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Discorsoni / Analisi

Mimmo Porcaro – L’Italia al fronte. Destre globali e conflitto sociale nell’era Trump

Introduzione

«La fabbrica della guerra» è un ciclo di incontri organizzato a Modena, ospitato dal Dopolavoro Kanalino78, con l’obiettivo di cercare chiavi per comprendere e afferrare la complessità della fase storica in cui siamo immersi, nella quale eventi sempre più accelerati fanno sfuggire la leggibilità del presente. Come coordinata interpretativa abbiamo voluto usare la guerra perché pensiamo sia il grande fatto sociale centrale, la determinante che sta riorganizzando tutto il nostro mondo e le altre dimensioni di questo momento storico, la realtà in cui siamo collocati.

La tendenza alla guerra delle società capitalistiche è diventato un fatto innegabile, lo vediamo sempre più concretamente; ed è una dinamica che arriva a toccarci sempre più direttamente; in altri termini, un fenomeno che sta trasformando non solo il sistema internazionale in cui abbiamo vissuto finora, ma anche la nostra vita quotidiana. Attraversati da questa dinamica, cambiano in profondità i nostri territori, le nostre città, i nostri quartieri, e insieme a loro stili di vita, bisogni, aspettative, punti di vista, comportamenti sociali.

Per i militanti è diventato dunque imprescindibile comprendere queste trasformazioni per agirle, e potenzialmente per ribaltarle. Come recita un vecchio slogan: «Chi pensa deve agire». Noi crediamo che per agire bene bisogna prima pensare bene, ed è questo l’obiettivo del ciclo di incontri.

Il primo tempo di questo ciclo di incontri è stato intitolato «Modena nel conflitto globale».

Quando abbiamo iniziato a riflettere sulla guerra, infatti, non siamo partiti da grandi teorizzazioni, da grandi discorsi di geopolitica. Abbiamo voluto partire dalla visuale del nostro orizzonte, da quello che ci tocca direttamente, quotidianamente. E quindi siamo partiti dal nostro territorio, ossia dall’ambiente geografico e sociale in cui ci muoviamo. L’unico su cui possiamo cominciare ad agire direttamente con i mezzi che abbiamo. Ammettiamolo: non possiamo andare a fermare la guerra in Ucraina e non possiamo fermarla a Gaza, ma invece possiamo agire – dobbiamo agire – qui, dove siamo collocati, sul nostro territorio.

Siamo partiti a inchiestare la «fabbrica della guerra» a cominciare dall’industria della formazione («Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università»), cioè scuola e università, che è parte integrante della catena di montaggio del conflitto. Abbiamo voluto interrogare quei soggetti, studenti delle superiori e universitari, che nei mesi e negli anni scorsi hanno incominciato a mobilitarsi contro la guerra, in particolar modo contro il genocidio a Gaza da parte di Israele. Abbiamo voluto fare una discussione con loro per capire cosa si muovesse a scuola e in università, anche attraverso il metodo della conricerca, presentato dal collettivo Officine della Formazione, attivo nell’università di Bologna, di cui abbiamo presentato un’inchiesta sulla soggettività studentesca. Pensiamo che l’industria della formazione sia baricentrale nella riproduzione capitalistica, andando a formare quelle capacità umane, quei saperi, quelle conoscenze e soprattutto quei soggetti che verranno messi a valore dal sistema capitalistico, e che noi invece dobbiamo provare a “controutilizzare”, “controformare” per andare a combattere la struttura sociale che produce la guerra.

Il secondo incontro è stato invece sulla fabbrica emiliana («La guerra sul territorio. Industria modenese, produzione bellica e operai: come si trasforma la fabbrica emiliana nella crisi globale?», di prossima pubblicazione), l’industria in senso stretto, osservando quelle caratteristiche che contraddistinguono il nostro territorio. Parliamo infatti di un territorio a vocazione industriale, soprattutto meccanica. Nel corso dei decenni si è consolidato un tessuto di fabbriche, soprattutto di media o piccola dimensione, molto particolare, organizzato in distretti, che dagli anni Ottanta in poi è riuscito a internazionalizzarsi ed essere volano dello sviluppo e dell’accumulazione capitalistica italiana. Ci troviamo su uno dei vertici di quel triangolo Lombardia-Emilia-Veneto a propensione per l’export, in cui si producono i macchinari e la componentistica che alimentano le catene di subfornitura a livello internazionale e globale; una parte di territorio nazionale che, ancorandosi soprattutto all’economia tedesca, è riuscito a integrarsi profondamente nelle catene del valore della globalizzazione.

Il punto prospettico su cui è stata focalizzata la nostra inchiesta sul tessuto industriale modenese è stato appunto il rapporto tra la crisi dell’automotive tedesco e la tendenza alla guerra. La nostra ipotesi era che la crisi delle grandi case automobilistiche tedesche, determinata dalla distruzione dei fattori cruciali dello sviluppo tedesco – ossia l’energia a basso costo dalla Russia e la penetrazione nel mercato interno cinese –, e la compromissione radicale dell’economia tedesca in senso lato, avrebbe provocato un effetto a catena che si riflette su quel reticolato di subforniture che coinvolge la provincia di Modena – la Motor Valley appunto. La tesi che abbiamo sviluppato è che questa crisi può essere l’occasione, il volano, per una ristrutturazione delle competenze e degli impianti impiegati nel settore automobilistico in funzione bellica. In sintesi, venute meno le commesse tedesche, queste piccole e medie fabbriche modenesi, inserite strettamente nelle catene globali del valore, si riconvertono per fornire componentistica alle industrie belliche (come, per esempio, Leonardo).

Abbiamo presentato questa inchiesta insieme a Giovanni Iozzoli, che invece ha discusso dell’aspetto interno alle fabbriche, con una ricognizione sugli operai e le rappresentanze sindacali. La nostra ipotesi ce l’ha confermata la stessa Meloni qualche qualche tempo dopo, quando è uscito un articolo sul «Corriere della Sera», ripreso poi da tutti gli altri quotidiani, dove si parlava di questo “piano segreto” di riconversione dell’automotive italiana in industria bellica.

Quindi, attraverso un metodo che abbiamo condiviso nel corso degli anni, siamo riusciti ad anticipare e a vedere sul nostro territorio questi processi in atto, che andranno a trasformare il territorio e soprattutto la condizione di chi ci vive, così come i possibili comportamenti dei soggetti sociali che si muovono in esso. Lo ripetiamo, non intendiamo indagare questa situazione per mera conoscenza sociologica, ma per indirizzare politicamente un’azione che sia pregna di contenuto e che sappia anticipare le situazioni che potranno crearsi a fronte dell’accelerazione degli eventi e soprattutto dell’approfondimento dello scenario di guerra che ci coinvolge sempre di più.

Questi i motivi per cui parliamo di «fabbrica della guerra»: è qua che si produce la guerra, sostanzialmente, nei suoi elementi materiali. Le industrie che prima producevano componentistica per auto oggi lavorano su alettoni per missili, cingoli per carri armati; l’università produce software e sviluppatori di software per l’intelligenza artificiale usata anche a scopo bellico, come i sistemi di identificazione e di puntamento, e via di questo passo. La nostra provincia si dimostra una punta avanzata di questo sviluppo tecnologico, improntato sul passaggio dal welfare al warfare.

Per non cadere vittime del localismo, attraverso il secondo tempo del ciclo («Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema») abbiamo provato ad alzare lo sguardo dal nostro orizzonte quotidiano e raggiungere una contestualizzazione di più ampio respiro. Tenendo sempre ancorato lo sguardo sulle trasformazioni nella composizione di classe, abbiamo allargato via via il punto focale per vedere dove questi processi si iscrivono a livello internazionale e globale, e quale la loro dimensione politica.

Abbiamo iniziato a indagare, con Mimmo Porcaro, su quale linea del fronte si colloca l’Italia, tra ascesa di rinnovate destre globali, da Trump a Meloni, e possibile, inedita riemersione di una “questione nazionale” che, a bene vedere, non potrà essere esaurita dentro le destre, ma intercetterà i movimenti a venire della composizione di classe; con Raffaele Sciortino, abbiamo cercato di definire la strutturazione che l’imperialismo ha assunto, tra continuità e discontinuità, dal Novecento alla crisi del 2008, e di capire cos’è oggi alla luce della configurazione concreta del mercato globale e dello scontro Stati Uniti e Cina; infine, con Robert Ferro, abbiamo ragionato sulla traiettoria dell’Europa a fronte della crisi tedesca, al cuore del progetto europeo, e della chiarificazione del rapporto tra Unione Europea e Stati Uniti.

Tutte questioni che, a nostro parere, si intrecciano. Per questo, partendo da singoli anelli, ricostruire la catena dei fenomeni significa provare a comprenderla e possederla – anche per non farci “incatenare” a terra dal caos montante.

Nel primo incontro con Mimmo abbiamo discusso della posizione dell’Italia nella crisi globale. Dove stiamo andando? Che ruolo ha l’Italia in questo caos politico? Cosa rappresenta il successo delle destre in ascesa un po’ in tutto il mondo, da Trump alla Meloni fino all’Est Europa?  È il ritorno del fascismo, come ci dicono le centrali democratiche progressiste, oppure qualcos’altro? Che differenze ci sono tra di loro e tra gli interessi che rappresentano? E poi, in che modo questo accartocciamento delle relazioni internazionali, questo stato di guerra sempre più approfondito può creare le condizioni, le opportunità dello sviluppo di un nuovo ciclo di lotte di classe, o quantomeno di una ripresa delle lotte di classe? E nel caso, che forme e istanze avranno queste lotte?

Dopotutto, le lotte ripartono da dove avevano trovato una sconfitta, ma sempre portando in strada nuovi istanze e nuovi soggetti. Se ci permettete un’immagine, diremmo che assistiamo in un qualche modo a un ritorno dell’antico: la marea della globalizzazione si ritira e lascia sul terreno questioni che aveva sommerso o che aveva voluto sommergere. Questioni tipiche della Modernità come la nazione, la sovranità politica, la realpolitik, l’equilibrio di potenza, le sfere di influenza… e con queste anche la lotta di classe. Tutto ciò ci porta a domandarci se siamo di fronte, o potremmo essere di fronte, a una ripoliticizzazione del sociale, o piuttosto a una ripolarizzazione dello spettro politico, e quale ruolo, dentro ai processi a venire, potranno e dovranno avere i militanti che del processo vogliono organizzare la rottura rivoluzionaria.

Buona lettura.

Mimmo Porcaro

Quando ho letto il titolo della locandina che mi ha mandato generosamente il compagno, gli ho detto “guarda, porto un amico”, perché rispondere a tutte queste domande qua è diventato un po’ difficile. Teniamo conto infatti che sono questioni complesse per chiunque. Si discuteva prima che ho scritto un articolo contro «Limes» e di loro alcune posizioni importanti; ebbene, pensate che adesso i rumors danno Caracciolo in grossa difficoltà dentro la rivista perché pare che il gruppo editoriale Gedi non accetti molto la sua valutazione sul carattere tra virgolette “razionale” del trumpismo. In effetti, ha dei caratteri di razionalità politica elementare che i democratici americani avevano completamente perduto. Sono chiacchiere, rumors, però sicuramente dietro c’è un problema reale, perché quando qualcuno si mette a fare un’analisi obiettiva (si può dire quello che si vuole di «Limes», ma mi sembra che abbia sempre portato dei contributi seri), comincia a diventare fastidioso anche se è uno dei piani alti, molto alti, come suggerisce il cognome stesso.

Per fare un altro esempio della complessità della questione, io avevo scritto un articolo per «La Fionda» e che avevo mandato ai compagni per dare un’idea di quello che avrei voluto dire. Be’, l’ho riscritto. Già solo qualche giorno dopo ho dovuto riscrivere dei pezzi perché non mi convinceva come avevo reso il rapporto tra Trump e il capitalismo finanziario, o tra Trump e il capitalismo industriale… Insomma, siamo dentro situazioni che cambiano continuamente. La nostra capacità analitica già non era eccelsa prima, perché le grandi strutture di analisi legate ai partiti di un tempo sono scomparse, e andiamo avanti tutti in maniera artigianale; ma dobbiamo comunque avere il coraggio di fare delle ipotesi, sapendo che dopodomani potrebbero essere smentite. La situazione è difficile anche per le grandi potenze internazionali, salvo tre o quattro superpotenze che controllano molte variabili e quindi possono decidere con un livello di rischio di errore diciamo basso, basso ma non zero. Salvo loro, anche le cancellerie delle medie potenze europee e internazionali non sanno che pesci prendere, anche perché non sanno che tipo di eventi verranno prodotti dai rapporti difficilissimi, nonostante l’apparenza, tra le tre superpotenze. Oggi quindi siamo qui per tentare di capire, sapendo con umiltà che potremmo sbagliare moltissimo.

Io in realtà, prima di rispondere direttamente alle domande sull’Italia e sulla lotta di classe, devo per forza dire due cose sull’imperialismo e sull’Europa, rubando quindi un po’ del tempo che poi useranno Sciortino e Ferro – con i quali, tra l’altro, da un anno e mezzo a Torino stiamo costruendo assieme ad altri compagni un seminario proprio sull’imperialismo, che attraverso l’analisi dei rudimenti minimi, anche a partire da una rilettura di Marx, sta arrivando a individuare una serie di nodi. Vi dico quello che penso io: noi non abbiamo la pretesa di arrivare a una posizione unitaria, di fare il nuovo partito o queste cose qua. È una discussione molto franca tra compagni di provenienze molto diverse (andiamo dal centrosocialismo al sovranismo di sinistra), e però con grandi capacità di dialogo perché uniti dall’intento comune di cercare di capire qualcosa in funzione di una ripresa del conflitto sociale.

Allora, Trump.

Dunque, partiamo da una cosa abbastanza significativa, un’intervista che lui diede tempo addietro, non so se al «New York Times» o a quale altro giornale americano, in cui l’intervistatore gli disse: «Ma lei, signor Trump, è filo Putin. Ma lei lo sa che Putin è un killer? È un vero son of a bitch?» E risponde lui: «Bah, sì, un killer. Ma noi abbiamo trattato con una marea di killer. Ma cosa credete, che noi siamo innocenti?» Quando uno sente queste cose, pensa subito: “Toh, che simpatica canaglia. Visto che parliamo di un bieco imperialista eccetera eccetera, meglio uno così che dice la verità piuttosto che quegli altri che ammantano l’imperialismo con le guerre umanitarie, i valori e queste cose qua”. È vero sotto certi aspetti, non per il fatto che non dica la verità – io credo che menta nell’80% dei casi, mente come chi deve negoziare e ha una concezione transazionale della vita – però nella sostanza sicuramente mostra con maggiore durezza i rapporti di forza.

Ma non è vero che faccia la stessa cosa che facevano gli altri prima, con l’unica differenza che lui lo ammetta. Lui fa una cosa molto diversa rispetto a quanto abbiamo visto finora. È un’altra modalità, un’altra declinazione dell’imperialismo, ma è diversa da quella precedente e questa differenza conta. Quella precedente è quella che si ammantava dal termine “globalizzazione”, una macrostruttura capitalistica che pensava di riuscire a conquistare il mondo intero attraverso l’allargamento del sistema americano. Allargamento che, guarda caso, ogni tanto aveva bisogno di qualche colpo militare (e quindi Serbia, e quindi l’Iraq, e quindi Libia e così via), ma che però sostanzialmente si basava sull’apertura del libero mercato con il quale, secondo Clinton, si sarebbe riusciti a comprare la Russia e che, secondo tutto il pensiero neocon americano, avrebbe imposto una prospettiva liberale per la Cina facendo crollare il partito comunista. La cosa non ha funzionato.

È una modalità dell’imperialismo, e non va inteso come un mero slogan ma per capire a fondo cosa stiamo vedendo. Si tratta di una modalità dell’imperialismo perché in realtà anche la semplice transazione economica dal punto di vista capitalistico è già una costruzione di gerarchie ed è per questo che ha bisogno di essere continuamente accompagnata dalla forza armata. Non si dà espansione del libero mercato senza l’esistenza di uno o più eserciti che presidino le zone nevralgiche e che consentano di indebolire tutti gli Stati che possano avere quel minimo di forza tale da porre dei limiti al libero movimento del capitale. Se ci pensate, la colpa maggiore di tutti i famosi “dittatori” che sono stati estromessi dalla politica estera americana non era quella di essere dei dittatori (cosa della quale, agli Stati Uniti, non è mai fregato nulla), ma il fatto di avere costruito degli Stati sufficientemente forti da poter dare fastidio. Questo era, diciamo, il primo tempo di quella che era la globalizzazione, una fase storica che troppi della sinistra, soprattutto della sinistra paracomunista, hanno preso come “la fine degli Stati”, lo sviluppo di un “mondo piatto”, senza conflitti statuali (“Finalmente!”, diceva qualcuno, come nei famosi testi di Negri e compagnia briscola).

Era, si noti bene, una modalità dell’imperialismo che ha prodotto degli squilibri tali da non essere più sostenibile. Paradossalmente rispetto agli scopi iniziali, ha prodotto un indebolimento di quella potenza che si pensava come potenza unipolare – gli Stati Uniti – perché sia l’espansione economica che l’espansione militare si sono rilevate alla fine troppo pesanti. L’espansione economica, per come si è sviluppata realmente, ha prodotto uno scompenso fortissimo dei conti con l’estero degli Stati Uniti, sia nella bilancia commerciale che nella bilancia dei pagamenti (in altri termini, questi signori vivono a debito e il giorno che qualcuno richiedesse il pagamento dei debiti in teoria dovrebbero saltare, cosa che chiaramente non succederà nei nostri tempi); e in più la sola estensione militare, a fronte anche delle sconfitte che sono state patite nei progetti militari americani (prima l’Afghanistan, adesso l’Ucraina, e se anche ci fossero Biden o la Harris dovrebbero comunque trattare la pace) è diventata obiettivamente un peso eccessivo per gli Stati Uniti.

La risposta di Trump sotto questo punto di vista si riallaccia a tutta l’elaborazione del cosiddetto realismo politico americano. Per intenderci, quando Clinton, il venerato Clinton, aveva iniziato a dire che bisognava espandere la Nato all’estero verso Est, una cinquantina di osservatori formatisi in questa scuola di realismo politico (gente che aveva gestito la Guerra fredda, quindi non proprio delle colombelle) scrissero una lettera in cui grossomodo dicevano: “Signor Presidente, quello che lei sta commettendo è un gravissimo errore che avrà delle conseguenze incalcolabili”. E Trump non fa che riprendere questo filo di ragionamento dicendo, in sostanza: “Noi dobbiamo dominare, noi dobbiamo essere i primi, ma non possiamo far sì che il mondo sia tutto simile a noi; quindi dobbiamo imporre la nostra volontà all’interno di un rapporto di forze internazionale che, purtroppo, di fatto è multipolare”.

I due punti significativi e interrelati sono questi. Trump riconosce realisticamente che non può far diventare liberale la Cina (e neanche gli interessa), né può far diventare liberaldemocratico Putin. Deve tener conto dei rapporti di forza, ma non per tenerli come sono. Piuttosto, ne tiene conto e accetta il mondo multipolare non come un equilibrio già costruito, ma come un campo di battaglia in cui lui deve in qualche modo primeggiare. Trump rappresenta, diciamo così, una fase di parziale ritirata tattica. Dopo che si era espanso troppo, l’imperialismo americano ha bisogno di rientrare un attimo nei ranghi, di ritornare nel suo mondo (che non è solo costituito dagli Stati Uniti, ma da tutto il blocco occidentale), rafforzare le posizioni all’interno di quel blocco. Per poi? Puntini puntini. Questo lo vedremo perché, come dirò dopo, ci sono anche degli elementi oggettivi che comunque spingono verso una ripresa di una politica aggressiva. Che cosa succede quindi?

Mi riallaccio a un importante studio, poco noto in Italia, svolto da studiosi dell’Università di Amsterdam e raccolto in Trump and the Remaking of American Grand Strategy, che ha il merito di esporre con grande chiarezza e dovizia di elementi la differenza di fondo della situazione odierna. Il precedente corso, iniziato con Clinton e protrattosi fino a Obama, vedeva nell’espansione all’esterno degli Stati Uniti la condizione per la crescita interna e per il benessere interno. Trump, almeno a parole, fa l’operazione contraria: prima rafforzare la base produttiva e finanziaria statunitense, e solo dopo e in funzione di ciò pensare all’espansione all’esterno. È una differenza importante, ma non è una differenza tra la guerra e la pace. Perché?

Spesso si sente dire che Trump sostituisce la logica della guerra con la logica dell’economia, e che un attrito economico è pur sempre preferibile alla guerra aperta. Il problema è che da questo punto di vista la traiettoria di Trump rientra in un quadro che la polemologia ha già individuato da molto tempo, e che in America viene sintetizzata nella formula di Daniel Bell, uno dei più grandi sociologi americani, che sostiene che «l’economia è la continuazione della guerra con altri mezzi». Infatti, come ho detto prima, anche quando l’economia si svolge lungo una dinamica win-win, nascono comunque dei rapporti gerarchici; ma l’economia diventa un elemento bellico e potenzialmente creatore di conflitti bellici soprattutto quando è concepita espressamente come un gioco a somma zero, del tipo io vinco-tu perdi, in cui cioè scompare l’illusione dello scambio che fa contenti tutti. Lo scambio economico è un momento di scontri durissimi, e quindi, in modo o nell’altro, prelude sempre alla possibilità di scontri militari. Ma non finisce qui. C’è sempre da tenere presente che nessuna presidente degli Stati Uniti d’America può ignorare quello che hanno fatto i presidenti precedenti.

Se voi guardate bene c’è una serie di continuità impressionanti su alcuni elementi. Intanto, nel fregarsene dell’Europa tutti sono uguali (solo che lì veramente Trump lo dice a chiare lettere). Però, per esempio, il primo a parlare di dazi è stato Obama, poi è arrivato Trump, poi è arrivato Biden che ha fatto dazi ancora più duri di quanto non avesse fatto Trump, e così via. Perché? Perché da un lato, le scelte dei presidenti precedenti rispondevano comunque a problemi oggettivi, pesanti, reali; dall’altra, quando si muovono gli Stati Uniti non è che si muove il comune sperduto o il paesello, ma creano delle realtà oggettive e dei rapporti sociali che poi non è facile modificare. Si determina così un crescendo tale per cui nessun presidente può far finta che “quello di prima” non abbia fatto niente di buono, e deve in qualche modo proseguire da lì.

Nella fattispecie Trump si troverà di fronte a un nodo fondamentale, ossia la centralità della difesa del dollaro per far sì che gli Stati Uniti si indebitino nella moneta che stampano, rimanendo così a galla. Ma la centralità e la fiducia nel dollaro si può ottenere soprattutto attraverso la costante presenza militare e politica nelle zone centrali del mondo; quindi Trump non potrà – ammesso che lo voglia – tornare completamente indietro rispetto a questa situazione e dovrà farci in qualche modo i conti. Detto ciò, qual è l’ulteriore differenza tra Trump e le presidenze passate che ci interessa più da vicino?

La novità rispetto alle precedenti amministrazioni è l’aperta e decisa rottura con l’Europa e il fatto che quelle forme di scontro che prima venivano indirizzate nei confronti dei paesi fuori dal blocco occidentale, adesso si rivolgono al suo interno per rafforzare dentro l’Occidente la forza degli Stati Uniti d’America e per concentrare tutte le forze possibili e immaginabili ai fini della fase successiva dello scontro. È evidente a tutti che l’Europa sia sotto attacco e che questo sia un problema cruciale per le classi dirigenti. Però, se uno cercasse di guardare con un occhio più storico, si potrebbe chiedere: ma non stanno forse nascendo le condizioni per l’esaurimento degli esiti della Seconda guerra mondiale?

Infatti, per molti studiosi di storia e di geopolitica, la Seconda guerra mondiale non è stata soltanto la sconfitta del nazifascismo, ma soprattutto la sconfitta dell’Europa, perché è stata a) la sconfitta delle pretese coloniali dei grandi imperi, inglese e francese, cosa resa evidentissima nella crisi di Suez del 1956, e b) è stata anche il tentativo ben riuscito di isolare e di combattere quello che poteva essere (e in effetti era) l’avversario economico numero uno degli Stati Uniti in Europa, cioè la Germania. Vi faccio un esempio a mio parere emblematico: il termine “Guerra fredda” non nasce per indicare l’ostilità nei confronti dell’Urss, ma si presenta per la prima volta nel lessico politico americano in ambito giornalistico nel 1943-1944, quando l’esito della guerra in corso era comunque scontato, per indicare l’impellenza vitale di proseguire, anche dopo la pace, un assalto velato nei confronti della Germania, che le avrebbe impedito di avere un ruolo economico in futuro.

Detto ciò, rimangono alcune domande aperte. Infatti, considerando a) che gli americani si disinteressano dell’Europa, b) che dal 1989 lo scontro tra Unione Sovietica e Stati Uniti è finito e c) che oggi non v’è più neanche uno scontro diretto con Putin, perché non si riesce a prendere atto di questo distacco e iniziare una “risovranizzazione” dell’Europa, ossia un percorso che la faccia diventare un vero e proprio soggetto politico? Questo è un bel problema. Riuscire a capire perché gli europei si stiano comportando in questo modo, vale a dire perché continuino una guerra che apparentemente loro non hanno voluto, che hanno solo subito e che oggi gli attori principali vogliono interrompere, è indubbiamente un busillis.

Insomma, come dicono al mio paese d’origine, ccà nisciuno è fess, ma guardarle così certe cose sembrano veramente autolesionistiche. Sarà che abbiamo un ceto politico incapace di fare delle scelte di importanza storica perché è composto di gente cresciuta in un’epoca in cui sembrava che la politica fosse finita (dopo l’‘89 non c’è stato nessuno che avesse la statura dei vecchi leader europei); sarà che finora hanno sostenuto che la guerra in Ucraina è santa e giusta, che ci dovevamo svenare per farla, quindi non è che dall’oggi al domani possano dire «no basta, abbiamo scherzato, non si fa più». Ma questi elementi (pure innegabili) non sono sufficienti a spiegare una situazione che eccede le logiche di comune propaganda politica.

È qualcosa di molto più profondo, perché scegliere la strada del riarmo nei termini in cui l’ha presentata la Von der Leyen significa un cambiamento di paradigma economico, politico e sociale. Ma allora perché siamo a questo punto?

Alcuni elementi mi sento di anticiparli sin da ora. Ovviamente, se tu sai che il tuo alleato principale e protettore ha deciso di diminuire il tasso di protezione, è logico che tu ti ponga un problema di gestione del tuo apparato militare; il che però è diverso da quello che è stato proposto. Il piano presentato a Bruxelles probabilmente dipende da due fattori, tra loro convergenti.

Il primo è il fatto che il cosiddetto capitalismo europeo non è solo europeo, ma è un capitalismo ibrido, misto europeo-americano. Come aveva già brillantemente intuito un grande filosofo marxista negli anni Settanta, Nicos Poulantzas, la presenza dei fondi di investimento americani nel capitalismo europeo è a livelli altissimi. Gli investimenti diretti all’estero (Ide) da parte degli Stati Uniti d’America – Ide che, tra l’altro, secondo Lenin, sono il primo motore dell’imperialismo – negli ultimi decenni sono declinati in tutte le zone del mondo, ma sono invece decisamente aumentati per quanto riguarda il capitale europeo e in particolare per le aziende capitalistiche più centralizzate e a più alto livello tecnologico. Quindi il core del capitalismo europeo è misto, e ha tendenze che sono simili a quelle del capitalismo americano, soprattutto del capitalismo estrovertito che, si noti bene, ha ancora interesse a mantenere comunque un fucile puntato contro la Russia – interesse che peraltro ha lo stesso Trump perché il leitmotiv delle sue ultime dichiarazioni si riassume in “andremo verso la pace e rispetteremo le zone di influenza, però questa è zona mia e deve essere armata, preferibilmente armata con i soldi degli altri”.

Il problema è che poi, lo vedrete, si chiederà all’Unione Europea anche di acquistare il debito pubblico americano in sostituzione di quella fetta di debito che i cinesi non acquisteranno più (e che già stanno già diminuendo vorticosamente). Per ora si tratta ancora di ipotesi e previsioni, ma nell’ultima riunione del seminario che stiamo tenendo, dati alla mano, siamo arrivati a vedere che c’è questa possibilità.

Detta fuori dai denti: se vogliamo capire quello che dobbiamo fare noi, dobbiamo partire da quello che succede in Europa. E in Europa ci troviamo in una situazione per cui quello che i geopolitici chiamano “l’incubo di Mackinder” non si realizza.

Halford Mackinder sosteneva una cosa sacrosanta, che forse con il tempo ha mutato di peso però rimane cruciale prestarle attenzione. Non vi ripeto tutta la formula perché poi ci perdiamo (e perché la geopolitica comincia anche a stufarmi… io sono un filosofo, malriuscito, vedi te se mi devo mettere a studiare ‘ste cose. Ma vabbè, dobbiamo farlo). Ve la faccio breve. Lui parlava dal punto di vista inglese, ma vale a maggior ragione anche per gli Stati Uniti: bisogna evitare che si formi la cosiddetta Eurasia, chiamiamola così. Ovviamente non nel senso dell’euroasiatismo di Dugin, quei blateramenti sulla cultura reazionaria russa che si sposa con la cultura reazionaria europea, no. Il problema è molto più prosaico. Se le risorse tecnologiche e finanziarie dell’Europa e dell’Unione Europea intrecciano le risorse energetiche e politico-strategiche più in generale della Russia, gli Stati Uniti cominciano a declinare veramente, perché oltre a un competitore come la Cina, avremo un competitore euroasiatico fortissimo. E quindi devono fare di tutto per impedire che questa cosa si realizzi.

Come si può impedire l’incubo di Mackinder? Come si può impedire l’unione di europei e di russi? In due modi. O fai la guerra insieme agli europei contro i russi, o ti agganci con i russi con il retropensiero di mantenere divisa l’Europa (così come secondo molti studiosi è stato fatto durante la Guerra fredda, perché quello che teneva in piedi l’equilibrio tra i blocchi era la divisione dell’Europa). Trump sta riuscendo a fare entrambe le cose, perché fa in modo che l’Europa di fatto continui a combattere la sua guerra contro la Russia, e nello stesso tempo lui costruisce un patto con la Russia in barba all’Unione Europea. Quindi, insomma, siamo fregati da tutti i lati.

Tra l’altro, non dimentichiamolo, un ulteriore motivo di giustificazione del bellicismo dell’Unione Europea è il modello di sviluppo che si prospetta. Considerate le difficoltà (tecniche, economiche e politiche) di costruire un modello di accumulazione nuovo attraverso la cosiddetta svolta green: cosa c’è di meglio di un bel riarmo per far ripartire tutto? È quello che mi diceva anche la vecchia saggezza degli avversari: io ho lavorato molto con i commercialisti perché come funzionario del tribunale di Torino facevo anche i giri per i fallimenti, e ne ricordo uno che mi diceva: «Caro dottore mio, ma lo sa cosa ci vuole qui? Una bella guerra come quelle che si facevano una volta!» Ed era uno che i conti li sapeva fare; diceva una castroneria, ma non era del tutto una castroneria. A mio modo di vedere, le vostre analisi e le vostre indagini lo stanno dimostrando in maniera chiara. Come si risponde alla crisi dell’automobile? Non con l’auto elettrica; magari si sarebbe potuta fare se fossimo partiti in maniera diversa, “ma adesso non si può”.

Quindi, per vari motivi, direi che la paura della Russia è la spinta del capitalismo americano – ma comunque questo lasciamo aperto come interrogativo, Robert saprà rispondere molto meglio di me. Di certo il problema è che alla fine, comunque la giri, andiamo verso una prospettiva bellica. E che fa l’Italia della prospettiva bellica? Niente! Rispetto a quello che dovrebbe e potrebbe fare, niente. Allora qui si cominciano a vedere le caratteristiche fondamentali di quello che alcuni giustamente chiamano il “sovranismo di cartone” (posto che si riferiscano solo a questo).

