Due pugni neri, guantati di pelle, alzati al cielo in segno di unità, sfida e ribellione, dal primo e dal terzo gradino del podio. I piedi scalzi, a simboleggiare la schiavitù, e il capo chino durante l’inno degli Stati Uniti d’America, contro il razzismo strutturale del proprio Paese, per cui avevano vinto la medaglia d’oro (con annesso record mondiale) e quella di bronzo nei 200 metri.
È il 16 ottobre 1968. Nella manifestazione sportiva mondiale per eccellenza, le Olimpiadi, irrompe la lotta del proletariato nero americano, infrangendo l’ipocrisia del potere della “più grande democrazia del mondo”. L’ipocrisia che li celebra come cittadini e campioni a stelle e strisce sulla pista da corsa, ma che li vuole vedere strisciare – segregati, discriminati e sfruttati – come animali nella vita di tutti i giorni, sulle strade, nelle metropoli e nei quartieri d’America.
Nessuno, nemmeno Tommie Smith e John Carlos, protagonisti sportivi dell’Olimpiade di Città del Messico 1968, avrebbe pensato che quel gesto, maturato sulle cicatrici procurate dalla società americana, ma soprattutto sull’onda potente delle mobilitazioni nere (e non solo), avrebbe cambiato la vita dei due atleti, e il modo di vedere le cose – e conseguentemente agire – di molti in tutto il mondo. Un gesto che, immortalato in un’immagine iconica tra le più celebri e impattanti del XX secolo, rimane ancora un simbolo di forza delle lotte contro il razzismo, oggi più che mai attuale. È intorno a questo gesto che leggiamo il libro di John Carlos Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo, che inaugura la nuova collana di DeriveApprodi hic sunt leones, curata da Anna Curcio e Miguel Mellino, nella quale si mira a esplorare la genealogia e la cogente attualità del razzismo nel presente. Un testo importante ma soprattutto bello da leggere, pubblicato nel mercato anglofono nel 2011, meritoriamente portato oggi in Italia.
Se durante l’infanzia di John Carlos – nato nel Bronx e cresciuto ad Harlem – il razzismo, la discriminazione della propria famiglia e della propria gente erano solo un’indefinita sensazione, crescendo ne viene e completamente e consapevolmente investito. Le difficoltà legate alla vita quotidiana – a partire dalla rinuncia alla sua passione per il nuoto, perché le piscine per bianchi non potevano essere condivise con i “negri” – cominceranno a far crescere dentro di lui l’imperativo di lottare. Insieme ai suoi amici, per esempio, contribuisce a “redistribuire” i viveri e le derrate presenti nei vagoni merci della vicina ferrovia all’intero quartiere, sulle orme di un Robin Hood del ghetto, sperimentando l’antagonismo materialisticamente fondato contro la polizia. John comincia in questo frangente a correre, e se corre! L’incontro con Malcom X e Martin Luther King, rappresentanti e portavoce delle diverse anime delle lotte dei neri, imprimerà una svolta decisiva alla propria coscienza, momento di accelerazione e approfondimento della formazione soggettiva del militante. Ma sarà la vita, nel suo allenamento continuo, a forgiarlo e a permettergli, una volta entrato in università grazie alle sue prestazioni nella corsa, di affrontare a testa alta il razzismo di quel mondo, dove il “negro veloce” è un semplice asset su cui investire per ottenere risorse e prestigio.
L’esperienza all’università del Texas, scelta ponderata quanto dura, che lo spingerà comunque a tornare poco dopo ad Harlem, lo porterà ad appoggiare l’Olympic Project for Human Rights (OPHR), fondata dal sociologo nero Harry Edwards con l’obiettivo di boicottare le Olimpiadi del 1968 in Messico. I dubbi di molti atleti di colore, che decisero di non vanificare gli sforzi fatti per arrivare alla competizione, le forti pressioni della Federazione e soprattutto l’omicidio di Martin Luther King faranno saltare il progetto – ma non l’idea di un gesto, forte e di rottura, nel cuore della manifestazione. Nell’aria, infatti, si presentiva che qualcosa sarebbe successo: d’altronde, la potenza e la radicalità espresse dal movimento valicavano singoli iniziative o biografie individuali. Sulla scia del contrasto al boicottaggio la federazione sportiva Usa arriverà perfino a mobilitare, tentando così di smorzare qualsiasi gesto politico rivoluzionario da parte degli atleti di colore, un simbolo democratico e progressista indiscusso come Jesse Owens, l’eroe afroamericano di Berlino ‘36 che aveva sfidato Hitler.
Ma la forza della lotta, quando veramente collettiva e sostenuta da soggettività reali, riesce a travalicare ogni tentativo di recupero in chiave riformista. E i militanti si mettono al suo servizio. Nella testa di John Carlos, infatti, il programma della celebrazione era già scritto: usare i 200 metri piani per arrivare sul podio insieme a Tommie Smith. La priorità assoluta era conquistare la posizione di maggior risalto per la causa, laddove essa potesse sprigionare tutta la propria forza simbolica, arrivare ovunque e a chiunque, fare più male. Il colore della medaglia, la prospettiva di carriera, i desideri personali passano sullo sfondo – o meglio, storia individuale e collettiva diventano tutt’uno.
Come prevedibile la gara non avrebbe avuto storia, podio doveva essere e podio fu, insieme a Peter Norman medaglia d’argento, che pure sosterrà, da bianco, il significato del gesto di John e Tommie, pagandone le spese in prima persona al ritorno in Australia. Le immagini iconiche dei pugni proietteranno Carlos e Smith nella storia del Novecento e in quella più generale dello sport, rendendo senza tempo questo istante. Perché in quel gesto emerge il conflitto che muove il mondo, una dimensione della storia che prescinde da Carlos e da Smith, che si ricollega alle generazioni di insorti precedenti alla loro e che si apre alle rivolte che verranno.
Il gesto di Tommie Smith e John Carlos non avrebbe avuto lo stesso significato e la stessa forza senza il movimento generale di rottura alla base del ciclo di lotte che lo ha espresso, di cui esso è un riflesso, espressione simbolica ma al contempo materiale della rivoluzione in atto, capace di non risparmiare anche lo sport. Siamo nel 1968, all’apice della contestazione internazionale che, in forme diverse, ha visto per un decennio (il “lungo Sessantotto”) il dispiegarsi del conflitto sociale e politico a tutti i livelli, dalle fabbriche alle università, dai ghetti alle piazze (proprio pochi giorni prima delle Olimpiadi, in piazza delle Tre Culture a Città del Messico, veniva compiuta una strage di studenti e manifestanti da parte dei militari), dalle periferie del mondo in via di decolonizzazione all’interno delle case, nelle relazioni tra uomini e donne.
Straordinarie tensioni stavano percorrendo gli stessi Stati Uniti, dove l’opposizione alla guerra in Vietnam si univa all’emergere in tutta la sua radicalità della “questione nera”, in cui razza e classe si fondevano in un’effervescenza delle lotte e dell’inventiva militante con pochi precedenti. La metropoli imperialista sperimentava la rivolta della proprio colonia interna, le potenzialità di rottura del proletariato nero di cui John Carlos fa parte catalizzavano l’intero arco dell’insubordinazione sociale. Dal Black Panther Party e dal black power alle proteste nonviolente ispirate dai precetti del reverendo King e di Marcus Garvey, ciò che questa eccezionale congiuntura – entro cui si snoda la vicenda raccontata nel libro – ci consegna è la travolgente potenza della conflittualità autonoma che vive nel processo di ricomposizione di classe, capace di scardinare e rivoluzionare ruoli, identità, forme e destini prefissati. La scelta della militanza innerva questo processo e lo sostiene. Anche nello sport: «Che si tratti di una mensa scolastica o del podio olimpico, bisogna organizzarsi dove si è situati».Le scelte che fecero John Carlos e Tommie Smith nel 1968 non sono state facili e non lo saranno mai, perché scegliere di lottare, di essere un militante, va a mettere in discussione e rompere le certezze con le quali la società ci ha formato e ci forma. Ma sono l’unica pista da percorrere per essere uomini e donne liberi.
