaggi definiti per risolvere un problema di cui si sa già che una soluzione esiste. I professori stessi riproducono questo meccanismo, tenendo quanto più possibile lontano gli studenti dalla possibilità di scontrarsi con problemi aperti, sia quelli radicalmente privi di soluzione, sia quelli con una soluzione che non è data a priori. Ciò che conta è superare l’esame: tutto si riduce nell’ingurgitare una serie di informazioni per poi ripeterle il più fedelmente possibile in attesa di ottenere l’agognato “pezzo di carta”.

Se questa riflessione sulla professionalizzazione è chiara per le facoltà scientifiche, ci sembra che anche i soggetti delle facoltà umanistiche, che si iscrivono perché “amano ciò che studiano”, siano inseriti in questa stessa logica. Che riguardi la volontà di diventare un ricercatore o altre innovative figure professionali che possono emergere dagli studi umanistici, la figura soggettiva, lo spirito e l’antropologia sono simili. Magari, agli studenti delle facoltà scientifiche dei “seminari autogestiti” non interessa nulla, mentre a quelli delle facoltà umanistiche interessa se riguardano l’argomento della loro tesi o la possibilità di stringere la mano al professore di turno. Ma ci teniamo a specificare: non c’è nessuna moralizzazione in questo discorso. È così e basta, e lo abbiamo imparato a nostre spese, tentando più volte di organizzare questi soggetti o di aggregarli proprio attraverso queste modalità seminariali (che non riteniamo siano sbagliate in sé, per inciso, ma che vadano assunte dentro l’orizzonte materiale di questa soggettività).

Qui dobbiamo essere chiari. Da un lato questo è un processo soggettivo di trasformazione antropologica della condizione dello studente. Quanti anni sono passati dall’ultimo, reale, movimento? Possiamo dire quasi vent’anni senza movimenti? Ecco, tutto ciò ci consegna questo soggetto qua. Però, ovviamente, questa lettura assume un senso se la si legge nella più ampia questione della crisi della militanza e della crisi delle forme della politica di quello che viene chiamato “Movimento”, appunto. Cioè, dall’università – luogo del fermento giovanile – si vede chiaramente come ad oggi non esista nessun terreno di identificazione comune e collettiva: immaginari, pratiche, possibilità di dire “io sono questa cosa qui” in senso politico, un soggetto politico riconoscibile (“siamo dei centri sociali”, “dei collettivi” eccetera).

Un inciso va fatto. Lo studente della professionalizzazione è lo studente che fa l’investimento. E se questo lo leggiamo assieme ai processi selvaggi di accumulazione ed estrazione capitalistici legati alla città, basta poco per capire che nella città universitaria arriva chi se lo può permettere e, allo stesso modo, come il capitale abbia affinato una selezione molto più a valle. Insomma, arrivano studenti di ceto medio non troppo impoverito. Quindi, in qualche modo, anche il terreno classico del diritto allo studio e dell’accessibilità interessano poco questa figura studentesca. E lo si vede bene dalle piccole mobilitazioni di qualche anno fa relative al caro-affitti (le prime “tendate” per capirci), le quali alla fine vivevano più nel campo dell’opinione che in quello della materialità dei soggetti.

E ora arriviamo al sodo. Qualcosa che, invece, ha smosso, nel suo piccolo, per quanto comunque in un quadro di assenza di mobilitazioni significative, sono state le mobilitazioni in solidarietà alla Palestina. Proviamo a fare qualche ragionamento, prendendo davvero sul serio che «solo la lotta può impedire la barbarie». Ciò che segue va quindi letto come una forzatura per cercare di fare passi avanti e rilanciare il discorso, rilanciare l’intensità della lotta.

Ora, senza fare analogie macchiettistiche, senza dire «portare il Vietnam in fabbrica» o «Bring the war home», è comunque accettabile affermare che queste mobilitazioni per la Palestina siamo state una serie di rivendicazioni di solidarietà, mi si consenta di dire, di opinione: quelle che potenzialmente restano imbrigliate nel piano della moralità (e della giustizia astratta) e rischiano di avere poca attinenza con la vita che facciamo tutti i giorni e che, però, nel lungo periodo, nell’intensità e nella possibilità di rottura rischiano poi di assopirsi.

Quindi, la prima operazione di metodo mi pare questo: capire cosa porta dei soggetti concreti a mobilitarsi e, soprattutto, a farlo più di una volta (credo che la sola indignazione e la sola commozione siano necessariamente portati ad avere una breve durata). Cioè, non è tanto un ragionamento per scovare la verità oltre la menzogna, ma quanto per indagare proprio la costituzione materiale del soggetto-contro. Dunque, cosa è emerso da questo soggetto?

La mobilitazione non ha posto nessun accento oltre la questione palestinese. Senza dire sia giusto o sbagliato, in generale, strategicamente o tatticamente, lo assumiamo come dato di fatto. So che in altri contesti in Italia questo è invece successo, dunque mi riferisco a dove siamo collocati, Bologna. I termini della questione li conoscete: l’idea del boicottaggio accademico e dunque la fine degli accordi tra l’università e diverse istituzioni israeliane. Non c’erano dei ragionamenti che cercassero di ampliare il discorso o, diciamo, che per lo meno lo facessero assumendo il piano della condizione studentesca, che ne so, gli effetti degli accordi sulle lezioni, gli esami. E anche per questo motivo, crediamo, che ci sia voluto un certo tempo perché assumesse i tratti di una mobilitazione. Senza poi rimarcare che si tratti di una serie di rivendicazioni – lo dico veramente con il pudore di dire una banalità – di natura sostanzialmente sindacale. Cioè: si chiede la fine degli accordi, si può vincere o perdere.

Ora, senza ingenuità: le università piccole possono stracciarli subito quegli accordi, quella di Bologna ha grossi problemi per ovvi rapporti di forza globali e posizionamento nei circuiti del valore immateriale. Ad ogni modo, è interessante notare come la questione della materialità soggettiva della mobilitazione non sia stata posta in alcun modo, se non vagheggiando tutta la questione degli accordi come contraddizione cardine del capitalismo, insomma con un linguaggio che non affonda le radici nella materialità di quel soggetto descritto sopra, insomma discorsi vuoti. Una prima spia del fatto ci fossero altre ragioni verso la partecipazione, oltre al cuore della rivendicazione, pur comunque assolutamente fondamentale.

Ora, facciamo un salto verso le tendate. A Bologna, va detto, non bloccavano nulla. Le malelingue potrebbero dire che fossero un centro sociale a cielo aperto. Ma lì, invece come poi in altre occasioni, la partecipazione di una composizione studentesca “vera”, spontanea, si è data.

Ora, la tesi di fondo: questo “qualcosa sotto” ai soggetti che si mobilitavano, alle tendate, ci è parso di poterlo vedere nel bisogno di socializzazione e di rottura della solitudine che è tipica del percorso universitario. Il soggetto che fa l’università oggi è sostanzialmente solo come un cane. Nonostante le apparenze, anche le università sono territori in cui il legame sociale è devastato e, in qualche modo, gli studenti riconoscono questa cosa e la sentono come problema. Da un lato lo studente ha il percorso di investimento su se stesso, quello che abbiamo descritto; dall’altro ha il consumo di divertimento e di esperienza della città (che occupa un ruolo fondamentale, ovviamente) e infine ha le patologie e i sintomi (ansia, depressione, solitudine). Questo non è nulla di nuovo, sono i tratti della condizione giovanile. Certo. Però ci pare proprio che in qualche modo, nelle tende, nella mobilitazione per la Palestina si cercasse di rompere (e quindi implicitamente di politicizzare!) quella roba lì. All’indomani dello smantellamento volontario delle tendate – sostanzialmente per stanchezza e burnout, come si dice oggi (comprensibile dopo più di venti giorni!) – il sentimento comune suonava così: “Non abbiamo vinto nulla, ma almeno ci siamo divertiti e siamo stati assieme”.

Se gli ingredienti per la politica sono gente incazzata e individuazione del nemico, ci pare che questi due termini, oggi, non siano in alcun modo consegnati dalla realtà verso il soggetto studentesco. Si possono – soprattutto, si devono – operare delle forzature e verticalizzazioni, certo. Ma a ogni modo pare che questo non si dia. Abbiamo più volte riflettuto su questo rapporto tra consenso e forza dentro la mobilitazione. Ovvero c’era consenso ma mancava la forza, dove per forza intendiamo la possibilità di individuare il nemico. E mi pare di poter dire che non fosse tanto un problema di tattica e strategia, quanto un problema di maturazione della soggettività. Insomma, che i nemici fossero il rettore, un professore o un capo di dipartimento, lo erano sempre e soltanto per un momento estemporaneo, per una fase.

Qui provvisoriamente chiudo: quello che è stato, quello che è, e quello che sarà in autunno penso si possa intendere come sintomo e preludio di qualcosa che, prima o poi esploderà, e che però va proprio letto dentro questo vero e proprio massacro della composizione giovanile.

Ora, se vogliamo parlare di guerra e università dobbiamo almeno prendere in considerazione tre tipi di guerra.

La prima è quella più ovvia: il diretto ingresso della guerra dentro l’università. Stato e capitale utilizzano l’istituzione per la produzione di conoscenza in funzione e per la guerra. Quindi produzione legata alla competizione tra i diversi capitali e diversi poli in conflitto in questa fase di destrutturazione e ristrutturazione anche bellica della globalizzazione. Va tenuto presente quando si considera la ricerca direttamente e indirettamente legata alla guerra anche il cosiddetto dual use.

La seconda è quella che materialmente distrugge le università. E pone un insieme di problemi, a chi fa politica in quei contesti, del tutto differenti. Oggi Kiev, Gaza, Beirut, ma sappiamo che altre guerre sono alle porte.

La terza è l’economia politica intesa come continuazione della guerra con altri mezzi. Insomma, la guerra del capitale contro di noi, la violenza dell’accumulazione originaria che si ripete ogni giorno. E l’economia politica sussume, oggi completamente, le università. Oggi ne abbiamo discusso dal punto di vista delle trasformazioni soggettive (“utentizzazione” e trasformazione in capitale umano) ma quelle oggettive sono forse ancora più lampanti: gli studenti come esercito di forza-lavoro precaria a basso costo, l’indebitamento e la finanziarizzazione dell’istruzione superiore, l’estrazione di ricchezza attraverso i prezzi degli affitti e la privatizzazione selvaggia di tutto quello che un tempo erano servizi.

Quindi, in queste tre guerre guerreggiate, abbiamo provato a riflettere su come si porta una guerra diversa dentro le università. Una specie di gesto leninista, una “nostra guerra”, come discorso tattico, ma anche strategico – magari anche come slogan, credevamo ad un certo punto. Un gran bel ragionamento. Ma tutto sbagliato.

Il problema, alla fine, è che il soggetto studentesco non è un soggetto che vuole fare la guerra. Tutto il contrario. È un soggetto della diserzione. Senza illusione che, ad oggi, diserzione sia qualcosa di profondamente diverso dal “dimettersi in solitaria”. Bifo legge i sintomi (depressione, solitudine eccetera) come una diserzione dalla realtà capitalistica – una rinuncia. Insomma, tra prendere una parte nella guerra, parteggiare, o “darci a mucchio”, dove questo “darci a mucchio” può essere prendere le pilolle o prendere lo spritz, lo studente è comunque un soggetto che si dimette. Non prende parte.

Scontato dire che tutto questo va organizzato, con forme e linguaggi della politica nuova. Come sempre: con continuità e discontinuità assieme, le spalle al futuro, la testa nuova e il cuore antico. Come recitava un titolo della stampa di giugno, «nel 2029 la generazione Erasmus potrebbe dover marciare su Mosca»: ne vedremo delle bruttissime, ma speriamo di farci trovare pronti per organizzarla, la diserzione.

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Troppo fuorismo / Inchiesta

LA FABBRICA DELLA GUERRA. Modena nel conflitto globale

La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone lo spartito.

Una guerra che non nasce per caso o per malvage singole volontà, ma dalle condizioni strutturali della “pace” che l’ha preparata. Una pace imperialista, incrinata dalla crisi capitalistica globale, rotta dallo scontro tra potenze in declino e attori in ascesa per determinare la nuova architettura del sistema di mercato mondiale. Europa, Medio Oriente e Pacifico sono i suoi diversi fronti, dove già si combatte a diverse intensità o ci si sta preparando per farlo. E noi in mezzo.

E a Modena? Come la guerra sta già entrando nel nostro territorio e coinvolgendo le nostre vite, trasformando scuola, università e fabbrica sociale? Che tipo di figure la scuola dovrà formare alle necessità del conflitto? Quali relazioni intesse l’università con industrie militari e Stati coinvolti? Come si ristruttura il tessuto industriale emiliano a fronte della crisi globale e in funzione della guerra? Quali contraddizioni potrebbero aprirsi e quali soggetti mobilitarsi dentro e contro la «fabbrica della guerra»?

Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono armi e strumenti politici: punto di vista, metodo, inchiesta.