Adesso, non mi interessa saggiare quanto la Meloni sia fascista o meno, ma si trova comunque una costante, una caratteristica fondamentale del nostro nazionalismo. Essendo il nostro, come diceva ancora Lenin, un “imperialismo straccione”, mancando cioè le basi economiche e il patto sociale (sia esso consensuale o autoritario) che ci consentano di avere veramente un ruolo protagonistico in situazioni belliche, cosa fa l’Italia? Il nazionalismo italiano è costretto a scegliersi sempre una potenza a cui appoggiarsi; una potenza che alla fine si rivela più feroce, più determinata, più forte di noi, e quindi condiziona la nostra vita ben oltre le nostre intenzioni. Così ha fatto Mussolini con Hitler; così sta facendo la Meloni con Trump. Addirittura “il capitano” Salvini sta cercando di giocare insieme sia con Trump che con Putin in questa partita (con la differenza che la Meloni fa questo sia per vocazione e per calcolo, però al momento sta giocando un ruolo relativamente centrista, perché la destra estrema continua a stare con Salvini; ma ne parliamo dopo).

Cosa sta facendo il governo in questo caso, con questa scelta di Trump come interlocutore fondamentale? Fa quello che l’Italia ha quasi sempre fatto nelle relazioni internazionali, cioè giocare la carta degli Stati Uniti contro la Francia e la Germania, insieme o a turno. Questo è una invariante della politica italiana. Un’invariante che trovavamo anche nei tempi “eroici”, cioè anche di quando, per capirci, Fanfani faceva il neoatlantista e andava in giro per il Mediterraneo a produrre una politica che effettivamente, se poi messe in parallelo con le scelte di Mattei (anche se i due non lavoravano affatto insieme), significava sicuramente un ruolo progressivo per l’Italia. Ma questo ruolo progressivo è stato giocato perché gli americani in quel momento avevano in odio i francesi e gli inglesi in una sorta di prosecuzione della Seconda guerra mondiale e, data la necessità di tenere gli ex imperi con la testa sotto la sabbia, noi italiani gli servivamo per riuscire a controbilanciare nel Mediterraneo la presenza e la potenza degli altri due attori. Dopodiché, come dicono gli avvocati, male captum bene retentum. Però quello è stato l’unico esempio, l’unico momento virtuoso di questo giochino che noi facciamo con gli americani contro gli altri.

Detto ciò, quali sono le strade che sembrano aprirsi all’Italia in questa competizione?

Poca roba. Al momento le alternative sembrano due – a parte l’adesione integrale alla strategia dei padroni americani del passato, che è una situazione veramente imbarazzante. O vedremo una pseudo-mediazione, che è ciò che sta cercando di portare avanti la Meloni – dico “pseudo” perché non è che Trump aspetti la Meloni per imporre qualcosa all’Europa: noi facciamo solo finta di giocare un ruolo diplomatico da cui lucrare qualche titolo di beneficio per tenere insieme la baracca occidentale facendo, diciamo, il trait d’union tra Trump e la Von der Leyen; secondo me è un ruolo che non porta proprio a nulla se non rimanere sia nel solco del bellicismo europeo, sia nel bellicismo trumpiano – o l’altra scelta, per adesso minoritaria, ma non è detto che lo debba essere sempre, è quella di Salvini, cioè la scelta dell’isolamento relativo dall’Unione Europea e dell’utilizzo dell’accordo potenziale tra Stati Uniti e Russia (o meglio tra Trump e Putin) per riuscire a commerciare con entrambi e a mantenere un duplice rapporto, una duplice investitura internazionale che consentirebbe a questo punto al partito che interpretasse questo ruolo di fare un salto avanti all’interno della situazione politica italiana, in particolare se riuscisse a intercettare i malcontenti.

Se vogliamo descrivere la posizione nostra, così come l’ho sommariamente definita, siamo di nuovo ad alcuni vecchi luoghi comuni dell’analisi geopolitica italiana, in particolare ben studiati da Carlo Maria Santoro, a mio modo di vedere uno dei migliori studiosi del nostro paese. Santoro sostiene che storicamente l’Italia oscilla tra il considerarsi del tutto impotente e il sovrastimare le proprie capacità – quindi ondeggiare tra un liberalismo che se ne sta nascosto alla Giolitti, e un Mussolini; tra un Fanfani tronfio, e le altre soluzioni invece molto più timide; tra un Berlusconi e un Letta. Un’altra fluttuazione tipica della geopolitica italiana è quella, figurativamente parlando, tra l’essere isola o penisola – vale a dire tra comportarsi come un soggetto completamente autonomo che trova la propria legittimità geopolitica ed economica nel Mediterraneo, e solo successivamente media con l’Europa, oppure come soggetto che punta essenzialmente sull’Europa continentale e successivamente porta questa sua forza acquisita dalla mediazione europea nel Mediterraneo.

Allora, io per molto tempo ho pensato alla prospettiva mediterranea come quella “che avrebbe potuto”. Ma non siamo più all’epoca dei Moro, dei Fanfani, dei Mattei, e neanche dei Craxi; quell’epoca in cui il Mediterraneo era in qualche modo, tra molte virgolette, un mare nostrum, un mare in cui comunque non c’erano così tanti conflitti di potenza come oggi. Sì, c’erano gli inglesi che comunque hanno sempre lavorato contro di noi, ma questa era una vecchia storia che ormai sembrava superata. Adesso il Mediterraneo non è un territorio dove tu puoi fare affari, dove puoi portare l’economia estera italiana come un modello non colonialistico… Ora il Mediterraneo è un inferno. Il Mediterraneo è un luogo di guerra latente, e di potenziali conflitti enormi. Nel Mediterraneo si scontrano la Francia e la Russia (e lo scontro Francia-Russia è uno dei motivi del bellicismo europeo, perché la Russia sta scalzando posizioni francesi in Africa), c’è la Turchia… In un contesto simile, con le economie dei paesi costieri in grossa difficoltà, crediamo forse di poter costruire una prospettiva italiana autonoma per poi giocarcela all’interno dell’Unione Europea? Io credo che non sia possibile. Oltretutto, se ci si presenta come isola, saremmo, da soli, sulla linea di confine tra Occidente e Russia: in una relazione che oggi è una relazione di, tra virgolette, “avvicinamento”; ma domani, data la turbolenza mondiale, può essere di nuovo una relazione di scontro. A starci nel mezzo, da solo, finisci male.

[Kamo: Facciamo un inciso. Ricordiamo che dopo la sconfitta della Siria assadista, il grosso della forza navale della Russia nel Mediterraneo è confluita dalle basi siriane di Tartus alla Cirenaica libica. Quindi abbiamo la flotta russa davanti alla Sicilia].

Esatto. Tra l’altro, concedetemi una battuta. Io non capisco (o meglio, lo capisco) perché in Italia non ci sia nessun politico che abbia il coraggio di farlo perché tutti hanno paura di fare i nazionalisti “come si deve”. Il punto è questo: ma è possibile che nessuno si alzi a dire alla Meloni: «Ma che coraggio lei parla di nazione quando un suo governo, con lei ministra degli Affari giovanili e l’attuale presidente del Senato come ministro della Difesa, ha provocato all’Italia la più grande sconfitta strategica dopo la Seconda guerra mondiale e cioè la guerra in Libia? Si vede che ci siete abituati!» Il nazionalismo di cartone si misura da lì. La Libia, sotto certi aspetti, è stato un modello per quanto possibile di relazione tra un paese altamente sviluppato e un paese non sviluppato, perché era sostanzialmente imposto da Gheddafi il massimo regime di parità possibile. Era una relazione utile per entrambi, e per noi decisiva. E poi invece siamo arrivati alla situazione di oggi. La soluzione dell’isola oggi non è praticabile.

Ci sarebbe un’altra soluzione – ma non è praticabile oggi per motivi di classe – ed è l’ipotesi di un diverso rapporto all’interno, non dico dell’Unione Europea, ma dell’Europa. Mi riferisco alla costruzione di rapporti intergovernativi fondati sull’idea di neutralità dell’Europa, o comunque dei paesi che facciano parte di questo accordo; un patto che sia anche un accordo di mutuo aiuto economico, perché uno dei problemi fondamentali per costruire una politica progressiva è quello di riuscire ad essere il più possibile indipendenti dai movimenti internazionali di capitale. Per esserlo tu devi costruire un’area economica relativamente chiusa. Il buon Fassina (che è sempre ottimo nelle diagnosi, non così ottimo nelle terapie) ha sempre detto che l’Europa sarebbe una zona economica chiusa perfetta. Chiaro che quando si dice “zona economica chiusa” se ne parla in senso relativo, cioè a un livello di autosufficienza notevole, soprattutto se nel mentre vengono costruiti rapporti paritetici con la Russia e con il Nord Africa. Con questo interscambio energetico, chi ci ammazza? Ebbene, questa cosa non si può fare perché tutti i governi europei attuali invece puntano ad essere il più aperti possibili al mercato internazionale dei capitali, che è il nemico numero uno di qualunque politica non dico comunista ma anche moderatamente riformista.

Io penso, però, che se ci dobbiamo dare una prospettiva, anche per iniziare a muoverci in termini di lotta di classe, è una delle prospettive da discutere. Con “patto intergovernativo” intendo proprio qualcosa che si realizza sostanzialmente al di fuori dell’Unione Europea. Il che non vuol dire necessariamente una rottura: l’Unione Europea è fatta molto più a buchi di quanto si creda. Quando alcuni governi vogliono, le procedure e i meccanismi fondamentali dell’Unione saltano. Quindi c’è un ventaglio di possibilità enorme. Ovvio, non dobbiamo cadere in semplificazioni secche no euro/si euro, dentro l’Unione/fuori dall’Unione, oppure come diceva Luciano Gallino “usciamo dall’euro ma non dall’Ue”… lasciamo stare. Dobbiamo sapere qual è il nostro obiettivo: costruire una zona finanziariamente autonoma e geopoliticamente neutrale. Dopodiché giochiamocela in concreto per vedere come si può realizzare.

Però, chiaramente, una cosa come quella che ho detto io, implicherebbe l’esistenza di “governi popolari”, diciamo così, non solo in Italia ma quantomeno anche in Francia e Germania. Richiederebbe quindi una svolta nei rapporti di classe: il che non c’è, anche perché credo che la destra di oggi sia talmente forte e radicata da potersi intestare, almeno agli inizi, gli eventuali disagi sociali del bellicismo prodotto dall’Unione Europe. Proprio questa sua doppia faccia, che le consente in questo momento di essere addirittura pacifista, potrebbe giocare (e quasi sicuramente giocherà) per coprire ed egemonizzare una parte del disagio sociale che dovesse manifestarsi. Qui sicuramente abbiamo un problema grosso, particolarmente grosso.

Ora, io posso riportarvi soltanto alcune intuizioni e alcune riflessioni che nascono da una ripresa di considerazione su cosa sono stati gli anni Trenta, cioè gli anni che hanno condotto al nazifascismo. C’è una cosa della situazione attuale che colpisce rispetto all’esperienza del nazifascismo: questa è una reazione senza rivoluzione. I nazifascismi sono stati una risposta a una rivoluzione che si era attuata o comunque si era tentata (in Italia con la settimana rossa; in Germania con la Repubblica di Weimar e l’ingresso del partito socialdemocratico e dei sindacati dentro procedure di concertazione, nonostante si rivelerà una strategia fallimentare), quindi si potevano comprendere le ragioni della reazione avversa delle burocrazie militari e dei centri politici. Ma il punto è che allora c’era effettivamente stata un’ondata rivoluzionaria in tutta l’Europa centrale e meridionale. Oggi invece abbiamo una reazione senza che ci sia stata una precedente minaccia rivoluzionaria, e quindi senza l’esistenza di partiti comunisti che da una parte “giustifichino” la reazione, ma che dall’altra possano costituire comunque una base per un’organizzazione a livello nazionale; per non parlare poi dell’assenza di un intermediario geopolitico con una funzione equivalente all’Unione Sovietica dell’epoca.

Allora, oggi cosa ci si presenta? Si dimostra vera una cosa che diceva Otto Bauer, un grande dirigente della socialdemocrazia austriaca che cercò una via “intermedia” tra bolscevismo e riformismo con esiti forse discutibili, ma con riflessioni molto, molto acute. Bauer sosteneva che la reazione nazifascista non si esercitava veramente contro la minaccia della rivoluzione, perché la rivoluzione all’epoca era già sconfitta: la repressione si esercitava piuttosto contro i risultati del riformismo. Il nazifascismo non sopportava i risultati del riformismo; non sopportava il fatto che fossero state fatte in quegli anni concessioni ai lavoratori (anche perché l’alternativa era davvero la rivoluzione); di pari passo, i ceti intermedi che si rivolgevano al nazismo non sopportavano il fatto che mentre gli operai, organizzati e riconosciuti come interlocutori socioeconomici dal governo e dallo Stato, potevano difendersi dall’inflazione grazie ai sindacati, loro non potevano farlo… Insomma, una reazione contro il riformismo o comunque i suoi residui.

Ciò che secondo me osserviamo oggi, soprattutto negli Stati Uniti (in Italia in maniera forse più sfumata, ma la linea rimane la medesima) è una lotta di classe contro il welfare e contro le mediazioni istituzionali; una lotta operata da alcuni ceti che non possono sopravvivere se non riescono a liberarsi delle regole, degli orpelli e della fiscalità che impedisce loro di fare profitto o di sopravvivere in una situazione sempre più difficile dal punto di vista economico. Per esempio, quando Trump se la piglia contro “la cultura woke”, in realtà se la piglia con i programmi di inclusione nei confronti delle minoranze che questi ambienti hanno sempre sposato, oltre che contro il linguaggio con cui vengono formulati. Il punto è l’ostilità contro i residui del welfare, contro le mediazioni istituzionali che controllano in qualche modo l’impresa, contro la fiscalizzazione, contro le tasse, eccetera.

Vi è poi un’altra differenza abbastanza evidente. La lotta contro l’immigrato non è più semplicemente l’individuazione di un capo espiatorio, come un tempo era l’antisemitismo. Le minacce di deportazione di massa – così come i blocchi o le deportazioni dei vari Salvini – non si realizzeranno perché non devono realizzarsi, e non devono realizzarsi perché quella gente lì serve. Le minacce hanno dunque l’obiettivo di terrorizzare questo strato di proletariato e, su tutto, rendergli più difficile richiedere condizioni di lavoro migliori. Di modo che nella divisione tra proletariato, tra mille virgolette, “garantito” e proletariato non garantito il razzismo trumpiano trova un elemento costitutivo.

Per quanto riguarda invece la destra in Germania, le cose sono diverse ancora, perché l’idea di remigrazione investirebbe una marea di lavoratori che in realtà fa già parte del circuito formale e regolare di lavoro. Non si tratta di sottigliezze, ma di differenze cruciali nei processi di soggettivazione che bisogna sapere se giocare e che avranno un grosso peso per la nostra parte.

Un’altra rilevante novità rispetto al nazifascismo dello scorso secolo è che tanto il fascismo italiano quanto il nazismo tedesco, in maniere diverse, consistettero nell’occupazione dello Stato o quantomeno in una sua trasformazione da parte di un movimento politico che comandava sulle strutture statuali tradizionali o si sostituiva ad esse, a seconda delle situazioni. Ciò in gradazioni molto diverse. Interi settori del nazismo furono apertamente nemici dello Stato, troviamo persino dichiarazioni espresse dai nazisti contro l’idea stessa di sovranità (perché la sovranità dello Stato non è accettabile, l’unica sovranità possibile è quella del Führer come espressione del popolo). Il fascismo fu molto più abile: abilissimo fu Mussolini, per esempio, a non consegnare l’Iri ai suoi uomini e lasciarlo a Beneduce, per dare un’idea. Quindi, mentre il fascismo e il nazismo furono quella roba lì, oggi si assiste invece alla occupazione dello Stato non da parte di movimenti politici ma da parte diretta delle imprese e in particolare delle grandi imprese tecnologiche. Negli Stati Uniti la tendenza impressa da questo nuovo corso trumpista è un chiaro tentativo di sostituzione diretta dell’apparato statale con pezzi dell’apparato industriale, il che fa saltare il ruolo di mediazione dello Stato e può essere prodromo di ulteriori conflitti sociali.

Passiamo quindi a un ultimo aspetto, ma non meno determinante nella destra di questi anni, in particolare di quella americana, poiché dimostra ancora una volta di come Trump non possa fare a meno di operare una scelta conflittuale. I vertici statunitensi hanno un chiaro dilemma davanti: come pagare i progetti di reindustrializzazione negli Stati Uniti e quel po’ di welfare che devono comunque concedere alla parte che li vota? Chi caccia i soldi? Ebbene, i soldi li cacciano “gli altri”. I dazi servono a rimpiazzare quelle tasse che il ceto che porta avanti Trump – un ceto di riccastri, che nemmeno ci sogniamo: stando a quanto rilevano i ricercatori olandesi che nominavo prima, l’amministrazione Trump è stata la più ricca amministrazione di tutta la storia degli Stati Uniti – non vuole pagare. Come nelle migliori tradizioni della destra, i conflitti e le tensioni interne vengono scaricati contro il nemico esterno (ora un nemico interno-esterno come l’immigrato, “l’ebreo” del giorno d’oggi, ora contro il nemico esterno tout court come le altre nazioni, alleate o avversarie).

Arriviamo alla conclusione. In questa situazione, noi cosa diavolo possiamo mai fare?

Io penso che abbiamo veramente tantissime cose da fare. Ipotizzando, come dicevo prima, che in condizioni simili almeno la prima ondata di proteste popolari (ammesso che ce ne saranno) nei confronti della guerra verrà intercettata quasi sicuramente dalla destra, ciò non ci esime da abbozzare un elenco di obiettivi.

Per prima cosa, dobbiamo cercare di ridefinire e di riunire quello che dovrebbe essere il nostro fronte, domandandoci cosa sia oggi quello che un tempo chiamavamo proletariato. È l’interrogativo al quale voi di Kamo state tentando di rispondere con l’analisi e con la pratica quotidiana: come si fa a ricostruire un filo conduttore in una classe che al proprio interno dimostra regimi contrattuali, regimi salariali, nonché idee completamente diverse? La classe operaia è una classe fatta oggi di lavoratori dipendenti garantiti, di lavoratori dipendenti precari, di finte partite Iva… Prendiamo un modello di nucleo familiare sempre più diffuso, per provare a capire come vive la gente e come prova a resistere alla crisi: il maschio, il capo, il padre, che si presenta come il breadwinner ed è lavoratore dipendente; la moglie magari ha un negozietto; un figlio è precario; l’altro figlio studia e cerca di fare del lavoretti anche lui. Bene, una famiglia così è interessata all’aumento salariale? È interessata al taglio del cuneo fiscale? È interessata all’evasione? Risposte che non possiamo generalizzare e che testimoniano quanto sia difficile formare una coalizione come quelle che noi avevamo in mente un tempo.

Ma se anche raggiungessimo l’unità del proletariato, resta il problema di come diavolo si riesca a creare un fronte tra questo proletariato e la marea delle piccole e medie imprese. Perché c’è poco da fare, in Italia non si può fare politica “odiando” la piccola media impresa.

Poi, inutile a dirsi, abbiamo il bisogno di costruire un programma. Ma vogliamo un programma per “l’isola” o un programma per “la penisola”? Un programma ottimale o un programma di risulta?

Domande sempre da rinnovare, perché man mano che costruiamo le nostre idee, ci troveremo in una situazione esterna completamente stravolta. C’è un problema fortissimo di organizzazione, qui ci sarebbe da parlare per una vita sul modello del partito e via discorrendo: io mi limito solo a dire che dovremo cercare di uscire dalla forma-social. La modalità social è un disastro, perché ti dà l’illusione della connessione mentre in realtà la impedisce.

Però, e finisco con questo, in realtà la cosa più importante che dobbiamo costruire per cercare sia di riaggregare un soggetto, sia di motivare noi stessi, è un’idea. E ve lo dico da materialista. Una delle più grandi cose che diceva Lucrezio nel De rerum naturae era che i pesci non nascono sugli alberi di mele. Le idee non derivano solo dal disagio socialista o solo dal conflitto: le idee derivano anche dalle idee, derivano dalla battaglia ideale fatta con i materiali ideali presenti contro determinate idee presenti. Allora, rimanendo fermo il fatto che se non costruiamo una prospettiva socialista, secondo me non andiamo avanti, anche perché il capitalismo non è che stia entrando “nella sua fase finale”. Se noi non riprendiamo un discorso sul socialismo non faremo un solo passo avanti.

Ma c’è un altro discorso che possiamo proporre come idea unificante: il rapporto tra la lotta di classe e l’idea di nazione, intendendo con essa una nazione democratica. C’è un dato di fatto obiettivo: ipotizziamo che stiamo facendo il migliore ciclo di lotta di classe mai visto in Italia; si costruisce un governo popolare; può questo fare una qualunque politica senza avere un’idea di quello che è l’interesse nazionale definito, sia chiaro, dal punto di vista dei lavoratori e la posizione geopolitica del paese? Può farlo? No. Si può raggiungere un’idea di interesse nazionale senza partire da se stessi, cioè rivendicando la propria sovranità non come arma contro le altre nazioni, ma come punto di partenza per una libera rinegoziazione dei rapporti internazionali?

È un punto delicato e scivoloso, ma con cui prima o poi toccherà fare i conti. D’altro canto, secondo me, senza una dinamica di lotta popolare che aumenti la base sociale interessata a un processo trasformativo, nessuna delle forze sociale presenti in Italia è in grado di proporre da sola una dignitosa alternativa politica che non sia regressiva. Non lo possono fare le classi rappresentate dalla Meloni, non lo possono fare i nuclei più forti del capitalismo italiano (che guarda caso sono nuclei bancari, quindi interessati al capitalismo transnazionale). Io penso che oggi uno dei pochi elementi capaci di rinfocolare gli individui a riorganizzare un’identità collettiva contro i rapporti di sfruttamento possa essere quello di farli sentire come membri, cittadini di una repubblica democratica, dentro la quale possono trovare gli elementi di potere che gli consentono di contrastare gli avversari di classe.

Uno stretto (anche se mi rendo conto quanto delicato) circolo virtuoso tra lotta di classe e nazione potrebbe essere una delle idee unificanti di un proletariato, il quale altrimenti, secondo me, rischia di essere preda di altre forze.

Alcune domande della discussione

– Come interpreti la piazza che è stata chiamata il 15 marzo da Michele Serra, alla quale hanno aderito tutte le organizzazioni della sinistra liberalprogressista, dalle vecchie catene di trasmissione della Cgil e dei sindacati, al Partito Democratico e all’Arcigay? Una piazza oggettivamente interventista, ma che a differenza degli interventisti del ‘15-‘18 non crediamo sia composta da una composizione che sbava per combattere. Almeno i guerrafondai del 1915 erano coerenti: si sono tutti arruolati – e poi gran parte morti. Questi invece chiamano la guerra, partono da ideali e da slogan di per sé abbastanza vuoti per muovere l’Italia verso un impegno sempre più diretto, ma hanno dietro un blocco sociale? Cioè quali sono i ceti interessati a queste iniziative? Hanno dietro di sé porzioni sociali di peso, o invece si risolve tutto in utile idiotismo? Te lo chiediamo perché oggettivamente la svolta estera di Trump e l’accelerazione che ha impresso alle dinamiche internazionali hanno in qualche modo ribaltato un quadro politico, quantomeno in Europa. Vediamo infatti i liberalprogressisti da sempre culo e camicia con l’America che guardano Trump come il nemico numero uno; vediamo pezzi della Lega,  specialmente quelli che compongono la base produttiva delle regioni in cui la Lega è stata per tanto tempo egemone, invece riscoprirsi estremamente europeisti. Giorgetti un po’ rappresenta a livello governativo l’espressione politica delle piccole e medie imprese, come dicevamo prima, estremamente legate alle catene del valore globale e soprattutto tedesche. In Emilia gli interessi di questo ceto li cura il PD, che ha mandato anche Bonaccini in Europ,a e lui lì a curare interessi appunto della Pmi emiliana. Trump insomma ha innescato tutta una serie di contraddizioni, che possono sembrare ribaltamenti ma sono invece sostanzialmente chiarificazioni.

– Andando un po’ più al profondo dei processi, questo passaggio al warfare può passare solo attraverso la distruzione del welfare, oppure può tirarsi dietro in qualche modo anche uno scambio con la classi popolari? Perché se passiamo al warfare, quindi a un’economia di guerra, ci deve essere qualcuno però a combatterla questa guerra, e per prima cosa appunto servono gli uomini e donne a combatterla, serve una popolazione soprattutto giovane che l’Italia e l’Europa non ha assolutamente, una popolazione quantomeno in salute, quindi il welfare è sempre stato storicamente alla guerra, attraverso il peso politico che hanno potuto avanzare le classi popolari, la classe operaia in guerra si è tirata dietro il welfare. Pensiamo al piano Beveridge, per garantirsi l’appoggio e i sacrifici delle classi popolari, del fronte interno, ha dovuto garantire in qualche modo un tornaconto a livello sociale, di protezione. Pensiamo anche all’Unione Sovietica. Il popolo sovietico non crediamo abbia patito quasi 30 milioni di caduti per salvare i piani quinquennali. C’è stata sicuramente una riscoperta anche di un’idea patriottica, ma soprattutto, secondo noi, c’era un patto sociale interno all’Unione Sovietica – le conquiste della rivoluzione, il potere degli operai e dei contadini che garantivano un certo grado di autonomia nei luoghi di lavoro, un certo grado di potere sociale e quindi con tutte le allocazioni del caso in un fatto di politiche abitative, politiche sanitarie, politiche di welfare, di costituzione sociale – che ha garantito la tenuta di fronte alla peggiore guerra di sterminio mai lanciata in Europa. Questo passaggio al warfare può portarsi dietro un nuovo patto sociale con qualche grado di condizioni positive per segmenti di classe operaia, o oggettivamente può solo abbassare, affossare invece la loro condizione? Ci sono contraddizioni legate alla riconversione industriale, alla possibilità di un nuovo ciclo di sviluppo, alle commesse, che servono per capire dove potrà andare anche la lotta di classe.

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Discorsoni / Analisi

Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema

0. Si apre un tempo di incertezza, che non fa ancora epoca. Per conquistarne l’altezza, occorre rovesciare il punto di vista. E cogliere, nell’incertezza del tempo, il tempo delle opportunità.

1. «La fabbrica della guerra». Abbiamo voluto chiamare così un ciclo di incontri dedicati a guardare in faccia, da diverse angolature e piani, ma sempre dallo stesso punto di vista di parte, il grande fatto del nostro tempo, processo che irrompe al cuore delle nuove costituzioni materiali in definizione delle società capitalistiche entro cui viviamo. Per riportarlo, dai cieli di un piano più astratto d’analisi, impalpabile, dove spesso teoria e ideologia si confondono, con i piedi per terra, lì dove è pensabile e possibile aggredirlo politicamente.

2. Fabbrica della guerra, quindi, come traccia per provare a inchiestare, sul territorio nel quale è situato il punto di vista, dove e come si produce per la guerra, e quindi la guerra stessa. In forma materiale e immateriale. Merci, saperi, poteri e soggetti, e le relazioni tra di essi. Ripercorrere le filiere oggettive e soggettive che la compongono, individuare i diversi pezzi che la assemblano, carpire la logica concreta che la produce e come tecnicamente la produce, attraverso quali reti di attori sistemici, capaci di mobilitare quelli locali e subalterni, e figure messe al lavoro per essa.

3. La guerra è già qua. Ne facciamo parte. Si può affrontarla testimoniando la propria incrollabile e generica opposizione morale. Cercando di mobilitare le “coscienze civili” della società. Appellandosi all’“umanità” e al suo buon cuore. Fino a che, raggiunta finalmente la “maggioranza democratica” delle coscienze, si potrà dire fine alla guerra… Auguri. Chi non è oggi contro la guerra, d’altronde? Chi può dirsene a favore? Chiedetelo a qualsiasi passante, al vostro compagno di banco, al professore, al collega, al sindacalista, all’amministratore locale, al politicante che vi piace, a quello che disprezzate. Tutti sono contro la guerra. Eppure la guerra continua, e continuerà. Tra pause, rallentamenti, strappi, salti e accelerazioni. Approfondendosi, generalizzandosi. Percorrendo e militarizzando piani quali l’economia, la tecnologia, l’energia, la comunicazione, la formazione, la sicurezza, il diritto. Lambendoci, coinvolgendoci, mobilitandoci, a partire dal pagamento dei suoi costi, dalla produzione delle sue merci, dalla messa alla guerra della vita intera. Tutta la libertà d’opinione e nessuna di decidere, nei regimi della “Democrazia reale” che fanno Patto Atlantico, chiamati Occidente.

4. Oppure. Oppure, a partire da dove il punto di vista è collocato, guardare alla specifica conformazione capitalistico-industriale del territorio, sedimentato e intrecciato di storia, società, politica, sviluppo in relazione al posizionamento nazionale e internazionale nelle catene del valore, a come è già diventato e diventerà ingranaggio della fabbrica sistemica della guerra. Capire, per anticipare, quale sarà la direzione delle sue trasformazioni, le modalità e i tempi della sua mobilitazione alla messa a valore, i soggetti che in esso saranno messi al lavoro per la guerra, le nuove figure che saranno formate, quelle che ne verranno espulse. Le istituzioni adibite alla loro formazione, i luoghi che ne diverranno discarica di scarti. Le promesse frustrate, le aspettative disilluse, le forme di vita imposte tra tempi, tecnologie, condizioni di lavoro e salario complessivo. Le soggettività possibili.

5. La ristrutturazione come momento di gestione della crisi o fase preliminare di rilancio di uno sviluppo? Con quali connotazioni, entro quali filiere, su quali prospettive, per quali segmenti di composizione? Soggettività e lotte connotate dal declino e dal collasso sono diverse da soggettività e lotte inscritte in processi di accumulazione e crescita. Contraddizioni. Ambivalenze. Possibilità. Si tratta di inchiestarle per ricercarne una forza, dal di dentro dei processi di trasformazione radicale e accelerata nei quali siamo immersi in questi tempi di incertezza, o di certezza del caos.

6. Non si tratta di fare scienza del capitale, che è scienza del dominio. Ma di un tentativo di fare di scienza operaia, che è «processo in atto di rovesciamento dei fatti». Conoscere la «fabbrica della guerra» nelle sue articolazioni – oggettive e soggettive, produttive e sociali – come la fabbrica l’hanno sempre conosciuta gli operai: per rallentarne i ritmi disumani, per ostacolarne il funzionamento di morte, per sabotarla buttando sabbia, bulloni e chiavi inglesi nelle sue macchine. E infine per sovvertirla in fabbrica di conflitto sociale e politico.

7. Iniziare a guardare in faccia la guerra, o almeno il volto che possiamo concretamente osservare, a livello del nostro orizzonte determinato, per forza di cose limitato. E da lì, poi, risalire verticalmente. Operazione non solo di scienza e conoscenza di parte, che sappiamo indissolubilmente legate alla nemicità, quindi al conflitto, ma di prospettiva. Primariamente politica.

***

«Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema» è la seconda parte del ciclo «La fabbrica della guerra» (organizzato negli spazi del Dopolavoro Kanalino78 a Modena). Strumento per risalire e interrogare, dal piano del nostro orizzonte, anello dopo anello, la catena che determina la configurazione concreta dei rapporti di classe, di capitale, intercapitalistici e imperialistici, nella loro fase attuale di traumatica e violenta ridefinizione, la quale si riflette in ciò che abbiamo provato in piccola parte a osservare, tracciare e saggiare nella prima parte del ciclo, «Modena nella crisi globale». La cornice imprescindibile, da discutere e costruire, attraverso cui dare solido sfondo, e quindi significato più generale, alle ipotesi di lavoro militante e definire, anticipandoli, i processi materiali, oggettivi e soggettivi, che vanno a connotare complessivamente il quadro dei nostri tempi, e l’altezza dei problemi che essi pongono. A partire dai tre nodi che abbiamo scelto come guida (l’imperialismo oggi, la crisi tedesca nel cuore d’Europa, il fronte dell’Italia), a cui intrecciare i piani della lotta di classe e della soggettività.