Tuttavia, come prescrivono le leggi della termodinamica politica, a ogni azione corrisponde una reazione, soprattutto se quell’azione minaccia di conquistare profondità e consenso. Ciò che più colpisce della biografia di Carlos è la banale, squallida simmetria con cui il potere risponde all’offensiva dei subalterni. John e Tommie si vedranno espulsi dal mondo dello sport, dunque strappati da quello stesso terreno in cui avevano portato il conflitto, rompendone la neutralità e la pace sociale. Al ritorno in patria, Carlos sopravviverà tra disoccupazione e precarietà, con quotidiani pedinamenti e persecuzioni da parte dell’FBI: la forza e la scommessa di quel movimento di rottura era stata appunto eleggere a luogo dello scontro il proprio quotidiano, da sovvertire. Osservata con uno sguardo di parte, la macchina mediatica del fango che, sciorinando notizie false sul suo conto, andrà a distruggere la sua famiglia riuscì nel suo obiettivo di separare il gesto delle Olimpiadi di Città del Messico alla vicenda di un movimento e di una classe, a individualizzare e ad atomizzare la storia di due uomini che invece trae tutta la sua potenza dalla sua natura collettiva.
Nonostante il cinico accanimento degli apparati repressivi, non sono mai venuti meno né solidarietà e riconoscimento da parte della sua comunità (un esempio tra i tanti può essere la decisione da parte degli studenti della San Jose State University di erigere una statua del podio del 1968, alla cui inaugurazione John partecipò insieme al compagno di corse Tommie Smith), né la partecipazione di Carlos ai successivi ciclo di mobilitazioni e conflitto sociale. Tornerà a sollevare il pugno ancora una volta a Zuccotti Park durante l’esplosione di Occupy Wall Street, ricordando ancora una volta che la lotta non è una questione di eroismo o di icone, ma del militante anonimo che apre a pugni il domani insieme alla sua classe: «We’re here forty-three years later because there’s a fight still to be won. This day is not for us but for our children to come» (“Siamo ancora qui quarantatré anni dopo perché rimane ancora una sfida da vincere. Questo giorno non è per noi, ma per i nostri figli che ancora non sono nati”). Inoltre, il gesto di Carlos e Smith continuerà a ispirare nello sport la scelta di atleti di colore (e non solo) di non voltarsi dall’altra parte di fronte al razzismo, come durante il ciclo di mobilitazione antirazzista più recente di Black Lives Matter ha dimostrato, a partire dalla scelta di Colin Kaepernik, giocatore di football americano, di inginocchiarsi nel 2016 durante l’inno nazionale, in aperto sostegno al movimento. Gesto che, come i suoi predecessori del 1968, pagherà a caro prezzo in termini di carriera.
A oltre cinquant’anni dal gesto di Tommie Smith e John Carlos, le linee di classe e quelle del colore continuano ad essere annodate a doppio filo non solo negli Stati Uniti, dove non è mai venuta meno – nonostante la presidenza nera di Barack Obama e la demenziale ripulitura woke del dibattito pubblico sulla questione – la centralità del razzismo nell’organizzazione capitalistica della società. Lo sappiamo bene anche noi in Italia, e nello specifico a Modena, entrambe teatro di numerose violenze poliziesche indiscriminate ai danni della popolazione immigrata e delle nuove generazioni non bianche, specialmente quando in lotta nei reparti delle fabbriche, ai cancelli dei magazzini, sulle strade in solidarietà alla Palestina. Le discriminazioni e violenze strutturali, la cui espressione più grezza sono la profilazione, gli abusi e gli omicidi compiuti dalla polizia sulla popolazione razzializzata, alimentano le cicliche insurrezioni dei ghetti e delle periferie nere americane, catalizzando – in una direzione tutta da determinare – anche la rabbia di un nuovo proletariato bianco ugualmente considerato “spazzatura” da chi comanda.
Quella che all’epoca di John Carlos sembrava una pura e semplice particolarità nordamericana – la presenza di una “colonia interna”, un “terzo mondo” sedimentato in una società a capitalismo avanzato – oggi, nell’era del capitalismo globale, più che a un’eccezione sembra rimandare a un elemento normativo e ordinativo delle metropoli globalizzate, messo sempre più in tensione dalla tendenza accelerata alla guerra. A ben vedere, la storia dei militanti neri e in generale del movimento black più che una storia del passato da archiviare tra gli scaffali di un’ipotetica archeologia novecentesca sembra essere l’incipit di una storia del presente.
Lo scritto ha il merito di affrontare, cercando di scioglierlo in avanti, l’annoso nodo della violenza/non violenza a partire dall’analisi concreta di alcune esperienze di piazza – in particolare la “Primera linea” in Cile, il “Movimento degli ombrelli” a Hong Kong, e i riot scaturiti da “Black Lives Matter” negli Stati Uniti – che, seppur distanti, hanno in alcune loro caratteristiche risuonato globalmente e vicendevolmente a distanza di tempo.
Tutte queste mobilitazioni, che hanno raggiunto alti se non inediti livello di scontro, non possono non essere inquadrate in un nuovo ciclo più ampio di sollevazioni globali che negli ultimi anni hanno toccato la Francia come il Libano, l’Iraq come l’Ecuador, la Catalogna come la Cina: un ciclo sicuramente più duro e “sporco” – soprattutto in alcuni suoi frangenti, se pensiamo alla genesi dei Gilet gialli o al grado di violenza in Medio Oriente – rispetto a quello del 2010-2011 (Occupy, Primavere), che si inscrive nell’arrivo del secondo tempo della crisi globale e potrebbe anticipare (questa la domanda che ci poniamo) possibili forme e modi di soggettivazione, attivazione e conflitto sociale e di classe.
Crediamo, infatti, sia interessante uno sguardo sulle forme organizzative, le tattiche e le tecniche comuni sviluppatesi in strada e poi circolate a partire dall’emersione della figura collettiva della «prima linea»: ci chiediamo, infatti, quanto essa sia collegata, influenzata, orientata dal tipo di soggettività messasi in gioco; quanto della questione «tecnica» ci parli – o meno – della questione «politica», e viceversa; quale tipo di direzione politica e aspetti della militanza vengano sollecitati da questo cambio di paradigma. Tutto questo, lo vogliamo chiarire, a prescindere dalla direzione che hanno assunto questi movimenti, dal tifo da casa o dalla valutazione politica che se ne può – e deve – trarre.
Siamo consapevoli, in particolare, delle ambiguità, delle contraddizioni e delle valenze geopolitiche insite nel movimento sviluppatosi a Hong Kong (per forza di cose approfondito particolarmente nel contributo), inscritto – volente o nolente – nello scontro sempre più aperto tra interessi imperialistici occidentali a guida statunitense e Repubblica popolare cinese; scontro che, proprio nell’ex colonia britannica, rischia di passare sul “terreno”. Ma proprio per questo pare interessante da inchiestare l’organizzazione di un movimento che, con tutte le sue criticità politiche, può dirci molto sulla crisi dei ceti medi rispetto al patto sociale con lo Stato, sui fronti e la direzione dello scontro di soggettività spurie in crisi di mediazione e su possibili scenari che, anche a queste latitudini, possono riproporsi in modi e rappresentazioni differenti a chi è militante.