Un ciclo di incontri per discutere e costruire nuovi arsenali, a partire da ciò che funziona ancora di quelli vecchi, per sabotare e sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.

Al Dopolavoro di via canalino 78.

Segnatevi le date, a breve maggiori dettagli.

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Kultur / Cultura

LA MILITANZA NON VA IN VACANZA. Dagli anni Ottanta a oggi, e oltre

Sabato 17 giugno, ore 15.30, Modena,
@ spazio Happen, via Canaletto Sud 43, sotto l’RNord
Quarto e ultimo appuntamento del ciclo di incontri MILITANTI.
La militanza non va in vacanza. Dagli anni Ottanta a oggi, e oltre
Nella memoria collettiva, la militanza politica sembra scomparire dopo l’assalto al cielo degli anni Settanta. La fase iniziata con gli anni Ottanta, ancora in corso, appare come un buco nero.
È il periodo della reazione ai grandi cicli di lotte, quello della controrivoluzione capitalistica, del riflusso nel privato, dell’epidemia di eroina, dell’edonismo dilagante, della precarietà generalizzata, dell’avvento di internet e del mondo unipolare, che ha portato al mondo come lo conosciamo oggi.
Tuttavia, gli ultimi quattro decenni non sono stati affatto privi di conflitti, sperimentazioni, movimenti e forme di organizzazione politica anche originali, tra ambivalenze e contraddizioni, che si sono dovuti confrontare con la crisi della militanza: dal movimento antinucleare a quelli studenteschi della Pantera e dell’Onda, dalla stagione dei centri sociali alle mobilitazioni noglobal, dalle tute bianche al blocco nero, fino agli “ultimi fuochi” del 15 ottobre 2011 e alle “piazze populiste” degli anni recenti.
Quali sono stati i soggetti sociali protagonisti degli ultimi movimenti? Quali sono stati pregi e limiti delle loro forme di organizzazione? Come si è trasformata la militanza e il conflitto di fronte all’attivismo e alla testimonianza? Se siamo di fronte all’esaurimento di un ciclo, come immaginare (e praticare) di andare oltre?
Ripercorrere questi “decenni smarriti” vuol dire confrontarsi con i nodi irrisolti del presente, per riarmare il pensiero di fronte all’attualità, e costruire una prospettiva solida dentro e contro la storia di oggi. È quello che vuol dire essere militanti.
Ne parliamo con Gigi Roggero, ricercatore militante, collaboratore della rivista «Machina», autore di Elogio della militanza (2016), Il treno contro la Storia (2017), L’operaismo politico italiano (2019), Per la critica della libertà (2023), pubblicati con Deriveapprodi.
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Discorsoni / Analisi

Antonio Alia – «Un po’ di ansietta, ragazzi?» Per una lettura politica della condizione giovanile

«Stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo».

Mario Tronti, Dello spirito libero.

Un bel mondo di merda, non c’è dubbio. Che la guerra sta portando sull’orlo della crisi di nervi. O viceversa.

Guerra. Crisi. Nervi. Dei primi due abbiamo già parlato. Il mondo di domani e il destino della globalizzazione; i figli della crisi e la scuola di oggi. Era giunta l’ora di parlare di nervi. Ansia, angoscia, sofferenza mentale. Un vissuto sempre più diffuso, quasi pandemico. Che sembra attanagliare soprattutto i giovani. O che essi – grazie alla loro età, unita a una maggiore consapevolezza e a una meno pressante assuefazione – riescono a far emergere in modo più radicale. Perché loro necessità, bisogno. Chi ci ha raggiunti, nonostante la stanchezza, le pressioni e l’ansia di un quotidiano senza tregua già a sedici anni, lo ha fatto non a caso, evidentemente.

Abbiamo voluto provare a costruire un punto di vista di parte. Il metodo che sempre ci muove: mettere in prospettiva, produrre discorso politico, stimolare formule organizzative. Ma prima di tutto, inchiestare. Individuare le domande, saper ascoltare. Tentare di trovare le risposte nel processo. Ci interessava una lettura politica dell’ansia, legata alle trasformazioni produttive, all’individualizzazione del disagio, alle nuove logiche del comando. Andare dallo psicologo va benissimo, ma non può essere una soluzione per problemi politici. Denunciare la catastrofe siamo capaci tutti, il difficile è capire con chi dobbiamo prendercela. Invece di diventare specialisti del malessere, rendere un’arma il punto di vista – lo sguardo parziale di chi, come militante politico, può rovesciare il proprio destino.

Il disagio giovanile c’è sempre stato. Perché oggi la forma organizzata, collettiva, sembra non essere più sentita come una risposta? Che tipo di aspettative stanno circolando nella composizione giovanile? Quanto sono diverse rispetto alle sue stratificazioni? E se le aspettative sono cambiate, cosa succede quando si apre uno scenario di guerra che ci riguarda da vicino, su differenti scale ma concreto? Sono alcune domande che ci hanno mosso. Con la consapevolezza che l’ansia, in qualche modo, ce la teniamo in questo mondo di merda, perché disfunzionali al sistema che ci produce. Ce l’abbiamo tutte e tutti in comune, chi più, chi meno, sicuramente in forme diverse.

E allora cosa ce ne facciamo? Come possiamo giocarcela insieme? Come cominciamo a farla venire ai padroni, a chi comanda, a chi ci vuole deboli, isolati e rassegnati? Lottare, lo sappiamo bene, ha sempre comportato ansia e inquietudine. Ma essere compagni, per noi, significa soprattutto questo: fronteggiarla insieme, rovesciandola in forza e militanza.

Pubblichiamo qui l’intervento di Antonio Alia, educatore e redattore della rivista «Commonware», che ha aperta la discussione del primo ottobre. Nonostante questo bel mondo di merda, buona lettura.

 

Antonio Alia

Ringrazio i compagni di Kamo per avermi invitato ad intervenire a questo dibattito. Dato che si parla di giovani e a farlo è un quarantenne, tenterò da un lato di non assumere un atteggiamento giovanilista, per cui tutto quello che fanno i giovani è buono di per sé, e dall’altro di evitare un certo paternalismo, per cui quello che fanno i giovani oggi è sempre sbagliato. Allo stesso tempo cercherò di barcamenarmi nel difficile ruolo di chi deve introdurre un dibattito sui giovani senza però parlare al posto loro, cercando di non spiegare a loro quello che probabilmente conoscono meglio di me. Vorrei quindi limitarmi a sollevare delle questioni, e a problematizzarne delle altre per aprire un confronto e verificare delle ipotesi.

Partirei dalla definizione di una parola che è stata usata nel testo di lancio di questo dibattito, non perché sia un esperto in materia ma perché mi sembra un modo utile per approssimare i problemi. La parola è ansia.

Parola che non è stata scelta a caso, perché da quello che mi raccontano amici e compagni che lavorano nelle scuole, ma anche da quello che viene raccontato sugli organi di stampa e rappresentato nelle serie tv, pare che l’ansia sia un tratto generazionale. Mi piacerebbe capire con voi, nel corso di questo incontro, se questo è un tratto effettivamente reale, quanto diffuso, quali le fasce giovanili maggiormente interessate, quali le cause ambientali, oppure se si tratta di una semplice rappresentazione mediatica. Certo va detto che deve essere sentito come un problema diffuso se la richiesta di servizi psicologici è stata presente anche nelle rivendicazioni di alcune delle più recenti mobilitazioni studentesche. Su questa rivendicazione ci torno più tardi.

Proprio perché non sono un esperto sono andato a cercarmi su internet le definizioni di ansia. Ne riporto due: una tratta dal sito dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia comportamentale e una da Wikipedia, che a sua volta cita il manuale diagnostico delle malattie mentali dell’associazione psichiatrica americana. Si tratta insomma di fonti relativamente attendibili.

La prima definizione è la seguente: «Ansia è un termine largamente usato per indicare un complesso di reazioni cognitive, comportamentali e fisiologiche che si manifestano in seguito alla percezione di uno stimolo ritenuto minaccioso e nei cui confronti non ci riteniamo sufficientemente capaci di reagire».

La seconda definizione è questa: «L’ansia è uno stato psichico di un individuo, prevalentemente cosciente, caratterizzato da una sensazione di intensa preoccupazione o paura, relativa a uno stimolo ambientale specifico, associato a una mancata risposta di adattamento da parte dell’organismo in una determinata situazione che si esprime sotto forma di stress per l’individuo stesso».

Il primo elemento da trattenere di queste definizioni è che l’ansia è generata da fattori ambientali. Il secondo elemento è che questo stato emotivo e cognitivo ci rende incapaci di agire. Il terzo elemento è che è associato a una mancata risposta di adattamento in una determinata situazione ambientale.

A me pare che sia un po’ difficile negare che questi tre elementi non abbiano una connotazione squisitamente politica, dove per politica intendo che hanno a che fare con il funzionamento della società in cui ognuno di noi è collocato. E già dire questo ci porta a delle conclusioni particolarmente radicali rispetto alla cura. Ma procediamo con ordine.

Quali sono allora questi funzionamenti sociali che generano ansia? Ce ne sono di diversi. Azzardo delle ipotesi che servono soprattutto a individuare una genealogia al problema dell’ansia giovanile. Naturalmente al netto di una ricostruzione storica, le mie sono solo delle ipotesi che partono dalla mia percezione, che non è uguale alla vostra perché abbiamo età diverse e siamo collocati in posizioni sociali diverse. Quindi mi piacerebbe capire cosa ne pensate.

A me sembra che una delle cause più importanti della produzione di ansia, che è la risposta emotiva che anticipa una minaccia futura, sia non tanto l’incertezza per il futuro, perché il futuro è incerto in quanto tale, ma l’imprevedibilità dei costi e dei benefici futuri che possono comportare alcune scelte di vita (il tipo di scuola, per esempio) o di condotta (l’impegno nello studio, altro esempio). Voglio dire che una quota consistente dell’ansia è dovuta all’incremento dei rischi scaricati sugli individui e all’esaurimento dell’efficacia dell’agire strumentale (come dicono i sociologi), ovvero che il rapporto tra mezzi e fini si fa sempre più incerto: per esempio, non è una certezza che il mio impegno nello studio mi porti in futuro risultati soddisfacenti. Questa situazione però non è un dato di natura. Non è sempre stato così, e quindi non è detto che debba essere così.

C’è stato un periodo storico in cui bene o male le biografie individuali erano pressoché già determinate o standardizzate, la rosa delle scelte di vita era limitata e con essa anche il livello dei rischi. Ciò avveniva in virtù di un’organizzazione sociale imperniata sul lavoro salariato “standard”. La fabbrica, con la sua rigidità, organizzava la società. Era il cosiddetto compromesso fordista-keynesiano, che si basava sullo scambio tra legittimità sistemica e prospettive di vita più o meno sicure.

Le lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta se da un lato hanno imposto standard sempre più alti per questo compromesso, dall’altro lo hanno anche radicalmente messo in discussione. Queste lotte sono state importanti non tanto perché hanno conquistato dei diritti o dei salari più alti, ma perché hanno messo in discussione il fatto che per campare, in una società capitalista, si debba vendere la propria forza-lavoro. Gli operai si rifiutavano di essere operai, schifavano l’essere operai, schifavano la vita già segnata dalla fabbrica. Stessa cosa si poteva dire per le donne, che rifiutavano la collocazione nel lavoro domestico imposta dalla divisione del lavoro centrata attorno alla fabbrica. Vi suggerirei di leggere un bellissimo romanzo, che a me è servito più di mille saggi, che ha un titolo bellissimo: Vogliamo tutto di Nanni Balestrini.

Questo rifiuto del lavoro di fabbrica non si è trasformato in una rivoluzione. È stato sconfitto dai padroni, ma non con la semplice repressione, che pure c’è stata (anche perché se non c’è significa che non si è riusciti a far paura al nemico), ma per assimilazione. I padroni hanno detto: volete la libertà dalla catena di montaggio, dalla sua noia? Non c’è problema, potete arricchirvi tutti, potete diventare tutti imprenditori di voi stessi, aprirvi start-up, fare i youtubers, oppure usare i vostri saperi, le vostre competenze, la vostra intelligenza per farvi spazio in un mercato del lavoro competitivo. Sappiate però che tutti i rischi del caso sono a carico vostro. Se fallite, la responsabilità è solo vostra, anche se i rischi delle scelte non sono uguali per tutti.

È il mondo della meritocrazia. È chiaro che questa è una mistificazione: la libertà dalla catena di montaggio è diventata precarietà; la potenza del sapere è diventata “capitale umano” e più che possederlo ne siamo posseduti, tant’è che per valorizzarlo, per non restare indietro nella corsa, siamo costretti ad accumulare titoli di studio e credenziali formative che perdono sempre più valore proprio nella misura in cui continuiamo ad accumularli; infine, senza neanche starlo a sottolineare, dobbiamo continuare a vendere la nostra forza lavoro a qualcuno o sul mercato.