– Quale collocazione, ruolo e teatri sono assunti attivamente dall’Italia nel conflitto globale? Che posizione occupa nella catena imperialista, tra Stati Uniti e Unione Europea? Com’è interpretato tutto ciò dalle Destre al governo e in ascesa nell’“era Trump”, e di cosa esse sono sintomo e strumento? In che modo la “guerra multipolare” appena iniziata potrebbe creare, in Europa e in Italia, le condizioni di un nuovo ciclo di lotte di classe? Quali potranno essere le sue caratteristiche, a fronte dell’assorbimento del primo momento neopopulista e dell’impasse del sovranismo italiano dall’eurocrisi a oggi?

Una discussione con Mimmo Porcaro, autore e collaboratore della rivista «La Fionda», l’8 marzo.

– Che cos’è l’imperialismo oggi, di cui la cosiddetta “era Trump” è precipitato? Come concretamente si configura, a monte dello scontro Usa-Cina? Con quali eventuali discontinuità rispetto a precedenti epoche? Su quali piani, con quali strumenti, attraverso quali anelli la catena imperialistica si definisce sul sistema mondo e nel mercato mondiale? Come si intreccia alle dinamiche di classe, e quale l’anello decisivo? Quali implicazioni politiche comporta per noi tale configurazione? Tracce e appunti per una nuova, e necessaria, riconcettualizzazione dell’imperialismo all’altezza delle nuove questioni pratiche poste dal movimento storico reale.

Con Raf Sciortino, autore di I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios 2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze (Asterios 2022), il 5 aprile.

– Cosa succede quando la crisi, dalle periferie mediterranee, colpisce il cuore industriale e politico dell’Europa? Cosa significa per il continente, e soprattutto per l’Italia inserita nelle sue catene del valore, la destabilizzazione politica e sociale del modello tedesco? Unione Europea e moneta unica possono essere messe in discussione da Berlino o conquistare una loro “autonomia strategica” imperialistica? Che posizione occupano la Germania e l’Unione Europea nella catena imperialistica globale? Si staglia davanti a noi un processo di radicalizzazione politica del contesto europeo, insieme alla sua rinazionalizzazione? Dove va l’Europa nella ripolarizzazione conflittuale del mondo tra Stati Uniti e Cina?

Una discussione con Robert Ferro, autore del podcast Il perno originario. Appunti sul respiro delle rovine di Radio Blackout, il 17 maggio.

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Si dice che Lenin, nel 1914, esule a Cracovia, quando arrivò la notizia dello scoppio della guerra, rimase sbalordito: per il tradimento dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, certo, ma anche per il passo decisivo degli attori di potenza nell’andare allo scontro bellico, ipotizzabile ma non del tutto prevedibile. Anche Lenin fu colto di sorpresa, ma si era reso pronto a guardare negli occhi la terribile occasione dell’inaspettato. Si apre un tempo di incertezza. Per conquistarne l’altezza, occorre rovesciare il punto di vista. E cogliere, nell’incertezza del tempo, il tempo delle opportunità. Iniziamo, nel nostro piccolo, a farlo, formulando le domande giuste.

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Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università

Note per approfondire la discussione

La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano. Tra questi, la scuola e l’università, punti nodali della riproduzione capitalistica e sociale.

Da una parte, come «industrie della formazione» atte a produrre e disciplinare la merce oggi più preziosa: quei soggetti che verranno chiamati a lavorare e combattere per la guerra dentro fabbriche, magazzini, laboratori, aule e uffici, o direttamente sul campo di battaglia. Dall’altra, tuttavia, come luoghi di mobilitazione giovanile e comportamenti di rifiuto che negli ultimi anni, intorno ai conflitti globali, e in special modo la Palestina, che coinvolge anche le dimensioni decoloniale e della razzializzazione interne alla composizione di classe delle nostre latitudini, hanno visto una nuova generazione politica prendere parola, tra tentativi di conflitto, spontaneità e contraddizioni.

Come si stanno trasformando scuola e università dentro la guerra? Quale funzione sono chiamate a ricoprire, da Stato, imprese e politica, nell’organizzazione, mobilitazione, e produzione bellica? Quale ruolo degli istituti tecnici e professionali, baricentrali per la formazione della forza lavoro specializzata per la fabbrica della guerra e al contempo alla formazione allo sfruttamento, con alta concentrazione di soggettività razzializzate, ma sovente esclusi o impermeabili agli interventi politici? Quali sono i soggetti coinvolti dentro i processi di trasformazione e che istanze, pulsioni e visioni materiali esprimono (o possono esprimere) nelle mobilitazioni contro la «fabbrica della guerra»?

Sono queste alcune piste da cui siamo partiti nella discussione del primo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», organizzato il 12 ottobre 2024 al Dopolavoro Kanalino78 a Modena, con studenti – militanti di collettivi e organizzazioni – attivi nelle lotte di scuole e università. Un ciclo pensato come una macchinetta per inchiestare soggetti, territori e processi coinvolti in questo tempo di guerra da decifrare e sovvertire, e inquadrare nuovi strumenti, punti di vista, elementi in grado di affrontarne la complessità all’altezza giusta – obiettivo sicuramente alto – dei problemi.

Vogliamo qui, in questa introduzione agli interventi, elaborare meglio il nostro punto di vista su alcuni nodi che la discussione con i compagni ci ha permesso di definire meglio. Senza certezze in tasca, se non quella della materialità dei problemi che si pongono collettivamente, e alcuna ricetta per l’avvenire, se non quella di porre tale materialità a verifica e alla proficua discussione, che speriamo possa approfondirsi e costruire un punto di vista più avanzato sui problemi, insieme a tutti i compagni validi come quelli intervenuti al dibattito.

Il protagonismo sociale, o della ricerca dell’autonomia

Tagliando subito con l’accetta, dagli interventi del dibattito crediamo emerga chiaramente un punto critico di questa fase, che non è una novità ma portato lungo di fasi precedenti che non possiamo qui approfondire: la debolezza, quando non proprio assenza, di protagonismo sociale dei soggetti – in questo caso, appunto, studenti, ma il discorso si può generalizzare. Protagonismo sociale che possiamo (e ci piace) chiamare anche autonomia, con la a minuscola. Se c’è un nemico da scardinare, è questo non protagonismo, questa passività, che come Kamo abbiamo toccato con mano direttamente anche a Modena nelle esperienze e negli incontri avuti insieme al soggetto giovanile della nostra città.

Questo non protagonismo, dal nostro punto di vista, può assumere varie forme.

La più immediata è il ritirarsi individuale e individualistico da ogni tipo di partecipazione collettiva, da processi di attivazione e decisione dove mettere in gioco la propria forma di vita che lo status quo capitalistico ha assegnato alla nascita, dal farsi avanti all’interno di una dimensione di mobilitazione che ecceda il proprio io e lo arricchisca, in una sintesi non più scindibile, in un noi. Il ritirarsi, quindi, in un privato oggi sovrapponibile completamente al mondo della merce, al suo più o meno edonistico e nichilistico godimento. Il godimento davvero povero della potenza della vita fatta coincidere col segno impresso su di essa dal rapporto sociale di capitale. Questa è la forma che è stata chiamata e che riteniamo corretto chiamare della diserzione, maggioritaria oggi tra gli studenti oltre che nella società più complessiva, con tutte le sfumature e gradazioni del caso: dal votarsi all’imperativo di arricchimento facile e veloce che la ragione neoliberale, ancora nella sua fase di putrefazione, promette possibile e auspicabile (magari cavalcando la schizofrenia dei flussi tramite app di trading e criptovalute che hanno reso portatile la speculazione finanziaria), al ritagliarsi una nicchia di comfort, civile e moralmente sostenibile, vivibile e discretamente sensibile, nel caos sempre più crescente della realtà percepita.

Ma vediamo anche la forma della delega del proprio protagonismo a un ceto di attivisti “professionisti”, scegliendosi il “brand” identitario che più aggrada o si addice al proprio curriculum, accontentandosi di seguire, condividere, likeare – nella vita vera come si fa sui social – contenuti fruiti ma mai prodotti dalla propria autonomia, per poi passare ad altro al cambio di trend; fruizione passiva, momentanea, di cause o lotte, da utenti consumatori, che in una città come Modena le articolazioni istituzionali e le cinghie di trasmissione del centrosinistra (spesso coincidenti) hanno buon gioco a sussumere e capitalizzare nei propri meccanismi, con risorse materiali e di posizione adeguate ad assorbire e rendere compatibile ogni piccolo sussulto di protagonismo potenzialmente di rottura. È questa la forma debole e impalpabile della società civile, di cui spesso abbiamo visto processi organizzativi e di lotta finire per scambiare un suo sfruttamento tattico come soggetto di riferimento e fine strategico. Se certi tipi di segnali di protagonismo vengono facilmente assorbiti da questa forma, crediamo che il problema non sia tutto sui limiti dei militanti che non li hanno saputi intercettare e deviare: spesso il problema è nelle soggettività stesse poco interessanti (e interessate) ai fini della rottura.

Infine, per ultimo, ma spesso non meno problematico per lo sviluppo di autonomia, quello che può sembrare un ossimoro: il non protagonismo che rischia di esprimersi attraverso la militanza. Una forma di militanza che coincide con l’adesione a organizzazioni partitiche, gruppi protopartitici, sindacalistici o attivistici che negli ultimi anni, a fronte del blocco dello sviluppo di larghi sommovimenti di classe o di pezzi di classe, tanto reali quanto spuri, su istanze materiali di soggettività altrettanto ambivalenti quanto reali (pensiamo, in questo senso, a ciò che è stata l’Onda tra 2008 e 2011, o all’irrompere delle lotte dei facchini tra 2011-2014), abbiamo visto fiorire e diffondersi, coinvolgendo pezzi non secondari delle nuove generazioni politiche emergenti. Gran parte delle organizzazioni, delle più varie tendenze e strutturazioni nazionali (perfino internazionali), rispondono facilmente alla richiesta di certezze da parte di soggetti giovanili che affrontano i loro tempi con ben poche di esse in tasca. La certezza di un’identità, in questo caso politica, di un percorso strutturato, di un’ideologia canonizzata, di una comunità costituita, di una parola d’ordine, del contenuto di un volantino, di una prassi consolidata, magari già decisi altrove o legati a lotte di altri pezzi di mondo, facilmente solo da seguire o applicare. La sensazione di fare qualcosa non solo di giusto, ma di rilevante, “sul pezzo” della cronaca: anche se non si può cambiare niente della propria vita, almeno ci si sente parte di una comunità o di una potenza lontana che agisce. Qui sono senza dubbio confluite molte energie e intelligenze politiche mosse negli ultimi anni dalla ricerca, non senza ambivalenze o difficoltà, di protagonismo, o che hanno espresso timidi ma importanti segnali di esso. Qui, purtroppo, possono finire per ristagnare, esaurirsi o riprodurre l’esistenza di quei contenitori che, nella nostra particolare esperienza, sono risultati tuttalpiù scatoloni vuoti: collettivi o sigle a uso e consumo della politica “nazionale” o dei politicismi dei gruppi territoriali che, come a un mercato delle vacche, si contendono l’adesione di questo soggetto giovanile a colpi della miglior offerta simbolica, ideologica, organizzativa, secondo anche logiche di targetizzazione. Non di certo strumenti territorialmente e soggettivamente situati di conricerca, espressione e potenziamento delle potenzialità di protagonismo e lotta delle soggettività giovanili a partire dalla materialità situata di esse. Questa forma di militanza, oltre a essere alla lunga impoverente invece che arricchente, crediamo sia anche “rischiosa”: fiorente e apparentemente solida nelle fasi di “calma”, dove la spontaneità sociale è debole e l’autonomia arretrata, quando il rischio è quello di far coincidere la militanza all’esperienza di “marcare il cartellino”, si può dimostrare estremamente fragile invece quando investita dalla potenza di un movimento reale, spurio, di soggetti sociali in tutta la loro contraddittorietà e ambivalenza, capace di squadernare ogni certezza, identità, linguaggio, comunità precostituiti se non radicati in un autonomo punto di vista e un metodo della conricerca. Lo diciamo senza nessuna nostalgia di forme di militanza tanto intense quanto fragili, che richiedono e bruciano tutto nei tempi corti, vuoti e accelerati dell’età giovanile e universitaria, ma non reggono ai tempi dilatati, pieni e anche frustranti della maturità lavorativa, affettiva, anagrafica.

Per una lettura critica della diserzione

Non ci convince del tutto, oggi, la parola d’ordine della diserzione, evocata nelle mobilitazioni in ambito universitario. Utile come concetto suggestivo d’agitazione contro la guerra, ci pare più debole sulla linea della controsoggetivazione, come comportamento su cui fondare un processo organizzativo. Non ci convince la sua potenzialità sovversiva all’interno dell’attuale fase della congiuntura di guerra, dove non c’è ancora mobilitazione di guerra da cui disertare, ma tutta da capire la forma stessa della riorganizzazione del comando sul sociale in funzione della forma guerra che si sta dando o si darà.

Può essere la diserzione una tendenza su cui inserirsi, anticipando e radicandosi nell’ambivalenza di un comportamento sociale spontaneo poi da trasformare in rifiuto organizzato? Senza ricette, con la sola certezza che sarà la messa a verifica nella prassi militante della conricerca a dare la risposta, proviamo ad articolare alcuni punti critici utilizzando la storia, la nostra storia, la tradizione che ci siamo scelti.

La diserzione, la dimissione, il ritirarsi, nella situazione concreta di oggi, è un comportamento ambivalente o di rottura, come è stato, per fare un esempio, il rifiuto del lavoro in un’altra epoca che ci è alle spalle?

Il rifiuto del lavoro è stato espressione di una determinata composizione di classe dentro una determinata organizzazione di fabbrica. Un comportamento, in forme anche passive, di una minoranza non minoritaria di operai, di un’avanguardia però di massa, dentro e contro la fabbrica fordista degli anni Sessanta – anche contro altri pezzi di composizione! – e poi nella fabbrica sociale degli anni Settanta. Comportamento che, prima scoperto e anticipato grazie alla conricerca operaista, e poi organizzato politicamente dai militanti nella lotta dentro la produzione e diffuso conflittualmente nelle articolazioni della riproduzione sociale, ha inceppato per un decennio il profitto come variabile indipendente della riproduzione capitalistica.

Oggi, dalla nostra visuale, la diserzione è un comportamento già maggioritario e generalizzato. Non solo degli studenti medi e universitari, ma dell’individuo democratico complessivo prodotto dalla società neoliberale. La diserzione non la vediamo come il comportamento ambivalente di un’avanguardia potenzialmente conflittuale, ma la normalità della forma di vita della maggioranza, praticata però in forma individuale e individualista, ripiegata nel privato, nella ricerca edonistica del piacere, nella solitudine del lavoro.

Uno studente che “diserta la guerra”, oggi, al tempo della diserzione già sociale, cosa rischia di rompere? Rompe uno status quo, una condizione,  o la riproduce, attraverso lo stesso meccanismo con cui poer esempio l’astensionismo maggioritario oggi non è tanto espressione di una radicalizzazione politica antisistema ma più sintomo dell’assenza di una politicizzazione della società?

La diserzione è stata una scelta di campo concreta, materiale, alla base della formazione del movimento partigiano nell’autunno-inverno del ’43. Una scelta di campo imposta dall’alto, praticata con le spalle al muro, che metteva in gioco la vita: o l’arruolamento nella Guardia nazionale repubblicana di Salò, le camicie nere, o la via della clandestinità, che per un pezzo di quella generazione cresciuta nel fascismo ha significato la via dei monti, a raggiungere i primi nuclei di soldati sbandati, fuggitivi, ex detenuti, dove i quadri politico-militari dei partiti antifascisti ancora erano pochi. Fu quella scelta di diserzione di una minoranza a formare le prime bande partigiane: diciannove mesi dopo, sarebbero discese sulle città del Nord Italia in formazione disciplinata di esercito guerrigliero.

In quel momento, la politicizzazione e la militanza, prodotte nella lotta partigiana, hanno visto come passaggio preliminare obbligato una diserzione. Nelle condizioni di oggi la militanza, la controsoggettivazione in una forma di vita militante, riuscirà a costruirsi attraverso un comportamento che è già socialmente maggioritario ma senza alcun tipo di rottura con la forma di vita dominante, che è sì diserzione dal comando di guerra ma anche diserzione da forme di conflittualità, rottura, ricomposizione?

Conclusioni, malgrado il discorso sia lungo e incerto

Ecco allora una domanda a guidarci. Dentro la «fabbrica della guerra», come alimentare i segnali di protagonismo, a Modena ancora timidi e insufficienti, espressi dall’avanzare di una nuova generazione politica che abbiamo visto attraversare varie fasi di mobilitazione (dalla scuola alla Palestina), ma stenta ancora a trovare forme autonome di protagonismo? E poi: come costruire una militanza capace di cavalcare le vertigini, stare sulle ambivalenze, ribaltare le certezze per costruire radicamento, progettualità e ricomposizione?

È ancora e sempre lo stesso ordine di problemi, che come Kamo abbiamo contribuito a discutere e provato a nostro modo ad affrontare; altri, questi ultimi anni, lo hanno sicuramente sviluppato meglio con ben altri strumenti, possibilità ed esperienza. Alla nostra piccola altezza, ci sentiamo di inquadrarlo dentro le suggestioni e le piste di ricerca politiche lasciateci da Mario Tronti nel suo ultimo, postumo, scritto politico e militante. Salvare la rivoluzione dal Socialismo, salvare la libertà della Democrazia, dice Mario – e, aggiungiamo noi, salvare l’autonomia dal Movimento. Da quello che è stato il ciclo, oggi esaurito, dei centri sociali e del centrosocialismo, entro cui per tutta una fase si è espressa la militanza autonoma. Nel presente, per il domani, si tratta di salvare l’autonomia possibile di nuovi soggetti da quello che, per semplicità e in mancanza di termini migliori per capirci, prende oggi le vecchie forme del Movimento. C’è un lavoro da fare, di ricerca, di elaborazione, di immaginazione. Senza l’ambizione di sapere che quel tempo, il più inattuale, verrà. Perché il mondo e il tempo che stanno per arrivare, tutto lascia prevedere che saranno al seguito del mondo e del tempo che sono già arrivati. Facciamoci trovare pronti per domani, preparandoci oggi all’inaspettato.

Di seguito gli interventi che hanno aperto la discussione. Buona lettura.

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Marina – studentessa, militante di Osa

Visto che tutto quello che abbiamo fatto nelle scuole in questi anni come studenti organizzati si è basato sull’analisi della realtà, prima di parlare di scuola due parole sul contesto generale e sul periodo storico in cui ci troviamo.

La guerra, dall’Ucraina al Mar Rosso passando per la Palestina, è diventata il fattore centrale. E l’Italia, nella guerra, assume un ruolo centrale. Segue le politiche della Nato, aumenta le spese militari al 2% del Pil, continua a inviare armi, e per farlo toglie i soldi alle scuole, all’università (la recente manovra finanziaria prevede 500 milioni di tagli al Fondo per il finanziamento ordinario delle università), alla sanità, alle spese sociali.

Come studenti organizzati è stato importante quindi individuare il nostro nemico per mobilitarci: il governo. Un governo guerrafondaio, un governo della guerra, quello delle Destre, della Meloni.

Per lavorare nelle scuole, abbiamo quindi colto la contraddizione dei soldi che invece che essere usati per la nostra formazione vengono usati dal governo nelle guerre in cui l’Italia è complice e corresponsabile: le conseguenze le vediamo quotidianamente in tutti gli istituti da Nord a Sud, dove ogni giorno cadono pezzi di soffitto sulle classi, mancano le risorse per metterli in sicurezza dopo disastri ambientali come l’alluvione in Romagna, mancano spazi o materiali per fare lezione, mancano veri sportelli d’ascolto e assistenza psicologica, manca una vera educazione alla sessualità.

Abbiamo riconosciuto il nostro nemico in una classe dirigente che utilizza la filiera della formazione per far passare l’ideologia dominante e per mantenere il consenso. Scuola e università come apparati ideologici di Stato, e manganelli e stretta repressiva per chi protesta [si veda il Decreto sicurezza ddl 1160, ndK]. Ci è stata consegnata una scuola che non ha più quel senso di emancipazione che poteva avere negli anni dello sviluppo delle lotte, ma che continua a cristallizzare le condizioni sociali di partenza degli studenti. La scuola non è più un ascensore sociale ma si è trasformata in filiera formativa, centrale per l’aumento della competitività e della produttività, e per la creazione di valore e per la crescita economica.

Questo è evidente con il Pcto (l’alternanza scuola-lavoro) che costituisce una vera e propria aziendalizzazione della scuola, in cui i percorsi di studio degli studenti verranno modificati dalle imprese presenti sul territorio per creare figure di lavoratori specializzati. Inoltre, con la nuova riforma degli istituti tecnici e professionali di Valditara, che consiste nel ridurre un anno di scuola per questi ultimi e accrescere le ore di Pcto, assistiamo anche a un aumento di differenze tra scuole di serie A (come i licei, luoghi deputati a instradare la futura classe dirigente) e scuole di serie B (istituti tecnici e professionali).

Quello che vediamo in generale è una crisi di egemonia dell’Occidente capitalistico che, nel suo contorcersi, produce barbarie. Il discorso dell’Occidente capitalistico si dice portatore di pace, di innovazione, di libertà, ma come vediamo produce guerra, sfruttamento, repressione. E le classi dominanti non hanno e non vogliono trovare soluzioni alle barbarie che producono.

Sappiamo che lotte nelle scuole devono essere fatte pensando alla realtà che abbiamo davanti. E nelle scuole noi vediamo una tendenza tra gli studenti a eludere questi valori proposti dal discorso dominante, a non sentirsi rappresentati in toto da questi valori, quindi a cercare di uscirne, a scapparne, in varie forme e modi, magari cercando altri modelli. Forme e modi che però non vanno a rottura con la società così strutturata, ma che comunque non sono conformi alla narrazione che il sistema ha fatto di sé. Nelle scuole vediamo una serie di fenomeni che vanno dal ribellismo individuale e individualistico, al disagio psicologico, all’autolesionismo, al disinteresse da tutto ciò che succede, fino anche allo scimmiottamento della criminalità e di comportamenti criminali. A Modena, per esempio, quest’anno i rappresentanti d’istituto del Liceo Classico Muratori, dove passano le future classi dirigenti, hanno chiamato la polizia perché c’erano studenti del Tecnico e Professionale che venivano a rubare, a picchiare, a fare brutto agli studenti del Classico davanti alla scuola.

Nelle scuole vediamo che non c’è una spontanea prospettiva di rottura. Dobbiamo quindi essere bravi come militanti organizzati a incanalare questo disagio e questa rabbia degli studenti e portarli ad avere questa prospettiva, facendo come, per esempio, dopo l’uccisione di 3 ragazzi in Pcto da cui è nata l’ondata di occupazioni della Lupa a Roma nel 2022.

Chiaramente non è facile, perché siamo in un contesto di depoliticizzazione e de-conflittualità studentesca, in cui il nemico fa un attento lavoro di deterrenza per impedire ogni ipotesi di mobilitazione. La sfiducia nella possibilità di cambiamento e nell’utilità della lotta è veramente alta.

È stato difficile come portare nelle scuole di Modena un punto di vista e una prospettiva di rottura. Anche perché a Modena, feudo Pd, sono forti le organizzazioni studentesche che sono l’articolazione di sindacati e di partiti del centrosinistra di governo, filoistituzionali, socialdemocratici, come la rete degli Studenti, l’Udu, eccetera. Abbiamo visto che non portano effettivamente punti politici, ma riescono a sussumere tutto quello che hanno intorno, a far su quello che con difficoltà e spontaneità prova a muoversi; hanno appiattito le lotte che ci sono state, le hanno compatibilizzate, senza offrire una vera alternativa e anche per questo, a Modena e provincia, quest’anno il movimento studentesco non è stato dei migliori.

Chiaramente ora con il movimento per la Palestina si è riuscito sicuramente ad ampliare e mobilitare qualcosa, però ha avuto più successo nelle università che nella scuola, e sicuramente qua a Modena nell’università non è partito niente. Eppure, nonostante anche Forlì sia una città di provincia, lì il movimento è partito dall’università.

A Modena è stato interessante lo sciopero e la successiva mobilitazione scoppiati all’Ites Barozzi. Partito come protestaperché la scuola non faceva andare in gita le classi, non riforniva di cibo le macchinette e faceva perquisire gli zaini degli studenti all’entrata, a seguito della minaccia di sospensione della preside al rappresentante d’istituto per aver rilasciato un’intervista esprimendo i problemi di una “scuola devastata” la mobilitazione ha preso piede in difesa dello studente. La mobilitazione contro la repressione è poi rientrata senza una prospettiva di rottura, senza uscire dal proprio caso particolare, senza guardare all’esterno della propria scuola.

Ci sta, perché comunque questa “coscienza” la porti dall’esterno, non sono cose che vengono su da sole, è qui la funzione del militante; però è una piccola dimostrazione che sotto si muove qualcosa, anche in provincia gli studenti possono muoversi e cercano un cambiamento, non è detto che a Modena non debba accadere mai niente. Bisogna essere bravi a cogliere le contraddizioni quando si manifestano materialmente che poi ti portano a uno scontro diretto.

Scuola e università sono apparati ideologici di Stato, e i luoghi e i percorsi formativi sono sempre pervasi dall’ideologia del nemico, come stiamo vedendo sempre più chiaramente in questo stato di guerra. E noi come studenti dobbiamo continuare ad utilizzare questi luoghi di formazione come campo di battaglia, per portare avanti un’idea di formazione diversa, in una diversa società.

  

Elia – studente universitario, militante di Officine della formazione

Il punto di partenza della nostra inchiesta sulla composizione studentesca universitaria (in forma estesa, i risultati dell’inchiesta si trovano sulla rivista «Machina»: qui e qui) è tutto sommato semplice: la constatazione che in università c’è un vuoto politico.

Questo vuoto politico non è tanto da intendere in senso fenomenologico (“non c’è nessuno, non esiste nulla di politico”). Alcuni gruppi ci sono sempre stati, e ci saranno sempre, in forme e quantità più o meno sparute. Quello che ci interessa considerare, invece, è il loro appiglio sulla composizione studentesca, la loro capacità di muoverla e di agitarla. Insomma, ci sembrava che anche l’università di Bologna fosse pacificata quanto qualunque università anglosassone o nordeuropea.

Dire inchiesta è, però, improprio. L’idea era quella di una conricerca. Ovvero, produrre una conoscenza imperniata sul punto di vista di una soggettività, quella studentesca, al fine di poter indicare la strada, da un lato, alle nuove forme di organizzazione possibili dentro le università, assunta la crisi delle forme esistenti, e dall’altro verso i “punti deboli” del sistema, non tanto in senso oggettivo, ma soggettivo: cosa temono, desiderano e odiano gli studenti?

Quindi, produzione di conoscenza collettiva e comune che, allo stesso tempo, possa aprire uno spazio per l’autoformazione, per la formazione politica. Insomma, ditelo come volete: per dare forma a nuovi militanti.

La tesi principale che è emersa dalla conricerca è che non ci sembra possibile rintracciare un residuo autonomo (un “fuori”), cioè una ricerca di conoscenza pura e incontaminata, dalla volontà e dal desiderio degli studenti di essere formati in quanto forza-lavoro competente e, soprattutto, desiderosa di vendersi sul mercato del lavoro. Chi sceglie di studiare all’università lo fa esclusivamente per questo motivo. Per descrivere questo processo abbiamo utilizzato il concetto di “professionalizzazione”. La produzione – come processo attivo, cioè voluto dal soggetto, e allo stesso tempo passivo, cioè subito – di forza-lavoro specializzata pronta per essere inserita nel processo produttivo.

Questa questione va letta assieme alle aspettative degli studenti sul proprio futuro. La ricerca dimostra un complessivo “innalzamento” delle aspettative rispetto al titolo di studio. In altri termini, si studia poiché si ritiene possibile che il titolo renda favorevole la collocazione nel mercato del lavoro. Tutto questo sommato alle difficoltà e alle fatiche dello studio, che si accettano e subiscono senza troppi problemi – o, comunque, si cercano di superare questi problemi. La possibilità, nel futuro, “di fare quello che ti piace” ripagherà la fatica. Infatti, non è secondario rimarcare come questa predisposizione verso il futuro porti gli studenti ad accettare il sacrificio dello studio e della formazione.

Bisogna sottolineare che l’innalzamento delle aspettative legate al titolo di studio non viene interpretato dagli studenti come un processo lineare e privo di frizioni. Al contrario, è una vera e propria battaglia per il riconoscimento della competenza e della formazione, che porta tratti anche culturali e generazionali. Non mancano ostacoli e incertezze, tuttavia per quel che concerne il titolo di studio sembra esserci davvero la fiducia che l’educazione superiore sia un investimento che possa portare a una posizione favorevole nella società.

Infine, l’ultima riflessione riguarda il cosiddetto “sapere pratico”. Gli studenti intervistati, infatti, richiedono una forma di sapere pratico-teorica, in aperta contrapposizione a uno studio impoverito, standardizzato e nozionistico come quello offerto dall’università oggi.

Il primo lato della medaglia è il rifiuto di una certa verbosità, un certo vecchiume dell’università italiana. Riprendendo le parole degli studenti, il sapere pratico-teorico ti fa osservare, assieme alla professoressa, un certo fenomeno in laboratorio, al di fuori della dimensione della lezione frontale e libresca. Ma accanto a questo tipo di sapere ce n’è un altro che costituisce uno scarto: quello che dà forma a una competenza tecnico-pratica, attiva: fare le cose con le tue mani. Abbiamo chiamato questa forma di sapere semplicemente “tecnico”. È proprio questa la forma di sapere a essere reclamata dal desiderio di professionalizzazione degli studenti: il possesso di una tecnica capitalistica professionalizzante, che li formi come forza-lavoro competente e professionale.

Vi è un altro livello del discorso verso cui prestare attenzione e riflettere. Tagliando con l’accetta, possiamo dire che il sapere della didattica universitaria è così impoverito e standardizzato che l’unica strada percorribile, per gli studenti, risulta essere quella della richiesta di professionalizzazione. La ricerca di sapere e conoscenza “per sé” non si può dare nella realtà capitalistica, dunque si sceglie la via della professionalizzazione perché conviene. In altre parole, conviene perché il sapere è talmente impoverito e modularizzato che tanto vale diventare un professionista che applica quel sapere povero allo status quo capitalistico. Ma questo, banalmente, significa che lo studente finisce per contribuire attivamente e soggettivamente a divenire forza-lavoro specializzata, o forse sarebbe più corretto dire “capitale umano”, realizzando il compito storico dell’università capitalistica.

Crediamo che questo passaggio vada assunto come un dato di realtà.

Non per rassegnazione o ineluttabilità ma, al contrario, perché per rovesciare il tavolo dobbiamo sapere bene di quale materiale questo tavolo è fatto, quali sono le sue crepe, in che punto si può rompere. Questa “utentizzazione” della figura dello studente, questa riduzione alla passività, al contenitore da riempire, ci sembra che spesso si accompagni a una certa “protocollarità” nell’approcciarsi al sapere da parte degli studenti. Una faccia della professionalizzazione è proprio la protocollarità, nel senso dell’algoritmo: la richiesta di possedere una serie di passaggi definiti per risolvere un problema di cui si sa già che una soluzione esiste. I professori stessi riproducono questo meccanismo, tenendo quanto più possibile lontano gli studenti dalla possibilità di scontrarsi con problemi aperti, sia quelli radicalmente privi di soluzione, sia quelli con una soluzione che non è data a priori. Ciò che conta è superare l’esame: tutto si riduce nell’ingurgitare una serie di informazioni per poi ripeterle il più fedelmente possibile in attesa di ottenere l’agognato “pezzo di carta”.