Buona lettura.
«Le armi per le rivolte proletarie sono state sempre prese dagli arsenali dei padroni». Mario tronti, Operai e capitale. Nelle ultime due settimane, gli Stati Uniti hanno vissuto alcune delle più grandi, più militanti proteste e rivolte degli ultimi decenni. Il movimento, ormai di portata nazionale, è iniziato a Minneapolis dopo l’assassinio di George Floyd da parte della polizia. La rabbia che ne è seguita ha portato a manifestazioni di massa, scontri con le forze dell’ordine, incendi e saccheggi, momenti di cordoglio e ribellioni che si sono diffusi in tutto il Paese nel giro di poche ore. La centrale di polizia del terzo distretto di Minneapolis, dove gli assassini lavoravano, è stata completamente bruciata, auto della polizia sono state incendiate da New York a Los Angeles nel contesto dell’offensiva radicale più larga contro l’apparato repressivo dello Stato americano vista in questo secolo, alimentata da decenni di rabbia contro il razzismo della polizia e dal continuo succedersi di omicidi da parte della stessa di persone di colore. Ora, anche la sinistra elettorale e riformista sta seriamente discutendo una versione ammorbidita dell’abolizione della polizia a livello nazionale, reimmaginata come “defunding” [taglio dei finanziamenti, ndt], e il Consiglio comunale di Minneapolis si è impegnato a “sciogliere” il dipartimento di polizia della città. Non molto tempo fa, una tale richiesta sarebbe stata considerata utopistica.
Mentre il movimento contro gli abusi polizieschi e l’istituzione della polizia stessa si sviluppa rapidamente negli Stati Uniti, abbiamo visto in esso i segni di altri disordini e lotte di massa che sono emersi in tutto il mondo nell’ultimo anno, dal Cile alla Francia, al Libano, all’Iraq, all’Ecuador e alla Catalogna, per citarne solo alcuni. Qualsiasi analisi di ampio respiro della ribellione negli Stati Uniti sarebbe prematura, dato che i fuochi dei disordini stanno letteralmente ancora bruciando nelle città di tutto il Paese. Vorremmo invece offrire alcune brevi osservazioni sulle lotte a Hong Kong, che abbiamo fatto del nostro meglio per seguire da vicino, concentrandoci su una particolare innovazione tattica che riteniamo possa essere un utile contributo alle proteste in corso negli Stati Uniti e non solo. Abbiamo già visto persone in strada adottare lezioni sparse prese da Hong Kong e da altri punti caldi nel ciclo globale di ribellioni dell’anno scorso: una barricata in stile hongkonghese di carrelli della spesa sulle strade del combattuto terzo distretto di Minneapolis, tecniche per lo spegnimento dei gas lacrimogeni a Portland, utilizzo di laser per abbagliare le telecamere e le visiere della polizia in diverse città, ombrelli impugnati contro lo spray al peperoncino durante le proteste a Columbus e Seattle, e i messaggi nei graffiti ai cittadini di Hong Kong su vetrine di negozi sprangate o saccheggiate in diverse città. Le somiglianze sono state così evidenti, infatti, che hanno portato il paranoico redattore capo del tabloid dei media statali cinesi «The Global Times», Hu Xijin, a concludere che «i rivoltosi di Hong Kong si sono infiltrati negli Stati Uniti» e hanno «orchestrato» gli attacchi.
Possiamo fare poco per guidare il modo in cui questo movimento si sviluppa (né vorremmo farlo), ma speriamo che alcuni degli strumenti e delle tattiche impiegate dai nostri amici e compagni di Hong Kong possano essere utili a chi si trova nelle strade di altre città. In particolare, offriamo alla vostra considerazione l’evoluzione del ruolo della “frontline” (prima linea, ndt) nei moti di Hong Kong, nella speranza che possa essere utile per colmare i divari tra i militanti e i partecipanti pacifici nelle strade di altre città.
Come nei movimenti passati, ci sono già stati significativi disaccordi su come affrontare le forze dello Stato negli Stati Uniti. Come in altri movimenti dopo Ferguson e prima, alcune (ma non tutte) organizzazioni di volontariato hanno iniziato ad entrare in contatto e dialogare con l’ala “soft” dell’apparato repressivo locale, entrando in azione per reprimere la militanza della rivolta iniziale: i “leader della comunità” collaborano con le forze dell’ordine, conducendo le folle in agguati e accerchiamenti, e segnalando letteralmente i manifestanti “violenti” tra la folla. Nel frattempo, i governi locali in tutta la nazione affermano che coloro che hanno iniziato i danneggiamenti e i saccheggi o che combattono contro la polizia sono “agitatori esterni”, il sindaco di Seattle ha twettato che «gran parte della violenza e della distruzione, sia qui che in tutto il Paese, è stata istigata e perpetuata da “uomini bianchi.». Ma è evidente che la rabbia repressa contro la polizia è estremamente diffusa e che per le strade sia emerso un ampio consenso sulla necessità di opporvisi.
Hong Kong può offrire una via per sfuggire all’apparente inevitabilità dei conflitti interni al movimento sui nodi della violenza, nonviolenza e il modo di interagire con le forze dell’ordine. Per coloro che sono alla ricerca di un nuovo modo per colmare i divari tra le forme di partecipazione militante e pacifica, pensiamo che uno dei contributi più importanti della città alla nuova era delle lotte sia stato lo sviluppo di particolari ruoli e formazioni da dispiegare nelle strade, così come le strutture dietro di esse che hanno contribuito a collegare meglio coloro che vogliono combattere i poliziotti con gli altri nel movimento. In particolare, vogliamo sottolineare il concetto di frontliners di Hong Kong, che non solo ha sviluppato molte tecniche riuscite per affrontare la polizia, ma ha anche stabilito un nuovo tipo di rapporto tra gli elementi militanti e nonviolenti delle azioni di strada attraverso molti mesi di sperimentazione.
Cosa significa essere “nella prima linea”? Il termine è diventato incredibilmente popolare negli ultimi mesi in tutte le lingue e in tutti gli ambiti sociali, soprattutto in riferimento agli operatori sanitari e ad altri soggetti particolarmente vulnerabili alla pandemia in corso. Questo ha oscurato l’originale ondata di popolarità del termine nella copertura mediatica mainstream dello scorso anno, dove si riferiva ai manifestanti in varie parti del mondo. Le adulazioni ufficiali per i lavoratori che escono dal turno di lavoro a Wuhan e a New York suonano controverse versioni statali del grido «¡vivan lxs de la primera línea!» che salutava i manifestanti di ritorno dalle battaglie con la polizia in Cile lo scorso autunno. Ciò che ha permesso le versatili, e apparentemente opposte, mobilitazioni di questo termine è stata proprio la sua capacità di integrare in modo efficace attività normalmente divise, proponendo un’unità definita non dall’omogeneità ma dal sostegno alla lotta complessiva, simboleggiata da chi è in “prima linea”. Ora, con il ritorno dei disordini negli Stati Uniti, sembra possibile che l’uso del termine si rivolga di nuovo a coloro che affrontano la polizia: in Connecticut, una fila di manifestanti vestiti di nero affronta la polizia indossando maschere che dovevano essere prima destinate a prevenire la diffusione del virus, e in uno screenshot sfocato del momento, una donna tiene in mano un cartello che recita: «Gli unici alleati sono quelli nelle prime linee.».