Qui aggiungerei un elemento di critica culturale: il trapper che canta al mondo quanto è figo per aver fatto i soldi con le sue canzoni o con le attività illegali non si sottrae a questa logica individualistica. Non ha proprio nulla di rivoluzionario, anzi direi che tra lui e un Carlo Calenda o un Elon Musk qualsiasi non c’è alcuna differenza, perché resta in una logica tutta individuale del successo.

Un altro elemento ambientale che possiamo rintracciare tra le cause di questa ansia generalizzata è la trasformazione dello stile di potere all’interno della scuola – ma più in generale nei vari ambiti della società – da paternalista a maternalista, come Gigi Roggero diceva in un altro incontro organizzato dai compagni di Kamo. Come sostiene Gigi, il maternalismo non è né peggio né meglio del paternalismo, è semplicemente diverso. Se il paternalismo agiva usando il bastone e la carota per governare le anime, il maternalismo per farlo usa la relazione interpersonale, le qualità emotive, e genera ansia perché funziona secondo la logica del debito morale, sul ricatto della delusione. Il paternalismo ti dice che non puoi fare una certa cosa o che ne puoi fare una cert’altra; il maternalismo ti dice invece «non mi deludere». In questo senso l’ansia mi sembra non tanto una conseguenza accessoria, ma un fine specifico delle relazioni di potere in questi ambiti della riproduzione, sia della forza lavoro che capitalistica.

In qualche modo, quindi, mi sembra che si possa dare una lettura politica dell’ansia intesa come il costo dell’incertezza sistemica scaricata verso gli individui. A questo elemento se ne accompagnano poi tutti degli altri che sono oggetto di cronaca: la guerra, la crisi economica, e così via. Con questo non voglio dire che prima era meglio, perché come abbiamo visto quel prima è stato invece oggetto duramente contestato da lotte; voglio invece che dire che oggi è diverso e che questo diverso va messo bene a fuoco.

Il secondo elemento da riprendere dalle definizioni è che l’ansia ci rende incapaci di agire. Da un lato c’è anche questo effetto, chi ha sperimentato un problema d’ansia anche piccolo sa che ha il potere di immobilizzare. Dall’altro, poiché il capitale ha bisogno del nostro agire produttivo, più che immobilizzare l’ansia accresce la nostra accettazione. Quando sentiamo la minaccia del futuro accettiamo più facilmente lo stato di cose semplicemente perché ci offrono un minimo di sicurezza. In questo senso l’ansia è proprio un dispositivo di governo. E tutto questo parlare di ansia, di patologie, sui giornali, sui social, nelle serie tv, alla fine anche se dà l’impressione di essere una forma di critica della società non fa che produrre accettazione.

Un soggetto ansioso ha bisogno di cure, di aiuto, è infantilizzato, è vittima e non ha autonomia. Quindi l’ansia invece di spingerci a rompere con il funzionamento di un sistema ci porta a chiedere la sua protezione. È soprattutto per questo che, per esempio, dovremmo stare attenti quando usiamo la categoria di catastrofe (ambientale o sociale poco importa). Che non significa negare l’esistenza di un grave problema, né l’urgenza della sua soluzione, ma significa criticare l’ordine del discorso catastrofista, la retorica della catastrofe che pure ha degli effetti materiali sulle nostre vite, perché immobilizza.

Infine il terzo elemento delle definizioni è che l’ansia è associata a un mancato adattamento ad una certa situazione ambientale. Questa parte della definizione mi sembra quella più ideologica, perché implicitamente ci suggerisce che nel caso di una frizione tra l’individuo e il contesto è l’individuo a doversi adattare e non il contesto a doversi trasformare. E la psicologia è lo strumento con cui produrre questo adattamento. Qui però bisogna fare attenzione: quando dico che la psicologia ha una funzione ideologica non intendo dire che non funziona. Al contrario, la psicologia ha una connotazione ideologica proprio nella misura in cui funziona. Infatti, funzionando efficacemente e quindi risolvendo il problema della frizione tra l’individuo e l’ambiente, produce contemporaneamente una mistificazione, cioè nasconde la natura sociale del problema, individualizza il problema e la sua soluzione, salvando il funzionamento del sistema.

Non è un caso per esempio che nelle industrie della riproduzione come quella dove lavoro io, le aziende paghino una psicologa per condurre delle supervisioni relazionali che servono per risolvere i conflitti interni al gruppo di lavoro, o per alleviare l’impatto del carico di lavoro sulla tenuta psichica dei lavoratori. È evidente che attraverso la psicologia problemi di ordine politico (la relazione di potere all’interno del posto di lavoro) e sindacale (i ritmi e il carico di lavoro) vengono trasformati in problemi individuali e psicologici. È un grande inganno a cui si aggiunge un altro elemento: l’apertura emotiva del lavoratore, il conforto “caldo” che in questo spazio maternalista si può trovare produce nel lavoratore fedeltà nei confronti della mission aziendale e senso di colpa per aver titubato, per non averci creduto, e quindi infine accettazione.

Da questo punto di vista la psicologia è la nuova scienza padronale, contro la quale dobbiamo ancora affinare la critica, mentre vedo che fioriscono discorsi su fantomatiche “società della cura” completamente decontestualizzati, e cioè che non tengono conto del fatto che viviamo in una società capitalistica che non solo mette a valore questa cura ma la rende una forma del potere.

Infine mi sembra che i disturbi psicologici siano stati investiti da una potentissima estetizzazione. Pensiamo, ad esempio, a una serie tv come Euphoria, che ha avuto un grandissimo successo, oppure a come il disturbo psicologico viene raccontato sui social non solo da personaggi conosciuti ma anche dalle persone, soprattutto giovani, più comuni. Sembra quasi che se non hai un disturbo sei uno sfigato. Ecco, al di là della concretezza dei disturbi, mi sembra che questa estetizzazione serva a fornire, dentro un campo sociale segnato dalla frantumazione e dalla moltiplicazione delle identità, un ulteriore elemento di distinzione che può anche diventare un vantaggio competitivo, una sorta di capitale simbolico spendibile sul mercato del lavoro e nei processi di valorizzazione capitalistica, come accade già per esempio per le differenze nel campo delle identità sessuali.

So bene che, come dicevo all’inizio, in alcune mobilitazioni studentesche è stata presente la richiesta di servizi di cura psicologica, a dimostrazione di quanto questo ordine di problemi è sentito, e non è mia intenzione dare un giudizio di valore sulla qualità delle istanze che si muovono nelle lotte e nelle mobilitazioni (io e la mia generazione – per dire – abbiamo lottato durante il movimento dell’Onda sostanzialmente per quella schifezza che chiamiamo meritocrazia, e abbiamo visto dove siamo arrivati) ma se ci prendiamo il tempo di riflettere, di andare al fondo delle cose, non possiamo accontentarci di quello che si muove: dobbiamo sempre fare lo sforzo di guardare oltre, di radicalizzare lo sguardo per spingere un po’ più in là critica e la lotta.

Per chiudere direi questo. Un compagno con cui mi sono confrontato per preparare questo incontro – dovete sapere che le cose che dico sono sempre il risultato di ragionamenti collettivi, di cui mi faccio semplicemente portavoce – mi metteva in guardia rispetto al rischio di fare come gli psicologi. Vale a dire di fornire ai diretti interessati, e cioè ai giovani, un’interpretazione, ancorché politica, del sintomo, nel nostro caso l’ansia, e una soluzione facile, che potremmo tradurre nello slogan «ribaltiamo l’ansia contro i padroni», che può generare l’angoscia di non fare abbastanza.

Penso che questo slogan non sia tanto la nostra soluzione già pronta ma rappresenti invece il problema che abbiamo davanti. Forse in parte, ci dobbiamo tenere l’ansia di non sapere qual è il nostro modo di organizzarci e di lottare, perché solo così possiamo avere la libertà di sperimentare e di sbagliare, sapendo però che non stiamo iniziando nulla di nuovo, perché veniamo da lontano.

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Discorsoni / Analisi

Gigi Roggero – «I figli della crisi». Studenti e scuola al tempo della guerra

Il filo rosso che abbiamo seguito, il punto di vista che abbiamo voluto costruire.

Con la prima presentazione che abbiamo organizzato, (Transizione ecologica e territorio: quale futuro per Modena?, 11 dicembre 2021) volevamo capire come sarebbe cambiato, dopo la pandemia, l’uso capitalistico del nostro territorio, Modena e l’Emilia, attraverso il Pnrr, il piano di investimenti europeo che grossomodo è stato presentato come un nuovo New Deal. Non ci siamo limitati a statistiche sull’occupazione, ma abbiamo cercato di anticipare delle traiettorie, per esempio guardando a quello che gravita intorno alla “transizione ecologica”, vale a dire il passaggio, la ristrutturazione, verso un certo tipo di produzione e ai suoi effetti per il nostro territorio: è da poco l’approvazione di una direttiva dell’Unione Europea che fissa nel 2035 la data dell’ultimo anno in cui verranno prodotti motori a combustione interna, e immaginate cosa può voler dire per una zona come la nostra, denominata Motor Valley, in cui si costruiscono automobili, veicoli e soprattutto componentistica. Ecco, quel sabato avevamo provato a ipotizzare come potrebbe cambiare il nostro territorio soprattutto per chi lo abita, chi ci lavora, chi ci vive.

Con il secondo incontro (Dentro e contro il «modello Emilia», 5 marzo 2022) siamo passati invece dal presente alla storia del “modello emiliano”, delineando quali sono stati i processi che hanno portato Modena e l’Emilia a quello che sono oggi. Nel ripercorrere i punti nodali dal dopoguerra, passando ovviamente per gli anni Sessanta e Settanta, abbiamo riletto quelle traiettorie alla luce delle lotte operaie e studentesche, in particolare quelle impulsate dall’operaismo e dagli operaisti locali poi divenuti Potere Operaio, che hanno interessato la nostra città e tutta la provincia in un modo inedito. Abbiamo visto quali fossero le soggettività sociali e politiche che sono state protagoniste: studenti, operai, donne; lotte autonome che restavano fuori dai sindacati e fuori dai partiti (o meglio, spesso contro i sindacati e contro i partiti, perché l’interesse operaio era diretto, cozzando con gli interessi delle mediazioni). Seguendo il modo in cui queste istanze eterogenee – le lotte sul lavoro e le trasformazioni della scuola e dei rapporti – si siano amalgamate, abbiamo osservato quali possibili armi ci hanno lasciato.

Nel penultimo incontro (Il mondo di domani. Guerra in Europa e destino della globalizzazione, 2 aprile 2022), invece, siamo tornati alla nostra contemporaneità, una contemporaneità che è inevitabilmente contrassegnata dalla guerra e dalla fine della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta, tra crisi, geopolitica e finanza. Quali, tra i processi già innescati, hanno raggiunto un punto di rottura? Quali le conseguenze per il prossimo futuro? Quali tendenze potrebbero svilupparsi e vederci da vicino coinvolti? In questo sovrapporsi vorticoso di crisi – la crisi ecologica, la crisi pandemica, adesso una guerra di portata globale – nessuno può sentirsi fuori.

Arriviamo così all’ultimo incontro, (I figli della crisi. Essere giovani al tempo della guerra, 25 giugno 2022, di cui di seguito pubblichiamo l’intervento di Gigi Roggero) che vede proprio voi e la vostra generazione, i giovani e gli studenti, protagonisti di queste trasformazioni. Perché sarete voi a vedere e dover vivere in un mondo completamente diverso rispetto a quello in cui abbiamo vissuto noi un po’ più vecchi. Non a caso, durante l’ultimo incontro uno dei relatori, Raffaele Sciortino, ha detto una cosa che ci ha da subito confermato quanto fosse necessario organizzare questa giornata. Ha detto che nell’ultimo decennio, quindi suppergiù dalla crisi del 2008-2011 e dagli ultimi movimenti di massa nati in quel contesto – da Occupy agli Indignados all’Onda, che voi non avete potuto vedere, mentre noi, quando avevamo la vostra età, ci eravamo in mezzo – i giovani sono stati, stranamente, quasi fermi. Sia chiaro, fermi non perché non vedessero quello che succedeva intorno: anzi, lo sanno bene e hanno molta coscienza e lucidità, ma ancora si fatica a trovare una forma organizzativa nuova.

Alla fine del suo intervento, ha detto una cosa che condividiamo: che sarà fondamentale come si posizioneranno i giovani nella trasformazione sociale e politica in corso. Con la guerra e con la crisi economica che arriverà in autunno vediamo l’economia mondiale che si ristruttura – perché c’è un pezzo di mondo che si sta scollegando dall’Occidente, o oppure è l’Occidente che si sta scollegando da un pezzo di mondo? – e già sappiamo che questo avrà delle grosse conseguenze che vivremo in prima battuta e toccheremo con mano; saranno i giovani i protagonisti di nuovi movimenti, delle possibili nuove lotte che si potranno dare in questo frangente? Quale sarà il loro ruolo? Sarà importantissimo come si posizioneranno domani.