Se questa riflessione sulla professionalizzazione è chiara per le facoltà scientifiche, ci sembra che anche i soggetti delle facoltà umanistiche, che si iscrivono perché “amano ciò che studiano”, siano inseriti in questa stessa logica. Che riguardi la volontà di diventare un ricercatore o altre innovative figure professionali che possono emergere dagli studi umanistici, la figura soggettiva, lo spirito e l’antropologia sono simili. Magari, agli studenti delle facoltà scientifiche dei “seminari autogestiti” non interessa nulla, mentre a quelli delle facoltà umanistiche interessa se riguardano l’argomento della loro tesi o la possibilità di stringere la mano al professore di turno. Ma ci teniamo a specificare: non c’è nessuna moralizzazione in questo discorso. È così e basta, e lo abbiamo imparato a nostre spese, tentando più volte di organizzare questi soggetti o di aggregarli proprio attraverso queste modalità seminariali (che non riteniamo siano sbagliate in sé, per inciso, ma che vadano assunte dentro l’orizzonte materiale di questa soggettività).

Qui dobbiamo essere chiari. Da un lato questo è un processo soggettivo di trasformazione antropologica della condizione dello studente. Quanti anni sono passati dall’ultimo, reale, movimento? Possiamo dire quasi vent’anni senza movimenti? Ecco, tutto ciò ci consegna questo soggetto qua. Però, ovviamente, questa lettura assume un senso se la si legge nella più ampia questione della crisi della militanza e della crisi delle forme della politica di quello che viene chiamato “Movimento”, appunto. Cioè, dall’università – luogo del fermento giovanile – si vede chiaramente come ad oggi non esista nessun terreno di identificazione comune e collettiva: immaginari, pratiche, possibilità di dire “io sono questa cosa qui” in senso politico, un soggetto politico riconoscibile (“siamo dei centri sociali”, “dei collettivi” eccetera).

Un inciso va fatto. Lo studente della professionalizzazione è lo studente che fa l’investimento. E se questo lo leggiamo assieme ai processi selvaggi di accumulazione ed estrazione capitalistici legati alla città, basta poco per capire che nella città universitaria arriva chi se lo può permettere e, allo stesso modo, come il capitale abbia affinato una selezione molto più a valle. Insomma, arrivano studenti di ceto medio non troppo impoverito. Quindi, in qualche modo, anche il terreno classico del diritto allo studio e dell’accessibilità interessano poco questa figura studentesca. E lo si vede bene dalle piccole mobilitazioni di qualche anno fa relative al caro-affitti (le prime “tendate” per capirci), le quali alla fine vivevano più nel campo dell’opinione che in quello della materialità dei soggetti.

E ora arriviamo al sodo. Qualcosa che, invece, ha smosso, nel suo piccolo, per quanto comunque in un quadro di assenza di mobilitazioni significative, sono state le mobilitazioni in solidarietà alla Palestina. Proviamo a fare qualche ragionamento, prendendo davvero sul serio che «solo la lotta può impedire la barbarie». Ciò che segue va quindi letto come una forzatura per cercare di fare passi avanti e rilanciare il discorso, rilanciare l’intensità della lotta.

Ora, senza fare analogie macchiettistiche, senza dire «portare il Vietnam in fabbrica» o «Bring the war home», è comunque accettabile affermare che queste mobilitazioni per la Palestina siamo state una serie di rivendicazioni di solidarietà, mi si consenta di dire, di opinione: quelle che potenzialmente restano imbrigliate nel piano della moralità (e della giustizia astratta) e rischiano di avere poca attinenza con la vita che facciamo tutti i giorni e che, però, nel lungo periodo, nell’intensità e nella possibilità di rottura rischiano poi di assopirsi.

Quindi, la prima operazione di metodo mi pare questo: capire cosa porta dei soggetti concreti a mobilitarsi e, soprattutto, a farlo più di una volta (credo che la sola indignazione e la sola commozione siano necessariamente portati ad avere una breve durata). Cioè, non è tanto un ragionamento per scovare la verità oltre la menzogna, ma quanto per indagare proprio la costituzione materiale del soggetto-contro. Dunque, cosa è emerso da questo soggetto?

La mobilitazione non ha posto nessun accento oltre la questione palestinese. Senza dire sia giusto o sbagliato, in generale, strategicamente o tatticamente, lo assumiamo come dato di fatto. So che in altri contesti in Italia questo è invece successo, dunque mi riferisco a dove siamo collocati, Bologna. I termini della questione li conoscete: l’idea del boicottaggio accademico e dunque la fine degli accordi tra l’università e diverse istituzioni israeliane. Non c’erano dei ragionamenti che cercassero di ampliare il discorso o, diciamo, che per lo meno lo facessero assumendo il piano della condizione studentesca, che ne so, gli effetti degli accordi sulle lezioni, gli esami. E anche per questo motivo, crediamo, che ci sia voluto un certo tempo perché assumesse i tratti di una mobilitazione. Senza poi rimarcare che si tratti di una serie di rivendicazioni – lo dico veramente con il pudore di dire una banalità – di natura sostanzialmente sindacale. Cioè: si chiede la fine degli accordi, si può vincere o perdere.

Ora, senza ingenuità: le università piccole possono stracciarli subito quegli accordi, quella di Bologna ha grossi problemi per ovvi rapporti di forza globali e posizionamento nei circuiti del valore immateriale. Ad ogni modo, è interessante notare come la questione della materialità soggettiva della mobilitazione non sia stata posta in alcun modo, se non vagheggiando tutta la questione degli accordi come contraddizione cardine del capitalismo, insomma con un linguaggio che non affonda le radici nella materialità di quel soggetto descritto sopra, insomma discorsi vuoti. Una prima spia del fatto ci fossero altre ragioni verso la partecipazione, oltre al cuore della rivendicazione, pur comunque assolutamente fondamentale.

Ora, facciamo un salto verso le tendate. A Bologna, va detto, non bloccavano nulla. Le malelingue potrebbero dire che fossero un centro sociale a cielo aperto. Ma lì, invece come poi in altre occasioni, la partecipazione di una composizione studentesca “vera”, spontanea, si è data.

Ora, la tesi di fondo: questo “qualcosa sotto” ai soggetti che si mobilitavano, alle tendate, ci è parso di poterlo vedere nel bisogno di socializzazione e di rottura della solitudine che è tipica del percorso universitario. Il soggetto che fa l’università oggi è sostanzialmente solo come un cane. Nonostante le apparenze, anche le università sono territori in cui il legame sociale è devastato e, in qualche modo, gli studenti riconoscono questa cosa e la sentono come problema. Da un lato lo studente ha il percorso di investimento su se stesso, quello che abbiamo descritto; dall’altro ha il consumo di divertimento e di esperienza della città (che occupa un ruolo fondamentale, ovviamente) e infine ha le patologie e i sintomi (ansia, depressione, solitudine). Questo non è nulla di nuovo, sono i tratti della condizione giovanile. Certo. Però ci pare proprio che in qualche modo, nelle tende, nella mobilitazione per la Palestina si cercasse di rompere (e quindi implicitamente di politicizzare!) quella roba lì. All’indomani dello smantellamento volontario delle tendate – sostanzialmente per stanchezza e burnout, come si dice oggi (comprensibile dopo più di venti giorni!) – il sentimento comune suonava così: “Non abbiamo vinto nulla, ma almeno ci siamo divertiti e siamo stati assieme”.

Se gli ingredienti per la politica sono gente incazzata e individuazione del nemico, ci pare che questi due termini, oggi, non siano in alcun modo consegnati dalla realtà verso il soggetto studentesco. Si possono – soprattutto, si devono – operare delle forzature e verticalizzazioni, certo. Ma a ogni modo pare che questo non si dia. Abbiamo più volte riflettuto su questo rapporto tra consenso e forza dentro la mobilitazione. Ovvero c’era consenso ma mancava la forza, dove per forza intendiamo la possibilità di individuare il nemico. E mi pare di poter dire che non fosse tanto un problema di tattica e strategia, quanto un problema di maturazione della soggettività. Insomma, che i nemici fossero il rettore, un professore o un capo di dipartimento, lo erano sempre e soltanto per un momento estemporaneo, per una fase.

Qui provvisoriamente chiudo: quello che è stato, quello che è, e quello che sarà in autunno penso si possa intendere come sintomo e preludio di qualcosa che, prima o poi esploderà, e che però va proprio letto dentro questo vero e proprio massacro della composizione giovanile.

Ora, se vogliamo parlare di guerra e università dobbiamo almeno prendere in considerazione tre tipi di guerra.

La prima è quella più ovvia: il diretto ingresso della guerra dentro l’università. Stato e capitale utilizzano l’istituzione per la produzione di conoscenza in funzione e per la guerra. Quindi produzione legata alla competizione tra i diversi capitali e diversi poli in conflitto in questa fase di destrutturazione e ristrutturazione anche bellica della globalizzazione. Va tenuto presente quando si considera la ricerca direttamente e indirettamente legata alla guerra anche il cosiddetto dual use.

La seconda è quella che materialmente distrugge le università. E pone un insieme di problemi, a chi fa politica in quei contesti, del tutto differenti. Oggi Kiev, Gaza, Beirut, ma sappiamo che altre guerre sono alle porte.

La terza è l’economia politica intesa come continuazione della guerra con altri mezzi. Insomma, la guerra del capitale contro di noi, la violenza dell’accumulazione originaria che si ripete ogni giorno. E l’economia politica sussume, oggi completamente, le università. Oggi ne abbiamo discusso dal punto di vista delle trasformazioni soggettive (“utentizzazione” e trasformazione in capitale umano) ma quelle oggettive sono forse ancora più lampanti: gli studenti come esercito di forza-lavoro precaria a basso costo, l’indebitamento e la finanziarizzazione dell’istruzione superiore, l’estrazione di ricchezza attraverso i prezzi degli affitti e la privatizzazione selvaggia di tutto quello che un tempo erano servizi.

Quindi, in queste tre guerre guerreggiate, abbiamo provato a riflettere su come si porta una guerra diversa dentro le università. Una specie di gesto leninista, una “nostra guerra”, come discorso tattico, ma anche strategico – magari anche come slogan, credevamo ad un certo punto. Un gran bel ragionamento. Ma tutto sbagliato.

Il problema, alla fine, è che il soggetto studentesco non è un soggetto che vuole fare la guerra. Tutto il contrario. È un soggetto della diserzione. Senza illusione che, ad oggi, diserzione sia qualcosa di profondamente diverso dal “dimettersi in solitaria”. Bifo legge i sintomi (depressione, solitudine eccetera) come una diserzione dalla realtà capitalistica – una rinuncia. Insomma, tra prendere una parte nella guerra, parteggiare, o “darci a mucchio”, dove questo “darci a mucchio” può essere prendere le pilolle o prendere lo spritz, lo studente è comunque un soggetto che si dimette. Non prende parte.

Scontato dire che tutto questo va organizzato, con forme e linguaggi della politica nuova. Come sempre: con continuità e discontinuità assieme, le spalle al futuro, la testa nuova e il cuore antico. Come recitava un titolo della stampa di giugno, «nel 2029 la generazione Erasmus potrebbe dover marciare su Mosca»: ne vedremo delle bruttissime, ma speriamo di farci trovare pronti per organizzarla, la diserzione.

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Troppo fuorismo / Inchiesta

LA FABBRICA DELLA GUERRA. Modena nel conflitto globale

La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone lo spartito.

Una guerra che non nasce per caso o per malvage singole volontà, ma dalle condizioni strutturali della “pace” che l’ha preparata. Una pace imperialista, incrinata dalla crisi capitalistica globale, rotta dallo scontro tra potenze in declino e attori in ascesa per determinare la nuova architettura del sistema di mercato mondiale. Europa, Medio Oriente e Pacifico sono i suoi diversi fronti, dove già si combatte a diverse intensità o ci si sta preparando per farlo. E noi in mezzo.

E a Modena? Come la guerra sta già entrando nel nostro territorio e coinvolgendo le nostre vite, trasformando scuola, università e fabbrica sociale? Che tipo di figure la scuola dovrà formare alle necessità del conflitto? Quali relazioni intesse l’università con industrie militari e Stati coinvolti? Come si ristruttura il tessuto industriale emiliano a fronte della crisi globale e in funzione della guerra? Quali contraddizioni potrebbero aprirsi e quali soggetti mobilitarsi dentro e contro la «fabbrica della guerra»?

Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono armi e strumenti politici: punto di vista, metodo, inchiesta.

Un ciclo di incontri per discutere e costruire nuovi arsenali, a partire da ciò che funziona ancora di quelli vecchi, per sabotare e sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.

Al Dopolavoro di via canalino 78.

Segnatevi le date, a breve maggiori dettagli.

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Kultur / Cultura

Gigi Roggero – La militanza non va in vacanza. Dagli anni Ottanta, Novanta e Dieci a oggi, e oltre – prima parte

Nella memoria collettiva, la militanza politica sembra scomparire dopo l’assalto al cielo degli anni Settanta. La fase iniziata con gli anni Ottanta, ancora in corso, appare come un “buco nero”. È il periodo della reazione ai grandi cicli di lotte, quello della controrivoluzione capitalistica, del riflusso nel privato, dell’epidemia di eroina, dell’edonismo dilagante, della precarietà generalizzata, dell’avvento di internet e del mondo unipolare, che ha portato al mondo come lo conosciamo oggi.

Tuttavia, gli ultimi quattro decenni non sono stati affatto privi di conflitti, sperimentazioni, movimenti e forme di organizzazione politica anche originali, tra ambivalenze e contraddizioni, che si sono dovuti confrontare con la crisi della militanza: dal movimento antinucleare a quelli studenteschi della Pantera e dell’Onda, dalla stagione dei centri sociali alle mobilitazioni noglobal, dalle tute bianche al blocco nero, fino agli “ultimi fuochi” del 15 ottobre 2011 e alle “piazze populiste” degli anni recenti.

Quali sono stati i soggetti sociali protagonisti degli ultimi movimenti? Quali sono stati pregi e limiti delle loro forme di organizzazione? Come si è trasformata la militanza e il conflitto di fronte all’attivismo e alla testimonianza? Se siamo di fronte all’esaurimento di un ciclo, come immaginare (e praticare) di andare oltre? Ripercorrere questi “decenni smarriti” vuol dire confrontarsi con i nodi irrisolti del presente, per riarmare il pensiero di fronte all’attualità, e costruire una prospettiva solida dentro e contro la storia di oggi. È quello che vuol dire essere militanti.

Ne abbiamo discusso, il 17 giugno a Modena, con Gigi Roggero – ricercatore militante, collaboratore della rivista «Machina», autore di Elogio della militanza (2016), Il treno contro la Storia (2017), L’operaismo politico italiano(2019), Per la critica della libertà (2023), tutti pubblicati con Deriveapprodinell’incontro che ha chiuso il ciclo MILITANTI.

Ci sembrava necessario, nel ritessere e riappropriarci di una genealogia e di una storia di parte, ripercorrere criticamente gli ultimi decenni, in particolare quelli da cui la nostra generazione politica proviene e si è formata. Non solo per dare qualche spunto di chiarificazione di dinamiche e processi per lo più sconosciuti alle nuove generazioni che si affacciano a percorsi di militanza politica, ma per osservarli e trattenerli con lucido distacco, quello necessario a mettere in discussione comode certezze, abitudini sedimentate, consueti modi di intendere e di fare che crediamo oggi girino a vuoto, o che semplicemente non ci bastano più – o meglio, non bastano più nella fase in cui ci troviamo. Guardare la strada da cui veniamo, di cui siamo debitori sia di errori e cadute che di saperi ed esperienze, per metterla in prospettiva, in una mappa più ampia: dove la destinazione rimane la stessa, ma vecchi sentieri vanno riaperti, e nuovi battuti. Sentieri impervi, non lineari, poco frequentati, tutti in salita. Sono quei sentieri che, visti dall’alto, sembrano rette, ma che per tracciarli occorre percorrerne la curva.

Certezza di perdersi, scarse probabilità di successo: gli unici sentieri che valgono di essere affrontati insieme.

 

Gigi Roggero

Non vi dico che “sarò breve”, perché non sarebbe credibile; quindi, saltiamo le premesse irrealistiche. Partirei piuttosto dicendo che auspico soprattutto di aprire un momento di confronto, e che condivido l’interpretazione che i compagni di Modena danno a questa congiuntura. Anzi, la tesi che presentano è quasi pacata. Direi che siamo in una fase in cui, per usare dei termini gramsciani (indipendentemente da Gramsci, che francamente non mi suscita un gran entusiasmo), «il vecchio fatica a morire e il nuovo fatica a nascere». Mi pare che, in estrema sintesi, l’attuale situazione sia questa. Poi si potrebbe anche dire che, oltre a non avere una particolare simpatia per Gramsci, non ho alcuna simpatia per i termini “vecchio” e “nuovo”… ma la metafora è comunque utile per definire lo scenario presente.

Entrando nel dettaglio, che cosa contraddistingue il nostro presente, specialmente per chi, come noi, si è sempre riconosciuto come “militante di movimento”?

A questo proposito facciamo un passo indietro, e partiamo da questa nostra identificazione abituale, in modo tale da meglio comprendere dove stia il succo politico della questione.

Ora, il termine “militante di movimento” è una cosa che potete sentire solo in Italia. Il termine “movimento”, fuori dall’Italia, non significa nulla di quello che noi intendiamo. Quando qui si diceva “militante di movimento”, si intendeva una cosa precisa, ovvero il militante esterno ai partiti che si impegnava, in modo organizzato, per trasformare l’esistente; mentre all’estero e specialmente nel mondo anglosassone – il terrificante mondo anglosassone, da cui proviene tutto il male possibile – il “movimento” sono i social movements, le mobilitazioni sociali. Infatti, a partire dagli anni Ottanta, ci fu chi iniziò a teorizzare che la forma dominante delle mobilitazioni sarebbe stata quella dei movimenti single issue, ovvero imperniati su un singolo tema: banalmente, si minaccia l’apertura di una discarica vicino a casa mia o una centrale nucleare e si raccoglie intorno a questo tema una cerchia di attivisti. Insomma, movimenti legati a una causa specifica e il cui ciclo di vita è legato ad essa. Si vince o si perde, e poi tutti ritornano a fare quello che facevano prima.

Invece qui il “movimento” indica un’anomalia italiana. Nel dibattito ufficiale della sinistra degli anni Novanta si insisteva nel dire che l’anomalia italiana era incarnata da Silvio Berlusconi. Soltanto dopo ci si è resi pienamente conto che la vera anomalia è quanto successo negli anni Sessanta e Settanta (di cui voi avete parlato nello scorso incontro). L’eccezionalità stava tutta dentro un processo di lotta di classe assolutamente unico sul piano internazionale. Capiamoci, in quei decenni non sono sorti processi di lotta solamente in Italia; ma l’Italia è stata caratterizzata dalla lunghezza straordinaria di questi cicli di conflitto, iniziati nei primi anni Sessanta con le lotte operaie, proseguiti nel ’68-’69 dall’alleanza tra operai e studenti, e continuati negli anni Settanta con l’emergere di nuove figure del conflitto, tra cui l’“operaio sociale” (indipendentemente che questa categoria abbia tenuto alla prova dei fatti o meno).

Ecco, questi due decenni di conflitti incredibilmente intensi nel sociale, capaci di mettere realmente in discussione i rapporti di potere sul piano sia politico che produttivo, sono stati condotti non solo al di fuori delle strutture dei partiti esistenti e segnatamente del Partito Comunista, ma contro il Partito Comunista. E questo, badate bene, non in una forma anarchica o anarchicheggiante, bensì organizzata e contrapposta all’incancrenimento degli organi ufficiali del mondo operaio. Anche all’estero questa anomalia italiana è difficile da far comprendere, tant’è vero che la declinazione dell’Autonomia in giro per il mondo è soprattutto in chiave libertaria (sono in parecchi a definirsi anarchici ma guardano con interesse o persino come modello all’Autonomia). E così, proprio la forza e la durata del movimento in Italia ha fatto sì che per decenni dire “sono un militante di movimento” significasse qualcosa di specifico.

Ebbene, oggi il vecchio che fatica a morire è esattamente questo. Cioè assistiamo prima al disfarsi di un qualcosa che non è più produttivo, che non crea più senso comune né immaginario collettivo, ovvero “il movimento”; e poi l’esaurirsi di quello che sono stati i centri sociali. Infatti, se da un lato la forma partito, per come è stata intesa tradizionalmente nel corso del Novecento, sotto molti aspetti era già declinata e morta – anzi, l’operaismo prende le mosse proprio da una critica della forma partito – a questa critica non è seguita una pars construens all’altezza della situazione. Ci sono stati vari tentativi, ma rimane il buco nero delle nuove forme di organizzazione appropriate alla composizione di classe e alle sue trasformazioni.

Che cosa succede negli anni Ottanta? Come ricordavano i compagni in apertura, sono anni a dire il vero poco entusiasmanti, segnati dallo stigma della controrivoluzione capitalistica, su cui ritornerò più oltre; sono gli anni dello yuppismo e della “Milano da bere”; ma anche gli anni seguenti, concedetemi il termine, alla repressione. (Per inciso, “repressione” è un termine che non mi piace usare. Non perché non esista: la repressione è connaturata e non possiamo aspettarci che il nemico sia buono; ma perché non credo mai che dei movimenti possano essere sconfitti solo sul terreno della repressione. Se un movimento perde quando arriva la repressione è perché c’erano dei limiti precedenti non risolti, e non è un problema di razionalità di gestione, ma di rapporti di forza: se uno ha la forza vince, se non ce l’ha perde. E la repressione ha successo quando i rapporti di forza sono in mano al nemico).

Ma torniamo a noi. Parlare degli anni Ottanta significa anche parlare della sconfitta dei decenni precedenti e della sua costellazione di cause (che non analizzerò perché ne avete già parlato). Certo, se mi permettete una provocazione, devo dire che non è sempre facile farlo con chi è uscito dall’esperienza dei Settanta. Si tende sempre ad esaltare quei momenti altissimi, come è ovvio; ma viene comunque da chiedersi: “Ma scusate, se gli altri hanno vinto, ci sarà un motivo?” Come uno che va allo stadio e dice: “Abbiamo giocato benissimo, partita pazzesca…”, “Sì ma a quanto è finita?” “Tre a zero per gli altri”.

Certo, le sconfitte non sono tutte uguali. La sconfitta degli anni Settanta ha lasciato tante cose e noi tutti abbiamo vissuto con una straordinaria eredità consegnataci da quella fase. Però, indubbiamente, gli anni Ottanta sono anni di scomposizione di quanto era stato costruito prima; anni di dispersione, di ritorno al privato, di eroina, di individualismo sfrenato, di paninari… tutte cose che già sappiamo. Ma sono stati anni anche più complessi di così, sebbene finora ci si sia interrogati poco. Proprio per questo, qualche settimana fa abbiamo organizzato un festival insieme alla rivista «Machina» per costruire una “cartografia dei decenni smarriti”, su questi periodi sui quali sappiamo ancora poco all’infuori dei soliti discorsi sul tatcherismo e il reaganismo. Ci sono state anche diverse lotte e numerosi sviluppi nei nostri strumenti, ma ancora dobbiamo esplorarli a dovere per capire dove siamo oggi.

Ritorno ora a un argomento che avevo solo accennato, perché a mio modo di vedere è cruciale per inquadrare bene il tema. “Controrivoluzione capitalistica” non significa “reazione”. Per fare un esempio, reazionario è il Congresso di Vienna, cioè l’utopia passatista (peraltro, fallita) di riportare le lancette dell’orologio a prima del 14 luglio 1789. Allo stesso modo, gli anni Ottanta non sono stati il tentativo di ritornare alla fase precedente al ciclo degli anni Sessanta, restaurando, che so, l’autoritarismo nell’università humboldtiana o il dispotismo di Vittorio Valletta nella produzione.

La questione è molto diversa: con “controrivoluzione” intendiamo una “rivoluzione al contrario”. Significa, cioè, che il capitale ha messo a valore i processi rivoluzionari. Del resto, il capitale funziona precisamente in questi termini. Già Marx, nella Miseria della filosofia, sosteneva che la più grande risorsa produttiva per il capitale è la classe operaia rivoluzionaria. Il capitale si innova, si ristruttura e fa balzi in avanti se riesce a mettere a valore i processi di lotta e conflitto. E precisamente così negli anni Ottanta vediamo il capitale assorbire, inglobare, quella ricchezza soggettiva scatenata nelle lotte degli anni Settanta, rovesciandola di segno.

Pensate, per esempio, alla questione della precarietà e della flessibilità. C’è un libro di due francesi, Boltanski e Chiappello, che analizzano la letteratura manageriale. Be’, fanno vedere che nella manualistica imprenditoriale degli anni Settanta e in quella degli anni Novanta la parola “flessibilità” ritorna in pari misura. Però nel primo caso è associata al terrore dei padroni per l’autonomia del lavoro vivo: è una flessibilità di parte, la flessibilità del rifiuto del lavoro, del sabotaggio, della fuga dalla fabbrica, del lavorare meno. Negli anni Novanta, invece, la stessa parola ritorna a segno invertito: una flessibilità imposta dallo sviluppo capitalistico che diventerà, come abbiamo poi visto, la ricetta salvifica per tutte le politiche del lavoro. Cos’è successo? Semplicemente, si sono rovesciati i rapporti di forza.

Oppure pensate anche al berlusconismo. Berlusconi rappresenta, volenti o nolenti, lo spirito libertario del ’77. Ovviamente in una chiave tutta rovesciata: non in chiave collettiva ma individuale, non di rottura dal capitalismo ma di suo rilancio, eccetera. Pensate anche al recupero della rivoluzione sessuale (da Ambra alle olgettine) o del ruolo della comunicazione: Canale 5 non è altro che la valorizzazione capitalistica di quella rottura del monopolio Rai sulla comunicazione avanzata dalle radio libere, non più giocata in una dinamica di movimento, ma semplicemente per arricchire. Controrivoluzione significa questo.

Cosa succede quindi in quegli anni alle nostre latitudini? Ci sono tentativi di “resistenza”, dove le realtà organizzate hanno tenuto (per esempio in Veneto), e hanno tentato di creare nuove forme di coordinamento: per esempio il Coordinamento antinucleare antiimperialista, che fu protagonista di battaglie accesissime che hanno ottenuto grossi risultati – anche se è un po’ enfatico sostenere che la vittoria sul nucleare venisse dall’ala più radicale e tutto sommato minoritaria.

Tuttavia, sono stati rilanci sempre inseriti in un’ottica di resistenza e in un piano di continuità e rispetto agli anni Settanta. In parole povere, trovavamo un ceto militante e gli immediati eredi dei gruppi in disfacimento che cercavano di rimanere in piedi in un terreno ostile. Era una resistenza che difficilmente si accompagnava alla comprensione delle nuove soggettività che stavano emergendo. Cosa voglio dire? Che per varie ragioni (la mia non è una polemica, un “bisognava fare” o un’accusa di incapacità: è solo un’analisi di un macroprocesso) questi gruppi militanti non erano in connessione con le trasformazioni delle soggettività sociali. Anche gli anni Settanta, attenzione, non erano stati portati avanti solo dai gruppi militanti, essendo questi, come è noto, in strettissima relazione a soggetti sociali concreti, come l’operaio massa e l’operaio sociale. Al contrario, negli anni Ottanta assistiamo a un tentativo di tenuta di gruppi militanti piuttosto sconnesso dalle trasformazioni sociali in corso, che furono intercettate molto meglio da altri soggetti politici.

Quali? La Lega, innanzitutto: nei territori del Nord-Est, è la Lega a capire la direzione della trasformazione e a capire come aggregare il piccolo o piccolissimo imprenditore o il lavoratore autonomo (che, tra l’altro, parte anch’esso dal rifiuto della fabbrica ma, non trovando più una dimensione collettiva di riferimento, piega in senso individualista). Anche il tema dell’indipendentismo non è soltanto un argomento retorico sventolato opportunisticamente, ma qualcosa di sentito davvero, che si incarna dentro un pezzo di composizione sociale importante: se aveste girato in quelle zone in quel periodo, avreste trovato cose che ricordavano i Paesi Baschi, con un radicamento reale ed effettivo, testimoniato dai muri tappezzati di slogan. Insomma, a Lega rimane l’ultimo partito del Novecento con una propria struttura militante. E questo, lo ripeto, grazie alla capacità indubbia di cogliere le trasformazioni della composizione sociale, declinate e giocate in un senso chiaramente interclassista e dunque non in una prospettiva rivoluzionaria.

Il primo scarto, finalmente, viene dato dal movimento della Pantera. Tra la fine del 1989 e l’inizio del 1990, iniziano a essere occupate le facoltà. La prima occupazione è a Palermo, ma subito la mobilitazione dilaga in tutta Italia, arrivando a costituire il primo grosso movimento studentesco dopo il Settantasette e a segnare una generazione intera. Il motivo scatenante è una riforma, firmata dall’allora ministro Ruberti, con cui si introducevano processi di privatizzazione, di costituzione di scuole di serie A e serie B e via di questo passo; ma non è questo il nocciolo della questione. O meglio, sarebbe interessante rianalizzare oggi la riforma Ruberti ed entrare più nel merito della Pantera; ci basti dire, per adesso, che in prima istanza la Pantera ha rappresentato l’emergere di un soggetto sociale (nella fattispecie, studentesco e universitario) che rivitalizza degli spazi fino ad allora confinati alla semplice e strenua resistenza, alla sopravvivenza.

Non è che prima della Pantera non esistessero i centri sociali o strutture simili; non ci sono dubbi però che il loro grande balzo in avanti avviene in quella congiuntura, a Roma e non soltanto. Dopo la Pantera, per quattro-cinque anni nascono centri sociali occupati ovunque, e di pari passo inizia a crearsi un discorso sugli spazi autogestiti estremamente diffuso in una minoranza giovanile. Una minoranza, certo, ma una minoranza comunque piuttosto consistente, e soprattutto carica di ambivalenze.  Infatti, non bisogna pensare che i centri sociali abbiano in sé una connotazione politica esplicita. I centri sociali, per alcuni anni, sono effettivamente “sociali”: sono degli spazi di aggregazione giovanile, punto. Per esempio, io vengo da un paesino in provincia di Torino di 16 mila abitanti e all’inizio degli anni Novanta c’era un collettivo per l’occupazione degli spazi composto di 40-50 ragazzi; però non erano 40-50 “compagni” o “militanti”: erano più semplicemente dei ragazzi che volevano degli spazi di aggregazione laddove mancavano.

È un periodo, l’ultimo direi, di produzione controculturale orbitante intorno al vecchio movimento: è il momento tanto delle Posse, quanto di alcuni gruppi che di lì a poco andranno a suonare a Sanremo. È un punto su cui vale la pena soffermarsi, a patto di non intenderlo in senso moralistico, come dei “traditori che hanno tradito”, ma sforzandoci piuttosto di notare il cambiamento di certi processi. Voglio dire, con il senno di poi è diventato chiaro che i centri sociali sbocciano in una fase di non ancora dispiegata sussunzione capitalistica di quegli stessi spazi che, nel giro di pochi anni, verranno completamente sussunti. Faccio qualche esempio concreto per fare capire di cosa sto parlando.

Il momento apicale dei centri sociali è la manifestazione del 10 settembre 1994, e il simbolo di quel periodo è il Leoncavallo di Milano. Forse solo un simbolo, perché dal punto di vista della produzione di discorso il Leoncavallo non è mai stato grande cosa. Semmai è più interessante evidenziare che parliamo di Milano: il più grande centro sociale di allora è collocato appunto in una città con una storia politica lunga, che lo ricollega direttamente a Fausto e Iaio (ricordati anche da Ignazio La Russa quando si è insediato al Senato, in un bel discorso in cui si è rivendicato tutto; chi dice che è stato strumentale non capirà mai cosa significa riconoscere il nemico e con esso un intero ambiente militante da cui proviene). Ma Milano è anche la città dei nuovi processi capitalistici, di quella controrivoluzione legata alla comunicazione e ai linguaggi su cui si regge la nuova industrializzazione. Milano, in sintesi, era la città di Berlusconi, e il Leoncavallo non poteva nascere altrove.