L’idea di base che permette al concetto di prima linea di integrare il movimento al di là delle vecchie divisioni tra violenza e non violenza, o “diversità di tattiche”, è che chi è in prima linea si assume rischi personali per proteggere chi gli sta intorno, idealmente con (ma spesso senza) un’attrezzatura protettiva distintiva, e che questi rischi aiutano a spingere in avanti l’intero movimento. Questo è anche il motivo per cui il concetto si è esteso così facilmente nella risposta alla pandemia, perché la logica di base del rischio personale a sostegno della lotta è più o meno identica. Ma in quei casi, lo Stato aveva un chiaro interesse a mobilitare il termine per cooptare le risposte popolari o mascherare la propria incompetenza, il tutto con l’obiettivo finale che rimane di sopprimere la pandemia. Ora, tuttavia, lo Stato non ha tale interesse, poiché non condivide lo stesso obiettivo dei manifestanti che invocano il concetto di prima linea. Al contrario, porrà i “leader della comunità” e forse li ritrarrà anche come “in prima linea” del movimento in qualche modo, ma non c’è bisogno di fingere di sostenere coloro che sono effettivamente in conflitto con la polizia. Questo significa che il termine ha la capacità di tornare al significato che ha acquisito a Hong Kong, definito attraverso i rischi assunti in difesa di tutti o l’atto di mettere a rischio la propria vita per tenere tutti gli altri al sicuro e contemporaneamente spingere la lotta in avanti.
Nel corso dell’escalation degli scontri di strada nel 2019, i manifestanti di Hong Kong hanno prodotto innovazioni a ritmo rapido, tra cui l’invenzione di nuove attrezzature e formazioni distinte con specifiche posizioni tattiche da riempire all’interno del corpo della protesta. In questo contesto, il frontliner è emerso come un ruolo riconoscibile di chi, con armature e strategie di mitigazione dei gas lacrimogeni, si è posizionato direttamente contro la polizia, sostenuto da compagni in seconda e terza linea.
Questa innovazione tattica si è diffusa rapidamente, prima in Cile e poi in altri contesti latinoamericani. Il primo salto da Hong Kong al Cile è stato probabilmente tradotto attraverso i “riot-porn” caricati su YouTube o semplicemente trasmesso attraverso l’aria inebriante del ciclo di rivolta del 2019. Un partecipante a un “clan” della prima linea cilena fa capire che le tattiche utilizzate dal suo gruppo sono state adottate da Hong Kong. Ben presto, altri rivoltosi locali si sono attrezzati con tattiche molto simili, tra cui scudi, slogan, costruzione inventiva di barricate, e l’utilizzo diffuso di puntatori laser ad alta potenza come strumenti per disturbare le telecamere e la vista della polizia (così come, in un caso memorabile, la distruzione di un drone della polizia). Oltre a questi adattamenti specifici, anche la struttura del movimento cileno è stata organizzata secondo linee riconoscibili: dopo un periodo di manifestazioni contro l’aumento dei prezzi dei trasporti pubblici, tra cui le diffuse evasioni organizzate e le grandi marce, un giro di vite della polizia ha poi scatenato massicce manifestazioni e rivolte che in Cile sono ampiamente definite come una «esplosione sociale». In un video di una protesta in Plaza Italia, a Santiago del Cile, un uomo su un edificio che si affaccia sulla piazza dice entusiasta che la manifestazione «è possibile solo grazie a un gruppo di ragazzi», che si sono organizzati «per fermare le forze repressive.».
Nel periodo successivo, quando nelle città del Paese è stato dichiarato lo stato di emergenza, lo spazio per manifestazioni pacifiche è stato difeso da una prima linea di manifestanti disposti a combattere la polizia. Come a Hong Kong, questi manifestanti sono stati organizzati principalmente per ruolo: portatori di scudi, lanciatori di pietre, medici, “minatori” (che producono proiettili), manifestanti nelle retrovie con laser per disturbare la vista o le telecamere della polizia e barricatori per bloccare l’avanzata. A differenza degli sviluppi successivi della strategia «be water» (essere fluidi come l’acqua, ndt) di Hong Kong, che ha enfatizzato il logoramento della polizia attraverso il movimento costante, il movimento cileno è iniziato con i manifestanti che hanno allestito e difeso specifiche linee intorno alla “zona zero” o “zona rossa” per impedire ai poliziotti di entrare nelle aree dove si erano radunati altri manifestanti. Con l’aumento della repressione, tuttavia, gli scontri quotidiani sono diventati essenzialmente combattimenti di strada in strada, tra i manifestanti organizzati e la polizia. Tuttavia, l’importanza della prima linea come strumento per rendere possibile la protesta è stata ampiamente riconosciuta da coloro che erano all’interno e all’esterno del movimento, con i “rappresentanti del fronte” acclamati selvaggiamente quando venivano invitati a partecipare ai talk show. Come a Hong Kong, i frontliners che hanno formato gruppi autonomi per difendere il movimento sono stati sostenuti da partecipanti esterni, sia in forma anonima che di gruppo, come hanno lamentato alcuni media di destra.
Tattiche simili sono state adottate anche in Colombia tramite il Cile e Hong Kong, poiché i gruppi che si organizzano su Facebook hanno riconosciuto la necessità di proteggere i manifestanti del movimento guidato dagli studenti dalla violenza della polizia. Tuttavia, i primi membri dei gruppi più importanti in prima linea hanno dichiarato che avrebbero agito in modo puramente “difensivo” piuttosto che attaccare direttamente la polizia e, man mano che il più ampio movimento popolare si spegneva, le opinioni su questi gruppi (caratterizzati dai loro fotogenici scudi blu, adatti ai media) hanno cominciato a cambiare. I frontliners adottarono consapevolmente la strategia «be water» di Hong Kong, ma questo fu percepito da molti nei movimenti studenteschi come un abbandono delle forme tipiche del movimento studentesco, che non aveva fatto le stesse scelte tattiche. Più in generale, i frontliners delle proteste studentesche colombiane sono stati percepiti come opportunisti, nel tentativo di dare spettacolo davanti ai media e di guidare le marce lontano dai percorsi concordati. Alla fine, questo tipo di “prima linea” altamente inorganica si è alienata il sostegno che aveva ricevuto in un primo momento dal resto del movimento.
In questi diversi contesti, lo sviluppo del ruolo del frontliner ha segnato un significativo progresso nella tattica del confronto di strada con la polizia. Tali tattiche devono, naturalmente, cambiare per adattarsi a situazioni particolari, ma possiamo imparare dai continuamente crescenti saperi globali della lotta. Nel decennio successivo al declino del movimento dell’alter-globalizzazione, la discussione sulle tattiche di lotta contro la polizia si è in gran parte ingigantita in dibattiti sul “blocco nero”. Originario della Germania degli anni Ottanta, il blocco nero si riferisce alla tattica di indossare in gruppo capi d’abbigliamento e protezioni simili e neri, che impediscono alla polizia di individuare qualsiasi individuo tra la folla. In parte per il suo successo pratico, le azioni del black-bloc negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa sono state oggetto di interminabili dibattiti, che alla fine si riducono a quale ruolo l’azione militante dovrebbe svolgere nelle proteste di strada. Negli Stati Uniti, il risultato finale è stato una distensione in cui i manifestanti che sostenevano la militanza e quelli che potevano sostenere solo un’azione non conflittuale si sono spinti fino a dividere in aree delle città per impedire l’interazione tra i gruppi. Le affermazioni secondo cui il blocco nero protegge i manifestanti non violenti (sia direttamente che attirando la repressione della polizia altrove) sono stati spesso punti di discussione, ma non si è mai raggiunto un consenso. Nella migliore delle ipotesi, c’è la difesa di una “diversità di tattiche”, forse l’espressione migliore per descrivere questa fragile distensione.