Quindi abbiamo vogliamo capirci qualcosa di più, confrontarci e dare la parola a voi ragazzi. Con alcuni di voi a Modena ci siamo conosciuti nell’ultimo periodo con lo sciopero contro l’alternanza scuola-lavoro. Noi c’eravamo, siamo venuti a dare il nostro sostegno ma anche e soprattutto a conoscere le profonde motivazioni oltre la retorica, oltre a quello che dicono ceti politici, collettivi, partitini, sindacati. Volevamo ascoltare direttamente chi era in quella piazza, volevamo sentire quali erano i motivi materiali della rabbia e quali le problematiche che si vivono non solo a scuola, ma a essere appunto “i figli della crisi”, a essere una generazione che non deve cercare giustificazioni per far casino. Se la voglia di far casino c’è, be’, è più che legittima, perché ormai ne state vedendo talmente tante che non serve un motivo specifico per essere spaventati, nutrire delle ansie o essere incazzati. Ecco, è su questo che ci piacerebbe continuare discutere.

Per sciogliere il ghiaccio abbiamo chiamato con noi Gigi Roggero. Doveva venire anche un’altra ospite, Anna Curcio, anche lei come Gigi insegnante, anche lei redattrice della rivista «Machina», anche lei ricercatrice indipendente, soprattutto per quanto concerne i temi legati al genere e alla razza. Purtroppo non è potuta venire per problemi di salute, e quindi abbiamo discusso con Gigi su come si sta trasformando la scuola capitalistica nella sua struttura in questa fase, e quali i nodi da sciogliere.

Buona lettura.

Gigi Roggero

Grazie davvero ai compagni di Kamo, grazie dell’occasione di fare questa discussione. Faccio tre premesse, brevi, e poi dirò alcune cose spero rapide.

La prima premessa è che, se mi dovessi presentare, io sono un militante politico per scelta e un insegnante incidentalmente, per casualità. La seconda, visto il sottotitolo I giovani al tempo della crisi, è che io giovane oggettivamente non lo sono, e quindi sarete voi a dovere parlare dei giovani e della crisi. Non sono oggettivamente giovane, mentre soggettivamente non lo sono mai stato. Perché vedete, anche quando ero oggettivamente giovane, odiavo la definizione di giovane, per cui non mi sono mai riconosciuto in quella categoria. La terza cosa è che tendenzialmente le cose le dico e magari le ripeto per molto tempo, anche affabulando. Se quindi a un certo punto mi vedeste insistere troppo su aneddoti o comunque occupare troppo tempo, voi tranquillamente toglietemi la parola.

Dirò quindi due parole su come vedo la scuola, innanzitutto dal punto di vista politico, e non su come la vedo io individualmente – perché l’individuo è un’invenzione della modernità capitalistica, dunque non bisogna rassegnarsi all’io. L’individuo non è sempre esistito, anche a scuola a un certo punto inizieranno a parlarvi di individui, voi sappiate che esiste solo da un certo momento in avanti, tra il Cinquecento e il Seicento. Prima gli individui non esistevano, e tutto sommato la loro invenzione non è stata propriamente buona. Quindi eviterò la boria di dirvi come la penso io, ma proverò a riportare le riflessioni politiche fatte insieme a vari altri compagni e alle reti di compagni (come le riviste «Machina» e «Commonware»), le esperienze politiche a cui sono stato interno e le elaborazioni che abbiamo fatto sulla scuola. Si tratta perciò di un pensiero collettivo, che ovviamente la mia posizione casuale e incidentale di insegnante mi permette di verificare, correggere, modificare dall’interno di questo ruolo.

La prima questione da chiarificare è che cos’è, davvero, la scuola. Allora, ne sentirete tante sulla scuola. Sicuramente ne avete già sentite, anche dagli insegnanti quando vi sventolano «il valore della scuola», «l’importanza della scuola». Soprattutto gli insegnanti di sinistra, con la loro concezione di una scuola idealizzata e che non esiste più o che non è mai esistita. Uno slogan molto diffuso ci dice che “bisogna difendere la scuola pubblica”. Però bisogna subito capire che scuola è questa che si dovrebbe difendere.

Mettiamolo chiaro fin da subito: la scuola è un’industria. La scuola è l’industria scolastica. È un’industria che ha un obiettivo ben preciso, quello di produrre della forza lavoro, e di produrre la soggettività di questa forza lavoro. Cosa intendo con “produzione di soggettività”? Intendo che voi, quando entrate in una scuola, venite prodotti in quanto attori che devono muoversi dentro una trama di relazioni, che costituisce la società capitalistica. Come dirò anche più avanti, la questione della disciplina e di come vi dovete comportare è fondamentale e su questo insistono parecchio i vostri insegnanti. E magari soprattutto in alcuni indirizzi, soprattutto nei tecnici o nei professionali, nelle rampognate dei prof il paragone viene fuori di continuo: «Quando vi troverete nel mondo del lavoro…», «Se già adesso fate così, pensate a cosa succederà quando vi troverete davanti a un datore di lavoro», e via discorrendo. Riassumendo, la scuola è un’industria che ha l’obiettivo preciso di produrre la soggettività della forza lavoro, ovvero un modo, oltre che di produrre, di comportarsi e di accettare le regole del gioco.

Spesso si parla di “aziendalizzazione” della scuola; ma aziendalizzazione della scuola non significa semplicemente “privatizzazione”, cioè soggetti privati che entrano nella scuola o nell’università. È sicuramente anche questo, intendiamoci: ad esempio a Bologna ci sono degli istituti che hanno le officine della Ducati, perché è da lì che vanno a pescare. Però non è solo questo, solo l’entrata del capitale privato dentro un’istituzione che prima era pubblica. “Aziendalizzazione della scuola” significa che la scuola stessa, indipendentemente dal fatto che sia pubblica o privata, deve ragionare come un’azienda. Quindi deve calcolare nei termini di input e output, nei termini dell’efficacia produttiva, dei costi-benefici, e così via.

Vi faccio un esempio. Quello che viene chiamato “preside” non è più il preside, ma un “dirigente scolastico”. Non è solo un cambiamento di definizione formale, c’è un cambiamento sostanziale. Il dirigente scolastico deve gestire la propria azienda, e deve gestirla facendo che cosa? Gestendo la forza-lavoro, facendo promozione e marketing, attirando le famiglie degli studenti, che sono “utenti”. Interviene, che so, negli scrutini finali e dice «questo utente qua va promosso perché sennò poi la famiglia è scontenta»; «questo utente qua è di una famiglia che non ci interessa più di tanto, una famiglia da cui non ne caviamo fuori molto e quindi questo qua può essere abbandonato, è sacrificabile». Quindi il dirigente scolastico è un manager, che interviene esattamente come il manager rispetto all’azienda: facendo un’analisi dei clienti.

Anche le promozioni e le bocciature non rispondono a questo fantomatico criterio del “merito”, parola che, appena la sentite, dovete spolverare le armi che avete (e vabbè, credo che non ci sia nemmeno bisogno di soffermarci sul perché il merito faccia parte del linguaggio del potere). Il rapporto tra promozioni e bocciature dipende dagli interessi di mercato che i singoli istituti hanno rispetto al territorio e alla clientela. E lo studente, oltre a essere un “futuro lavoratore”, è a tutti gli effetti forza lavoro già operante, da un lato in quanto utente messo in produzione, dall’altro in quanto comproduttori di saperi, merce centrale nel capitalismo contemporaneo.

E poi lo vedete anche voi la neolingua che si parla nell’industria scolastica. L’invasione, la diffusione, l’inflazione degli acronimi – Pof, Ptof, Pdp, Pcto e tutte queste cazzate qui. Onestamente io non ci ho mai capito niente, e per quanto mi rifiuti di capire, tutti gli altri insegnanti si ostinano a parlarmi per acronimi. Attenzione, questi termini non sono neutri. Perché si usano? Perché è molto nello stile aziendalista. Se aveste modo di sentire come si parla nelle aziende, vedreste che funziona così. Quindi persino le siglette coi puntini che si usano a scuola sono funzionali a questo processo di aziendalizzazione.

Quindi sappiate che, quando andate a scuola, siete degli operai che vanno in un’industria. Degli operai specifici, degli operai della conoscenza. Degli operai, ovviamente, collocati dentro una gerarchia di istituzioni, perché non si pretende da tutti la stessa cosa. Per farla breve, la funzione di ogni istituto cambia a seconda delle gerarchie in cui l’istituto stesso è collocato: la posizione cambia se è un liceo, se è un istituto tecnico o se è un professionale; e poi che tipo di liceo o di istituto è; e poi in che zona è collocato, se è del nord o del sud, se della città o della provincia, oppure come si piazza nel ranking, nella classifica degli istituti. Quindi la scuola funziona a tutti gli effetti come un’industria.

A questo punto, proviamo a vedere chi lavora dentro questa industria. Come abbiamo già anticipato, ci sono gli organi della dirigenza industriale, poi il personale tecnico-amministrativo e i professori. I professori sono quelle figure che riconoscete perché si lamentano sempre. Detto tra noi, questo lamento non l’ho mai capito: tutto sommato il professore fa 18 ore di lavoro alla settimana. Lo so che è un discorso che potrebbe suonare come ambiguo e che se ci fosse qualche sindacalista immediatamente si inalbererebbe; però insomma, Stachanov nel ’35 aveva altre impellenze dal punto di vista dell’orario e della fatica. Poi mi direte se nella vostra esperienza avete visto qualcosa di diverso, nella mia ciò che vedo è che i professori sono quelle figure che godono nell’esibire un supposto peso del mondo sulle proprie spalle. Io non capisco mai effettivamente che cosa facciano per ritrovarsi sulla groppa tutta questa tragedia.

Sono solito dire che non è un granché fare il professore, però tutto sommato dal punto di vista dell’orario è comunque meglio che lavorare veramente. È vero che, oltre alle 18 ore formali, ci sono i consigli di classe, gli scrutini, i compiti da correggere e le lezioni da preparare; però, ripeto, stiamo parlando di un tempo limitato rispetto a tanti altri lavori. Limitato però anche dal punto di vista del salario. Tenete conto che un docente guadagna 1500-1600 euro con scarsissima progressione di carriera, vale a dire che il salario aumenta di ben poco anche se sei lì da venti o trent’anni. Il salario è molto basso se si tiene conto che i professori sono figure che, dal punto di vista della gerarchia capitalistica, sono qualificate: ganno quantomeno la laurea e spesso non solo, perché adesso molti sono profughi dall’università, arrivano proprio con i barconi carichi dei loro titoli, cioè dottorati, master, assegni di ricerca ecc. Li riconoscete “come idealtipo” perché sono quelli più frustrati, più con la bava alla bocca, che rompono di più le palle. Quindi 1500-1600 euro, se ci atteniamo a quelle che sono le gerarchie capitalistiche, quindi il rapporto tra titolo di studio e salario, effettivamente è poca roba se lo compariamo al salario corrispondente europeo; al contempo, però, è piuttosto basso l’orario di lavoro. Quindi è come se ci fosse stato uno scambio tra salario e orario, ossia lavoro poco e guadagno poco.

Questa è stata la cosa che è stata pacificamente accettata anche dai sindacati, anzi direi sollecitata dai sindacati. Si è infatti portati a identificare non solo nel personale tecnico-amministrativo e Ata, ma anche nel ruolo del professore il “sogno” – io direi la distopia – dell’arrivare all’impiego pubblico. Nell’industria scolastica ci sono tanti Checco Zalone, soddisfatti di aver raggiunto il posto fisso: che lo si sia ottenuto facendo il poliziotto, l’impiegato delle poste o il professore, cambia poco. I sindacati propongono un mondo di impiegati pubblici, fatto di Checco Zalone e ragionier Filini, un mondo soggettivamente terrificante e di completa alienazione. Decisamente meglio la precarietà!

Succede quindi che mediamente gli insegnanti, proprio per questo squilibrio tra titolo di studio e salario, si portino dietro un carico di frustrazione che aumenta esponenzialmente se appunto arrivano dall’università, quindi se pensavano, sognavano, volevano fare altre cose e invece si ritrovano in una scuola superiore. Più si scende nella gerarchia degli istituti e si va verso i professionali, più aumenta la fissazione con la disciplina. Nei consigli di classe, l’aspetto della didattica è piuttosto marginale; si parla, fondamentalmente, della disciplina («quello ha ruttato», «quello ha scoreggiato in classe», «quello urlava» e tutte robe di questo tipo). Spesso l’insegnante non ha chiari i confini del proprio ruolo, cioè non capisce che è lì per insegnare e dovrebbe svolgere una funzione di produzione e trasmissione di conoscenza. Invece l’insegnante diventa un po’ vigile, un po’ poliziotto, un po’ assistente sociale – tutti lavori disprezzabili, ovviamente – con un’accentuazione ulteriore se di sinistra.