Dicevo, il Leoncavallo diventa il simbolo di questa fase in due grandi episodi. Il primo è l’agosto del 1989, in cui c’è un tentativo di sgombero e i compagni decidono di resistere sul tetto tirando mattonate in testa ai poliziotti. Le immagini vanno su tutti i giornali e improvvisamente esplodono i centri sociali. Da quel momento in poi, dire “sono un militante del centro sociale X” ha significato qualcosa di preciso e chiunque ti capiva. Era un linguaggio certo di una minoranza, ma una minoranza che comunicava con il contesto sociale.

L’altra grande vicenda è il 10 settembre 1994. Nei mesi precedenti viene sgomberato il Leoncavallo dalla seconda sede in Via Salomone, e così prima dell’estate si convoca una manifestazione per quella data, facendo capire a chi di dovere che quel giorno sarebbe successo il casino. Tutte le principali realtà si attivano, portando 15 mila persone da tutta Italia. Nel frattempo il centro sociale viene rioccupato in Via Watteau (dove è tuttora), ma il grosso avviene dopo. Durante la giornata del 10, infatti, una volta che si è arrivati in piazza Cavour di fronte al blocco della polizia dove il corteo sarebbe dovuto finire, il servizio d’ordine (per la prima volta dopo gli anni Settanta) carica il cordone dei poliziotti. Va detto, il cordone della polizia era francamente disorganizzato, gestito da un prefetto appena nominato e capace di errori imbecilli. Per dare un’idea, questi avevano lasciato aperto un pezzo di piazza Cavour in cui c’era una montagna di sanpietrini per dei lavori in corso. E quei sanpietrini furono prontamente recuperati a nuovo uso. Parte un macello, con i poliziotti che scappano, i compagni che tornano con gli scudi e i distintivi rubati, scene proprio imbarazzanti… Per quanto riguarda l’occupazione, ci fu una sorta di trattativa con i Cabassi (i proprietari degli spazi) che concluderà con un accordo e una concessione, tant’è vero che a distanza di trent’anni è ancora lì.

Però mi ricordo che un paio di anni dopo, credo nel 1996, apre a Milano un locale, il Tunnel, in cui si inizia a fare la stessa musica che veniva fatta al Leoncavallo. E poco alla volta gli stessi gruppi e le Posse che suonavano nei centri sociali iniziano a suonare nei locali commerciali, fino ad arrivare a Sanremo. E così il Leoncavallo si svuota: dopotutto, se la tessera del locale mi costa diecimila lire e un singolo concerto al Leoncavallo me ne costa settemila, vado al Tunnel e ci risparmio perché posso vederne quanti me ne pare.

Con questo cosa intendo dire? Che ho l’impressione che i centri sociali si siano alimentati agendo soprattutto, in quel momento lì, di non ancora completa sussunzione di alcuni fenomeni culturali. Per quanto stretto, questo margine di spazio ha permesso l’attivazione di una fetta di popolazione che altrimenti il mondo militante, forse, non sarebbe riuscito a cogliere.

In estrema sintesi, a una minoranza giovanile (ma una minoranza, ripeto, corposa) che esprimeva dei bisogni di socialità e di espressione che non trovavano riscontri, si è combinata per alcuni anni una soggettività militante che o veniva direttamente dagli anni Settanta (pochi) o si era formata nella controrivoluzione capitalistica degli anni Ottanta (ma, come vedremo, facendo sempre riferimento a quello che era successo prima). Ecco, è stata questa combinazione tra soggettività politica e soggettività sociale a condurre a quella nuova forma organizzativa, il cui ciclo di vita effettivo, secondo me, si colloca tra il 1989-1990 e la metà degli anni Novanta. Cerchiamo quindi di approfondire un poco.

Questa soggettività formata alla fine degli anni Ottanta, cioè la mia generazione, che tipo di soggettività politica descrive? Io credo che sia una soggettività politica che cresce e si forma con un complesso: il complesso di chi è arrivato troppo tardi.

Immaginatevi di essere invitati a una festa. Sbagliate orario, arrivate quando è finita. Da una parte, ritrovate davanti chi è arrivato in punto e vi racconta che è stata una festa della madonna, ci si è divertiti un sacco e voi state lì a rosicare; e dall’altra chi vi dice: “Visto che ormai sei qua, pulisci”. Non ti sei divertito e ti tocca a te tirare su la monnezza. Ecco, la soggettività che si è formata in quel frangente viveva una condizione molto simile.

Ovviamente estremizzo. Tenete poi conto che in questa panoramica generica che sto facendo si potrebbe entrare nel merito specifico delle divisioni tra gruppi, chi ha fatto una cosa e chi un’altra; ma resta vero che le differenze nella geografia politica degli anni Ottanta e Novanta (e successiva) è perlopiù ricalcata sugli anni Settanta. Persino gli scazzi e le tensioni sono ereditati da (e riferiti a) quello che era avvenuto nei dieci anni precedenti. Ecco, di tutto questo non mi interessa parlare qui, perché penso piuttosto che sia più utile analizzare il quadro generale. A partire dal fatto che questa soggettività di cui parlo è una soggettività con il torcicollo, che guarda più alle sue spalle che non davanti a sé.

Proprio per questo complesso del ritardatario, ci si sforzava di imitare e di riprodurre negli immaginari e nelle identità quello che era già successo. Con dei risultati, ammettiamolo, non esaltanti: perché il vero fenomeno che si produceva era l’altra metà della composizione. Voglio dire, in riferimento ai centri sociali la vera novità non stava nella sopravvivenza e nella tenuta del quadro militante (in cui mi ci metto), ma l’altro ingrediente, la composizione giovanile. Una composizione appunto molto ambigua, perché non appena ha la possibilità di andare al Tunnel e a Sanremo, va al Tunnel e a Sanremo; ma le composizioni sono ambigue per natura. Non sono già indirizzate, possono andare in tutte le direzioni.

Il principale errore, quindi, del corpo militante mi pare sia quello di aver perlopiù (e ci sarà chi l’ha fatto di più e chi l’ha fatto di meno, ma non mi interessa) cercato di appiccicare a questa composizione delle parole d’ordine, delle pratiche e degli immaginari che non le appartenevano. Alla fin dei conti, gli anni Novanta sono questo. È una storia in cui le simbologie non appartengono più ai vissuti, con degli effetti talvolta grotteschi. Si ereditavano degli scazzi di cui non sapevi spiegare concretamente il perché: per capirci, tutta la vicenda della dissociazione ha segnato questa generazione in profondità, ma appunto ha segnato chi personalmente non c’era. Il ragionamento era tutto fideistico. Poco alla volta, questo processo ha portato a un’afasia verso il presente e alle trasformazioni della composizione di allora.

Non a caso, quando tra la fine del ’99 e Genova viene fuori il movimento No Global, i centri sociali (ormai intesi come mera rappresentanza militante) non sono in grado di accorgersi che la fase è già cambiata. Il movimento No Global segna già una situazione differente sul piano delle soggettività che emergono; e ancor più sarà così durante l’Onda, tra il 2008 e il 2010. Durante l’Onda infatti si attivano delle realtà organizzate (come la rete Uniriot) che riescono a dare un indirizzo di pratica nelle varie città in cui sono presenti; al contempo però rimangono, rispetto a quella composizione, ampie dosi di incomprensione.

Per esempio, in quel frangente emerge una composizione che inizia a parlare i lessici della meritocrazia. Parole per noi orribili e che avremmo saputo spiegare perché sono tali; il problema è che non abbiamo saputo dimostrare la capacità di cogliere l’ambivalenza di quei lessici. Detta brutalmente, perché quella gente che parla in termini di meritocrazia poi è disponibile a scontrarsi nelle piazze con la polizia? Perché comunque quelle persone cercano un riconoscimento, ma non sono per l’ordine costituito, e così si aprono delle contraddizioni potenzialmente fertili. Dico appunto, “potenzialmente”: per esempio, credo che la composizione dell’Onda sia, concretamente o quantomeno in termini di discorso, la composizione da cui negli anni successivi nascerà il Movimento 5 Stelle, con tutte le sue ambivalenze insite in quello strato di lavoro cognitivo che non vedeva un rispecchiamento tra il titolo di studio e la posizione occupata nel mercato del lavoro. Durante il movimento dell’Onda quella contraddizione lì ha avuto una piega conflittuale; negli anni successivi, in assenza di quella piega conflittuale, si è fatta largo la richiesta alla magistratura di risolvere la contraddizione (magari ridotta a una faccenda di corruzione da eliminare), e da lì alla delega.

Ora, per non farla lunga e per aprire alla discussione, in che fase siamo? Siamo nella fase detta prima dai compagni di Modena, cioè in una fase in cui dire “il centrosocialismo è finito” è ancora poco. Il centrosocialismo, ripeto, finisce alla fine degli anni Novanta come fenomeno di un certo tipo e prosegue come autoriproduzione di un ceto militante. Ci mancherebbe, non sto dicendo che chi ha un centro sociale sia una carogna, o che so: i soldi per fare politica servono, e li si può trovare anche così. Non è quello il problema.

Il nocciolo è la fine del centro sociale come possibile spazio di aggregazione e di socialità tesa a produrre una soggettività politica nuova, funzione che permane in quella manciata di anni di cui abbiamo parlato prima, e poi termina. Dopodiché rimangono dei locali (marginali, ghettizzati, eccetera) o degli spazi in cui si fanno un po’ di soldi vendendo birre, ma da cui non passa più un’aggregazione di socialità potenzialmente antagonista (o anche solo alternativa). Questo è quello che avviene, secondo me, negli anni successivi.

Inoltre, ho l’impressione che questo non valga solo dal punto di vista politico, ma anche per l’aggregazione sociale tout court, come le scene musicali e le forme di espressione artistiche. Dopo le Posse, c’è qualche altro fenomeno che sia stato effettivamente espressione di una soggettività sociale e non già immediatamente mercificato, che non nasca già da subito in una logica commerciale? Temo di no, e credo che quello sia stato l’ultimo fenomeno controculturale, se vogliamo metterla in questi termini. Ma lo chiedo a voi, che le controculture le frequentate da vicino.

Penso, per esempio, alle curve. Mi pare che sia è avvenuta una trasformazione profonda, ma anche in questo caso non credo che possa essere addebitato soltanto alla repressione. È cambiato il ruolo che quelle forme di produzione simbolica e identitaria ricoprono. Quando l’anno scorso si vedevano gli ultras del Milan fare da servizio d’ordine della società, vediamo che ormai quel fenomeno (pur sempre ambiguo e contradditorio) aveva già cambiato funzione. Oppure pensiamo alla vicenda dello Juventus Stadium, di cui invece sono io il frequentatore: è mutato qualcosa a livello profondo, che non dipende solo dalle diffide (che restano cose durissime e preoccupanti, sia chiaro). Nel momento in cui la Juve decide di fare uno stadio all’avanguardia, sul modello americanizzante (che è una tendenza reale, che non riguarda solo alcune società e non altre, e che anzi detterà una linea che verrà seguita), eh be’, allora gli ultras non sono più utili. Anzi, diventano una rottura di palle. Per cui invece del Milan che fa un accordo per assoldarli come buttafuori, nel 2018 la Juve decide di disfarsene e li fa processare per associazione a delinquere, sciogliendo dall’alto la tifoseria organizzata. Questo perché, agli occhi degli industriali dello sport, non sono più utili dentro il modello imprenditoriale ed economico della società. E come hanno reagito gli ultras? Dicendo “ora facciamo lo sciopero del tifo”, appiattendola a una battaglia privata tra un gruppo e la società, cioè tra un’impresa e un gruppo che non è più in relazione con quella composizione sociale che va oggi in curva e che piuttosto preferisce la “macchinizzazion”e dei cori dettati su un cartellone luminoso.

Ora, a proposito di tutti questi contesti che ho nominato, ci tengo a sottolineare una cosa: non possiamo comportarci come dei 5 Stelle qualsiasi, che leggono questi fenomeni solo come una faccenda di corruzione individuale. Non perché di corrotti e venduti non ce ne siano (eccome), ma perché sarebbe riduttivo pensare che derivino da colpe individuali i processi che abbiamo analizzato. Ci allontaneremmo da una comprensione dei nostri limiti, ma anche delle nostre ricchezze: perché ripercorrendo queste nostre esperienze non troviamo solo delle tremende sconfitte e motivi per fustigarci – quanto piuttosto tante intuizioni di cui far tesoro e ripensare nel presente da un lato, e dall’altro cose semplicemente da superare. E per coglierlo, dobbiamo capire che ciò di cui dobbiamo parlare è tutta la nostra storia.

La capacità di costruire una tradizione antagonista viene solo dall’intelligenza di assumere l’intero bagaglio di esperienze. È troppo comodo fare come quelli che fanno gli snob, che dicono, che ne so, “mi piace la Comune di Parigi”, “mi piace l’Ottobre del ’17 ma solo nella notte della presa del Palazzo d’Inverno” e gli piacciono altre robe sparse che selezionano secondo un indice di purezza. No, la capacità di costruire e raccontare una propria storia, una storia concreta, di parte e ricca di insegnamenti, viene soltanto dal coraggio di assumerla tutta in blocco. Per fare tesoro del passato bisogna rivendicare la grandezza e analizzare la tragedia come la nostra tragedia. Separare i buoni dai cattivi non solo è troppo comodo, ma è inutile: un’intensa storia di classe diventa una barzelletta alla Walt Disney.

Per questo, nonostante di venduti ce ne furono, ce ne sono e ce ne saranno, non mi interessa stare lì a indicarli, perché non sono certo loro ad aver creato la situazione in cui ci troviamo. Lo ripeto perché alcune analisi mi sembrano andare a volte in quella direzione. C’è chi condivide le vostre e le nostre premesse, riconoscendo che i centri sociali sono finiti, ma poi aggiunge che il problema sono solo alcune personalità specifiche e che, se nascesse “l’autentico centro sociale” allora le cose cambierebbero. Ma quando mai! Sono come quelli che parlano del “socialismo reale”. Io non ho mai capito il termine “reale” di fianco a “socialismo”. Boh, è forse esistito un socialismo “irreale”? Il socialismo è quella cosa lì, ha una storia precisa e se uno continua a definirsi in una certa maniera, continua a restare dentro a quella storia, non ce n’è un’altra. O rompi (come Lenin nel 1917, che riconosce di non potersi più definire socialista e allora basta, inaugura una storia nuova), o fai i conti con tutto quello che è stato.

Lo stesso vale per le esperienze più vicine a noi: se continuiamo sulla linea del centrosocialismo non credo che riusciremmo mai, da una presunta nostra immacolatezza, a raggiungere un’autenticità che sfugge alla possibilità della corruzione altrui. Quindi assumiamo e facciamo nostri gli errori passati per comprenderli a fondo, ma mai avere paura delle discontinuità.

E infatti, se guardo retrospettivamente alla mia formazione e a quella della mia generazione, devo dire che il nostro principale limite è stato quello di temere la discontinuità come il peccato. È comodo dirlo adesso, ma il punto non è, lo ripeto, distribuire le colpe: il punto è comprendere cosa possiamo imparare. Agire la discontinuità, assumendo tutta una storia collettiva, diventa un meccanismo attivo e non passivo; se, invece, è la discontinuità che agisce te, ti ritrovi spiazzato, immobile. Ciò vale anche per la fine dei cicli: va sempre anticipata, non bisogna mai arrivare al punto in cui è la fase a sopravanzarti. Bisogna sapere cambiare quando non si è già iniziato a scendere, perché altrimenti è troppo tardi. Figuriamoci cambiare quando si è perso in modo conclamato.

Agire la discontinuità significa questo, comprendere la tendenza e deviarla cambiando le proprie tattiche, senza temere che questo significhi perdere un’identità. Perché (o almeno spero) la nostra identità non dipende da dei simboli eterni.

I simboli, gli immaginari, le parole, le canzoni, le pratiche, lo stile degli abiti vengono inventati e reinventati da ogni generazione. Sarebbe ridicolo riprodurre della roba vecchia e stravecchia. Voglio dire, se oggi scendessimo in piazza vestiti da Guardie rosse saremmo indecenti, saremmo… [qualcuno nel pubblico: “saremmo trotskisti”] Esatto! [risate] E questo però, lo capite bene, non significa “rinnego le Guardie rosse”, ma semplicemente riconoscere che sono cambiate le condizioni per cui quelle cose trovavano una loro comunicabilità rispetto alla potenziale composizione di riferimento. Certo, anche io mi diverto a sparare sul vecchio che fatica a morire, ma dopo un po’ tendo ad annoiarmi. Perché sì, ha sempre ragione il presidente Mao quando diceva di bastonare il cane che affoga, però a questo punto possiamo anche passare oltre. Dunque, una volta che quel vecchio lo diamo per morto, stiamo attenti a non infierire e a non continuare a pizzicarlo. Evitiamo, per rimanere nella metafora, di diventare necrofili. Dopotutto, che senso politico avrebbe? In una serata davanti a una bottiglia di vino uno ride e scherza, va sempre bene, ci mancherebbe; ma non deve distrarci dal capire quale possa essere il nuovo che può nascere.

A ben vedere infatti, questa fase è importante e delicata. Tra l’essere militanti negli anni Settanta e esserlo oggi, ma non c’è paragone: è molto più importante esserlo oggi. Per certi versi, essere militanti negli anni Settanta era l’equivalente, che so, di cantare la trap oggi. Nel senso che quando tutti fanno una cosa, se ti vuoi sentire cool la fai anche tu, e allora scendi a manifestare (estremizzo, ovviamente). Il punto è capire cosa significhi fare politica quando si è assoluta minoranza, perché è allora che diventa tanto difficile quanto importante. Altrimenti si rischia o il torcicollo, come dicevo prima, o di proiettare le proprie voglie di liberazione e di rivoluzione, di lotta e di conflitto su posti lontani e sperduti: che so, il Rojava.

Ve lo devo dire proprio in tutta onestà. Tifare per il Rojava è come andare su YouPorn: uno sublima una dimensione di impotenza guardando quello che non riesce a fare. Ripeto, massimo rispetto per chi va a combattere per il Rojava… ma non sarebbe meglio combattere dove sei? Lungi da me voler mancare di rispetto a chi si arruola, anche perché c’è gente che muore; parlo piuttosto delle fascinazioni di chi sta a casa e sta fermo. Mi sembra un modo per non vedere quanto sia difficile far casino qui, sul posto di lavoro, per venire licenziati il giorno dopo. Era molto più semplice tirare una sassata a Milano nel 1977, che provare di costruire dei processi di organizzazione qui e ora.

Ma non disperiamoci nemmeno. Sapete no, all’inizio degli anni Novanta un neocon americano, Francis Fukuyama, pubblicò un libro, La fine della Storia, che ebbe un grosso successo editoriale fino a rimare come l’emblema di quegli anni. Cosa diceva Fukuyama? Che una volta crollati il muro di Berlino e l’Unione Sovietica, vince il capitalismo; soprattutto diceva che questa non è una vittoria reversibile, ma definitiva, con cui finisce la Storia. Con la vittoria del capitale, nessuno poteva più pensare che la Storia fosse mutabile. Ci può essere innovazione, ma non più rivoluzione.

Ecco, se noi continuassimo ad andare alla ricerca di movimenti in giro per la galassia, convinti che da noi tutto è diventato impossibile, non diremmo cose poi troppo diverse in sostanza. Perché mettiamoci il cuore in pace, i momenti di lotta sono sempre l’eccezione, sono sempre uno stato d’eccezione. La normalità è fatta di momenti come questo. Se guardiamo alla storia, partendo dagli albori del movimento operaio nell’Ottocento a oggi, vediamo subito che fasi come la Comune, l’Ottobre, i consigli, il Settantasette, sono delle eccezioni, e per giunta di breve durata, in un panorama simile al nostro. In cui il vecchio fatica a morire e il nuovo fatica a nascere.

A proposito, non so se avete visto il film Il giovane Karl Marx. È un po’ didascalico, ma non è pessimo. Ebbene, c’è una scena in cui Marx attacca ferocemente Weitling, un utopista che si appellava a un vecchio tipo di operaio ormai tramontato, vicino ancora all’artigiano ottocentesco, con discorsi mistici e appassionati che chiamavano centinaia e centinaia di persone ad applaudirlo. Insomma, una figura di importanza di primissimo piano. Ecco, a un certo punto Marx lo attacca come una furia. E allora la moglie, Engels e lo stesso Weitling rimangono a bocca aperta. Cosa gli saltava in mente a un signor nessuno di andare ad assalire uno che si trovava attorniato e adorato da uno stuolo di operai?

Marx lo attacca perché capisce che ci sono dei momenti in cui bisogna individuare delle tendenze e organizzarsi inserendosi su di esse, e non sforzarsi di rimettere insieme i cocci di una storia finita. Perché mettere insieme una marginalità qui e una marginalità là, ottieni solo una marginalità più grossa, ma poco altro. Noi dobbiamo dimostrare la capacità di uscire dal culto del marginale, dal “marginalesimo”. Puntiamo al cuore, al centro, perché solo da lì si innescano processi profondamente sovversivi.

E quindi, in queste fasi oscure, da dove ripartono i comunisti? In primo luogo, dalla produzione di discorso e di un nuovo orizzonte teorico-strategico. Niente teoria per la teoria e accademia per l’accademia. Questo lo diamo per scontato: una teoria per la pratica, che in essa si verifica. E in secondo luogo, si riparte dalla costruzione di luoghi di aggregazione di una soggettività potenzialmente antagonista. Come ce li re-immaginiamo, oggi, luoghi di aggregazione non per una soggettività già politicizzata, ma per una soggettività la cui politicità è implicita? La politicità va cercata dove ancora non si vede e non si esprime, perché se ci fermiamo a quelli che sono già politicizzati, troviamo sempre e solo dei cadaveri.

Dopotutto, la storia del movimento operaio altro non è che un continuo interrogarsi su queste domande, inventando volta per volta una risposta diversa, attendendola là dove nessun altro la ipotizzava.

[Continua…]

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V. Guizzardi, D. Tagliapietra – L’assalto al cielo. Militanza e organizzazione dell’Autonomia operaia – seconda parte

Pubblichiamo la seconda e ultima parte (qui la prima) dell’incontro con Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra – rispettivamente, negli anni Settanta, militanti autonomi di Rosso (a Bologna) e dei Collettivi politici veneti per il potere operaio (a Vicenza) – avvenuto a Modena il 13 maggio 2023. La discussione, davvero ricca, ha avuto il pregio di evitare il rischio dell’aneddotica fine a se stessa, riuscendo così a sottolineare qualche punto di metodo su cui forse conviene ragionare. Eccoli di seguito.

Radicamento

I militanti autonomi degli anni Settanta sono stati chiari nel restituire l’idea di radicamento nella composizione sociale. Un radicamento tale che porterebbe ad annullare (parzialmente ma in una misura importante) il confine tra militanti e soggetti sociali. È come se dicessero: “Ho potuto organizzare il rifiuto del lavoro diffuso nella composizione sociale perché io stesso ero espressione di quella composizione e di quel rifiuto”. Posto che oggi non si esprimono forme diffuse e forti di rifiuto del lavoro, ancorché latenti (si veda il fenomeno “grandi dimissioni”), perché si stenta a cogliere, se c’è, quantomeno una qualche istanza della composizione a cui noi stessi apparteniamo? Cosa stiamo sbagliando? Forse che quel confine tra militanti e composizione è eccessivamente marcato? Nonostante la conoscenza teorica delle trasformazioni dei processi produttivi, nonostante gli sforzi per pensare le trasformazioni della soggettività, si fatica a trovare anche solo una piccola soluzione. Oppure la composizione è talmente frammentata, scomposta in microbolle autoreferenziali, da rendere impossibile un qualsiasi radicamento profondo?

Felicità

Questo radicamento, ci dicono Valerio e Donato, poggiava non solo su un diffuso rifiuto del lavoro salariato, ma pure su un’idea di felicità. Forse una questione da non sottovalutare. Quale può essere per noi oggi un’idea di felicità concreta, comprensibile a livello di massa, attorno a cui costruire delle forme organizzative? Questa istanza di felicità è molto diversa dalle istanze del bisogno (un esempio su tutti, la casa): anche all’epoca c’erano forme di soddisfacimento illegale dei bisogni, ma erano strumentali a quell’istanza di felicità e di rifiuto. Oggi il rapporto pare invertito.

Organizzazione

Obiettivo e prassi militante degli autonomi non è stata la ricerca di “oppressi”, ma di una soggettività capace di dare ricomposizione e progetto. Il tipo di militanza e il modello di organizzazione presero la forma di quel soggetto: quindi non ideologiche, non identitarie. L’operaio sociale, “concetto di lotta”, lo dovevi ricomporre territorialmente, la sua forza si riproduceva nel territorio e si riversava nella fabbrica (dalla ronda degli operai-massa nei reparti della fabbrica fordista alla ronda territoriale dell’operaio sociale nella fabbrica diffusa: ogni fabbrica un “reparto” della fabbrica sociale). I modelli organizzativi sono fatti per cambiare – ci dicono gli autonomi degli anni Settanta – vanno articolati su ciò che è efficace, si strutturano per catturare tutta la potenzialità del conflitto e tutta l’intelligenza collettiva espressa dalla composizione-territorio, per metterle in moto. Politica e forza – o ancora meglio, progetto politico e uso della forza – vanno articolate insieme. La politica senza la forza diventa riformismo, la forza senza politica, ribellismo adolescenziale.  

Ambivalenza

Un passaggio importante della discussione ha toccato l’ambivalenza di quella soggettività militante. Gli autonomi, osservano Valerio e Donato, erano per lo più giovani scolarizzati, istruiti, la maggior parte proveniente dagli Istituti Tecnici, formati come periti industriali, da mettere al lavoro come quadri intermedi del comando in fabbrica. In quel frangente di tempo, tale soggettività rifiuta il proprio destino assegnato: quei giovani non vogliono di certo essere operai come i propri genitori, ma neanche “i padroni”, coloro che li sfruttano. Rifiutano il loro destino di tecnici del processo produttivo, quadri di comando sulla forza-lavoro per il padrone, e questo rifiuto conduce la soggettività a essere un quadro politico contro il padrone, per il comando della classe operaia. Né operai né padroni: la “terza via” gli autonomi la trovano nel voler fare la rivoluzione comunista.  

Amicizia politica

In sala, durante la discussione, ha risuonato molto la questione dell’amicizia e della fratellanza degli autonomi. “Siamo amici prima di diventare militanti”: amici del paese, del quartiere, della scuola. E si rimane amici anche da militanti, anzi la militanza rafforza questa amicizia fino a farla diventare fratellanza. La lealtà, l’affetto, il “pararsi il culo” a vicenda, lo stare insieme sono parte della vita militante. Il senso da dare alla parola “compagno” si arricchisce e approfondisce. Per questo, dicono Valerio e Donato, fenomeni come il pentitismo e gli infami non hanno lacerato le loro organizzazioni come successo invece per altre esperienze politiche. “Come si fa a tradire un proprio fratello?”, si chiedono. “I nostri compagni”: chi ci sta spalla a spalla, affrontando insieme pericoli e gioia, disciplina e conquiste del progetto politico. Facciamo fatica a pensare una militanza fredda, dove ci si incontra solo per la riunione, l’assemblea, l’azione, l’iniziativa, e poi ognuno per la sua strada, come a marcare un cartellino – un’esperienza poverissima. Questo tipo di rapporto militante ha diversi vantaggi, ma anche molti limiti pratici. Come tenere insieme l’essere amici, fratelli e sorelle, con le necessità del funzionamento, dell’organizzazione, del progetto politico?

Sui limiti dell’esperienza dell’Autonomia

Infine occorrerebbe approfondire i limiti di quell’esperienza. A sottolineare come quel confine tra militanti e composizione sociale fosse sfumato, la parabola dell’Autonomia rispecchia le trasformazioni complessive a cui non si è riusciti a dare una risposta organizzativa. Quell’idea di felicità che alimentava le lotte è stata disastrosamente fagocitata dal mercato, l’ambivalenza del rifiuto del proprio destino (“né operai né padroni”) ha trovato esito, negli anni Ottanta, nella diffusione di forme di lavoro autonomo (con tutto il loro portato di autosfruttamento), e la politica si è individualizzata – cercando al massimo di essere dei buoni “padroncini”, di resistere individualmente alla soggettivazione che inevitabilmente quella forma di vita e di lavoro comportano. È da ragionare il nodo irrisolto sul non essere riusciti a chiudere il passaggio organizzativo sul “nazionale” prima dell'”appuntamento con la storia”, in questo caso indicato come il rapimento Moro. Radicamento, ricchezza e forza a livello territoriale dell’Autonomia non hanno retto allo scarto di fase politica e di termini dello scontro complessivi, di fatto dando come alternative ai compagni: chi voleva combattere, con o come le BR; chi non riesce a starci dentro, riflusso nel privato e nell’edonismo, o eroina e autodistruzione. Sta qui forse il buco nero degli anni Ottanta.

Buona lettura.

Eccoci qua.

Domanda

All’inizio avete dato questa definizione di militanza come «una corsa velocissima di una generazione verso la felicità» vissuta come una costruzione quotidiana, «lontana dalla costrizione a cui pensavano di sottometterci». Mi chiedo quindi: quanto era articolata la consapevolezza di cosa fosse quella costrizione? E come nasce la sensazione di essere destinati a un ruolo sociale prescritto proprio nel momento in cui finalmente ti sembra di poterti riappropriare della vita? Considerando questi aspetti della vita militante, l’uscita dalla famiglia (una famiglia che, non solo nel Veneto ma anche in Emilia ha un certo peso), ha in qualche modo inciso sulla messa in comune del rischio, sia politico che biografico?

Durante il vostro discorso, infatti, mi è tornato in mente una cosa che disse un compagno alcuni anni a un militante della vostra generazione: «Voi avete ucciso il padre» – l’Autonomia come i “figli di nessuno” – «ma a noi cosa serve uccidere il padre se il padre è depresso?» Il punto diventa capire che peso ha avuto lo scarto generazionale degli anni Ottanta: dopotutto, tanti di noi sono cresciuti solo come figli della crisi. Cambia dal territorio e nel tempo, ma l’università comunque riproduce forza lavoro e nel farlo tende a produrre una soggettività pronta ad accettare quello che c’è fuori; di modo che, alla fin della fiera, l’effetto smobilitante del “cavarsela da soli” rimane. E tuttavia mi pare che ci sia una differenza importante tra la composizione giovanile di oggi e la vostra: oggi mi sembra che, per molti giovani, ci sia l’impressione che comunque un’alternativa in qualche modo ce l’avrai. Così che non inizi da prima a mettere in discussione dove andrai, proprio perché pensi che comunque la svolti e te la risolvi.

La seconda differenza su cui bisognerebbe interrogarsi riguarda i territori in questione. C’è ancora un’etica del lavoro imposta su di essi, o c’è un’etica dell’io? Infatti, grazie alla vostra profonda conoscenza dei territori, eravate riusciti a problematizzare delle dinamiche che esploderanno successivamente con i distretti, in primo luogo la messa a valore dei saperi taciti; tuttavia, la rivoluzione digitale che è avvenuta in mezzo a voi e noi, ha portato a un cambiamento sia nella qualità del lavoro, sia nella soggettività. Motivo per cui noi siamo cresciuti da una parte con l’autoimprenditoria dei social, e dall’altra con la sfiga, la sconfitta di questa sinistra, che ha perso qualunque spinta verso il riscatto.

Tengo a sottolineare che questo punto si connette direttamente a quanto dicevo prima sulla condivisione del rischio. Avete infatti parlato di militanza complessiva (direi anche esistenziale), cioè un rigetto della scissione tra “adesso entro a lavoro”, “adesso sono all’università” e “adesso vado a fare militanza”. Se le cose stanno così, quanto pensate che sia stato rilevante e abbia ricoperto un peso il fatto che vi siate incontrati prima di entrare nella dimensione lavorativa, che nel 2023 è sempre più individualizzante e competitiva? Quanto pensate abbia influito sull’originalità della scommessa autonoma il vostro essere amici prima – amici contro, per dirla con la bella definizione di Tronti – e compagni poi? Mi pare di capire che si creasse un legame di fiducia nel quale il dubbio viene risolto insieme; nel quale ogni bivio che si presenta individualmente lo risolvi collettivamente; e allo stesso tempo l’individuo esiste, non essendo appunto una dimensione di bassa, dove siete “omologati” e scemi (che magari è quello che abbiamo conosciuto noi nelle organizzazioni politiche, con quell’identitarismo in cui viene a mancare un’interpretazione e un ragionamento personale per salvare l’etichetta).