All’inizio di questi movimenti, la diversità di tattiche permette una tenue coesistenza di caratteri militanti e pacifici, poiché vi sono molti partecipanti e marce parallele, permettendo alle persone di distribuirsi in quei luoghi dove prevale il loro “tipo” preferito. Il termine immagina di fatto sfere completamente diverse in cui possono svolgersi “tattiche diverse”. Ma spesso non è così. Con l’aumento della repressione statale e il rallentamento del moto iniziale, le due sfere sono costrette a fondersi. È proprio a questo punto che sono necessarie tattiche più aggressive per difendere il movimento nel suo complesso contro la polizia e per continuare a spingere le cose in avanti man mano che l’energia dei partecipanti diminuisce. Da un lato, è in questo momento che si attiva la funzione repressiva dello Stato, poiché la polizia locale viene rifornita e riceve rinforzi dai livelli superiori di governo. Ma dall’altro, questo è anche il momento in cui lo Stato mobilita il suo apparato di controllo soft sotto forma di leader della comunità, non profit e politici “progressisti”, che giocano tutti un ruolo essenziale nel rompere la tenue alleanza tattica che esisteva all’inizio. Queste sono, dopo tutto, le persone con più successo nello spingere il mito dell'”agitatore esterno”, a deridere la distruzione “da anarchici bianchi” delle proprietà e spesso a intervenire letteralmente per prevenire attacchi alla polizia o anche il de-arresto di altri manifestanti, dopo il fatto incoraggiano la gente a consegnare video da spia che mostrano chi ha lanciato bottiglie alla polizia, e di inondare i social media con post che affermano che i poliziotti o anche i nazionalisti bianchi sono stati quelli che hanno rotto le prime finestre.
Nelle proteste del 2019 a Hong Kong e in Cile, tuttavia, in modi e a velocità diverse, l’affermazione che il “blocco” protegge gli altri è stata trasformata in un chiaro e innegabile pezzo dell’immaginario collettivo. Ciò è stato in parte possibile anche attraverso la cancellazione di ogni precedente significato legato al protestare in blocco nero e la sua sostituzione con il ruolo di frontliner: quel contestatore che, sottoponendosi a gravi pericoli e all’onnipresente gas lacrimogeno, non ha fatto altro che difendere tutti gli altri dalla polizia. Questo rappresenta un cambiamento: non c’è più una grande separazione geografica in due corpi di manifestanti (una zona per la protesta pacifica e un’altra per il confronto), ma un unico corpo coalizzato, protetto in prima linea da coloro che hanno fatto proprio il ruolo di essere lì. In un senso ancora più ampio, e forse ancora più importante, le proteste di Hong Kong e del Cile hanno totalmente riconfigurato il ruolo dei manifestanti vestiti di nero, mascherati e militanti, disposti a combattere la polizia. A differenza della situazione negli Stati Uniti, dove spesso è possibile per i media e la polizia collaborare per isolare i militanti, ritraendoli come separati dal corpo principale dei “buoni manifestanti” e ancora più distanti dal corpo politico in generale, i frontliners sono stati anche ampiamente (se non completamente) intesi come coloro che agiscono in difesa di tutti gli altri, manifestanti e non, rendendo possibile la resistenza a uno status quo insostenibile.
La costruzione di un’effettiva solidarietà tra “militanti coraggiosi” (勇武) e gli aderenti alla “nonviolenza pacifica e razionale” (和理非) non è stato il risultato automatico del movimento nascente nel 2019 a Hong Kong, né è avvenuto da un giorno all’altro. Come negli Stati Uniti, i precedenti movimenti di Hong Kong erano divisi lungo linee ideologiche di militanza e nonviolenza, così come erano divisi tra quelli di strada e l'”opposizione controllata” dei partiti pan-democratici nel Consiglio legislativo (LegCo). Dobbiamo ricordare che le proteste del 2019 sono arrivate dopo anni di sperimentazione, tra cui l’emergere e il fallimento della “Rivoluzione degli ombrelli” del 2014: una protesta altrettanto massiccia e in gran parte “pacifica” che ha spuntato tutte le caselle sostenute dai sostenitori liberali della nonviolenza.
Quando quel movimento è stato così decisamente sconfitto, i giovani di Hong Kong hanno cominciato ad agitarsi in modo nuovo, prima con azioni di strada su scala molto più ridotta, come gli strani e ancora controversi “Fishball Riots” del 2016. In queste azioni, abbiamo visto la linea del fronte staccata dalla sua base in una manifestazione di massa. I giovani ancora scossi dall’abietto fallimento del “pace, amore e nonviolenza” del 2014 si sono invece buttati nel confronto diretto, dichiarando guerra ai poliziotti, accatastando e lanciando mattoni, e poi pilotando la strategia «be water» rifiutando di presidiare spazi fissi in strada. Allo stesso tempo, non hanno aspettato di essere raggiunti da altri manifestanti, e non hanno fatto alcuno sforzo di reclutamento. Il risultato è stato che le prime linee nei Fishball Riots, così com’erano, non avevano nessuna delle connotazioni di difesa che hanno ora. Questo caso di disordini è ancora controverso tra gli hongkonghesi all’interno del movimento di protesta, perché il suo carattere isolato lo ha trasformato in una sorta di avventurismo rischioso (per non parlare del ruolo svolto dai “localisti” di estrema destra nei disordini). Ora, però, vediamo tattiche molto simili ridispiegate e lucidate, ma in un contesto sorprendentemente diverso. È come se le tattiche pilotate sia nelle azioni (relativamente) pacifiche del 2014 sia negli scontri (relativamente) violenti con la polizia del 2016 fossero finalmente costrette a combinarsi in una sintesi efficace.
Le radici di questa sintesi si possono meglio vedere verso la fine della “protesta degli ombrelli”, che ha preso forma attraverso interazioni talvolta conflittuali tra organizzazioni formali e decine di migliaia di partecipanti autonomi. Durante le occupazioni di Central e, più tardi, di Mong Kok, alcuni elementi del movimento furono organizzati centralmente, con occupazioni concentrate intorno a un “grande palco” (大台) che era essenzialmente controllato da grandi organizzazioni politiche, in particolare i due gruppi studenteschi: la HK Federation of Student Unions and Scholarism (un gruppo fondato da studenti delle scuole superiori), così come i principali partiti elettorali del campo pandemocratico e un gran numero di attivisti di ONG affermate. Mentre queste occupazioni non avrebbero mai potuto iniziare – tanto meno si sarebbero potute sostenere da sole – senza una grande quantità di lavoro e di azione autonomi, le organizzazioni formali hanno cercato di mantenere un certo controllo sulla forma del movimento, e in alcuni casi hanno tentato di annullare azioni specifiche, alcune delle quali sono andate avanti comunque senza il loro sostegno. Tuttavia, quelli che occupavano posizioni di leadership erano i gruppi che alla fine entrarono in trattative con il governo. Come in molti contesti occidentali, queste organizzazioni erano in gran parte orientate alla cosiddetta “nonviolenza razionale”. Malgrado ciò, le tensioni tra i radicali e coloro che controllavano il palcoscenico sono aumentate durante tutto il corso del movimento, raggiungendo un picco in seguito all’attacco dei manifestanti all’edificio del LegCo, dopo di che i manifestanti non violenti e gli organizzatori hanno etichettato tutti i militanti come agenti segreti di Pechino o “demolitori”. Dall’altro lato, alcuni manifestanti hanno iniziato a far circolare slogan che chiedevano lo smantellamento del palco principale (e del centro di potere che rappresentava) (拆大台), e lo scioglimento dei picchetti che avevano tentato di fermare gli attacchi al LegCo (散纠察).