Mettiamolo in chiaro una volta per tutte: tendenzialmente il peggio che vi possa capitare è avere degli insegnanti di sinistra. Sono quelli più moralisti. Di fronte a un’occupazione, ad esempio, un bell’insegnante reazionario dice: «Sono contro perché c’è la legalità e c’è l’illegalità, e se c’è l’illegalità mando i carri armati e vi stermino». Il reazionario rende chiari i termini del problema, cioè la questione dei rapporti di forza: se abbiamo la forza fronteggiamo i carri armati procediamo, se non l’abbiamo scegliamo tatticamente altre strade. Sono tuttavia chiari il ruolo e il rapporto amico-nemico. Invece, cosa fa l’insegnante di sinistra? L’insegnante di sinistra è quella strana figura che innanzitutto vi dirà che non ci sono i confini di ruolo, quindi «sì, io sono insegnante, ma in fondo noi siamo un po’ amici». Non è vero. Soggettivamente mi posso collocare dentro a una classe in una maniera più simpatetica, ma oggettivamente il mio ruolo di insegnante mi identifica come controparte degli studenti. Su questo non ci devono essere equivoci o ambiguità. Questo vale anche altrove: soggettivamente ci si colloca dentro un ruolo in un modo o in un altro, ma comunque rimangono dei ruoli capitalisticamente determinati. Dentro un’industria, voglio dire, uno può avere un caposquadra testa di cazzo o un caposquadra che è una brava persona, ma è pur sempre il caposquadra. E non è che i padroni siano tutta gente con la bava alla bocca, possono essere delle bravissime persone, però non significa niente: quando si dice che sei uno sfruttatore, non è un’etichetta morale, è un posizionamento oggettivo.

Così avviene anche per gli insegnanti. Sì, se si vuole sono delle controparti particolari, essendo anche loro dei lavoratori dell’industria della formazione, però l’insegnante di sinistra cercherà continuamente di mistificare, cioè di nascondere, il ruolo oggettivo che ricopre. Quindi si siederà tra di voi, verrà vestito in modi “colorati” e via di questo passo. Ecco, di quelli lì diffidate a priori, perché nel momento dell’occupazione non vi dirà «io sono contro perché occupare è reato», no, vi dirà: «io non sono contro l’occupazione, ci mancherebbe, le ho fatte anche io, MA…». È come quando uno dice «non sono razzista, ma…», quello che viene dopo il “ma” squalifica tutta la prima parte della frase. Anche in questo caso, dimenticate tutta la prima parte della frase e ascoltate solo quello che viene dopo la congiunzione avversativa. Il prof vi dirà che ai suoi tempi si occupava, ma si occupava in modo diverso, mentre voi non siete consapevoli di come occupate, ed è quello lì che vi critica, mica l’occupazione in sé: ci mancherebbe, non è mica un reazionario! Ecco, quello lì cercate di “farlo fuori”, allontanarlo, perché aggiunge a tutte le cose che abbiamo detto prima una carica di ipocrisia moralistica veramente insopportabile.

Un’altra figura tremenda, che infesta i peggiori incubi degli studenti, è quella della professoressa. E non a caso la dico con questa connotazione di genere, dal momento che la dimensione di genere tra i professori è rilevante. Mi spingerei quasi a dire che nella scuola non vige una dimensione patriarcale, ma più che altro una dimensione matriarcale. In primo luogo dal punto di vista quantitativo: mediamente le professoresse nelle scuole sono la maggioranza o la stragrande maggioranza del corpo insegnante, fin dai tempi del libro Cuore. Da allora è entrata nell’immaginario collettivo la “maestra dalla penna rossa”, a simboleggiare la scuola come veicolo di emancipazione femminile. Però soprattutto la professoressa è quella figura che incarna, nel suo atteggiamento matriarcale o meglio maternalista, una tecnica di potere. È diverso – non meglio o peggio, attenzione, semplicemente diverso – dal paternalismo, il meccanismo del padre-padrone, del bastone e della carota. Il maternalismo non funziona così. Il maternalismo funziona accarezzandoti. La professoressa maternalista dirà: «I miei ragazzi», e li tratterà come dei figli; però dei figli ai quali, nel momento in cui non faranno quello che la professoressa maternalista vuole, dirà: «Mi avete deluso». Che è la cosa più atroce da dire ai figli, figurarsi a delle persone che non sono nemmeno i tuoi figli. E infatti, già dire “i miei ragazzi” o “i miei studenti” è terrificante: i “miei” di chi? In base a che cosa se voi avete una professoressa dovete essere i suoi studenti, o essere trattati come i suoi figli?

Attenzione, quando parlo di “maternalismo” o di “matriarcato” mi riferisco a un fenomeno che è agito spesso da donne, così come il patriarcato e il paternalismo era agito spesso da uomini; tuttavia (ed è importante da sottolineare) può assumere una connotazione che non è necessariamente di genere in senso biologico. Potete trovare degli insegnanti uomini che sono altrettanto maternalisti, ovvero che utilizzano anche inconsapevolmente questa tecnica del potere basata sull’“abbraccio”, sull’“accarezzare” e poi sul ricatto morale della delusione.

È una tra le cose più atroci, più subdole che si possano determinare in un rapporto tra insegnante e studente, e che possiamo utilizzare come angolo prospettico per osservare un fenomeno più generale e delicato. Negli anni Novanta si era parlato molto della femminilizzazione del lavoro, cioè della massiccia entrata delle donne dentro il mercato del lavoro, dentro a dei rapporti di subalternità e sfruttamento. Ora, secondo me, dovremmo iniziare ragionare anche nei termini di una femminilizzazione del potere. Per carità, non sto parlando del potere ad alti livelli, sebbene attenzione, anche lì la situazione pare che stia iniziando a mutare; ma sicuramente in alcuni ruoli gestionali ai livelli medio-bassi e sicuramente in ambiti come l’industria della formazione, della riproduzione, del mondo delle cooperative, della cura, il maternalismo e il matriarcato iniziano ad avere un peso rilevante. Sono questioni delicate, che bisognerebbe maneggiare con cautela, ma che hanno una loro importanza e dunque, prima o poi, toccherà affrontare seriamente.

La terza questione di cui vorrei parlare è quella del sapere e della conoscenza. Cioè, qual è il sapere e la conoscenza – e qua lo chiedo direttamente a voi – che viene trasmesso dentro le industrie scolastiche? Si tratta di un sapere e di una conoscenza estremamente modularizzati, trasformati in pillole, in una banale trasmissione di nozioni, che non permettono mai di affrontare i problemi aperti. Per fare un esempio, prendete la questione (verso cui ho un’avversione radicale) dei quiz e delle crocette. Per come lo immagino, un movimento di studenti che rifiutasse e iniziasse a bruciare tutte le prove o quiz a crocette, secondo me sarebbe un movimento estremamente avanzato. E invece nella mia esperienza, lo devo ammettere, molti studenti chiedono i quiz e le crocette. Per certi aspetti c’è una reciproca convenienza: l’insegnante lavora indubbiamente di meno, e anche da parte degli studenti c’è l’idea che si riesca a lavorare di meno, perché prepararsi per il quiz a crocette è più semplice e rapido che non prepararsi invece per un’elaborazione complessa. Però capite anche voi che sul lungo periodo ciò ti addestra soltanto alle nozioni, a meccanismi pavloviani, a forme estremamente impoverite del sapere. Si tratta di conoscenze che oggi ci sono e che domani non ci sono più, che ti appiccichi in testa al mattino e al pomeriggio, dopo aver fatto la prova, non ti ricordi più, come le poesie imparate a memoria alle elementari, ma soprattutto che non formano alla capacità di ragionamento autonomo. Uno studente può prendere tutti dieci con i quiz e le crocette e alla fine dell’anno non sapere assolutamente nulla, non essere in grado di ragionare su nulla.

Ovvio che qui non si sta facendo l’elogio della fatica, ma si vuole evidenziare che oggi il sapere che viene trasmesso è di questo tipo, un sapere impoverente e banalizzante perché non ti permette di confrontarti con i problemi aperti. Sempre più spesso tanto i docenti quanto spesso anche gli studenti hanno il terrore delle domande che non abbiano già una risposta preconfezionata. Alla fine, dopo la lezione, c’è la domanda e tu ti aspetti una risposta che sia vera o falsa, sì o no, la 1, la 2 o la 3. Non c’è nessuna formazione alla capacità di affrontare delle questioni che non abbiano delle risposte già predeterminate. Ma voi, che cosa ve ne fate di un sapere di questo tipo?

Poniamola, ad esempio, nei termini dell’orientamento al mercato del lavoro (per quanto non mi sia simpatica l’opzione per cui la scuola debba preparare al mercato del lavoro, ma come dato di realtà le famiglie che tirano fuori i soldi immaginano innanzitutto lo sbocco occupazionale). Se vi preparate sullo specialismo di un micropezzo di un determinato sistema, considerati i livelli e la velocità dell’innovazione attuale, quella nozione che avete appreso oggi c’è e domani non vi servirà più a niente, ed ecco che vi ritrovate immediatamente spiazzati. Tanto è vero che, nel mercato del lavoro capitalistico, le conoscenze che vengono più pagate sono quelle di chi si deve inventare delle soluzioni che non siano preconfezionate.

Mettiamola invece da un lato che a noi interessa di più: come trovare le forme nuove di lotta e organizzazione per trasformare questa scuola che non ci piace? I compagni di Kamo vi chiedono “scusa, qual è la nuova forma di organizzazione?” e vi propongono di scegliere la risposta 1, 2, 3 o 4? No, sapere sciocco. Spetta a voi inventarla, e se voi non avete una capacità di ragionamento che vi porti ad affrontare dei problemi aperti e per cui non ci sono delle risposte preconfezionate, rischiate di ripetere dei modellini che già esistono e che non vanno da nessuna parte, oppure vi trovate completamente spiazzati. Qui c’è già una traccia dell’origine di tante delle forme contemporanee di ansia e inquietudine, che vengono medicalizzate attraverso lo psicologo – per inciso, la questione degli psicologi apre un grosso terreno, che magari possiamo affrontare in seguito. Attraverso lo specialismo psicologico vengono individualizzati dei problemi che invece sono sociali, anche connessi all’industria scolastica e alla formazione. Una grossa fetta dell’ansia che viene sempre più spesso avvertita dagli studenti deriva infatti dal senso di incapacità nell’affrontare delle situazioni che non hanno già una soluzione. E dire che proprio le situazioni senza già una soluzione dovrebbero essere quelle più emozionanti, più eccitanti, più aperte alla possibilità dell’imprevisto! Laddove c’è già una soluzione, siamo fregati, perché la soluzione è quella che ci hanno già dato quegli altri. Noi invece dovremmo formarci e rivendicare di essere formati al ragionamento per problemi che non hanno risposte vecchie.

Di questi temi e dell’impoverimento dei saperi però, che io sappia, nelle scuole se ne dibatte poco o non se ne dibatte affatto. Non sono interessati i sindacati, quelli che ci vogliono trasformare in Checco Zalone e ragionier Filini. Non sono interessati gli insegnanti, che sublimano la propria carenza salariale e miseria di ruolo attraverso il riconoscimento di status, di quelli che portano il peso del mondo sulle spalle. E gli studenti? Che dite?

Insomma, io credo che al di là di tutte le questioni assolutamente legittime relative ai tagli alla scuola, ai disservizi, a quel che non funziona, porre in maniera radicale la rivendicazione di un sapere ricco sia una cosa assolutamente fondamentale. Quello lì è il nodo centrale, secondo me, della scuola.

Poi ovviamente c’è il rapporto tra scuola e lavoro. Per come la vedo io, il rapporto tra scuola e lavoro va ben oltre la questione del Pcto, come viene chiamato con l’ennesimo acronimo (non mi ricordo cosa significhi e non lo voglio sapere, una volta si chiamava alternanza scuola-lavoro, ma insomma è sempre quella cazzata lì). Comunque, per quanto riguarda il Pcto, vi dico come l’ho vista io, poi mi direte se ho compreso male. Ricordiamo tutti le mobilitazioni che hanno smosso effettivamente in avanti la situazione, lanciate a partire dai casi drammatici di ragazzi morti durante lo svolgimento del Pcto. Ebbene, io ho l’impressione che il nocciolo delle mobilitazioni vada ben al di là dell’alternanza scuola-lavoro, e che questo sia un pretesto (uso la parola pretesto con un’accezione positiva, di legittimo utilizzo di ogni mezzo).

Partiamo dall’ammettere che i Pcto (o quantomeno quelli che ho visto io) sono più delle perdite di tempo che altro. Non rispondono effettivamente al rapporto tra scuola e lavoro, sono perlopiù cose grottesche: fotocopie, corsi motivazionali, cagate del genere. I casi più tragici sono avvenuti soprattutto in alcuni istituti professionali, in cui effettivamente c’è un po’ di forza lavoro che viene presa e buttata a fare lavoro gratuito per dei padroni parassiti. Ho però l’impressione che le mobilitazioni siano in realtà partite da quello che dicevano i compagni di Kamo nella parte finale del loro intervento. Detto in altri termini, le mobilitazioni sul Pcto hanno voluto dare un lessico della rivendicazione a qualcosa che ben oltre quel tipo di linguaggio. Per dirla terra terra, io ho l’impressione che molte occupazioni sono avvenute per dire: «basta, non ce la facciamo più!». E questo non svaluta le mobilitazioni, tutt’altro! Proviamo quindi a guardare un po’ al quadro complessivo.