Valerio

Per quanto riguarda quest’ultima domanda, direi ti sei risposta da sola! Io non avrei niente da aggiungere, tantomeno da insegnare. L’hai analizzata perfettamente. Ma ora, oltre alle analisi, servono soluzioni organizzative, che nessuno di noi ha, che concorrano nella direzione – e scopro l’acqua calda – del conflitto e della rottura rivoluzionaria. In parole povere: all’interno di un progetto di questo genere, come possiamo riprodurre i nostri comportamenti sovversivi? Le invenzioni da fare sono quelle ormai. La nostra generazione fece quello che abbiamo raccontato; oggi la situazione è diversa, ma hai capito perfettamente qual è la strada, e non è mica poco.

Domanda

Mi interessa chiedere a Donato un approfondimento sulla cifra organizzativa dell’Autonomia veneta. Abbiamo parlato dei Gruppi sociali e del rapporto diretto con il territorio, ma vorrei sapere più nel dettaglio come fosse strutturato. Mentre da Guizzo mi sarebbe piaciuto sentire qualcosa di più sul rapporto dell’Autonomia con il Pci. Sono tutte domande che partono dai problemi che abbiamo noi oggi, ovvero la sfida dell’organizzazione e la questione del nemico, di chi comanda, dove però questo veniva visto come “il partito della classe operaia”, “del popolo”, “della Resistenza”. In chiusura, farei una domanda a entrambi: nel vostro percorso militante avete avuto ispirazione o richiami ad altre esperienze estere? E infine, quali sono stati i limiti dell’Autonomia, che ne hanno fatto, come qualcuno sostiene, «una magnifica rivoluzione fallita»?

Domanda

Voi avete parlato delle vostre esperienze, ma volevo chiedervi qualche consiglio per la mia situazione. Vado ancora alle superiori, ho diciassette anni, ma vedo una generazione rassegnata. Magari qualcuno tra noi capisce che la scuola è lo specchio del lavoro, ma comunque si ripete che attivarsi è inutile e che “tanto non serve a niente”. A volte mi pare di vedere un mucchio di marionette. Vi chiedevo quindi qualche consiglio su come smuovere i nostri coetanei, che a volte sembrano non voler vedere il loro effettivo valore, il loro effettivo potenziale.

Donato

Be’, tu sei già la negazione di questa rassegnazione! Il fatto che tu sia qui a dircelo dimostra e testimonia che quel tipo di controllo non funziona. Dopodiché, consigli da noi non fartene dare, non ti conviene! [Risate in sala] Però ripeto, sei tu la contraddizione, sei tu a manifestarla anche “contro” i tuoi compagni di classe. E non pensare che sia così solo per il fatto che adesso sei alle superiori; sarà così fintanto che campi, perché appunto si tratta di rompere un destino già scritto. La scommessa è sempre questa, ora come ieri. Noi mica sapevamo cosa sarebbe successo, ma era chiaro che l’alternativa è la disciplina lavorista. Detto questo, parti da te in quanto incarnazione della contraddizione, cioè come coagulo di tensioni che si estendono anche su altre persone. Perché vedi, nonostante le sirene identitarie dell’attivismo, può anche essere fuorviante in negativo il fatto di sentirsi mosche bianche (o rosse), perché non è così. Sia perché ci sono forze e tensioni in te che riguardano anche “gli altri”; sia perché ci sono accelerazioni nella storia che non ti spieghi razionalmente. Magari tra sei mesi in classe da te il clima è cambiato completamente; ma per verificare che è cambiato, tu devi conservare quel tipo di soggettività che dimostri adesso, non so se mi spiego.

Domanda

Vorrei fare due puntualizzazioni e una domanda. Intanto, anche per dialogare con quello che diceva prima la compagna delle scuole, i periodi storici in cui non succede un cazzo sono molto più lunghi di quelli in cui succedono delle cose. Questo conviene sempre tenerlo a mente. Certo, i racconti di Valerio e di Donato ci fanno accapponare la pelle, ma non dobbiamo mai dimenticarci che prima degli anni Sessanta e Settanta ci sono stati gli anni Cinquanta [Valerio incalza: «E anche tutta la prima metà degli anni Sessanta è stata un disastro»], dove diciamo, l’opinione media dei militanti era “la classe operaia è completamente integrata”, “qua non succederà mai niente”, “coesione nazionalpopolare”, “è impossibile pensare alla rivoluzione in Occidente” e così via. Probabilmente il nostro periodo è più simile a questo che a ciò che ci hanno raccontato Guizzo e Donato. Eppure oggi vediamo sempre nuovi militanti, e le circostanze storiche in cui sono possibili le lotte di massa, gli strappi, le rotture possono sempre riproporsi. Quindi, secondo me quello che bisognerebbe trattenere dal loro racconto sono delle questioni di metodo, cioè l’approccio con cui un militante deve osservare il mondo.

La prima cosa è, come diceva Valerio, nasare, fiutare dove siano possibili i conflitti. Il militante interviene in quel punto, organizzandoli e intensificandoli. La seconda cosa da fare è porre di nuovo una domanda per me fondamentale, che rimane irrisolta: chi sono i soggetti di questo conflitto? Non lo sappiamo ancora. Loro ci hanno consegnato le figure dell’operaio massa, prima ancora dell’operaio professionale e poi dell’operaio sociale; poi, tra gli anni Novanta e Duemila si è scommesso sui lavoratori cognitivi e i precari, ma questi ultimi esperimenti non hanno portato a nulla (se non piccole fiammate, ed è già un parolone). Resta comunque una domanda intorno a cui dobbiamo ragionare. Se ci avete fatto caso, Donato e Guizzo ci hanno parlato a lungo di come fosse organizzata la produzione e a partire da questo si sforzavano di individuare lì dentro i possibili soggetti, soprattutto perché loro stessi erano parte, carne viva, di quella produzione. Credo che dei passi avanti, rispetto alla comprensione delle trasformazioni del lavoro, li dobbiamo ancora fare, e quindi si debba porre all’ordine del giorno l’approfondimento della ricerca in quella direzione. L’altra puntualizzazione di metodo, secondo me molto preziosa (che dal racconto di Donato non emergeva direttamente, ma dal libro sì), è la capacità mimetica delle organizzazioni rivoluzionarie. I gruppi organizzativi li avevate dentro le parrocchie…

“Vi siete organizzati in parrocchia”.

Donato

Non è propriamente così, ma è comunque quello il punto. Il nocciolo della questione è un apparente paradosso: il massimo di “radicalità notturna” avveniva dentro il massimo di esposizione pubblica. Sembra una contraddizione, e invece è un elemento fondamentale. Per alcuni anni, in uno dei territori più ricchi d’Italia, abbiamo imbastito un terreno di piena offensiva rivoluzionaria – per un periodo di tempo che va dal convegno di Bologna del settembre 1977 (ovviamente ci sono degli antecedenti, ma prendiamolo per riassumere) fino all’aprile del 1979 –, un’avanzata affrontata senza ricorrere a nessun tipo di mediazione ma piuttosto, come diceva Valerio, impegnandoci nella ricerca quotidiana del conflitto. Dentro questa offensiva trova cittadinanza anche l’uso della forza; ed è in questa spintadialettica che si rende quasi impossibile l’intervento repressivo.

Sembra strano, ma è andata così. Detto altrimenti: nessuno sapeva cosa avesse personalmente fatto Tizio e Caio, ma tutti sapevano che eravamo noi! Ma allora, perché arriviamo a Calogero? Certo, con il 7 aprile, ci sono state forzature giuridiche impressionanti, un’evidente modificazione dello Stato di diritto, e vere infamie procedurali; ma comunque, quali sono le ragioni intrinseche per cui la repressione in precedenza non ha funzionato? Perché dentro questa dialettica c’era sì la soggettività armata, ma c’era una composizione di classe sociale e politica che andava enormemente oltre. Quando noi praticavamo le ronde, parliamo di settanta-cento compagni che alle 4 del mattino andavano in fabbrica; ma dentro a questi cento, solo una parte era dei Collettivi, tutti gli altri erano soggettività che ti conquistavi nelle assemblee di fabbrica e nelle assemblee di territorio. Non erano strettamente militanti d’organizzazione, e neanche ci interessava che lo diventassero! Non siamo mai partiti dall’idea che l’obiettivo fosse bruciare una macchina in più, ma che questa dinamica di crescita interna alla composizione governasse tutti i passaggi del movimento. In quel momento funzionava, e la polizia è riuscita a intervenire nel vicentino solo dopo la tragedia di Thiene che costa la vita ad Antonietta, Angelo e Alberto. Solo dopo l’11 aprile la repressione si scatena come rappresaglia nel territorio con il ruolo principale svolto da Dalla Chiesa e la sua struttura armata che tra arresti, perquisizioni, intimidazioni eccetera, rimane nell’alto vicentino per più di un mese.

Quello che, a quarant’anni di distanza, mi sento di dire è che la nostra è stata un’esperienza irrisolta. Non è arrivata cioè a compimento, è stata troppo veloce e chiusa troppo brutalmente. Tuttavia avevamo indicato quali processi storici si stavano sviluppando – e infatti, detto tra parentesi, tutto quello che avverrà con la Lega Nord e il celebrato Nord-Est parte da qui. Il Pci non li aveva neanche mai ipotizzati, non ha mai capito cosa stesse succedendo. C’è una simultaneità che ha dell’incredibile: il primo convegno della Lega (allora si chiamava ancora Liga Veneta) a Recoaro Terme nel vicentino è del dicembre 1979, mentre il secondo convegno  si svolge a Padova nell’ottanta. Quindi dopo il 7 aprile il primo e dopo la direttissima il secondo.

Con il senno di poi si disegna con chiarezza uno scadenzario tra i processi repressivi e lo sviluppo del radicamento leghista. Ma perché? Perché entrambi avevamo colto il passaggio dalla fabbrica alla flessibilità – dove noi pensavamo di risolverla dal punto di vista di classe, e la Lega dal punto di vista individuale.

Qual è stato il limite intrinseco allora? Sicuramente ci sono state falle a livello progettuale su alcuni aspetti dell’uso della forza, ma, se andiamo a guardare a dinamiche più generali, vediamo che, per esempio, Radio Sherwood non ha mai chiuso un giorno. È vero, abbiamo fatto la galera –molto carcere preventivo – ma la si mette sempre in conto. Sarebbe più interessante ragionare sul fatto che, quando io e i miei siamo usciti dal carcere, c’era il Coordinamento antinucleare antimperialista già forte, e quella battaglia contro il nucleare e il Piano energetico nazionale, voluto sia dalla Dc che dal Pci, l’abbiamo vinta. Poi sì, era un altro mondo: ricordo bene che quando mi ritrovavo davanti i punk anarchici torinesi del collettivo Avaria non avevo idea di dove sbucassero fuori, e solo dopo capimmo che anche loro erano il risultato della crisi nella metropoli torinese. Non era più interpretabile con le chiavi di lettura nostre, perché figurati se dalla provincia veneta puoi capire cosa succede ristrutturando una fabbrica come la Fiat; ma nel suo nocciolo, l’autonomia era ancora un progetto in piedi, una scommessa aperta. Infine, tenete sempre presente una cosa: nei primi anni Ottanta, nelle galere dell’“area combattenti”, sono successi dei deliri inenarrabili! Per cui lo ripeto: l’Autonomia non è un gruppo, è un metodo di attraversamento della contraddizione.

Per quanto riguarda i modelli organizzativi, partiamo dal dire che tutti i modelli sono fatti per cambiare. Quello che funzionava, facevamo, e se serviva, veniva fatto. Ciò detto, è chiaro che la fase iniziale vicentina è diversissima da Padova o da Venezia Mestre, e già Venezia e Mestre differiscono tra loro: una arriva nel 1978, l’altra parte fin da subito nel 1976, per dire. Venezia è sicuramente quella che si mette in moto più tardi di tutti, non so perché; certo è che Mestre, con la storia dell’Assemblea autonoma e poi il ciclo del Petrolchimico, viveva una qualità di discussione diversa da Venezia (dove, tra l’altro, l’università non è che abbia prodotto chissà cosa).

In ogni caso, quello che si mette in moto è il protagonismo di questa composizione giovanile che, come dicevo prima, si sottrae alla condizione a cui era destinata. Riallacciandomi a quello che evidenziava la compagna prima, mi limito a dire che noi eravamo scolarizzati e dovevamo entrare nel ciclo produttivo, non alla catena, in una posizione intermedia di comando. All’epoca tiravano gli istituti tecnici, perché alla congiuntura serviva quello, e trovare gli operai non era certo un problema: quella formazione ne produceva una montagna di giovani che non studiavano, che abbandonavano, che venivano espulsi dal ciclo scolastico! Piuttosto, avevano bisogno di quadri intermedi. E così noi saremmo dovuti diventare i nuovi guardiani della produzione. Questo era il compito previsto per la nostra generazione settantasettina, e a questo ci siamo sottratti, dicendo chiaramente che “piuttosto che fare i capi o gli operai, vi combattiamo!” (banalizzo eh, ma neanche troppo).

Per quel che mi riguarda, l’accelerazione è successiva al convegno di Bologna. Allora io facevo già militanza, i Collettivi politici veneti erano attivi ormai da un anno e mezzo, seppur in una forma ancora molto contraddittoria nel vicentino; a Bologna però ci rendiamo conto che non ci siamo solo noi militanti, ma c’è una forte presenza di territorio. Per cui la prima cosa che facciamo appena torniamo a casa è redigere un documento e costruire un’assemblea di zona. Pur limitandoci a discorsi ancora approssimativi, era già evidente a tutti che la contraddizione fondamentale era la costrizione al lavoro. Ciò indirizzò la fase iniziale e, con una velocità sorprendente, nel giro di pochi mesi si innestò un piano inclinato che ha permesso, appunto, per due anni una totale offensiva politica.

I processi organizzativi sono stati inquadrati in questo contesto: ovvero, non erano progettati per il funzionamento interno, ma soprattutto per catturare tutta la disponibilità che un territorio esprime al conflitto. Per cui, con l’assemblea territoriale (che diventerà poi il Gruppo sociale) noi stabiliamo questa chiave di lettura: vogliamo ricomporre il più possibile, non ci interessa l’omogeneità analitica, quello che conta è conquistarci un ruolo di traino e direzione politicalì dentro, nella disponibilità del territorio alla rottura. Comprovata la sua efficacia, teniamo fermo il Gruppo sociale come struttura portante (che, per esempio a Thiene arriva nei momenti alti a ottanta-cento persone, in una città di 20 mila abitanti), e la prima cosa che abbiamo voluto impedire è che diventasse una struttura identitaria. In parole povere, non volevamo che diventasse l’ennesima struttura chiusa. Dunque chi militava nel Gruppo sociale immediatamente doveva intervenire: in fabbrica se era lavoratore, nel comitato d’agitazione se era a scuola, nei comitati sulla casa se abitava nei quartieri… ogni singolo compagno militante aveva un ambito di intervento. Ne consegue che il Gruppo sociale era la sommatoria di questa divisione dei contesti di attivazione, e la discussione che si apriva nel Gruppo sociale puntava a estrarre tutta la ricchezza determinata dal radicamento, riassunta dalle proposte fatte dai comitati (senza parlare poi della discussione degli strumenti d’intervento come la radio, i giornali e quant’altro).

Il Collettivo politico, invece, era composto dai compagni che, a nostro giudizio, erano più capaci di giungere a una sintesi unitaria di questi processi e governarli. Facendo l’esempio del contesto in cui ho militato io, il Collettivo politico di Thiene è arrivato, al suo apice, a diciotto compagni d’organizzazione, che erano poi gli stessi a fare le azioni armate.Dentro al collettivo si era poi ulteriormente strutturati, distinguendo un “Attivo” e un “Nucleo”. Le armi da fuoco non le abbiamo mai fatte usare all’Attivo. E questo per una scelta strategica: volevamo che ci fosse un percorso di crescita non forzato, non eravamo in competizione con nessuno e non avevamo bisogno di dimostrare niente; al contrario, il modello organizzativo messo in moto doveva garantire un’assunzione di responsabilità su di sé da parte del militante.  Ci tengo a sottolineare bene che questo elemento, per noi cruciale, della responsabilità individuale era calibrato, ancora una volta, dal contatto pregresso con il territorio. Insomma, proprio perché ci si frequenta da una vita si riusciva a sapere subito se tale dei tali è sì tuo amico, ma ha una costruzione mentale di un tipo o di un’altra, non so se ci siamo intesi… e adottando questo punto di vista non abbiamo mai sbagliato una volta. A dirigere poi i vari Collettivi politici territoriali c’era la Commissione politica provinciale mentre su base regionale funzionava l’Esecutivo.

Sul piano della battaglia politica interna al movimento rivoluzionario a Padova si è data una struttura – il Fronte comunista combattente, che eseguì anche alcuni ferimenti intenzionali – con un duplice intento. Da un lato, sosteneva le cosiddette campagne d’organizzazione (diventate poi note come “notti dei fuochi”), ma doveva anche essere presente nelle battaglie politiche sul piano nazionale. Quest’ultimo è un tema su cui non si è parlato oggi, ma vale la pena dire che non essere riusciti a chiudere il passaggio al nazionale è stato il vero limite dell’Autonomia. Un limite invalicabile, definitivo, che ha reso possibili anche le crisi successive. Considerate che questo tentativo parte ben prima del sequestro di Moro, è già dentro il convegno di Bologna, ne discutevano Rosso e i Volsci. Questo salto di livello non avverrà, per motivi che forse meriterebbero di essere indagati maggiormente. Ora, io non so dire se le cose sarebbero andate diversamente, o se questo si inseriva positivamente nell’emorragia dall’area autonoma verso i combattenti di cui parlava prima anche Valerio; però non escludo che se ci fossimo dotati di una strutturazione più definita anche nazionalmente, forse avremmo tenuto di più. In Veneto (così come nelle zone in cui c’era un’articolazione che funzionava) non si è mai posto questo problema; le Br sono arrivate nel 1980 poggiandosi sui nostri arresti, cose volgarissime con i primi morti a Mestre con noi in pieno processo… robe che anche da un punto di vista etico dici “ma vaffanculo”.

Passando invece a parlare della ronda, partiamo dal dire che storicamente è l’icona dell’Autonomia. È la manifestazione e l’esercizio più alto di contropotere, perché contiene tutto quello di cui abbiamo parlato: il radicamento territoriale, la capacità organizzativa, la conquista di intelligenze nuove, la battaglia politica con il sindacato, la rivolta contro il sistema dei partiti e infine contro il piano produttivo. La cosa realmente potente è stato riuscire a individuare nello straordinario non solo l’allungamento della giornata lavorativa (di per sé è banale), ma anche la contraddizione con cui scardinarla. Avevamo capito perfettamente che attraverso l’uso politico dello straordinario i padroni riprendevano il controllo sulla produzione e sul conflitto in fabbrica, noi invece pensavamo che rompendo sulla giornata lavorativa avremmo costruito contropotere. Guardate che quello che sarà uno dei luoghi più ricchi del pianeta, non c’era una fabbrica che facesse lo straordinario, o il sabato! Naturalmente, accanto a noi c’era anche quello che faceva la controparte: pensate alle politiche dei sindacati o alla stagione dei contratti del 1979. Proprio perciò nelle fabbriche scatta una lotta durissima, ed è in questa dinamica che la ronda testimonia tutta la sua centralità. Per porla in altri termini, ritorno al punto sul 7 aprile che avevamo introdotto poco fa perché è indicativo di questa dialettica: quando il Pci e il sindacato non sono più in grado di governare l’insubordinazione perché vinciamo su tutto, si apre il 7 aprile.

Le ronde padane prima delle ronde padane. Autonomia vicentina.

Valerio

Sui limiti e sulla diagnosi del fallimento, la penso esattamente come Donato. Passo quindi agli altri temi emersi dalle domande e dagli interventi. Per quel che concerne il nazionale, l’analisi dell’Autonomia sulla natura e la funzione del Pci è sempre stata esplicita: per noi era il nemico principale sin dai tempi di Potere Operaio. Il nostro problema era la socialdemocrazia: non era il liberismo, la Democrazia Cristiana o quei quattro mentecatti, cazzo ne so, dei repubblicani e dei socialisti. Il nostro problema era il Pci, perché, ripetendo un vecchio e trito slogan di allora, era “lo Stato nella classe operaia”, punto. Nel ’77 lo avevamo scritto a pennellone ovunque, su ogni muro che ci capitava sotto mano, e potete ritrovare tutta la pubblicistica.

Con questo slogan non intendevamo fare delle dichiarazioni ideologiche di purismo, ma dichiarare molto più semplicemente che con il compromesso storico il Pci stava tendando di entrare, con tutte le proprie forze, al governo del Paese. Dopodiché, a livello nazionale sappiamo come è andata; guardando invece al locale, be’, Bologna era la loro vetrina, e noi l’abbiamo infranta. Non ce l’hanno mai perdonato e ancora oggi per loro è una vendetta infinita. Neanche dopo la Bolognina e i Pds se la sono mai scordata. Soprattutto i vecchi del partito, che si sono fatti tutto ‘sto giro fino al Pd, ancora oggi stanno lì a romperci i coglioni. E a noi piace molto, devo dire. Ma il rapporto di frizione, se possiamo chiamarlo così, inizia molto prima dell’Autonomia, e addirittura a Bologna c’è già con quello che si chiamava allora il Movimento studentesco (di cui una parte evolve in Potere Operaio). Considerate che aprimmo la sede nel novembre 1969, e già allora avevamo il Partito comunista che intravedeva alla sua sinistra l’antagonismo che gli sfuggiva di mano. C’era già stato il Sessantotto e cose come il rifiuto della famiglia e quant’altro (che a noi interessavano poco) gli pungevano nel fianco; ma con la nascita dei gruppi organizzati a Bologna la contraddizione è immediata. Perché a Bologna il Pci è il potere. Governa tutto: l’economia, l’accademia, l’associazionismo, il sindacato, la salute…

Donato

C’è quasi più spazio con i democristiani che con il PCI!

Valerio

Assolutamente sì. Si capisce quindi come noi abbiamo avuto così tante difficoltà, ben più che altre città. Magari Bologna fosse stata come Roma o Milano! Per non parlare poi del fatto che anche “loro” avevano delle articolazioni politico-militari, è inutile che facciano i furbi e ce le andiamo a raccontare. Anche loro avevano strutture di persone che venivano dalla lotta partigiana e che non si erano fatte disarmare dagli americani. Come mi raccontava mio padre e i suoi amici, agli americani avevano rifilato la cianfrusaglia ormai logora e inutilizzabile, armi malmesse non più efficienti; la roba buona l’hanno sotterrata, tenuta lì ed è tornata fuori più di una volta. Per esempio quando ci sono stati i golpe: io ricordo bene una notte in via Barberia, alla sede del Pci, erano tutti partigiani ed erano tutti armati. L’hanno tirata fuori anche durante il Convegno e lo sapevamo (il paese è piccolo, la gente mormora). C’era quindi tra di noi un rapporto di guerra, senza nessuna mediazione. Tutto era affidato alla forza, alla furbizia e al reciproco minacciarsi. Diciamo che a Bologna, dopo “alcuni episodi” – in cui loro dimostrarono la forza, noi la potenzialità – si sono cagati addosso e con l’Unità e i vari fogli territoriali hanno preso ad insultarci con la solita propaganda: “i figli della borghesia”, “ragazzini che giocano a fare il guerrigliero”, “chi li paga”, “cui prodest”…

Donato

Per non dimenticare Catalanotti.

Valerio

Sì, ma quello viene dopo. Per chi non lo sapesse, Bruno Catalanotti è stato il nostro Calogero, che ha anticipato il suo metodo su scala più ridotta. Insomma, il problema del rapporto con il Pci era serio soprattutto perché ci costringeva a muoverci su più fronti, e ci sono parecchi aneddoti che potrebbero mostrarlo. Ad esempio, ai tempi di Potere Operaio noi avevamo un centro stampa (di cui tra l’altro facevo parte, sapete no, facevo l’Istituto d’arte e questi: “ah vuoi fare l’artista? bene, lavora”, e col cavolo che avevamo macchine tipografiche, tutto a manina, in serigrafia) e attaccavamo l’impossibile. Quando c’erano delle scadenze, la notte prima era dedicata all’attacchinaggio. Si attaccava di tutto. A un certo punto iniziamo a vedere che la mattina i manifesti non c’erano più. Per metterci un attimo nell’ottica delle dimensioni, fate conto che in una notte facevamo 1000-1200 manifesti. Ci informiamo in giro e scopriamo che dietro a ogni nostra macchina con cui si usciva ad attacchinare, ce n’era una loro che ci seguiva e passo passo ce li staccava [dal pubblico: “Poi i vigili urbani usati come braccio armato del Partito…”]. A Bologna sì, lo è sempre stato. E non solo: i dipendenti del gas, l’Amga, gli operai delle officine comunali…

Comunque, capiamo che tutta ‘sta gente andava in giro a staccarci i manifesti. E da lì iniziamo a mettere nella colla dei manifesti i vetri frantumati delle lampadine. È un vetro sottilissimo, che così si incollava. Quindi quando al pronto soccorso del Sant’Orsola hanno cominciato a presentarsi per alcune notti dei personaggi strani con le mani ricoperte di sangue, hanno pensato bene di lasciarceli attaccati – ma non si sono dati per vinti, e gli operai della nettezza urbana (tutti militanti del Partito) capirono come staccarli con le palette d’acciaio. E avanti così. La cosa poi si è risolta quando siamo andati a “parlare” con alcuni di loro che conoscevamo. Sapevamo chi erano i furboni e soprattutto chi erano i capi che organizzavano le macchine e questi, finché hanno potuto permetterselo, avevano il via libera. Venne però il momento in cui alcuni di loro, sotto la loro abitazione, hanno trovato persone che erano disposte a discutere con argomenti convincenti, argomenti che loro conoscevano bene perché li avevano usati prima contro di noi… Quando ti trovi dal lato sbagliato di una potenzialità sociale di quel livello, non è una bella cosa. E infatti hanno smesso.

Considerate che qui, proprio perché il Pci era veramente il potere, avevano la collaborazione delle istituzioni. Il servizio d’ordine del Pci (che appunto era composto dagli operai Amga e quelli che dicevo prima) ai tempi di Potere Operaio caricava insieme alla polizia, ci sono mille foto in giro. Il rapporto era quello. Si è lavorato politicamente finché si è potuto, finché la vetrina non si è infranta sul serio: c’è stato il morto (il compagno Francesco Lorusso), c’è stata la guerriglia urbana, ma già dal 1975 eravamo già attivi in senso politico-militare. Per esempio, anche noi facevamo le ronde. A differenza dai veneti, le nostre ronde erano organizzate per campagne. Che so, si battezzava la campagna sul lavoro nero. Ricaviamo tutte le informazioni necessarie dai nostri militanti e capiamo dove si faceva lavoro nero – per inciso, erano quasi sempre uffici e piccole ditte, in cui si sfruttavano soprattutto giovani e donne per lavori da impiegate eccetera. Quindi ci si presentava vestiti bene, facendo finta di essere dei clienti; si entrava negli uffici, ovviamente col ferro; si fermava tutti; si spaccava la qualunque, scritte a bomboletta sui muri; si spiegava ai lavoratori sfruttati perché eravamo lì e se c’era il padrone, ecco, che si pigliava anche il suo avere. Voilà. Senza uccidere nessuno.

Ecco, la ronda tipo per una campagna sul lavoro nero era questa. C’erano poi le campagne, ad esempio, sui vigili urbani. Appunto perché erano quelli che, collaborando con i carabinieri, partendo dalle sezioni del Pci sul territorio (che erano l’occhio del Partito sulla classe e sui quartieri) sapevano bene o male chi si muoveva e chi no, sospetti e non sospetti. Quindi si sceglieva una centrale, si entrava, si prendeva tutto il possibile e via. Ma attenzione, sempre rivendicato con la firma di chi le faceva e poi sempre spiegate in un progetto di lavoro sul territorio. Certo, c’era il Pci che pulsava, ma tenete presente che a Bologna non c’era solo l’Autonomia, era un casino. “Anni di piombo”? Per loro sicuramente, e qualcuno purtroppo lo abbiamo lasciato sull’asfalto anche noi; ma se prediamo anche solo il Settantasette e consideriamo quello che si è mosso e si è innovato anche fuori dalla politica – l’arte, la musica, i fumetti, la radio – vede un laboratorio straordinario. C’è stata una crescita e una creatività incredibili non solo nella politica, ma anche nella socialità e nella cultura. Sì, c’era il momento triste e cupo del combattimento, ma in un contesto generale a dire poco fantastico.

Donato

La felicità sta lì.

Valerio

Esatto! Perché oltre alla vita notturna, c’era la tua quotidianità di giorno, la tua esistenza liberata in città. Anche perché parliamoci chiaro, non lavoravamo mica tutte le notti, non siamo mai stati stakanovisti della militanza. Per noi era fondamentale selezionare bene gli interventi perché erano cose molto impegnative, che chiedevano non solo pianificazione, ma un’organicità con le possibili diramazioni. Le ronde, per esempio, erano fatte da organismi con una ragione d’esistere, che si firmavano e spiegavano la logica che le muoveva. Se si mirava ad opporsi a certe prese di posizione di Confindustria, pubblicamente ci esprimevamo nelle assemblee autonome, e accanto a questo saltava in aria una sede. Solo individuando le lotte “giuste” diventava possibile tenere insieme l’elaborazione concettuale, la ricomposizione della classe e il sabotaggio – senza fare morti, e possibilmente senza fare feriti.

Poi sono arrivati anche quelli andando verso il 1979, quando queste articolazioni politico-militari si sono costituite in organizzazione d’apparato, staccandosi (oggi possiamo dirlo) con una forzatura teorica e politica. Per esempio, limitandoci ai dibattiti interni a Rosso (mica si scriveva e basta, capiamoci) sulla differenza tra Brigate comuniste e Formazioni comuniste combattenti, dovrei oggi riconoscere lì un errore cruciale: quando da strumento, da servizio alla classe, ti fai tu stesso apparato e vai a combattere contro un altro apparato che è molto più potente di te, si compie un passaggio che oggi dovremmo riconsiderare profondamente, senza limitarci allo scandalo del sangue. Allora quella scelta la facemmo e l’abbiamo pagata; ma quello era il contesto e quelle ci sembravano le decisioni necessarie. Polemizzare con il senno di poi è una sciocchezza che non porta a nulla. Soltanto storicizzando, calandosi per quanto possibile in quei momenti di incertezza – cosa che sta facendo l’Archivio autonomia, andatelo a vedere, è una cosa meravigliosa – si riesce a valutare la prospettiva con cui ci si muoveva, le intuizioni indovinate e i passi falsi. Per quanto riguarda gli stimoli dall’estero…

Da noi, semmai, aleggiava una forte ammirazione per il fronte palestinese di Habash, l’Fplp. Per quanto riguarda le articolazioni militari di cui dicevo prima, ci sono stati scambi e contatti. C’erano persone a cui eravamo molto legati: per dire, io a San Giovanni in Monte per un periodo sono stato in cella con Abu Anzeh Saleh (quello dei “missili di Pifano”) che era praticamente l’ambasciatore di Habash in Italia, dal quale ho avuto ragguagli interessantissimi sulle loro lotte in Palestina. Oppure, parlando sempre e soltanto di risultanze processuali, una volta ci fu un campo di addestramento militare gestito dall’Eta con una parte dell’Autonomia, segnatamente le Formazioni comuniste combattenti (cioè noi e i milanesi). Uno di noi aveva contatti con i francesi e da lì, nel Paese basco francese, si svolse un campo, tra l’altro descritto in quei famosi quadernetti ritrovati nelle inchieste.