Sulla scia del fallimento della protesta degli ombrelli e della liquidazione delle occupazioni, il primo periodo del Movimento anti-estradizione del 2019 – indicativamente dalla proposta di legge del marzo 2019 alla marcia da due milioni di persone del 16 giugno – ha visto ancora la nonviolenza come tattica dominante. Tuttavia, a seguito della riluttanza del governo a ritrattare la legge di fronte al movimento nonviolento di massa, e a seguito di una repressione sempre più violenta da parte della polizia, è emerso un grossolano consenso attorno ad alcuni principi di base: imparando dai fallimenti della protesta degli ombrelli, le nuove proteste non avrebbero dovuto essere organizzate attorno a un corpo centrale e non avrebbero cercato di prendere e tenere lo spazio. Questa forma organizzativa è stata intesa specificamente in riferimento alle tappe principali della protesta degli ombrelli, con il “decentramento” come slogan e principio organizzativo reso in cantonese come «senza un grande palcoscenico» (无大台).
Allo stesso tempo, le esperienze della violenza della repressione poliziesca hanno creato un’atmosfera di solidarietà tra i manifestanti. Sulla base di richieste unificate – prima la ritrattazione della legge sull’estradizione e poi un’inchiesta sulla brutalità della polizia, la fine delle classificazioni dei manifestanti come rivoltosi, l’amnistia per gli arrestati e il suffragio universale – i partecipanti hanno raggiunto un ampio consenso sul fatto che il successo richiede un livello di unità tra i militanti e i manifestanti pacifici: «nessuna divisione, nessuna rinuncia, nessun tradimento» (不分化、不割席、不督灰) o, più positivamente, «ognuno combatte a modo suo, scaliamo insieme la montagna» (兄弟爬山,各自努力) e «i pacifici e i coraggiosi sono indivisibili, ci alziamo e cadiamo insieme» (和勇不分、齐上齐落). I sondaggi tra i partecipanti al movimento, effettuati all’inizio di giugno, hanno mostrato che il 38% degli intervistati credeva che le “tattiche radicali” fossero utili per far sì che lo Stato ascoltasse le richieste dei manifestanti, ma a settembre il 62% era d’accordo. Alla domanda se le tattiche radicali fossero comprensibili di fronte all’intransigenza dello Stato, quasi il 70% era già d’accordo a giugno, e a luglio questa percentuale era salita al 90%.
A settembre, solo il 2,5% degli intervistati ha dichiarato che l’uso di tattiche radicali da parte dei manifestanti non era comprensibile. Dallo stesso sondaggio, a settembre, oltre il 90% dei partecipanti concordava con l’affermazione che «mettere insieme azioni pacifiche e militanti è il modo più efficace per ottenere risultati». Un simile punto di svolta potrebbe emergere negli Stati Uniti, dato che quasi l’80% degli intervistati da un sondaggio nazionale che chiedeva se la rabbia che ha portato all’attuale ondata di proteste è “giustificata” ha risposto affermativamente, e il 54% afferma che la risposta alla morte di George Floyd, compreso l’incendio di un edificio del distretto di polizia, è giustificata.
A Hong Kong, la natura decentralizzata del movimento, unita al crescente senso di uno scopo unitario condiviso tra manifestanti pacifici e militanti, ha permesso la formazione e la riproduzione di ruoli riconoscibili in cui i partecipanti potevano sostenersi a vicenda in gruppi organizzati autonomamente, coordinati in modo anonimo attraverso strumenti online come Telegram e forum come LIHK.org. Questi strumenti e strutture organizzative sono di per sé degni di un’indagine separata o di una guida open-source alla protesta: Telegram permette la creazione di strutture estremamente flessibili, pur preservando l’anonimato, che hanno permesso a manifestanti e sostenitori di sviluppare un intero ecosistema digitale che è stato cruciale per superare in tempo reale la polizia. Lo strumento dei canali di Telegram ha permesso la creazione di entrambe le enormi chatroom su larga scala simili, a livello di funzione, ai commenti sui livestream che i manifestanti negli Stati Uniti stanno utilizzando. Tuttavia, mentre questi «mari pubblici» (公海) erano in grado di fornire alcune informazioni utili, si è capito che erano sotto la sorveglianza della polizia a causa della loro natura pubblica, e l’organizzazione di passaggi “sensibili” è stata fatta in canali con amici fidati.
I manifestanti hanno anche creato altri canali specifici per condividere le posizioni della polizia e le vie di fuga, che alla fine hanno raggiunto decine di migliaia di partecipanti alla protesta. In questi canali, l’invio è limitato agli amministratori o ai bot appositamente designati, che trasmettono informazioni verificate sull’ubicazione e la disposizione delle forze di polizia, contribuendo ad attenuare il fenomeno dei falsi allarmi e relativo panico comuni in ogni protesta. Queste informazioni sono a loro volta fornite da individui che lavorano come osservatori ai margini delle manifestazioni di protesta, che inviano gli aggiornamenti nei canali designati secondo un formato specifico, in modo da poter essere facilmente standardizzate e trasmesse agli aggregatori di dati che monitorano sia i canali scout che i livestream, pubblicando gli aggiornamenti dei canali di annuncio e le mappe in tempo reale della posizione della polizia.
Oltre alle funzioni di segnalazione, i canali di Telegram creati per azioni specifiche hanno anche permesso ai partecipanti di trasmettere informazioni sui bisogni («medici necessari a questo incrocio», «strumenti di attenuazione dei gas lacrimogeni necessari a breve») e di prendere decisioni collettive sulle risposte in tempo reale attraverso funzioni di voto. Quest’ultima ha permesso scelte rapide, come ad esempio quale via di fuga prendere per evitare un attacco di polizia. È importante sottolineare che questi metodi organizzativi hanno attirato sia i militanti sia coloro che non erano disposti, non erano interessati o (a causa dello status di immigrazione, della disabilità o di altre potenziali vulnerabilità alla violenza della polizia) non erano in grado di partecipare in prima linea: mentre i militanti in prima linea affrontavano la polizia e la loro crescente violenza, i sostenitori non violenti si impegnavano nelle marce, come medici o fornendo supporto logistico (spostamento di forniture per le barricate, strumenti per il trattamento dei gas lacrimogeni, o vestiti per i frontliners in nero per cambiarsi), come copwatch con videocamere, o come esploratori che fornivano informazioni ad altri sostenitori che lavoravano come aggregatori di dati.
Molti dei modi in cui coloro che erano “fuori” dalle prime linee hanno fornito un supporto materiale diretto ai frontliners per le strade: in alcune azioni, i manifestanti senza equipaggiamento formavano muri umani, a volte usando ombrelli, per proteggere i manifestanti mentre si toglievano l’equipaggiamento che li avrebbe contrassegnati per l’arresto sulla via del ritorno a casa. Altri, pur non partecipando direttamente in qualità di dimostranti, avrebbero facilitato i danni alla proprietà, usando i loro ombrelli per schermare le persone che rompevano le finestre dalla vista delle telecamere. Più tardi nel corso del movimento, i manifestanti al di fuori delle prime linee avrebbero portato i singoli componenti per le molotov alle azioni, e formato catene umane che portavano ai frontliners materiali per rifornirsi rapidamente con bottiglie, benzina, zucchero e stracci.