Prendiamola larga e riassumiamo per sommi capi gli eventi principali che avete vissuto voi. Sullo sfondo c’è una concatenazione di crisi. A occhio e croce inizia nel 2007-2008 con il crack dei mutui subprime negli Stati Uniti e il crollo di Lehmann Brothers. Le sue conseguenze hanno diverse evoluzioni sul piano globale: infatti già nel 2008 c’era il movimento dell’Onda il cui slogan era «noi la crisi non la paghiamo», e a seguire il ciclo di movimenti Occupy. A un certo punto si è iniziato a parlare di uscita dalla crisi, e di lì a poco scoppia il Covid. Quando il Covid comincia a defluire inizia la guerra. Ecco perché questa generazione qua, la vostra generazione, non ha bisogno di tanti motivi di rivendicazione, come vorrebbero i professori di sinistra, non deve preoccuparsi di stilare verbose e complicate piattaforme burocratiche. Questa generazione è fatta di giovani che appunto sono “i figli della crisi”, che sono state socializzate dentro la crisi e che non hanno mai visto nient’altro che la crisi nelle sue differenti evoluzioni.

Se le cose stanno così, il fatto che l’inizio di mobilitazione che c’è stato a gennaio (e che speriamo che sia solo un inizio e assuma degli sviluppi imprevedibili) non abbia sempre espresso una lista di rivendicazioni, non è né una sorpresa né un limite. Mi sembra che l’opposizione al Pcto sia, in qualche modo, un tentativo di tradurre in un linguaggio rivendicativo una rabbia che invece parla di qualcosa di molto più profondo, e secondo me anche di molto più radicale. E se guardiamo adesso tutti i problemi connessi alla questione della guerra, come si intreccerà questa situazione a questa rabbia? Mi piacerebbe saperlo da voi.

Come ritornerete a scuola a settembre? Probabilmente, come si dice ora con il lessico pandemico, “in presenza”: una volta insieme in classe, cosa verrà portato avanti delle mobilitazioni che ci sono state negli ultimi mesi? Come la guerra irromperà dentro la dimensione giovanile? Pensate che ci siano delle possibilità di ripresa, di nuovo inizio delle mobilitazioni a partire da settembre-ottobre? Secondo me sono queste le cose veramente importanti da discutere: la ricerca dei terreni e delle tematiche con cui rilanciare le proteste.

E a tal proposito, prima di concludere, mi limito a dire una cosa. Se posso (non dico darvi un consiglio, perché non ne avete bisogno) dire quello che penso sulla vicenda, io credo che rispetto alla guerra si debba sfuggire alle trappole del già noto.

Non solo sfuggire alle trappole mediatiche della logica dello schieramento, Ucraina-Russia, credo che ciò sia abbastanza scontato; pensavo piuttosto a un problema di fondo. Come sapete, nei decenni trascorsi, ci sono stati parecchi movimenti per la pace che si esprimevano su un terreno prevalentemente ideale. “Che bella la pace, sarebbe bello che andassimo tutti d’accordo” (mah, a dire il vero io questo non l’ho mai pensato, però si dice così). Ora, secondo me bisogna scansare quel terreno lì. Bisogna riuscire a evitare di pensare la guerra come un fatto di semplice cronaca internazionale o di buoni sentimenti. “Sto con l’Ucraina”, “sto con la Russia”, “sto con la pace”, “sto con la guerra”, eccetera.

Un tempo si diceva che bisogna portare la guerra a casa. Ecco, io credo che sia necessario proprio questo: portare la guerra a casa. Il punto centrale non è come io intervengo pubblicamente sui grandi temi del momento. Se la politica internazionale è parte di quello che noi viviamo, e se sempre di più incide nel concreto delle nostre vite, la domanda diventa: dove noi possiamo intervenire esattamente? Dove la geopolitica incide materialmente sulle nostre vite?

Capite bene, qua il problema non sarà se in inverno il termosifone funziona o non funziona nel singolo istituto, ma allargare lo sguardo fino a capire come queste questioni toccheranno i vari aspetti di tutto il nostro quotidiano: la domanda è se nelle case si potranno accendere i riscaldamenti 24 ore al giorno oppure no, come si va a scuola, con la piega che sta prendendo il costo della benzina, il carovita: ecco, sono solo alcuni dei temi materiali che si potrebbe rintracciare nella vita di tutti i giorni.

Sia chiaro, con questi finti dibattiti organizzati dalle scuole sulla questione internazionale e sulla pace si rischia di depoliticizzare i temi materiali, cioè di addolcirli e quindi ostacolare il conflitto. Per “portare la guerra a casa” e ribaltarla su chi ci riduce in questa condizione, bisogna partire individuando quanto la guerra incide concretamente sulle nostre vite, dentro e oltre la scuola. Ora però mi taccio, voglio sapere principalmente da voi cosa ne pensate.

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Discorsoni / Analisi

R. Sciortino, S. Cacciari – Punti di condensazione. La guerra, i media e il «secondo populismo»

«S’i nel mondo ci fosse un po’ di bene» avremmo, come ricetta per l’avvenire, la chiave per una ricomposizione di classe facile, coerente, pulita. Soprattutto in linea con i precetti, i desiderata, i pregiudizi e gli automatismi dei ceti politici (quali?) e intellettuali (dove?) di sinistra, e della loro sinistra ideologia. Saremmo già bell’è pronti, bandiere rosse al vento – o nere, o arcobaleno, scegliete voi al mercato delle identità il vostro pride – e via andare. Ma gli ultimi cicli di mobilitazioni sociali ci hanno ormai definitivamente abituato ad aspettarci qualcosa di ben più complicato, sporco, contraddittorio – ambivalente. Un “guazzabuglio” di soggetti sociali, con un diverso grado di internità alle categorie che usiamo per dare senso e orientarci nel caos del presente – sia di ordine sociale che geopolitico, e i due livelli sono collegati – di cui è difficile sciogliere i nodi. Linguaggi incomunicabili, comportamenti ambigui, potenzialità abortite. Bravo chi ne viene a capo. Ce lo siamo detto tutti.

I feticisti dello spurio e dell’ambivalenza a tutti i costi, così come chi considera il “casino” una maledizione esclusiva di questa fase storica e di questa composizione di classe, se ne stiano a distanza: non siamo noi quello che fa per voi. Non c’è da scandalizzarsi, né da applaudire. Davanti alla realtà concreta, la critica morale di ciò che non si conforma a quello che vorremmo e l’elogio di quello che ancora non c’è portano a ben poco. Occorre, invece, analisi concreta. Come ci stiamo dentro a questa realtà – nello specifico alla guerra, che sta informando il prossimo futuro? Quali lenti e strumenti dobbiamo usare, e quali buttare via? Che uso ne facciamo delle faglie, delle contraddizioni, delle ambiguità che ci stanno intorno e ci determinano? La domanda è politica, non analitica.

Al termine di una densa giornata di riflessione collettiva (quella del 2 aprile a Modena), partendo da questi interrogativi Raffaele Sciortino e Silvano Cacciari ci offrono spunti per affrontare i torbidi del medio periodo. Senza dare ricette, i due interventi ipotizzano domande politiche e passaggi di testimone intorno ad alcuni punti di condensazione – ruolo dei ceti medi, forme del “secondo tempo” populista, enigma della composizione giovanile, precarietà del consenso alla guerra. La trascrizione che segue, la conclusiva di questa serie, apre a una traccia di ricerca militante che dovrà necessariamente proseguire. Il lavoro non manca. Che sia per far saltare la baracca, almeno della nostra assuefazione allo stato di cose presente.

 

Domande:

Potreste dirci qualcosa in più sul crollo della filiera del nichel?

Dal momento che si è parlato di disancoraggio del dollaro nelle transizioni economiche più rilevanti su scala globale, cosa prospetta un ipotetico passaggio verso lo yuan da parte dell’Arabia Saudita per la vendita di petrolio?

– Notoriamente in Francia si era visto nei Gilet Gialli l’emersione, in un primo momento, di un conflitto legato a una materia prima (il prezzo del carburante) e che di lì a poco si è esteso a lotta, diciamo così, per il “potere d’acquisto” e il costo della vita in generale; ma che si è incagliata su di sé e che poi è finita. Nell’ultima fase era rimasto perlopiù un “cittadinismo dalla voce grossa”, una rivendicazione di riconoscimento come “società civile autentica”. Insomma, quella stagione di lotta di ricompositivo aveva certe cose, altre meno. Passando a noi, in Italia c’è qualche lotta sulla circolazione? È possibile anticipare quali possano essere gli ambiti e i contesti in cui un processo di ricomposizione legato alle lotte all’interno della circolazione può presentarsi? Come immaginare l’eventuale mutare della conflittualità sociale nelle lotte sulla circolazione di beni materiali?

Negli interventi si è parlato di primavere arabe, di quantitative easing, e quindi di inflazione. In questo periodo spesso si è parlato della possibilità di un nuovo Volcker Shock, o comunque di strategie basate sull’innalzamento violento dei tassi di interesse. C’è la possibilità che si ripeta qualcosa di simile a quello che è avvenuto negli anni Ottanta, considerando gli effetti che hanno avuto – in particolare sul Nordafrica – alcune manovre finanziarie degli ultimi decenni promosse dalla Federal Reserve e da istituzioni simili?

 

Raffaele Sciortino:

Io partirei da una brevissima riflessione su quello che diceva Silvano, perché, come dire, mi ha risolto un problema sul quale mi sto un po’ arrovellando. In questi giorni sto lavorando appunto nello specifico sullo scontro tra Stati Uniti e Cina. Giustamente tu Silvano parlavi di “previsione e imprevedibilità” le quali, anche se non si sovrappongono, si accompagnano alla ristrutturazione tra ordine e caos. Ovviamente è sempre difficile giudicare il presente dal presente e ancor più il futuro dal presente, ma questa dinamica oggi cosa comporta? Comporta che nella fase attuale, dove sappiamo che si sta sconvolgendo l’ordine globale ma non sappiamo dove si sta andando, tutto ciò mette in discussione la capacità analitica e di azione delle strategie dei grandi attori.

Faccio solo due esempi riguardo ai grandi attori statali, partendo dagli Stati Uniti. Allora, se noi andiamo a riprendere per esempio il testo di un democratico, Brzezinski, La grande scacchiera – un libro del 1997, cioè nel pieno della riflessione a cavallo tra crisi definitiva del socialismo reale e impantanamento dell’Unione Sovietica in Afghanistan da un lato, e inizio della globalizzazione e la cosiddetta terza ondata di democratizzazione dall’altro – lì c’era addirittura scritto che in caso di scontro la Russia in Ucraina sarebbe stata destinata a impantanarsi ancora una volta, e che quindi gli Stati Uniti avrebbero dovuto fare tutto il possibile per favorirlo. Per di più prevedeva (adesso non ricordo bene i dettagli, ma non è questo il punto) che tra il 2005 e il 2015 l’Ucraina sarebbe stata inclusa nell’Unione Europea, il che vuol dire automaticamente nella Nato. In un certo senso si veniva ancora da un certo format mentale, da una condizione politica in cui era possibile stilare delle strategie e quindi in qualche modo tener conto di un certo buon livello di prevedibilità (almeno per le linee di tendenza generali) e lì innestare i propri interventi.

Ora noi, nel 2022, vediamo che Brzezinski aveva perfettamente ragione. Alcune pagine sono illuminanti. Però le conseguenze del conflitto ucraino sono molto più devastanti, o perlomeno più imprevedibili di quello che aveva preventivato la strategia statunitense durante il declino del socialismo reale.

Questo per dire che cosa? Che in certe condizioni storiche le strategie, se ben congegnate e promosse dagli attori potenti, hanno una certa presa. Per dirla con Machiavelli, la virtù ha la meglio sulla fortuna. Dunque, la nostra domanda di fondo è: ma non è che stiamo andando verso una transizione, da un assetto a un altro tale per cui la leva della strategia – ciò che gli americani chiamano la grand strategy – ha meno impatto sul reale? E che quindi, detto in altri termini, la virtù diventa molto più debole della fortuna, delle condizioni oggettive, del caso, dell’imprevedibilità?

Penso in primo luogo alla difficoltà degli Stati Uniti a elaborare una grand strategy nei confronti della Cina per i motivi che diceva Silvano e più in generale per quella contraddizione a cui mi richiamavo prima (riassumibile nell’“abbiamo bisogno della globalizzazione, però la dobbiamo rompere”, e nel frattempo il giocattolo rischia di rompersi per davvero). Oppure pensiamo a come la strategia statunitense sui microchip contro la Cina dovrebbe prevedere – almeno nei piani varati da Biden a tavolino – un sostanziale reshoring, un rientro delle produzioni dei microchip più avanzati da Taiwan e dalla Corea del Sud agli Stati Uniti. Ma questo comporta investimenti talmente enormi per cui non si sa se gli stessi Stati Uniti siano in grado di vararli e comunque nella transizione si genererebbe una sovracapacità mondiale (quindi una diminuzione della profittabilità e via discorrendo) i cui effetti sono assolutamente imprevedibili. Lì puoi innescare, ma non puoi governare. È solo un esempio, ovviamente, ma per dire che la grossa domanda è quanto valgono le grandi strategie degli attori principali (non parliamo poi degli altri) in una fase che potremmo aver imboccato.