Per capirci, nel frangente specifico di quel campo, la collaborazione partì da uno scambio di favori: armi corte (non tante, ma roba buona) contro due kit, uno per fare documenti falsi e uno – invenzione degna della sapienza operaia – per fare targhe false. Invece, quello che ci interessava dei movimenti dell’America Latina, sarà banale, erano i loro ottimi manuali di guerriglia e controguerriglia. Loro infatti, non potendo disporre di materiali di fabbrica, dovevano improvvisarli con quello che avevano e in questi testi indicavano come costruire le trappole esplosive e quant’altro. Ci interessava quello, quindi Marighella, i Tupamaros…

Donato

Lì si vede tutta la differenza tra me e te. Io ero un californiano! [Risate] Cresciuto con i Jefferson e i Quicksilver…

Valerio

Ma questo è un fricchettone! [Risate]

Donato

Per cui seguivo le Black Panthers e i Weathermen…

Valerio

Mannaggia oh… Noi a fare i guerriglieri, e questi in California a surfare le onde!

Comunque, prima di chiudere, direi una cosa sul senso di sconfitta. Molti dicono “lì abbiamo perso”, non solo come autonomi, ma in generale il secolo si è concluso con una disfatta, soprattutto a livello psicologico. Però, come una volta disse Paolo Virno, è andata così, ma intanto per dieci anni gli abbiamo impedito di governare, ma soprattutto abbiamo dimostrato che “è possibile”. Non è successo, ma abbiamo dimostrato che è possibile, usando un metodo. Ma anche in senso più largo, io non ho mai pensato di essere uno sconfitto. Non c’è stata nessuna sconfitta. Si è conclusa una fase, punto; una fase di una guerra di classe è fatta di vari momenti, di strategie e di tattiche. Non è finito niente. È vero, ci sono stati gli anni Ottanta, dove non era stata raccolta la memoria storica e si è dovuto ricominciare daccapo; ma si è solo chiusa una fase, e se ne riapriranno delle altre! La lotta di classe continua, il conflitto continua. E noi siamo ancora qui, a discutere, a cercare, nella dialettica lavoro vivo-capitale, di individuare, nella composizione data, altre soggettività emergenti potenzialmente autonome e rivoluzionarie.

Servizio d’ordine di Rosso a Bologna.

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V. Guizzardi, D. Tagliapietra – L’assalto al cielo. Militanza e organizzazione dell’Autonomia operaia – prima parte

Come dare, e organizzare, percorsi di rottura al cuore dello sviluppo capitalistico? Quali i comportamenti potenzialmente sovversivi su cui costruirli, oggi? Quali punti di metodo ancora inattuali trarre dall’esperienza militante di quella generazione politica che per ultima ha tentato l’“assalto al cielo”?

Sono le domande implicite che hanno mosso il terzo incontro del ciclo MILITANTI, tenuto a Modena sabato 13 maggio. Una bella, intensa, arricchente chiacchierata con Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra, militanti autonomi degli anni Settanta – di Rosso, la prima e più originale formazione dell’Autonomia operaia, e dei Collettivi politici veneti per il potere operaio, la più larga, radicata e duratura organizzazione politica dell’Autonomia – autori dei due libri che troverete in fondo a questa prima parte del loro intervento.

Una chiacchierata che fin da subito non ha voluto essere sul passato, per “reduci” o “nostalgici” fuori tempo massimo, ma immediatamente sul presente, per ragionare su alcuni dei nodi che chiunque abbia l’ambizione di conquistare una prassi militante adeguata ed efficace dentro e contro il proprio tempo si trova inevitabilmente a dover affrontare.

I comportamenti di rifiuto e il salario sganciato dalla produttività. La società che diventa fabbrica e la ricerca della soggettività operaia. Il radicamento nel territorio e nella composizione di classe, e l’esercizio del contropotere. La spontaneità di movimento e la disciplina di progetto politico. L’organizzazione autonoma e l’autonomia di classe. L’uso materiale della forza e la forza materiale del significato vivo dell’essere “compagni”.

Questi sono alcuni nodi cruciali su cui il “cervello collettivo” degli autonomi ha scommesso e costruito la sua prassi, tra avanzamenti, contraddizioni e vicoli ciechi.

Consapevoli che l’autonomia non è mai data una volta per tutte, ma la si conquista e reinventa di continuo, siamo tornati alla stagione degli anni Settanta, quando l’Italia è stata attraversata da un conflitto sociale di durata, diffusione e intensità che non hanno eguali nella storia recente, e di cui oggi le nuove generazioni stentano a credere, o solo immaginare. La questione della rivoluzione in un paese a capitalismo avanzato, nel cuore dell’Occidente, è precipitata e si è riaperta allora, a livello di massa – non a caso, ancora oggi, quel decennio tormenta gli incubi di comanda.

Gli autonomi, in quel tumultuoso passaggio d’epoca – non solo di crisi capitalistica, ancora nelle sue matrici irrisolta, ma anche di crisi di quelle soggettività e forme di organizzazione politiche scaturite dal precedente ciclo storico di lotte –, seppero incarnare più di ogni altro, con forza e intelligenza, la sua attualità. L’attualità della rivoluzione, del comunismo, qui e ora: nelle lotte nei quartieri, sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, ma anche nelle strade, nelle relazioni sociali, nel sapere e nelle forme di vita. Attraverso un metodo, quello dell’autonomia, che parla di anticipazione dei processi, di lettura della composizione di classe, di scommessa sulle soggettività, di ricerca delle possibilità di attacco, di rottura con l’esistente e con quello che si è.

Soprattutto quando i vecchi schemi, come oggi, all’infuori di ogni logica di testimonianza identitaria e di pretesa ideologica, appaiono non funzionare più. Se quella degli autonomi è una storia irrisolta, occorre allora tornarci con le spalle al futuro, per preparare il prossimo assalto al cielo.

Buona lettura.

 

Donato

Io pensavo che sareste stati voi a spiegarci cos’è l’Autonomia oggi! è un po’ difficile che la risposta a una domanda del genere venga da me o da Valerio. Al limite noi possiamo ricostruire un periodo storico che ormai data mezzo secolo. Ma a ogni modo volevo iniziare con i King Crimson. L’intuizione di usare 21st Century Schizoid Man dei King Crimson per pubblicizzare un evento del genere è azzeccata tanto quanto la scelta delle parole che avete riportato in quel video, perché sono le uniche calzanti. Io, infatti, in questi giorni continuavo a chiedermi: “Ma di cosa parlo sabato? Come fai a definire la militanza negli anni Settanta?” Perché o parli di tutto, oppure devi in un qualche modo troncarla con l’accetta. Per cui, se mi chiedeste di riassumere in una formula edificante cos’è stata per me, vi direi che la militanza è stata una corsa velocissima di una generazione dentro la felicità.

Volevamo tutto, e lo volevamo subito; ma questo tutto e questo subito era l’insieme di enormi felicità, che erano contenute in quello che costruivamo quotidianamente. Se invece dovessi rispondere in una maniera più precisa, vi direi che la militanza autonoma è stata il fatto di essere riusciti – in una finestra storica che è durata poco, perché purtroppo così è stato – a vivere un quotidiano in pieno conflitto con la costrizione lavorista a cui pensavano di sottometterci, una quotidianità che aveva la sua cifra nei suoi aspetti di totale liberazione. La generazione dell’Autonomia o anche quella del Settantasette sono state tali proprio poiché hanno trovato questa chiave di volta. Dopodiché, dentro questo spirito condiviso, ci sono le varie articolazioni progettuali.

Ognuno di noi ha una storia progettuale diversa: io e Valerio siamo entrambi militanti dell’Autonomia, ma tra Bologna e il Veneto già ci sono differenze, nonostante ci fosse un modello produttivo con alcune similitudini. Ovvero, sia da noi che in Emilia non c’era (e non c’è) la Fiat o l’Alfa, e quindi nemmeno l’operaio massa alla catena – o meglio, da noi c’era, ma comunque parliamo di una situazione molto diversa rispetto a Torino. Insomma, Bologna e il Veneto condividevano un modello produttivo che sarà quello che vince storicamente nella ristrutturazione operando il passaggio che supera il fordismo; ma l’elemento che rende distinti e diversi i due territori è la rappresentanza politica. Il sistema dei partiti, per dirla in soldoni.

Nel Veneto si era stabilizzato un sistema a governo democristiano, mentre nell’Emilia rossa (e paranoica, come cantano i Cccp), c’è il Pci. Può sembrare una differenza su un dettaglio secondario, “sovrastrutturale”, ma andando alla sostanza delle cose è una differenza enorme. Perché? Perché nella capacità di comando e di controllo dei conflitti autonomi, il Pci rivela una capacità di disinnesco di gran lunga maggiore della Dc. Nel Veneto, quando i ceti dirigenti non riescono più a governarne politicamente questo rapporto tra una nuova composizione di classe e nuove lotte (e ci provano in mille maniere, ma perdono le assemblee nelle facoltà, perdono le assemblee nelle fabbriche, perdono le assemblee nei quartieri e via così), l’ultima istanza che gli rimane è mettere in piedi, attraverso il teorema Calogero, il “7 aprile”. Direttamente alla repressione poliziesca. Da noi era questo il meccanismo, perché il quadro di comando partitico del Pci non aveva la capacità di esprimere un controllo sociale, che qui invece ha sempre conservato. Ci sono state differenze anche negli sviluppi del movimento (per esempio, in Veneto non c’è stato il Settantasette), ma l’elemento che va indagato per primo è il governo politico del territorio, perché è lì che si comprende chi è il nemico e come si struttura il terreno di battaglia.

Ora, io non so nel 2023 come funzioni a Modena e nelle ricche provincie del Nord (perché ricordiamocelo, qui siamo in assoluto nelle zone più ricche del pianeta, partiamo da questa considerazione altrimenti entriamo in chiavi di lettura strane). Come può darsi un percorso di rottura? Bella domanda. Quelli della nostra generazione possono dire solo “noi abbiamo provato a fare così”. Quindi, se guardiamo in profondità, qual è stato l’elemento che aveva messo in moto quel percorso? È stato il fatto che a diciotto, venti o ventidue anni questa generazione si è sottratta in una maniera totale al fatto di diventare merce. Non volevamo spendere la vita per un salario.

Non volevamo diventare merce forza-lavoro: e abbiamo fatto di tutto, anche armandoci, per sottrarci a questo. Questa è l’eresia assoluta, unica e fondamentale, che spiega il conflitto oltre che con il padrone anche con il Pci e con le ideologie lavoriste della sinistra. Ma badate bene, la giornata lavorativa è precisamente la cornice che tiene insieme e spiega il dopoguerra fino agli anni Sessanta. L’eresia parte infatti prima di noi, già alla Fiat con i sabotaggi delle linee e certo ci sono sviluppi di non poco conto, ma come un filo sottotraccia che esploderà dopo e che attraversa tutta la variegata progettualità che chiameremo “autonomia operaia organizzata” negli anni Settanta. Il rifiuto del lavoro è stata la nostra stella polare. Tutto quello che ne è seguito – processi organizzativi, strumenti di intervento, eccetera – parte da questo presupposto.

Altro elemento dirimente per la nostra storia nella provincia: nei nostri territori non c’è l’università. Io non so bene cosa stia succedendo adesso a Modena, ma di certo non è una città universitaria come Bologna o Padova; ovvero, non c’è il traino delle lotte studentesche. Se non altro per il fatto che sono università probabilmente più giovani, con una massa di studenti minore e con un altro tipo di impatto sulla città. Anche in ciò secondo me Modena assomiglia molto di più a Vicenza che non a Padova o a Bologna, dove invece l’università (umanistica, si noti) ha un grosso peso sui processi sociali e sui conflitti. Ma per ora mi fermo dicendo queste quattro cose, lascio la parola a Valerio e poi proviamo ad aprire la discussione, anche perché, più che a parlare, sia io che lui siamo più interessati a capire cosa significa avere oggi trent’anni.

Il giornale dei Collettivi politici veneti. «Autonomia» n. 15, maggio 1979

Valerio

Donato ha introdotto benissimo la questione. Le caratteristiche della gestione politico-amministrativa di Bologna e della provincia veneta erano completamente diverse, dal momento che ognuna delle due si basava sulla struttura produttiva del territorio. L’Emilia-Romagna, come si è detto, non era ai tempi avvicinabile al ciclo del tessile e del chimico nel vicentino. Qui c’era sì la fabbrica diffusa, ma di un tipo profondamente diverso: intanto perché era più orientata sul metalmeccanico, ma soprattutto perché più che di fabbrica diffusa si trattava di fabbrichette e laboratori diffusi. La forma più presente (se escludiamo alcuni grandi impianti) era la piccola fabbrica a gestione bene o male familistica, dove un conflitto al suo interno non scoppiava mai, essendo aziende che contavano otto-dieci operai massimo.

Innescare una ribellione sui luoghi di lavoro diventava difficile, quindi, sia per la fisionomia che assumevano le fabbriche, sia per il controllo dei comportamenti operai da parte del Partito comunista e della Cgil (che, parlando simbolicamente, erano quasi l’uno lo pseudonimo dell’altro). Ora, concedetemi qualche esempio concreto per rendere l’idea del panorama. Nel bolognese cosa avevamo quando abbiamo iniziato? C’erano alcune fabbriche di generose dimensioni, come la Ducati, nella quale i comitati che facevano riferimento a Potere Operaio erano anche riusciti negli anni Settanta a organizzare alcune campagne di lotta. Va detto per inciso che a quei tempi Potop, soprattutto nei primi anni Settanta, era parecchio forte avendo collettivi un po’ dappertutto: in primo luogo nelle scuole medie (ora diremmo superiori) e nell’università, ma anche in qualche fabbrica, ognuna con il suo comitato operaio che organizzava le lotte, i cortei interni, i picchetti (e quindi, come al solito repressione, denunce, eccetera).

C’eravamo dunque alla Ducati, ma soprattutto in aziende più piccole come la Sabiem (che faceva ascensori), la Sasib (che faceva ingranaggi e pezzi per metalmeccanica), la Calzoni (che faceva ingranaggi, trasmissioni di precisione e armamenti, producendo congegni di puntamento su commissione dell’Esercito). Lì noi già da quel periodo cominciammo a fare intervento politico fuori dai cancelli, ai turni alle 4 della mattina (compreso d’inverno, con la neve fino alle orecchie). Nonostante la nostra presenza in città, in quel periodo è stata parecchio dura, per il mero fatto che abbiamo sempre ricevuto una grandissima ostilità.

Vorrei che fosse chiaro: erano gli operai stessi che ci fronteggiavano, e partivano anche le mani. E accanto a questo c’era il servizio d’ordine del Partito e quello della Cgil che rendevano impossibile che un discorso operaista, o comunque di conflitto, potesse permeare la fabbrica dall’interno. Noi su quel punto abbiamo sempre avuto problemi, le fabbriche erano inespugnabili. Ogni fabbrica a Bologna e nell’hinterland erano roccaforti, bastioni del Partito. Lì non si entrava, punto.

Poi, con il passare del tempo, siamo riusciti a penetrare dalla porta di servizio, quando il capitalismo locale andava indirizzandosi verso l’operaio sociale. Incontrammo giovani proletari dei quartieri e della provincia che per loro sfiga (così dicevano) per guadagnarsi qualcosa entravano in fabbrica. E così questi giovani di diciotto-diciannove anni, al loro primo lavoro, tentarono di fare qualcosa dall’interno, ma rimaneva estremamente difficile. La svolta fondamentale è stata che queste esatte persone le ritroveremo più avanti nel movimento, cioè fuori dalla fabbrica. Iniziammo insieme a loro a capire che si trattava di “operai sociali” che cercavano sì di guadagnarsi qualcosa in fabbrica, ma sapendo che stavano seguendo una produzione di valore che eccedeva da lì, che si socializzava. Ma prima di procedere, meglio mettere in chiaro alcuni termini che forse per noi sono ovvi, ma per chi ha avuto una formazione diversa no.

Per quel che concerne l’operaio massa, pensate l’addetto alla catena di montaggio, collocato in una specifica organizzazione capitalistica del lavoro e chiuso in una fabbrica con una disciplina da caserma. È lo scenario nel quale, dopo il famoso autunno caldo del ’69, inizia a fare emergere dentro di sé la famosa “rude razza pagana” descritta da Tronti, la quale inizia ad operare nei reparti con forme di lotta per noi inedite: gli scioperi a gatto selvaggio, i sabotaggi e i cortei interni, dove si spazzavano le linee e si punivano i capi. Dunque, per rispondere a queste nuove forme di insubordinazione il capitale si ristruttura, spalmando la produzione di massa sul territorio.

Si moltiplicano le piccole fabbrichette e i laboratori, ma iniziano anche ad apparire i primi lavori virtuali: nuovi mestieri che creavano una nuova composizione di classe, i cosiddetti “non garantiti”, che altro non erano se non l’antecedente dei precari di oggi. Entra nel lavoro una nuova generazione di giovani, costretti a entrare in un nuovo schema produttivo che soggettivamente rifiutavano, e che di pari passo inventavano nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione. Ecco, è proprio su questo tessuto che a Bologna e in provincia abbiamo lavorato forte. Ma non per scelta teorica, ma perché banalmente c’era poco altro da fare. Da noi, l’unica realtà sociale con del potenziale era quella studentesca.

La Fiat di Bologna era l’Università, ed era attorno ad essa che girava la nuova produzione e il nuovo sfruttamento; e non a caso ancora oggi, in Piazza Verdi, vediamo le tende piantate per denunciare quell’iper-sfruttamento su cui l’intera borghesia bolognese ha vissuto (certo, come osservava un compagno qualche giorno fa, noi le tende le usavamo per andare in vacanza e le case le occupavamo, ma chissà, vedremo come andrà a finire). Tornando a noi, i processi produttivi orbitavano intorno all’Università in quanto polo di sfruttamento e centro di gravità per una nuova composizione, destinata alla disoccupazione e senza un domani. Tutto ciò lo avevano già capito proprio i non garantiti di allora. A diciannove anni avevano capito benissimo che non avrebbero mai avuto la vita che gli era stata promessa; ma la loro novità stava nel dire “ma bene, per fortuna! Noi quella vita borghese non la vogliamo”. E fu così che noi militanti riuscimmo a raccogliere l’ipotesi del rifiuto del lavoro come cornice politica per lanciare i percorsi di lotta che vedremo negli anni Settata. Tutta l’Autonomia bolognese era dunque interna a una nuova composizione, nel vivo dei processi di cambiamento, partendo dal rifiuto del destino assegnato.

Ciò si riverberava anche nella militanza e nei suoi linguaggi. In definitiva, non eravamo più Potere Operaio – nonostante l’Autonomia organizzata altro non fosse che il risultato del trasferimento in blocco dei militanti di Potere Operaio, e segnatamente del servizio d’ordine, nella nuova composizione subito dopo Rosolina. A quel punto però non adottiamo più le forme di prassi allora più usuali, cioè la figura del militante rigido e operaista. Ci accorgiamo, insomma, della necessità di cambiare atteggiamento davanti all’apertura di una fase nuova. Sicché i militanti di Potere Operaio, incontrando l’operaio sociale e trasformandosi in Autonomia, una volta riconosciuto che gli strumenti che si usavano prima non erano più efficaci ai fini del conflitto e della rottura, li abbandonano, sperimentando nuovi linguaggi, nuove tattiche e nuovi terreni di scontro.

Quello che invece teniamo stretto è quello che per noi operaisti è il principio cardine del movimento di classe fin dall’alba dei tempi: la questione della forza. La questione della forza è dirimente, indispensabile per l’Autonomia, oggi compreso. Alla fine dei conti, non riusciamo ancora ad abituarci alla legalità borghese e cose del genere. E il motivo è chiaro, ovvero che per noi la politica deve sempre stare accanto all’“esercizio legittimo della forza” secondo una delle prime formulette, o come diremo dopo all’“illegalità di massa”.

Ma ripeto, per noi non è una novità. Come ci ha spiegato Valerio Evangelisti in quel suo bellissimo libretto, Il Galletto rosso, dal 1892-1896 in poi, in quel grande movimento operaio (socialista, tra l’altro, non ancora rivoluzionario, ma solo “tendente a”), durante gli scioperi dei braccianti e degli scarriolanti si attivavano all’interno delle masse degli operai autorganizzati attraverso azioni di forza. Ma non è che ci andassero tanto per il sottile, eh? Incendi, distruzioni dei frutteti, sequestri dei padroni e dei loro famigliari, qualcuno lo hanno anche fatto fuori… Quel che conta osservare di quei fenomeni è la dimostrazione di come si fosse sempre pensato che la politica e la forza non possano fare a meno l’una dell’altra. La politica senza la forza è riformismo, un arrabattarsi assolutamente inefficace davanti ai mezzi di cui dispongono i padroni (fino alla cooptazione: abbiamo visto che fine ha fatto Andrea Costa, no?); dall’altra, la forza senza la politica non ha senso. Sarà semplice, ma era un punto di partenza indiscusso, certo, cristallino. Quindi, quando l’Autonomia, nei nuovi linguaggi, lancia il tema dell’uso della forza, non inventa assolutamente niente. Porta avanti un programma (proletario, operaio, chiamatelo come vi pare) che non poteva essere diverso.

Ne conseguiva quindi che le nuove teorie e i nuovi linguaggi erano sempre dentro le lotte, dentro il conflitto, ma anche dentro il territorio. Per esempio, con un compagno prima si parlava di contropotere. Be’, cosa significava “contropotere” e “uso legittimo della forza”? Che in certi quartieri la polizia non entrava perché c’erano dei servizi d’ordine di proletari che semplicemente non glielo permettevano. La “questione del reddito”? Significava che se noi non vogliamo lavorare, se non ci interessa il lavoro ma il reddito e voi borghesi non ce lo date, benissimo, noi lo veniamo a prendere, non c’è problema. Ecco in che senso parlavamo di “uso legittimo della forza”, perché ti serviva sia per campare che per portare avanti i tuoi progetti di rottura. Ovvero per cominciare (ed è stato un nostro tratto distintivo) a praticare fin da subito degli elementi di comunismo. L’esproprio è uno di questi: ti organizzi con i proletari di quartiere, entri al supermercato e fai in modo di uscire senza avere danni. Poi, che fuori ci fosse una copertura armata lo sapevamo soltanto noi e gli sbirri, che non a caso non venivano a rompere i coglioni o al limite, sempre per il principio “tengo famiglia”, arrivavano a cose fatte [godimento e risate in sala]. Ma è comprensibile eh! Ognuno fa il suo mestiere…

«Rosso. Giornale dentro il movimento» n.8, aprile 1976

Donato

Anche lì, tra l’altro, non c’era un unico modello.

Valerio

Verissimo, ogni territorio aveva il suo. Io me lo ricordo ancora, all’Esselunga di Milano ci siamo divertiti un casino, una roba impressionante… [risate] Comunque, questo giusto per dire che le cose funzionavano perché c’era dietro un’organizzazione che le faceva funzionare e le organizzava. Questo è il senso di “uso legittimo della forza”. Ma capiamoci, mica riguardava solo il pollo da mangiare la sera tu e i tuoi bambini, ‘ste robe retoriche da fine Ottocento non ci interessavano minimamente; ma piuttosto la cultura, il divertimento. Tutto questo costava? Lo si andava a prendere. E quindi si entrava gratis al cinema, gratis al teatro, nei locali, dei concerti non ne parliamo neanche… [qualcuno dal pubblico chiede “L’autobus si pagava?”] No, macché, ma chi pagava l’autobus? Ma figurati! Ma neanche il treno! Dico, per il treno si stampavano i biglietti falsi e si andava fino a Parigi così, ne abbiamo fatti a migliaia…

Donato

C’era un tale quantità di sapere su come recuperare reddito che oggi ha dell’incredibile. Faccio un esempio: il bollo del motorino costava 1505 lire. Tu con la scolorina lo cancellavi, mettevi la targa della macchina e con 1505 lire giravi con il bollo della macchina pagato. Voilà. Oggi questo non è più possibile, ma è ovvio che ci saranno altri saperi che possano permettere situazioni del genere e che dovrete mettere in campo. Non vi nascondo che mi sono spesso domandato: “Ma cazzarola, ma è forse possibile che non ci sia una cultura del sabotaggio attraverso l’online, con l’hackeraggio o che ne so, che in un qualche modo riesce a portare a casa reddito?” O comunque a porsi questo problema. Queste sì sarebbero cose interessanti che la vostra generazione dovrebbe mettere a disposizione, aggiungendo un nuovo capitolo a tutto quello che la nostra aveva a suo tempo escogitato per conquistarsi la possibilità di vivere riducendo il carico di lavoro.

Ah, Valerio e io ci siamo dimenticati di una cosa: con l’Autonomia siamo ben prima della rivoluzione informatica. Cominciava a introdursi, e nonostante già all’epoca qualcuno straparlasse disperato sulla tecnica, noi non la demonizzavamo a priori. Perché? Perché la vedevamo come una partita aperta, dove erano i rapporti di forza che a decidere se la rivoluzione informatica e la ristrutturazione del capitale sarebbero andati a liberare dallo sfruttamento o verso l’accumulazione di profitti. Ma siamo sempre lì! Oggi come allora – non ci stancheremo mai di ripeterlo – sono i rapporti di forza che decidono dove pende questo problema. Oggi certo, ci sono sicuramente molti più strumenti di controllo sociale, su questo non ci sono dubbi, ma bisogna comunque scovare da una qualche parte un anello debole che ti permetta di attraversare a tuo favore le dinamiche che incontri. Ed è precisamente su questo punto che agisce la soggettività, è per questo che la militanza prende la forma del soggetto.

Perché capiamoci, quando noi parliamo di operaio massa o operaio sociale, parliamo di concetti di lotta, altrimenti questi non esistono. L’operaio massa è tale perché pratica un particolare terreno di lotta, altrimenti è soltanto forza lavoro, una merce piegata, sottomessa, brutalizzata. Punto. L’operaio sociale, rispetto all’operaio massa, compie un processo ulteriore: mentre l’operaio massa è ricomposto in fabbrica nella catena o nel reparto, l’operaio sociale devi ricomporlo territorialmente. Ma il discorso di fondo resta il medesimo: se al problema gli diamo una lettura di carattere sociologico, allora l’operaio sociale è una figura indistinta, grosso modo attiva nel terziario, prodotta dalla ristrutturazione; ma questo non è un concetto di lotta! A noi non interessano gli “effetti” della ristrutturazione in quanto tali, a noi interessa intercettare la soggettività capace di costruire percorsi e progetto di rottura di classe. E allora l’operaio sociale, deve darsi strumenti ricompositivi rivolti a un programma di rottura.

Noi, ad esempio, questo passaggio lo risolviamo costruendo i Gruppi sociali territoriali (Gs), che prima venivano ricordati. E sia chiaro, noi mica li abbiamo costruiti a partire da una prospettiva ideologica. Addirittura, come appunto veniva sottolineato da uno di voi al bar prima di iniziare, quella di Gruppo sociale era una sigla usata in parrocchia! E perché la recuperiamo così come la troviamo senza inorridirci? Per il semplice fatto che questa sigla, che già era presente, era diventata un volano delle lotte sui trasporti. A noi questo interessava. Ci interessava uscire dalla città (in questo caso, tra Padova e l’alta padovana) ed entrare nei paesi.

Perché l’altro aspetto dominante nel Veneto è tutta quella ricchezza territoriale che va ben oltre la città universitaria. Dalla bassa e l’alta padovana alla Riviera Berica, tutto il vicentino, il bassanese, il rodigino, Chioggia e tutta la zona di San Donà e Portogruaro… la parte politicamente più promettente era la provincia – e ricollegandomi per inciso a quanto dicevamo prima, immagino che trovassimo la stessa composizione che incontrate voi oggi nel modenese. E così lanciamo una scommessa, dicendoci: “Poiché siamo tutti nati e cresciuti nei paesi, sarà proprio quel tipo di conoscenza e di rapporti diretti che abbiamo tra noi il volano fondamentale per costruire un progetto”. Siamo amici prima di diventare militanti. Questi legami ce li portiamo dietro da sempre e arrivano all’oggi. È dentro a questo contesto che si costruisce tutto il percorso politico, ed è nel suo sviluppo che prende forma il contropotere.

In parole povere, per come noi lo concepivamo, il contropotere era l’insieme dei comportamenti autonomi; dunque elementi che andavano molto oltre a quello che noi rappresentavamo a livello organizzativo. Quando vai a fare un’assemblea in una fabbrica di 500 operai, non fai mica battaglia con loro; la fai con gli altri 490 rispetto ai quali c’è un controllo del sindacato, e i dieci tuoi devono essere determinatissimi a fare altrettanto. Solo così poteva funzionare. Ne conseguiva che il rapporto che avevi con i compagni in fabbrica lo costruivi fuori da lì.

Per esempio, nel libro c’è un’intervista a un compagno carissimo, Gianni. Be’, Gianni entra in fabbrica a quindici anni. A quindici anni era così per tutti, non ci sono percorsi universitari nel libro (me compreso: faccio le superiori e appena finite sono già carne da macello dentro la produzione). Ma oltre a condividere un “curriculum”, si partecipa alle stesse esperienze di vita, specialmente quelle che consideravamo (a ragione) più dense di significato. È su quel terreno – prepolitico più che impolitico – che si cementa l’intesa e la fiducia. In termini politici, l’accumulo di forza dei singoli compagni, compresi quelli costretti a subire le otto ore quotidiane, proviene prima dal paese, si riproduce in fabbrica e infine diventa un elemento di battaglia politica.

Lo stesso meccanismo operava sottotraccia, per esempio, in un’altra importante vicenda che riporto nel libro, dove noi prendiamo una fabbrica piccola, l’Italsthul, di 400 operai, e la sconvolgiamo. Vengono castigati i capi, blocchiamo le linee, viene praticato il sabotaggio alle macchine, si vince la vertenza… ma alla base c’era sempre il contropotere, cioè un modo operaio e di classe di attraversare tutta la complessità della contraddizione.

Con il senno di poi abbiamo scoperto che il contropotere costruito, oltre a fornire la bussola organizzativa, è la risposta a un grosso problema dell’Autonomia, grazie al quale c’è una tenuta così forte nonostante una repressione giudiziaria così pesante. La chiave era sempre questa rete di relazioni interpersonali (anche amicali) che precedeva la politica e impediva che partissero delle “derive individualistiche” – non so se ci siamo intesi. La tenuta poggiava sull’impostazione assunta in anticipo,  lo dimostra l’unica eccezione, un operaio della Lanerossi che diventa “ammittente”, ma parliamo appunto di un tizio che non è mai stato militante d’organizzazione come lui stesso afferma:ennesima prova di come i processi giudiziari che abbiamo subito si muovessero a partire da suggestioni, accompagnate da un enorme battage propagandistico-pubblicitario promosso dai media. A distanza di cinquant’anni è diventata palese la fragilità dell’ipotesi dell’accusa, ma all’epoca purtroppo ha funzionato, soprattutto attraverso il carcere preventivo.

Quel che mi interessa ribadire è che la chiave di volta per impedire il “combattentismo” prima e il “pentitismo” poi è stata appunto il contropotere, cioè un accumulo di forze che nasceva dalla quotidianità nei quartieri, nella provincia e nei nostri luoghi di vita. E nel frattempo, questo accumulo di forze ha permesso di fare cose oggi impensabili. Non so se rendo l’idea, si entrava in fabbriche come la Laverda (macchine agricole, 1200 operai) o la Zanon (del presidente dei metalmeccanici vicentini) e spegnevamo le macchine. Voglio dire, adesso sembra incredibile anche a me, ma lo abbiamo fatto! L’ho fatto!

Perché insisto tanto su questi esempi? Io pure detesto il reducismo. Insisto solo per dare un’idea di come ragionassimo. Non è che noi razionalmente ci sedessimo a un tavolino e dicessimo “dai, abbiamo capito tutto quindi ora dobbiamo solo partire ed è fatta”, perché non sai mai come si svilupperà. Nessuno di noi, quando a diciassette-diciotto anni abbiamo incominciato ad affacciarci a questo mondo, poteva sapere cosa ne sarebbe venuto fuori. E tuttavia quel tipo di progetto metteva in moto un’intelligenza collettiva sufficiente a catturare il tuo slancio e a renderti disponibile a osare, a superare condividendo anche le paure. Questa è stata la mia militanza, e immagino anche quella di Valerio. Un’intelligenza collettiva e condivisa che ti ha catturato, un’intelligenza rivoluzionaria e comunista in totale rottura con lo stato di cose presente.