Al di là di queste azioni di sostegno specifico, il semplice fatto di rimanere in strada durante i divieti di raduni pubblici è stato infine inteso come un mezzo per sostenere il movimento: un amico racconta la storia di un anziano impiegato anonimo in una pausa sigaretta che, dopo aver letto su Telegram che un gruppo di frontliners vicino al suo palazzo aveva bisogno di guadagnare tempo prima di impegnarsi con la polizia, si è avvicinato direttamente alla linea di polizia e ha cercato di litigare con i poliziotti, pensando che la sua identità di persona anziana e ben vestita avrebbe potuto diminuire le sue possibilità di essere arrestato e fornire più di un alibi se l’avesse fatto. Tuttavia, questa generalizzazione della lotta è vista da alcuni anche come una delle ragioni per cui la polizia alla fine si è rivolta alla più recente strategia di accerchiamento e di arresti di massa di tutti in una determinata zona: chiunque si trovi per strada può ora essere considerato un partecipante, o almeno uno che odia i poliziotti.
All’inizio del movimento, tuttavia, prima dell’intensificarsi della repressione e degli arresti da parte della polizia alla fine dell’estate e nell’autunno del 2019, il ruolo dei frontliners era relativamente chiaro, con la possibilità per i sostenitori di rimanere separati dallo scontro diretto con la polizia costruendo barricate, fornendo rifornimenti alle prime linee mentre si spegnevano i gas lacrimogeni, o nascondendo i frontliners alla polizia mentre cambiavano il proprio vestiario. Questa divisione era comunque ancora un po’ problematica, poiché l’accettazione del fronte come segmento centrale del movimento ha dato a coloro che combattono contro la polizia una posizione di “maggior merito” in qualche modo, con alcuni manifestanti pacifici che sono stati accusati di non essere abbastanza militanti. Ma man mano che l’accettazione dell’azione militante cresceva di pari passo con la violenza sempre più estrema della polizia, queste divisioni hanno cominciato a rompersi. Da un lato, le azioni che prima erano intese come pacifiche si associavano a un rischio sempre maggiore di essere scoperti e arrestati.
Per esempio, la creazione e la protezione dei “muri di Lennon” (ampie distese di post-it che, a mosaico, ricoprono interamente muri con messaggi di protesta, ndt), contestazione artistica e ed espressione di sé, è stata inizialmente intesa come una modalità di partecipazione completamente “pacifica”, ma con l’aumento del numero di attacchi violenti ai muri e di arresti delle persone che vi lavoravano, è diventato difficile continuare a partecipare senza una preparazione fisica e mentale alla violenza. Di fronte alla violenza della polizia e al “terrore bianco” degli attacchi ai manifestanti da parte di gruppi filo-Pechino, ogni divisione tra chi era disposto a mettere in gioco il proprio corpo e chi era impegnato in una partecipazione a basso rischio o eticamente non violenta diventava sempre più difficile. Ciò è stato particolarmente vero quando un numero crescente di manifestanti è stato arrestato. Per alcuni amici, la decisione di unirsi alla prima linea è avvenuta per gradi ed è stata il risultato della graduale erosione delle differenze tra le attività in prima linea e altri modi di sostenere il movimento. Altri amici hanno raccontato le difficili conversazioni che hanno avuto con i loro genitori anziani che, vedendo gli arresti di tanti giovani, hanno deciso di unirsi al fronte per colmare il vuoto.
Se da un lato ci siamo volutamente concentrati su tattiche materiali piuttosto che sull’identità politica, va riconosciuto che le cinque richieste che hanno contribuito a fornire una base per un’ammirevole unità ai manifestanti di Hong Kong hanno anche messo in evidenza significative divisioni politiche. In particolare, il fatto che il movimento avesse una base così ampia significava che comprendeva (e in alcuni casi era guidato da) un sentimento localista di destra. A differenza dei Gilet Giall in Francia, che avevano una base di partecipazione similmente ampia, l’inclusione e l’escalation di tattiche militanti per danneggiare la proprietà non è servita a scacciare gli elementi di destra dal movimento. Piuttosto, a Hong Kong la situazione si è invertita, e alcuni (ma non tutti) esponenti della sinistra hanno limitato la loro partecipazione al movimento, non volendo cantare slogan a fianco dei nazionalisti che chiedono una rivoluzione per “restaurare” Hong Kong, o partecipare alle marce con quelli che sventolano le bandiere dei regimi statunitensi o coloniali britannici.
Mentre la struttura razziale della politica statunitense rende quasi impossibile la partecipazione della destra al ciclo di ribellione in corso in USA (nonostante i politici promuovano menzogne contrarie), la struttura del movimento di Hong Kong attorno a un insieme unificante di cinque richieste è anche un po’ estranea al contesto degli Stati Uniti. Mentre la loro stessa impossibilità ha dato spazio al movimento per crescere ad Hong Kong, l’uso di richieste anche improbabili è passato di moda negli Stati Uniti. Dopo il fallimento delle prime proteste contro la guerra a metà degli anni 2000, l’ascesa e la caduta di Occupy qualche anno dopo ha definito quella che sarebbe diventata la norma, in cui un eccesso di richieste ha portato all’incapacità generale di “accordarsi” su qualsiasi richiesta. Nella prima ondata di proteste di Black Lives Matter dopo la rivolta di Ferguson del 2014, si è verificato un fenomeno simile: le organizzazioni “ufficiali” BLM no-profit hanno fatto richieste concrete di videocamere sui poliziotti e di denaro per le attrezzature militari da incanalare in corsi di formazione antirazzismo e de-escalation, ma queste non sono mai state le richieste popolari delle strade. Al contrario, il movimento coesisteva non con una richiesta specifica, ma con un’affermazione: che «le vite dei neri contano» («Black Lives Matter»).
È questa affermazione che è tornata ad essere la forza coesiva della rivolta di oggi. Allo stesso tempo, la situazione potrebbe cambiare alquanto. Ma non c’è ancora un insieme coerente di richieste che possa unire i manifestanti pacifici e militanti che si ribellano dopo l’assassinio di George Floyd. Se tali richieste dovessero sorgere, probabilmente sarebbero basilari e difficili da realizzare senza “smantellare il grande palcoscenico” del business as usual negli Stati Uniti, proprio come le Cinque richieste di Hong Kong: amnistia generale, abolizione della polizia, o risarcimenti per secoli di omicidi e lavori forzati approvati dallo Stato. Gli appelli a de-finanziare la polizia («defund the police») sembrano aver preso piede ora, dopo essere stati raccolti da gruppi di attivisti e politici progressisti locali. Ma tale richiesta è ben lontana dall’appello più popolare ad abolire la polizia, e permette ai leader locali di affermare che stanno “depotenziando” i dipartimenti di polizia, mentre in realtà stanno conducendo solo tagli di bilancio frazionari. In questo senso, il defunding della polizia sembra assumere un carattere simile alle richieste di body camera del 2014.
Con o senza tali richieste, vediamo l’innovazione fondamentale del ruolo di frontliners nel venire incorporato nelle nuove relazioni che diventano possibili: tra la “prima linea” e la seconda linea, la terza, e altri manifestanti a sostegno. Una somiglianza tra le esperienze dei manifestanti di Hong Kong e quelle dei manifestanti nelle strade degli Stati Uniti è che, mentre molti hanno sperimentato a lungo i modi in cui funziona la repressione della polizia, questa è per molti la prima volta (o almeno uno dei momenti più gravi) in cui la repressione della protesta pacifica da parte della polizia è visibile. In un certo senso, il ruolo evolutivo del frontliner è stato in realtà forzato dall’azione della polizia. Una volta che la repressione del movimento a Hong Kong ha superato un certo punto, sono emersi due fatti: in primo luogo, la polizia è fondamentalmente violenta, e dispenserà tale violenza indipendentemente dal fatto che i suoi bersagli protestino pacificamente o meno. In secondo luogo, è diventato evidente che se il movimento dovesse continuare, i manifestanti devono essere in grado di autodifendersi.