E questa questione fa il paio con una seconda: se la struttura del capitalismo globale, o per dirla in termini più marxisti, l’imperialismo si è trasformato in questo modo – inedito, tutto sommato, sia rispetto all’imperialismo su cui riflettevano a inizio Novecento Lenin e compagni, sia rispetto al neocolonialismo post Seconda guerra mondiale e post Bretton Woods –, allora è evidente che le categorie della politica, in principal modo “destra” e “sinistra”, saltano. Non sono più adeguate a comprendere, e tantomeno a intervenire, sul reale.

E qui arrivo alle domande. Nuovo Volcker Shock? Rimanda al problema dell’imprevedibilità e della difficoltà di fare strategie con un minimo di ricadute volute, che in qualche modo superino o compensino gli effetti non voluti. Infatti, considerando quel che è costretta a fare la Federal Reserve per andare contro l’inflazione all’interno degli Stati Uniti, ma più in generale avendo inflazionato il dollaro in tutti questi anni di quantitative easing, a un certo punto avrà bisogno di riattirare capitali e quindi di alzare i tassi. Però, la conseguenza prevedibile e non voluta è quella che diceva Silvano: poiché si è così ingigantita la bolla del capitale finanziario speculativo, alzare i tassi vorrebbe dire una correzione in borsa tremenda, fino a sconvolgere il mercato delle obbligazioni. Già ne vediamo i primi segnali. Nel 1979-1981 è stata una strategia vincente e sebbene non fosse ovviamente del tutto calcolata e pianificata a tavolino, in qualche modo agiva su alcune variabili; mentre oggi le variabili sono molto più numerose e i loro effetti sono contraddittori reciprocamente. Dunque per gli stessi Stati Uniti diviene più difficile usare questa “opzione nucleare” dell’aumento dei tassi per riattirare capitali e scaricare la crisi sull’Europa e la Cina, cosa che peraltro hanno già tentato durante la crisi dell’euro del 2010-2012. Quindi, probabilmente assisteremo a uno stop and go, a un fermarsi e riprovare, nell’ottica che diceva Silvano di tentare di sterilizzare, di limitare gli effetti della crisi, senza alcuna garanzia di successo.

Rispetto invece alle lotte sociali sulla circolazione, non ci ho pensato nei termini di un settore specifico. Secondo me il problema è da porre in termini più generali e più strettamente politici, cioè ripercorrendo (ma non c’è il tempo per farlo adesso) la dinamica delle lotte sociali in Occidente dopo il 2008, e sostanzialmente il tema del cosiddetto momento populista. Quella fase si è chiaramente esaurita, la crisi pandemica ha divaricato i soggetti che in qualche modo erano confluiti in maniera differenziata sulle due sponde dell’Atlantico dentro una mobilitazione (anche solo di opinione e non d’azione, come i Gilets Jaunes) che a sua volta era confluita dentro il cosiddetto momento populista inteso sia da destra che da sinistra, se vogliamo ancora utilizzare queste categorie. Il campo si è definitivamente divaricato. Già prima della pandemia la stessa Unione Europea, recependo la spinta italiana di un minimo di mutualizzazione del debito, da un lato ha in qualche modo spuntato le armi del sovranismo antieuropeo, dall’altro ha dovuto fare proprie alcune richieste che provenivano proprio da quelle spinte populiste o neopopuliste, o come vogliamo chiamarle. Durante la crisi pandemica, i due settori principali – una piccola borghesia e un ceto medio in crisi da un lato, e spinte puramente proletarie ma senza voce e senza rappresentanza dall’altro – be’, queste due linee si sono divaricate.

Ora, la crisi ucraina con tutte le ricadute che dicevamo prima, potrebbe generare degli effetti su questo contesto, soprattutto in Europa. Negli Stati Uniti la situazione è più complessa: teniamo conto che Biden all’interno è profondamente zoppicante, presumibilmente perderà di brutto le elezioni di midterm di novembre e il trumpismo può riprendersi, anche se non sarà il trumpismo del 2016-2017. Per quanto riguarda l’Europa, la cosa interessante è che se noi probabilmente potremmo avere una ripresa di conflitti sociali o comunque di istanze sociali a partire dalle ripercussioni della crisi ucraina – e, a catena, della crisi energetica, dei prezzi, della trasformazione green e via discorrendo, le quali, come diceva giustamente Silvano, ricadranno sulla gente comune –, ebbene tale ripresa di conflittualità sociale potrebbe vedersi accompagnata da una nuova richiesta, diciamo, “sovranista”. Questa richiesta sovranista però, a differenza dalla fase precrisi pandemica, potrebbe connotarsi in Europa in senso più esplicitamente antiamericano. Perché?

Perché sostanzialmente agli occhi di questi strati sociali (e lo vediamo già oggi dai sondaggi in Italia su chi non vuole mandare armi in Ucraina, chi non vuole spendere per il riarmo e insomma, su chi rischia di perderci da questa crisi) diventa sempre più evidente che la strategia statunitense dell’attizzare e continuare il conflitto in Ucraina comporta per l’Europa spaccature, crisi, deindustrializzazione, eccetera. Quindi se (ed è un grande “se”) scatterà una mobilitazione sociale, un conflitto o quantomeno un grosso scontento, io credo che in qualche modo il sovranismo si ripresenterà in forme mutate, con una connotazione non tanto antieuropea, quanto più esplicitamente antiamericana e più declinato verso le classi lavoratrici, le classi proletarie, diversamente da quanto è avvenuto nel primo momento in cui il proletariato c’era, ma era silente, e a dar voce erano i ceti medi in crisi e la piccola borghesia.

Sinceramente più di questo non mi arrischierei a dire, se non una cosa sola: sarà molto importante come si piazzeranno i giovani. Perché?

Perché durante tutta la globalizzazione ascendente e ancora nella fase dopo il 2008, gran parte della gioventù (in Occidente e in Europa nello specifico) il messaggio che ha ricevuto a grandi linee è: «possiamo farcela», «siamo ceto medio in formazione». Questo vale anche per dei giovani e per degli studenti perfettamente proletari che non avranno mai nessuna possibilità di riuscirci, e ciononostante al fatto di essere giovane e studente è stato equiparato il fatto di avere un capitale nella propria intelligenza, un capitale che si può spendere individualmente sul mercato e che quindi ti può far accedere al ceto medio. Che poi, guardate, non è così distante dall’illusione che hanno avuto le masse ucraine rispetto all’Occidente e all’Europa, e che ha portato alla tragedia che abbiamo sotto gli occhi.

Sarà dunque molto importante come si collocheranno i giovani, e su questo pende veramente un grosso punto di domanda, perché mi sembra che propendano oggi per un certo realismo e sono consapevoli della gravità della situazione e del problema; ma per ora questo realismo, a differenza di quello machiavelliano, è più un realismo dell’accettazione dell’impotenza che non della trasformazione. Le cose, però, potrebbero cambiare.

 

Silvano Cacciari:

Allora, mi tocca fare un po’ la pastorale e la benedizione degli astanti tipico di una chiusura rituale. Mi limito a un paio di osservazioni, spero incisive, e partirei da una premessa.

Io non sono un economista. Figuratevi, il corso che tengo è di antropologia filosofica, e questo fa già capire la crisi di una disciplina. Ora, per avvicinarsi a qualcosa di sensato sul piano antropologico oggi bisogna cominciare, a mio avviso, a scavare sul grande mistero del denaro, e di lì si hanno risposte anche un po’, come potremmo chiamarle, “inaspettate”.

Per quanto riguarda la questione del nichel, mi ero trovato tre compagnie di trading (di cui onestamente non mi ricordo il nome, però sono un bravo ragazzo e me le ero segnate negli appunti, e nel caso le farò avere ai compagni modenesi, ma non è quello il punto) e c’ho anche un bel grafico che fa notare la crisi di questo soggetto finanziario. Il bello è che si legge molto bene, fa così [mima un aereo che precipita] e i grafici che fanno così li trovi in due momenti della vita: i fumetti di Paperino o le crisi di Wall Street.

Ripreso da https://codice-rosso.net/nichel-e-russia-sai-che-guerra-finanziaria-ti-aspetta

Alla domanda successiva io risponderei con un criterio di metodo. Le due tesi all’ordine del giorno sono o la sostituzione del dollaro come principale divisa internazionale, oppure una coabitazione conflittuale tra moneta americana e moneta cinese con deperimento dell’euro; però stiamo attenti anche a dove queste tesi circolano. Che voi ci crediate o no, attualmente sono molte le testate speculative che scommettono sulla sostituzione del dollaro. Però quando ci scommettono le testate speculative starei molto attento a dare previsioni così secche, perché la speculazione notoriamente segue la volatilità, che nella fattispecie significa inseguire i momenti in cui si fanno soldi investendo e scommettendo contro il dollaro, e poi i momenti in cui magari se ne fanno continuando a scommettere a favore del dollaro. Quindi me la tengo come domanda, perché se devo dirla fino in fondo, ci sono dei segnali contrastanti e questa potrebbe essere tranquillamente una guerra che fa compiere al dollaro lo stesso destino che poi ebbe la sterlina tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, così come potrebbe essere (e ho letto analisi che ritengo altrettanto attendibili) un momento di conferma della forza del dollaro per un’altra trentina d’anni ancora. I conflitti servono a sciogliere il nodo nell’una o nell’altra direzione.

Il problema della Volcker Rule è già stato risposto, e a mio avviso in maniera esauriente. Quindi è inutile che mi metta a chiosare, e mi soffermerei piuttosto sulla questione del trasferimento di capitali. Cos’è avvenuto nell’ultimo mese? È abbastanza semplice. Basta andare un po’ su internet, senza nemmeno una grossissima preparazione tecnica, si cerca di capire come è andato il Dax, come è andata la Borsa di Londra, come è andata la Borsa di Parigi e poi come è andata Wall Street. Be’, vedrete che se c’è qualcuno che ha guadagnato in questo mese è Wall Street e se c’è qualcuno che ha perso sono le borse europee. Questo, lungi da voler fare un ragionamento complottista, non vuol dire che sono le borse ad aver scatenato la guerra, ma un’altra cosa: che una delle esigenze insite della politica monetaria americana per adesso è stata naturalmente trascinata dal mercato.

In soldoni, il mercato ha cominciato a dire “c’è la guerra, spostiamoci verso gli Stati Uniti”. Tuttavia rimangono aperti degli interrogativi anche su questo piano, perché se Wall Street deve tenere questo ruolo di catalizzatore dei capitali, è evidente che i bond governativi (a due, a cinque, a dieci, a trent’anni) devono reggere. Questo è il primo elemento. È anche abbastanza evidente che comunque l’economia americana in qualche modo deve andare avanti. Se questa tendenza continua (e ci sono diversi analisti che dicono, e io condivido, che la crisi europea non sia una grossa preoccupazione per l’economia americana), allora è evidente che uno dei nodi della crisi americana, cioè la capacità di attirare capitali (e quella delle borse formali e informali americane è comunque considerevole) terrà. Probabilmente sarà uno di quei fattori capaci di fornire una comprensione della crisi. In caso contrario, chiaramente, la faccenda sarà completamente diversa. A ogni modo, da un punto di vista politico si sono oggettivamente creati due blocchi, uno attorno agli Stati Uniti (che ha ovviamente i suoi elementi di contraddizione e conflittuali) e uno attorno alla Cina-Russia (che per ora raccoglie il 60% della popolazione mondiale, e anche questo è carico dei suoi aspetti di contraddizione).

Per chiudere, mi sento anche io di dire una cosa sul piano politico. Ve lo dico chiaramente: se ci sono dei fenomeni che si sono manifestati negli ultimi cinque anni e che sono evidenti, sono quei fenomeni che nel lessico socioantropologico si nominano con la categoria di anomia, cioè di profonda sfiducia nelle istituzioni. Guardate, l’alt right in America e la popolarità di questo genere di mondo con i processi di anomia ha molto a che vedere, e in Italia il movimento novax ha toccato elementi che appartengono (o appartenevano) al mondo antagonista proprio perché parlava il linguaggio dell’anomia e quindi dell’opposizione alle istituzioni. L’anomia, infatti, ha aspetti profondamente conservativi e altri invece, diciamo, “innovativi”.

Ora se uno, in questo contesto, vuol far politica (politica eh, perché poi si possono fare tante altre cose: si può far morale, si può far giudizi etici, e così via), ovverossia cercare una ricomposizione sociale, una ricostruzione dei rapporti di forza e dare perfino qualche sconfitta significativa al nemico, una cosa se la deve proprio scordare: certo, deve avere ben chiaro cosa sta accadendo a livello globale, ma non pretendere di azzeccare un fantomatico mega equilibrio sociale-economico-politico in Russia, in Ucraina, nel mondo, a livello dell’Unione Europea e dio solo sa dove.

Io purtroppo ho visto persone non solo che stimo, ma a cui voglio un gran bene, che si sono già buttate in questo tipo di fantasticherie, cioè cercare un qualche documento che poi si diffonde, che lancia un forum civile, da lì l’incontro a livello europeo di non si capisce chi, per costruire un immaginifico racconto dove tutto quadra e dove tutto torna a uno stato di equilibrio e di fratellanza. Io, a un carissimo amico, l’ho detto: ti voglio bene, auguri, ma ti farai del male.

E allora, come si può fare qualcosa? Essendo io un vecchio provocatore (cioè, vecchio no, però provocatore sì), starei attento al fatto che il trofeo è ben visibile. C’è un solo elemento su cui si regge questo cavolo di consenso alla guerra, così come c’è un solo elemento fragile su cui si regge l’equilibrio istituzionale: sono i mass media.

Ve lo dico chiaro e tondo: nel momento in cui riesci a delegittimare il comportamento dei mass media sulla guerra salta l’equilibrio istituzionale. E dunque, cosa veramente di meglio che rovesciare tutta questa cloaca fatta di anomia, insoddisfazione, risentimento e, perché no, senso dell’ingiustizia? Essendo il rancore diffuso un mero dato di fatto, tanto vale rovesciarlo sull’unico bersaglio – i  mass media appunto – che ci permette di far saltare il nostro equilibrio sistemico. Il resto, francamente, non conta. Ovviamente non si può cercare di risolvere delle crisi globali che sono molto più grandi di noi; però si può sfruttare in senso tattico gli squilibri del piano su cui possiamo effettivamente intervenire. Il punto fondamentale – a mio modesto parere, per carità d’ Iddio – ­è questo.

Perché ragazzi, anche se ci fosse il Social Forum di vent’anni fa (e sinceramente abbiamo già dato, sia a livello personale ma anche come esperimento politico), non ci sarebbe comunque la forza per impedire lo sviluppo di un conflitto. Si tratta, da un punto di vista tattico, di riuscire a fare danni sul piano sistemico nel momento in cui il piano sistemico è in grave crisi verso la guerra. Questo.

Detto ciò, io non vi sto parlando di soggetti, non vi sto facendo una sociologia di alcune figure precise e non perché mi sfugga, ma, non a caso, ho detto “rovesciamo la cloaca”. Questa società, nella ristrutturazione liberista degli ultimi anni, ha prodotto tanto di quel risentimento per cui la gente non riesce neanche a sodalizzare e questo lo sappiamo benissimo; e allora cerchiamo produttivamente di rovesciare quel liquame che è stato prodotto – e del quale noi facciamo oggettivamente parte – verso un obiettivo ben preciso, quello che legittima questo sistema che abbiamo descritto oggi, cioè i mass media generalisti. Se la cosa è fatta bene, c’è pure da divertirsi.

 

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Troppo fuorismo / Inchiesta

Che cresca una generazione pronta a spazzarvi via

Gira un video, da ieri.
Centro di Modena, via Emilia, sotto i portici.
Due pattuglie di Polizia fermano un ragazzino, un minorenne. Non si sa perchè, non si sa per come. Ma sono in quattro a prenderlo con la forza. Intorno qualche passante, altri ragazzini, forse suoi amici, paralizzati dal panico.
I quattro energumeni di via Divisione Aqui gli mettono le mani addosso, lo bloccano, gli storcono le braccia. Lui urla, cerca di divincolarsi, gli fanno male. Lo trascinano verso la volante, violentemente, in quattro contro uno. Chi fa il video chiede spiegazioni a un poliziotto. «Lo lasci stare! Cos’ha fatto? Non ha fatto niente! Perchè lo state portando via?» Cercano di allontanarlo. «Lo state menando! Lo state menando! Ha sedici anni, lo state menando!» Si vede del trambusto. Il ragazzino è spinto dentro la macchina della polizia, probabilmente a calci e pugni. È portato via, mentre i poliziotti non rilasciano dichiarazioni.
Un fotogramma del video del violento fermo del ragazzo minorenne in via Emilia centro, Modena. «Non aveva i documenti».
Oggi. Piazza Grande. La testimonianza raccolta da sua madre.
Hanno fermato mio figlio. Aveva lasciato i documenti a casa. È uscito dalla questura con la faccia gonfia. «Mi hanno pestato». Un occhio nero, lividi sulle braccia e sulle spalle. Al Pronto soccorso quindici giorni di prognosi.

https://www.youtube.com/watch?v=z0bCE-I9_b8

A Modena la violenza poliziesca di una questura fuori controllo dilaga. Il governo, sfruttando la pandemia, non ha fatto altro che lasciare ancora più carta bianca, ancora più impunità.
Amicizie tra digos e padroni e scioperi repressi con teste spaccate, lacrimogeni e denunce a centinaia di operai come a Italpizza.
Una strage nel carcere di S.Anna a marzo ancora senza una verità se non quella di 9 morti, tutto insabbiato.
Pestaggi sotto casa durante il primo lockdown in centro.
Decine e decine di tifosi costretti fino ad oggi ad affollarsi per firmare inutilmente durante partite deserte solo per rendere ulteriormente difficile la vita.
Militarizzazione, coprifuoco, soprusi, multe a non finire a modenesi già vessati dalla paura di finire in ospedale, di perdere il lavoro, di non poter più riaprire, di non poter più curarsi, di non avere qualcosa da mettere sulla tavola il giorno dopo.
E adesso arresti per strada e violenze contro ragazzini, finiti come da testimonianza con pestaggi in Questura.
Noi lo sappiamo bene cosa fa la polizia italiana, “fatica e non si stanca, di giorno manganelli, di notte Uno Bianca”. Di notte, in via Emilia centro e in via Divisione Aqui, anche quello che è successo a questo ragazzino. Che potrebbe essere tuo amico, tuo figlio, la persona accanto a te. E la prossima volta potresti essere tu.
Per questo speriamo che i suoi amici, gli amici degli amici, i giovani dei parchetti, delle compagnie, dei lavoretti, dei senza futuro, che oggi più stanno pagando questo mondo di merda, abbiano visto bene, sentito quella rabbia che a noi non riesce ad andare via, e ricordino. La custodiscano. Per, un giorno, ricacciaverla in faccia.
Che cresca una generazione pronta a spazzarvi via.
Firenze.
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Discorsoni / Analisi

Con il sangue agli occhi. Guardare Black Lives Matter dalla Provincia

Sotto il movimento-ombrello di Black Lives Matter i neri americani in protesta contro gli abusi e gli omicidi razzisti della polizia statunitense hanno imposto tutto un nuovo capitolo di lotte radicali: anche se non innovative colpiscono profondamente il cuore dell’impero e, in coppia con quelle operaie in Cina, completano una nuova globalità conflittuale che non si vedeva da decenni.

Esprimendo forza invece che vittimizzazione lacrimevole, rifiutando i tentativi di addomesticamento da parte della sinistra, il proletariato nero si è posto come punta avanzata dello scontro di classe riuscendo a riportare il particolare al generale (le condizioni di vita dei neri e le uccisioni razziali) e il generale nel particolare (le brutali condizioni di classe negli States così come in tutto il mondo atlantico, esasperate dalla pandemia in un paese con oltre 40 milioni di disoccupati senza garanzie e 2 milioni di infetti).

Certo la strategia di Trump di polarizzare lo scontro sociale gli si è ritorta contro con settori dell’establishment – specialmente media e esercito – ormai impazienti di liberarsene e i ceti popolari di riferimento disillusi da possibili miglioramenti concreti delle proprie condizioni di vita, ma ciò evidenzia come una lotta che avanza e che aggrega ampi strati trasversali della popolazione costringa la classe dominante a seguire avendo perso l’iniziativa; altrettanto al seguito paiono i “compagni”, agendo principalmente ai margini del conflitto al netto di roboanti Zone Autonome ininfluenti nel quadro generale delle cose e che rischiano anzi di rinchiudere energie che dovrebbero invece mantenersi nelle strade (si guardi la fine del “movimento degli ombrelli” una volta rinchiusosi nella cittadella universitaria). È l’ininfluenza di un modello, quello dell’ attivismo radical-accademico imbevuto di Identity Politics che spande i propri Lifestyles anche qui in Italia, incapace di capire che i Safe spaces non sono fortezze ma trappole. L’insistenza sul concetto di Privilege che individualizza un senso di colpa invece di sistematizzare un’oppressione e collettivizzarne la resistenza è esemplificativo dell’incapacità di rompere con il modello neoliberale pretendendo di poterlo gestire secondo i propri termini.

In Europa riverberano i temi americani, soprattutto nel mondo anglosassone che – specialmente dopo la Brexit – vi gravita attorno più di quanto non faccia con il continente. Ma le differenze sono sempre più ampie, approfondite dal progressivo disimpegno statunitense e dalla crescente rivalità fra il ceto dirigente Trumpiano e quello euro-tedesco: l’Italia, più atlantista della Nato, continua però a ricevere il percolato di ciò che succede oltreoceano; ma è la traduzione con il contesto locale che raramente funziona o almeno quando è fatta in modo artificiale.

La “lotta delle statue” ha cercato per qualche tempo un qualcosa su cui coagularsi trovandolo poi nel monumento ad un personaggio disgustoso come Indro Montanelli. Certo, ce ne sono di ben più importanti nella storia nazionale: da quello a Graziani al mausoleo di Mussolini fino alle innumerevoli sculture sabaude di monarchi e politici sanguinari sia in Africa che nel Sud, ma il punto è che molti di questi sono distribuiti in un paese che è basato sulla provincia, in cui è intraducibile una lotta simbolica che si basa sui simboli fondativi di un tessuto metropolitano che proprio forse solo a Milano esiste.

La polemica che ne è seguita ha avuto risvolti positivi, soprattutto nel radicalizzare ulteriormente certe componenti giovanili e nel mettere in crisi la religione civile dello stato liberal-democratico esponendo la pochezza e la marcescenza specialmente della sua casta giornalistica. Un ulteriore tassello di un lento percorso di riconsiderazione di elementi (come la polizia nostrana, rimessa in discussione dall’atteggiamento muscolare durante la quarantena) che prima si pensavano inamovibili.
Il problema è però quando ciò che rimane del cosiddetto Movimento non riesce a vedere politicamente e tatticamente questa conflittualità: il ruolo del militante è quello di inserirsi e riuscire ad alzare l’asticella il più possibile, di essere in questo mondo e non di questo mondo, non quello di farsi assimilare convincendosi che una lotta sia fine a sé.

Nella provincia le piazze chiamate nel nome di Black Lives Matter hanno mostrato invece un’energia ancora più evidente visto il contrasto con i territori desertificati: numeri sorprendenti principalmente di una composizione giovane e razzializzata che per la prima volta ha preso la parola sulla propria condizione. La questione generazionale si mostra per come siano difficilmente intercettabili da un “noi” anagraficamente più vecchio, magari cresciuto con l’Onda e giunto a termine con il NoExpo; sono altre le grammatiche su cui si esprimono, altre le esperienze formative (il ruolo organizzativo preminente delle donne ispirato dalle ultime mobilitazioni femministe? La scelta di luoghi e modi di aggregazione diversi ispirata dai Fridays For Future? L’uso di altri media e di altri social in modo speculare ma non dissimile da quelli della composizione sociale dei vari comitati di protesta con il governo?).

A Modena il punto di ritrovo non è stata una piazza del Centro ma il Parco Ferrari appena fuori dallo stesso: una luogo che già segna una rottura con la routine funeraria dei cortei e dei presidi, che la composizione giovanile ha scelto esprimendosi nei proprio spazi di aggregazione, in ciò che conosce.
In generale le “Strutture” organizzate erano presenti a malapena in un ruolo di supporto; sono stati i giovani a chiamarla (specialmente tramite tam-tam social e passaparola) e a dominarla, passando alternativamente da riferimenti allle Pantere Nere e a Malcom X a sostenere posizioni non-violente e cittadiniste formando di fatto tutto un altro gruppo rispetto ai vari rappresentanti della Sinistra o del Movimento presenti. Non un qualcosa di omogeneo, comunque: c’era chi si poneva in modo più conflittuale e chi più vittimistico, c’erano numerose diverse compagnie di amici e compagni di scuola, c’erano età e nazionalità diverse. Una composizione – appunto – attraversata da contraddizioni in cui l’opposizione agli sbirri non è evidente ma striscia carsica magari come commento rabbioso contro la volante di passaggio.
Sono state le donne, spesso giovanissime, ad emergere poi in piazza in modo preponderante: sono state delle ragazze a convocare per prime la manifestazione, lo sono la maggior parte di coloro che hanno fatto gli interventi e che han retto il tutto riportandovi con forza la questione di genere, intersecandola con quella razziale.

Resta allora da proseguire uno schietto percorso di ricerca, analisi e formazione, aperto soprattutto a ricevere stimoli inaspettati e a partecipare a movimenti spuri e contraddittori magari di segno opposto uno con l’altro, prendendo dai movimenti esteri più avanzati soprattutto indicazioni di metodo piuttosto che contenuti difficilmente traducibili.