Poiché la polizia e i rinforzi della Guardia Nazionale cercano di disperdere le proteste in modo incredibilmente violento per le strade di quasi tutte le principali città degli Stati Uniti, sembra possibile che il Paese possa vedere un simile punto di svolta in termini di portata e intensità della repressione. Per coloro che sono alla ricerca di soluzioni – che cercano un modo per sostenere i nostri amici e compagni, per lavorare in solidarietà, per piangere le vittime della polizia e per far sì che questa violenza sistemica finisca un giorno – un metodo per continuare la lotta potrebbe essere quello di riconoscere che il ruolo di chi è in prima linea è quello di proteggere tutti gli altri. Quindi diciamo: welcome to the frontlines, benvenuti in prima linea, e anche in seconda e terza linea, e nelle linee mediche e di rifornimento, tutti occupano ruoli, illustrator, stampatori e distributori, live-streamer e tutti coloro che twittano informazioni dagli scanner della polizia. Forse questa volta possiamo esserci tutti insieme.
Sotto il movimento-ombrello di Black Lives Matter i neri americani in protesta contro gli abusi e gli omicidi razzisti della polizia statunitense hanno imposto tutto un nuovo capitolo di lotte radicali: anche se non innovative colpiscono profondamente il cuore dell’impero e, in coppia con quelle operaie in Cina, completano una nuova globalità conflittuale che non si vedeva da decenni.
Esprimendo forza invece che vittimizzazione lacrimevole, rifiutando i tentativi di addomesticamento da parte della sinistra, il proletariato nero si è posto come punta avanzata dello scontro di classe riuscendo a riportare il particolare al generale (le condizioni di vita dei neri e le uccisioni razziali) e il generale nel particolare (le brutali condizioni di classe negli States così come in tutto il mondo atlantico, esasperate dalla pandemia in un paese con oltre 40 milioni di disoccupati senza garanzie e 2 milioni di infetti).
Certo la strategia di Trump di polarizzare lo scontro sociale gli si è ritorta contro con settori dell’establishment – specialmente media e esercito – ormai impazienti di liberarsene e i ceti popolari di riferimento disillusi da possibili miglioramenti concreti delle proprie condizioni di vita, ma ciò evidenzia come una lotta cheavanza e che aggrega ampi strati trasversali della popolazione costringa la classe dominante a seguire avendo perso l’iniziativa; altrettanto al seguito paiono i “compagni”, agendo principalmente ai margini del conflitto al netto di roboanti Zone Autonome ininfluenti nel quadro generale delle cose e che rischiano anzi di rinchiudere energie che dovrebbero invece mantenersi nelle strade (si guardi la fine del “movimento degli ombrelli” una volta rinchiusosi nella cittadella universitaria). È l’ininfluenza di un modello, quello dell’ attivismo radical-accademico imbevuto di Identity Politics che spande i propri Lifestyles anche qui in Italia, incapace di capire che i Safe spaces non sono fortezze ma trappole. L’insistenza sul concetto di Privilege che individualizza un senso di colpa invece di sistematizzare un’oppressione e collettivizzarne la resistenza è esemplificativo dell’incapacità di rompere con il modello neoliberale pretendendo di poterlo gestire secondo i propri termini.
In Europa riverberano i temi americani, soprattutto nel mondo anglosassone che – specialmente dopo la Brexit – vi gravita attorno più di quanto non faccia con il continente. Ma le differenze sono sempre più ampie, approfondite dal progressivo disimpegno statunitense e dalla crescente rivalità fra il ceto dirigente Trumpiano e quello euro-tedesco: l’Italia, più atlantista della Nato, continua però a ricevere il percolato di ciò che succede oltreoceano; ma è la traduzione con il contesto locale che raramente funziona o almeno quando è fatta in modo artificiale.
La “lotta delle statue” ha cercato per qualche tempo un qualcosa su cui coagularsi trovandolo poi nel monumento ad un personaggio disgustoso come Indro Montanelli. Certo, ce ne sono di ben più importanti nella storia nazionale: da quello a Graziani al mausoleo di Mussolini fino alle innumerevoli sculture sabaude di monarchi e politici sanguinari sia in Africa che nel Sud, ma il punto è che molti di questi sono distribuiti in un paese che è basato sulla provincia, in cui è intraducibile una lotta simbolica che si basa sui simboli fondativi di un tessuto metropolitano che proprio forse solo a Milano esiste.
La polemica che ne è seguita ha avuto risvolti positivi, soprattutto nel radicalizzare ulteriormente certe componenti giovanili e nel mettere in crisi la religione civile dello stato liberal-democratico esponendo la pochezza e la marcescenza specialmente della sua casta giornalistica. Un ulteriore tassello di un lento percorso di riconsiderazione di elementi (come la polizia nostrana, rimessa in discussione dall’atteggiamento muscolare durante la quarantena) che prima si pensavano inamovibili.
Il problema è però quando ciò che rimane del cosiddetto Movimento non riesce a vedere politicamente e tatticamente questa conflittualità: il ruolo del militante è quello di inserirsi e riuscire ad alzare l’asticella il più possibile, di essere in questo mondo e non di questo mondo, non quello di farsi assimilare convincendosi che una lotta sia fine a sé.
Nella provincia le piazze chiamate nel nome di Black Lives Matter hanno mostrato invece un’energia ancora più evidente visto il contrasto con i territori desertificati: numeri sorprendenti principalmente di una composizione giovane e razzializzata che per la prima volta ha preso la parola sulla propria condizione. La questione generazionale si mostra per come siano difficilmente intercettabili da un “noi” anagraficamente più vecchio, magari cresciuto con l’Onda e giunto a termine con il NoExpo; sono altre le grammatiche su cui si esprimono, altre le esperienze formative (il ruolo organizzativo preminente delle donne ispirato dalle ultime mobilitazioni femministe? La scelta di luoghi e modi di aggregazione diversi ispirata dai Fridays For Future? L’uso di altri media e di altri social in modo speculare ma non dissimile da quelli della composizione sociale dei vari comitati di protesta con il governo?).
A Modena il punto di ritrovo non è stata una piazza del Centro ma il Parco Ferrari appena fuori dallo stesso: una luogo che già segna una rottura con la routine funeraria dei cortei e dei presidi, che la composizione giovanile ha scelto esprimendosi nei proprio spazi di aggregazione, in ciò che conosce.
In generale le “Strutture” organizzate erano presenti a malapena in un ruolo di supporto; sono stati i giovani a chiamarla (specialmente tramite tam-tam social e passaparola) e a dominarla, passando alternativamente da riferimenti allle Pantere Nere e a Malcom X a sostenere posizioni non-violente e cittadiniste formando di fatto tutto un altro gruppo rispetto ai vari rappresentanti della Sinistra o del Movimento presenti. Non un qualcosa di omogeneo, comunque: c’era chi si poneva in modo più conflittuale e chi più vittimistico, c’erano numerose diverse compagnie di amici e compagni di scuola, c’erano età e nazionalità diverse. Una composizione – appunto – attraversata da contraddizioni in cui l’opposizione agli sbirri non è evidente ma striscia carsica magari come commento rabbioso contro la volante di passaggio.
Sono state le donne, spesso giovanissime, ad emergere poi in piazza in modo preponderante: sono state delle ragazze a convocare per prime la manifestazione, lo sono la maggior parte di coloro che hanno fatto gli interventi e che han retto il tutto riportandovi con forza la questione di genere, intersecandola con quella razziale.
Resta allora da proseguire uno schietto percorso di ricerca, analisi e formazione, aperto soprattutto a ricevere stimoli inaspettati e a partecipare a movimenti spuri e contraddittori magari di segno opposto uno con l’altro, prendendo dai movimenti esteri più avanzati soprattutto indicazioni di metodo piuttosto che contenuti difficilmente traducibili.