È qui che ce la siamo giocata. E così non ci siamo fatti imprigionare il cervello dagli orizzonti dell’arricchimento personale né da soluzioni individuali, che è l’altro lato della medaglia. Il capitalismo funziona così: “Non vuoi fare l’operaio? Diventa un paròn!” Non c’è via di mezzo!  [applausi commossi] La nostra eresia stava tutta lì: noi non vogliamo fare gli operai, e non vogliamo fare i padroni: e quindi pensiamo che l’unica soluzione sia la rivoluzione comunista, punto. Questa è stata la bestemmia che ha sconvolto tutti, in primis il Pci. Figurati cazzo! Questi che vogliono fare la rivoluzione senza lavorare! Così è andata.

Ora, io ho settant’anni ormai. Ma se ne avessi venti o trenta mi porrei le stesse domande: quali sono i meccanismi attivi dentro questa nostra voglia di rottura? Perché siamo qua oggi a parlare degli anni Settanta? Qual è l’elemento che ci diversifica dall’accettazione un’altra condizione di vita? Il cuore della vita militante sta lì. Dopodiché in questo vanno aggiunte dinamiche collettive, e non ho dubbi che i termini oggi siano molto diversi da cinquant’anni fa; ma resto convinto che gli elementi di fondo restano gli stessi, altrimenti la storia non avrebbe senso. O si risolve il nodo del salto di grado dal rifiuto individuale del presente all’insubordinazione collettiva, o c’è poco da fare – ma questo, scusatemi, è un problema vostro. Per cui al limite quello che possiamo venire a dirvi è: “Per noi ha funzionato questo” (o “sono stati questi gli elementi costituenti”, per usare un linguaggio dell’oggi), dopodiché è un problema vostro e di ogni nuova generazione

Lo so che è oggi molto più dura, ma voglio dire, anche noi siamo partiti spaccando con i gruppi e uscendo. La storia di Potere Operaio nel Veneto è solo a Padova e Marghera; già a Vicenza non aveva quella rilevanza. Nel nostro territorio era egemone Lotta Continua, con quadri e avanguardie operaie inseriti soprattutto nelle fabbriche di Schio. Quindi, tutto il percorso viene messo in moto superando quel tipo di progettualità, quando capiamo che nel contrastare la ristrutturazione in corso tra il ’74 e il ’75 la strumentazione dei gruppi era insufficiente. E così usciamo, amen. Ma proprio qui sta la premessa cruciale per l’uso della forza.

Anche prima c’erano state esperienze che vedevano un servizio d’ordine armato. La differenza fondamentale della nuova fase stava nell’esplicita volontà di costruire un’organizzazione politico-militare. Attenzione: armata, non clandestina! Se io non ho mai fatto un giorno di clandestinità, non è stato un caso. È andata così perché siamo sempre partiti dall’idea che ogni singolo compagno dei Collettivi politici veneti che facesse intervento politico in fabbrica, in mensa, in facoltà, nel quartiere dovesse anche “andar sotto”, come dicevamo allora. Era precisamente su questo insieme – intervento nella composizione e conflitto – che modulavamo le azioni, comprese le azioni armate.

La rilevanza di un’azione non era mai concepita a partire dalla sua cruenza; l’importante era che crescesse un “quadro collettivo”, una rete di compagni che fosse coordinata e capace di districarsi in un sociale sempre più complesso. Non abbiamo mai pensato ad “alzare il tiro” o di attaccare “al cuore dello Stato”, di discorsi del genere non ce ne poteva fregare di meno. Per noi era più importante che il capo che rompeva i coglioni in fabbrica potesse trovare gente capace di sfasciargli la macchina e farla franca, poiché era proprio questa rete a dimostrare direttamente i suoi frutti positivi quando andavi al lavoro il giorno dopo. Oh, ci sono compagni a cui per vent’anni (vent’anni!), dopo le loro vicende nell’Autonomia, non hanno più rotto i coglioni in fabbrica finché non sono andati in pensione. Ma vi pare poco? Questa era la forza del contropotere, cioè della forza immersa, intrecciata ai tuoi luoghi di vita. La clandestinità era l’esatto contrario.

Valerio

Il discorso di Donato, sull’applicazione nel territorio dell’uso legittimo della violenza, mi pare interessantissimo anche perché si notano le enormi differenze tra i cicli produttivi nell’alto Veneto e nell’Emilia; ma per quanto concerne lo stile di militanza, le nostre esperienze sono identiche. Là si applicava su un contesto di fabbrica, cosa che non accadeva a Bologna – e dico Bologna perché in Romagna non c’era niente, c’era un centro importante di Potere Operaio a Ferrara (con Guido Bianchini, mica cazzi) e a Modena, ma era un’altra fase. C’era una composizione sociale completamente diversa, con grosse fabbriche di “intoccabili” e piccole officine a dire poco “sonnolente”. Però quello che succedeva da voi veneti in fabbrica succedeva anche qui, e sempre in rapporto a quello che i “testi sacri” ci indicano come operaio sociale. Cambiava la posizione nel ciclo produttivo: i nuovi mestieri, l’informatica che avanza, la disoccupazione rivendicata in senso critico, eccetera.

L’Autonomia Operaia bolognese lavorava su questo tessuto esattamente come la compagine veneta lavorava su chi individuava come loro referente. L’idea di partire non da scelte ideologiche, ma da quello che il tuo territorio ti pone davanti, era perfettamente condivisa. E c’erano anche analogie nelle pratiche, come appunto il controllo del quartiere. Una cosa giustissima che sottolineava Donato prima è che il rapporto militante tra “avanguardie”, diciamo così, e base sociale non si forma sul luogo di lavoro (la fabbrica da loro, l’università da noi), ma si crea fuori, ed è prima un rapporto di amicizia e poi diventa di militanza. La seria attenzione che dedicavamo ai nuovi linguaggi deriva anche da questo confronto con il tuo presente. Sapete no, a Bologna in quegli anni c’era di tutto: gli indiani metropolitani, i buddisti…

Donato

Oddio, gli indiani mi sarebbero stati anche simpatici, i buddisti non so eh… [ridono]

Valerio

Guarda, c’era veramente di tutto. Per esempio, c’erano anche diversi gruppi di femministe, tra cui quelle che provenivano da Potere Operaio (quelle del salario al lavoro domestico, per capirci) con cui avevamo un rapporto storico e che finiranno tutte nell’Autonomia, tant’è vero che molte di loro tra il ‘77 e il ’79 finiranno arrestate per questioni di lotta armata (il gruppo del Self Help ha avuto due arresti e una latitante poiché associato dal Pm a noi di Rosso, per intenderci). Insomma, si lavorava su questa composizione perché questa c’era. E non è un caso che, sulla questione della forza, si parlasse di “illegalità di massa”. Ricorderete quella grande pagina di «Rosso», no? Ecco, riassunta in due pennellate l’illegalità di massa era esattamente quello: l’uso legittimo e proporzionato della forza in funzione del conseguimento di obiettivi pratici.

«Rosso. Giornale dentro il movimento» n. 6, febbraio 1976

Donato

Che poi è sempre una definizione di parte… perché secondo l’altra eravamo solo delinquenti, eh. Sono sempre, anche quelli, rapporti di forza.

Valerio

Esattamente. Anche su quel piano c’era una risposta dello Stato, ma nulla toglie che ci fosse un’enorme differenza tra quanto facevamo noi e le altre organizzazioni. In primo luogo, ci distanziavamo risolutamente dal modello delle Brigate Rosse e degli altri gruppi comunisti combattenti che si autoriferivano come “partito combattente”, ovvero centrati sull’idea del “nucleo comunista armato” che avrebbe attirato attorno a sé la classe operaia per poi muovere una rivoluzione diretta dal nucleo stesso. Niente di più diverso dall’Autonomia. E infatti anche noi a Bologna, così come i compagni veneti, non abbiamo mai praticato la clandestinità – se non, forse, per problemi strettamente emergenziali, come quando venivi individuato e partivano i mandati di cattura e dovevi sparire.

Donato

Però quella – lo dico perché magari ai ragazzi non è chiaro – quella non è clandestinità, è latitanza. Anche io mi sono fatto i miei anni di latitanza, ma c’eri costretto e amen.

Valerio

E infatti si lavorava anche quando si era via…

Donato

E come no! Appunto perché era solo latitanza, non clandestinità.

Valerio

Ricordo anche che a un certo punto, con una formuletta buffa e che a me faceva molto ridere, a Bologna si parlasse di “militante complessivo”. Cosa s’intendeva? Quello che diceva Donato prima: che stavi dentro alla classe, dentro a quella composizione che avevi davanti per dargli un vettore organizzativo. Detto altrimenti, significava che oltre agli scontri facevi conricerca, stando attento a qualsiasi cosa si muovesse per comprenderla dall’interno così da orientare una sua eventuale effervescenza – o magari capivi che, nonostante le apparenze iniziali, quei soggetti non ti interessavano e mandavi tutto a fanculo, ma il punto è lo stesso. Insomma, una ricerca continua del conflitto. Laddove c’era una contraddizione, tu entravi e cercavi di capire come riuscire cogliere quell’esuberanza e trarci una rivolta.

L’uso della forza era proporzionato e finalizzato solo ed esclusivamente a questo. “Una struttura di servizio alla classe”, come riassumeva qualcuno, con cui andare dove la classe, da sola, non riusciva. Ripeto, ritorniamo al Galletto rosso e alle pratiche di sempre: il padrone non cede alle rivendicazioni? Be’ cederà, e cede eccome! Non voglio dilungarmi, ci siamo capiti. Se queste erano le premesse, ne deriva che tu scomparivi dal tuo tessuto sociale solo se venivi individuato dalla repressione; ma questo era interpretato come un incidente sul lavoro, a differenza di altri gruppi che andavano in clandestinità senza essere mai ricercati. Pensate a come le Brigate Rosse distinguevano i loro quadri tra “irregolari”, cioè il giro largo di simpatizzanti e collaboratori, e “regolari”, cioè brigatisti veri e propri che, pur non essendo ricercati, decidono di costruire il partito armato della rivoluzione, e fanno solo quello.

La nostra e la loro erano quindi due concezioni della lotta armata completamente diverse, e certe volte antagoniste. Tocca ammettere però che, soprattutto dopo Moro, molte di queste esperienze si sono incrociate. Per dinamiche differenti da momento a momento, da città a città, da soggetto a soggetto; non è facile riassumerlo in pochi cenni. Io posso parlare solo di Bologna. Sono stato in Potere Operaio dalla nascita nel ’69 al suo scioglimento nel ’73, e poi nell’Autonomia dal ’73 fino al ’79 con il processo “7 aprile”; quindi queste connessioni le conosco bene e posso dire che sì, qualcuno le ha tentate, ma non sono mai riuscite.

Bologna poi ha avuto un’altra caratteristica, in virtù di quel sentimento amicale, di amore fraterno di cui parlavamo prima e che da noi ha avuto un significato politico enorme. Eravamo tutti amici, eravamo davvero compagni, si viveva giorno e notte insieme. Si faceva intervento in continuazione, ma si dormivano tre-quattro ore per notte soprattutto perché si era sempre per strada. C’erano le feste, i casini, i cortei notturni, le cose fatte alla cazzo tra amici… E questa fratellanza ce la siamo ritrovata anche in tribunale. Quando partì un grosso processo, il cosiddetto “Prima Linea bis” (Prima Linea non c’entrava un cazzo, si chiamava così solo perché alcuni infami milanesi e torinesi avevano coinvolto alcuni dei nostri e così sono stati tirati dentro; da noi c’erano le Fcc, che erano un’altra roba, ma non divaghiamo), vengono presi in 23 tra compagni e compagne (sottoscritto compreso). A Bologna in quel processo e sul suo seguito non abbiamo avuto nessun pentito. Mai. Perché? Forse sbaglierò, ma sono convinto che questa tenuta venisse anche dalla fratellanza profonda tra compagni, da quell’impossibilità spontanea a fare del male ai tuoi.

Faccio un rapido esempio. Quando mi hanno arrestato erano le tre di notte. Mi hanno portato nella caserma di via dei Bersaglieri, perché il nucleo operativo antiterrorismo era lì. Ci ho trovato sì i carabinieri, ma soprattutto il Pm lì che mi aspettava. Mi fece vedere il mandato di cattura, con l’associativo per banda armata, ma anche altri 32 reati specifici, con robe assurde… A quel punto mi ha messo davanti a un’alternativa: “Trent’anni e passa di galera, oppure decidi per un percorso di collaborazione che comincia stanotte. Tu inizia a parlare e se continui stasera torni a casa”. Io l’ho mandato letteralmente affanculo. Si è incazzato, ha detto che quello non era linguaggio consono a un magistrato, e mi sono fatto la galera.

Ma potevo io, quando mi chiedeva i nomi (e ci ha provato, il merda, “conosci questo, conosci quest’altro?”), potevo denunciare mio fratello, mia sorella? E badate che qui la politica e l’eroismo non c’entrano un cazzo, c’entra il voler bene alle persone con cui hai condiviso gioie e pericoli. Darsi alla lotta armata e trovarsi in scontri a fuoco dove rischi di morire da un momento all’altro non sono bazzecole. Certo, qualcuno trent’anni prima di noi aveva passato le stesse cose, o almeno mio padre, che è stato partigiano, me le raccontava così: il succo era lo stesso. In quegli anni è capitato più di una delazione, ma sempre da altre parti, in organizzazioni dove le cose andavano a modo loro. Che devo dire, siamo stati fortunati?

«Autonomia» n. 7, febbraio 1979

Donato

Eh no, non è mica questione di fortuna!

Valerio

Non lo è perché per noi militanza non è soltanto lo stare fianco a fianco in azione, ma esserci anche fuori. Essere amici, affrontare i problemi, compresi quelli personali, che ti tieni nella testa. Nonostante l’attenzione e la disciplina che ti dai, non puoi essere sempre sicuro di te. E allora, se hai dei compagni veri ti volti e chiedi conferme, magari a una tua compagna che è anche femminista. [Rivolto a Donato] Ma quante notti abbiamo passato a parlare di dubbi, di problemi, del rapporto uomo-donna o dei rapporti di potere nei gruppi? Il dubbio ci ha sempre accompagnato e l’unico modo per affrontarlo seriamente era discuterne con i tuoi, con quella gente con cui poi condividevi anche le lotte. Non siamo mai stati supereroi, abbiamo sempre avuto le nostre debolezze e le nostre fragilità; poi certo, in azione era tutta un’altra cosa. Lì il cervello funziona in un’altra maniera, ci sei tu e ci sono loro, “classe contro classe, forza contro forza”, punto. Con il nemico il rapporto è tecnico, essenzialmente tecnico. Ma chi tu sei veramente lo capisci e lo discuti fuori.

Donato

Giustissimo, condivido tutto. Torno però un secondo su una questione importante, visto che magari è passata in sordina. Noi non abbiamo mai concepito l’omicidio politico, bisogna dirlo chiaro e tondo. È anche questo che ha permesso una tenuta politica. Ci sono stati anche tra di noi casi di tortura, ma è altrettanto ovvio che quando arriva, in situazioni come la nostra si innestano dinamiche completamente diverse nel momento della repressione, e per vari motivi. Primo, perché sei una figura pubblica, e quindi hai immediatamente chi fuori ti guarda le spalle. Vi faccio un esempio molto terra terra: io sono stato arrestato da latitante, dopo un anno e mezzo, per cui potevano spaccarmi. Volevano sapere cosa aprissero le chiavi che avevo in tasca visto che oltre al sottoscritto c’erano un’altra decina di compagni latitanti. Per cui io subito ho pensato: “Ecco, ora può mettersi male”. E invece perché non è successo? Perché non appena mi hanno arrestato mi trovano un documento che avevo con me, un documento di un compagno che avevo falsificato talmente bene che non ci credevano. I carabinieri vanno quindi da lui e immediatamente si avvia una catena di Sant’Antonio, una rete di protezione fuori dalla cella che mi salva da ulteriori problemi oltre all’arresto. Tutto questo perché eravamo figure pubbliche, sostenute fuori dal movimento.

L’altro fattore, appunto, è che non abbiamo mai concepito l’omicidio premeditato come strumento di crescita del contropotere. Io non so se ci saremmo arrivati, perché parliamo di un periodo storico molto preciso, e chissà cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente; ma nella nostra esperienza non è mai accaduto che quest’ipotesi potesse essere discussa. Poi l’incidente poteva sempre capitare, come quando vai a fare una rapina in banca e finisce male; ma non si è mai preso in considerazione l’omicidio intenzionale, che è tutt’altra faccenda. La tenuta dei compagni sta anche in queste coordinate.

Avete visto, Valerio finisce in un’inchiesta pilotata per reprimere delle aree autonome e gli arriva una botta di accuse di attentati che neanche sai dove girarti. È successo anche a me, quando avviene la tragedia a Thiene in risposta agli arresti del “7 aprile”, dove muoiono Angelo Dal Santo, Antonietta Berna e Alberto Graziani. Io vengo immediatamente coinvolto, spiccano il mandato di cattura la sera stessa e mi tirano addosso tutto quello che è stato rivendicato nel Veneto. Quindi, i mandati di cattura su cosa sono costruiti? Sono costruiti sulla radicalità del conflitto, e usano questo genere di suggestione caricando il singolo accusato di tutto quello che è riconducibile al gruppo, e solo a questo punto imbastiscono l’indagine. L’indagine è costruita sulla pesantezza delle accuse: più il mandato è pesante e più ti cercano, all’estero con l’Interpol o con Dalla Chiesa che rastrella i paesi e via discorrendo. Quindi la tenuta dell’Autonomia deriva in parte dalla scelta delle pratiche e in parte da un lato dal suo radicamento, che permise che fin dalla sera stessa degli arresti ci fosse chi andava in piazza a rivendicare la “libertà per i comunisti”…

Valerio

E anche a Bologna funzionava così, il giorno dopo c’era già un corteo.

Donato

E infatti di quello si parlava nel palazzetto al convegno del ’77, quello in cui le Br si dicono: “Toh, quanto consenso che abbiamo!” Era una battaglia politica con la “destra” del movimento sull’uso della forza. Mica volevamo entrare nelle Br, pensiero che non mi ha mai sfiorato neanche per sbaglio: rivendicare Curcio e la detenzione politica diventava un elemento di battaglia politica. Questo per dire che l’estensione della solidarietà per i detenuti era centrata su quello che sarebbe avvenuto fuori dal carcere una volta che ci finivi tu.

Poi, vorrei parlare di un altro elemento e parto anche qui da un esempio concreto. Primavera del ’78, siamo in pieno sequestro Moro. A Milano all’Alfa il sindacato contratta con il direttore di stabilimento i famosi “sabati lavorativi”. Cioè firma un accordo dove si stabilisce che, per come è organizzata, la fabbrica produce poco e si possono fare venti Giuliette di più al giorno. Ripeto, è il sindacato che gestisce ‘sta porcata e che si mette a fare il controllore della produzione, e parallelamente è su queste basi che il Pci si gioca l’ingresso nell’area di governo. Tutto il nostro disprezzo per il Pci parte dal governo dei processi produttivi, mica dalle seghe mentali dell’ortodossia ideologica (detto per inciso, questo straordinario non pagato rientra in quella “teoria dei sacrifici” di Lama, giusto per dare un po’ di concretezza ad altri discorsi che avrete sentito parlare in una maniera fumosa). I compagni vanno per impedire lo straordinario, c’è una reazione del servizio d’ordine Cgil e piciista, posto a difesa della produttività, che li carica assieme alle forze dell’ordine.

Tutto questo avviene in contemporanea al sequestro Moro. Quindi, tu da un lato vedi l’Autonomia che vuole scardinare la giornata lavorativa sociale, perché individua lì il nocciolo del problema e della rigidità di governo che informa le relazioni sociali; e dall’altra parte chi che crede che il problema sia raggiungere un fantomatico “cuore dello Stato”.

Valerio

Esatto, perfetto. L’hai detta benissimo.

Donato

Questa è la contraddizione che si gioca tra noi e i “combattenti”. L’elemento che volevamo rompere era la rigidità delle otto ore. Ed è così ancora oggi! Sono passati cinquant’anni e non soltanto non riusciamo a trovare strumenti per spaccare su quel punto, ma anzi le ore stanno aumentando! Quello che a Valerio e me sembra incomprensibile, oggi, è che sia sparito il tema della riduzione dell’orario di lavoro, che per noi era centralissimo e su cui ci siamo giocati tutto. Quando parlavamo di “lavorare tutti per lavorare meno” ci credevamo! Eravamo convinti che quella fosse la strada della rottura, la strada che ci avrebbe permesso di uscire da quella crisi del capitale. Nel discutere sulla presenza o no di un processo rivoluzionario in quelle esperienze, è a questo punto che dobbiamo guardare, perché era per noi il modo per introdurre nella crisi di capitale la soluzione verso la rivoluzione comunista. Così è andata.

E io sono ancora convinto, dati alla mano, che nell’insistere sull’orario e sulla frattura della giornata lavorativa ci avessimo visto giusto. Proprio perché è esattamente quello che si è realizzato: non come lo volevamo – ovvero un controllo della crisi attraverso appunto il contropotere, attraverso cioè un accumulo di forze che ti permettesse di usare la flessibilità nella giornata lavorativa a tuo vantaggio – ma ribaltata nella sconfitta – cioè il precariato. Tutti gli aspetti peggiori della condizione lavorativa di oggi sono il risultato di quella sconfitta.

Se io dovessi suggerire a chi oggi fa militanza una chiave di lettura, partirei chiedendogli: ma tu come hai risolto, anche singolarmente, questa contraddizione nel lavoro vivo delle otto ore e della rigidità? Come pensi di affrontarla?

[Continua…]

 

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LA MILITANZA NON VA IN VACANZA. Dagli anni Ottanta a oggi, e oltre

Sabato 17 giugno, ore 15.30, Modena,
@ spazio Happen, via Canaletto Sud 43, sotto l’RNord
Quarto e ultimo appuntamento del ciclo di incontri MILITANTI.
La militanza non va in vacanza. Dagli anni Ottanta a oggi, e oltre
Nella memoria collettiva, la militanza politica sembra scomparire dopo l’assalto al cielo degli anni Settanta. La fase iniziata con gli anni Ottanta, ancora in corso, appare come un buco nero.
È il periodo della reazione ai grandi cicli di lotte, quello della controrivoluzione capitalistica, del riflusso nel privato, dell’epidemia di eroina, dell’edonismo dilagante, della precarietà generalizzata, dell’avvento di internet e del mondo unipolare, che ha portato al mondo come lo conosciamo oggi.
Tuttavia, gli ultimi quattro decenni non sono stati affatto privi di conflitti, sperimentazioni, movimenti e forme di organizzazione politica anche originali, tra ambivalenze e contraddizioni, che si sono dovuti confrontare con la crisi della militanza: dal movimento antinucleare a quelli studenteschi della Pantera e dell’Onda, dalla stagione dei centri sociali alle mobilitazioni noglobal, dalle tute bianche al blocco nero, fino agli “ultimi fuochi” del 15 ottobre 2011 e alle “piazze populiste” degli anni recenti.
Quali sono stati i soggetti sociali protagonisti degli ultimi movimenti? Quali sono stati pregi e limiti delle loro forme di organizzazione? Come si è trasformata la militanza e il conflitto di fronte all’attivismo e alla testimonianza? Se siamo di fronte all’esaurimento di un ciclo, come immaginare (e praticare) di andare oltre?
Ripercorrere questi “decenni smarriti” vuol dire confrontarsi con i nodi irrisolti del presente, per riarmare il pensiero di fronte all’attualità, e costruire una prospettiva solida dentro e contro la storia di oggi. È quello che vuol dire essere militanti.
Ne parliamo con Gigi Roggero, ricercatore militante, collaboratore della rivista «Machina», autore di Elogio della militanza (2016), Il treno contro la Storia (2017), L’operaismo politico italiano (2019), Per la critica della libertà (2023), pubblicati con Deriveapprodi.
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Guido Carpi – FOTTUTI! La formazione del rivoluzionario: Lenin e i bolscevichi

Non si fa la rivoluzione senza rivoluzionari e rivoluzionarie.

È la lezione, ancora oggi tutta da conquistare, dei bolscevichi, che con l’Ottobre sovietico incendiarono il Novecento. Lenin ha speso l’intera propria opera a formare questo tipo di nuovo militante politico. Ogni sua riga è rivolta ai militanti, anche quando essi erano ancora di là da venire. Ipocriti e professori, invece, li voleva fuori dai piedi.

È questo il Lenin di cui abbiamo voluto parlare, nel secondo incontro del ciclo MILITANTI: giovane e sovversivo, audace e sognatore, pieno di intelligenza e odio di parte, lucida rabbia e realismo rivoluzionario, dentro il proprio tempo ma contro di esso, con gli stessi problemi, errori e contraddizioni da affrontare dei militanti di oggi – tra guerra, sfruttamento, mancanza di un orizzonte di trasformazione e l’urgenza del “Che fare?”. Un Lenin quindi ancora vivo, perché non mummificato dalle tristi parrocchie (e spesso inquietanti sette) “marxiste-leniniste-trozkiste-maoiste-sinistre” e chi più ne ha più ne metta, che hanno finito per renderlo inoffensivo.

L’idea-prassi centrale di Volodja, il nucleo della sua forza, è infatti l’«attualità della rivoluzione», la sua declinazione e articolazione concreta in ogni passaggio, momento, sia tattico che strategico, della militanza comunista: dall’inchiesta in fabbrica all’insurrezione nelle strade, dalla stesura di un volantino alla guerra civile. Una rivoluzione che scoppia e vince in Russia non perché fossero mature le condizioni storiche ed economiche del suo capitalismo, ma perché lì era più forte la lotta di classe e l’organizzazione politica degli operai. La lezione leniniana ci dice insomma che c’è da cogliere l’occasione quando si presenta – non solo: l’occasione c’è da prepararla.

«Marx è la scoperta dell’antagonismo, l’assunzione del punto di vista, di parte, per possedere e contrastare la totalità nemica. Lenin è la scoperta dell’organizzazione, di quella parte, per costituirsi come forza in grado di battere quel tutto, altro da te e contro di te», nelle parole di un nostro cattivo maestro.

Come si forma, allora, un militante politico? Qual è il punto di vista del rivoluzionario? Che rapporto c’è tra teoria e pratica, spontaneità e organizzazione? Qual è stata la formazione di Lenin e dei bolscevichi? Di tutto questo ne abbiamo parlato sabato 25 marzo a Modena con Guido Carpi, professore di Letteratura russa all’Università di Napoli, autore della bella biografia di Lenin in più volumi Lenin. La formazione di un rivoluzionario e Lenin. Verso la rivoluzione d’Ottobre (editi entrambi da Stilo Editrice), che ci è piaciuta davvero molto. Questa è la trascrizione del suo intervento. Buona lettura, fottuti.

 

Guido Carpi

Quando ho deciso di occuparmi di questi temi, ho deciso fin dall’inizio di parlare del Lenin rivoluzionario. Primo perché è molto difficile scrivere la vita di un uomo che diventa il fondatore di uno Stato, perché chiaramente la sua biografia diventa la storia di un Paese; poi, io pensavo e penso ancora, che a noi tutti serva, più che altro, conoscere il Lenin prima della rivoluzione, specialmente i suoi primissimi passi. Non ci vuole nulla a fomentarsi leggendo la storia dell’Ottobre e l’epica solita: è facile e anche tutto sommato autoconsolatorio. Quello che, a parer mio, in questo momento storico serve di più a noi è la parte meno conosciuta: cosa facevano i bolscevichi quando erano deboli? Quando l’egemonia ferrea in mano ce l’avevano gli altri? A ben vedere, infatti, ci sono molti aspetti avvicinabili allo sfondo contemporaneo che avete descritto: la necessità, per un «piccolo gruppo compatto», di reinventare gli strumenti della lotta; il problema di assumersi i rischi più pungenti durante la crisi dei gruppi e il tramonto di un ciclo; e infine, ovviamente, la guerra alle porte.

Certo, non bisogna neanche spingere eccessivamente avanti questa similitudine, perché come dicevate anche voi moltissime cose sono chiaramente diverse, tanto nel contesto macrosociale quanto nella psicologia degli attori: se non altro perché, e qui sta il punto più interessante, non sapevano come sarebbe andata a finire. La difficoltà maggiore nello scrivere di queste cose sta proprio nell’adottare la prospettiva dei personaggi, i loro dubbi, le loro incognite. Paradossalmente, è solo prescindendo dagli sviluppi che si riesce a cogliere come ragionassero, quale fosse il loro metodo e come costruissero una logica. Altrimenti ci viene naturale guardarla tutta dalla fine, quasi ci fosse un piano divino, cosa che nessuno qui chiaramente pensa. Tutte tappe “per arrivare a”. Invece, per i bolscevichi, tutti i passaggi strategici e tattici erano risposte a problemi del momento. Azzardi dunque, che nella pratica e nella teoria aprivano spiragli imprevedibili per lo stesso Lenin. Dopotutto, come amava ripetere, la storia procede a zigzag.

Per pormi su questo piano, è stato fondamentale approfondire la sua corrispondenza privata, una sezione delle sue opere complete che nessuno legge mai, anche perché parliamo di diciassette volumi ognuno sulle 700-800 pagine. Per anni e anni, grossomodo dal 1960 in poi, sono state raccolte tutte le lettere che Lenin, soprattutto grazie alla moglie Nadežda Krupskaja, si scambiava quotidianamente con i militanti all’estero e in Russia. Migliaia e migliaia di pagine fittissime, in cui però emerge nero su bianco come affrontassero ogni momento e ogni crisi. Lì sta la parte più preziosa. Per come la vedo io, l’esperienza dei bolscevichi si può prendere a modello non tanto per cosa abbiano fatto (è impossibile replicarlo nel mondo di oggi, è inutile ripeterlo), ma per il come cercavano di risolvere i problemi.

Per quanto riguarda il giovanissimo Vladimir Il’ič (o Volodja, come lo chiamavano a casa), com’è probabilmente per tutti noi, il 50 per cento lo dovette a una sua non sempre chiara “ambizione di diventare”, e per l’altro 50 per cento era come le circostanze lo hanno formato. Niente di eccezionale: cresciamo tutti in un’epoca alla quale cerchiamo di dare la nostra impronta, ma da cui veniamo a sua volta condizionati. Se quindi ci volgiamo a guardare la Russia di quegli anni, troviamo un paese con delle contraddizioni fortissime. Un paese in cui si stava sviluppando un capitalismo rapace (che Lenin è stato notoriamente uno dei primi a studiare), ma ancora con una struttura di base prevalentemente agricola; un paese arretrato che da secoli cercava di stare disperatamente alla pari dei concorrenti europei, soprattutto sul piano militare, sfruttando spietatamente i contadini. Si può forse dire che su questa constatazione poggia una delle intuizioni del Lenin maturo: quando scoppierà il ’17, se ai ceti operai verranno affidati il compito d’avanguardia, di indicare la linea costruendo un’egemonia nelle lotte, il grosso della massa ribelle sarà costruita sui contadini. Non a caso, i menscevichi e gli altri marxisti sottovalutavano ampiamente i contadini, per poi ricredersi a giochi fatti sulla loro funzione come forza d’urto per abbattere lo Stato.

Passiamo poi a un altro importante punto che avete sottolineato, ovvero che i bolscevichi si trovassero alla fine di un ciclo. È vero. Naturalmente la rivoluzione non comincia con Lenin, e c’era già stata una stagione gloriosa di rivoluzionari, i narodniki, i populisti (traduzione di una parola che significa “servizio nei confronti del popolo”, niente a che vedere con quelli di oggi). Socialisti delle più diverse tendenze e grado di radicalità, i populisti erano soprattutto gente scolarizzata e convinta che chi ha studiato, o quantomeno ha una cultura, deve tutto “al popolo”, a quel popolo che ha sofferto per secoli. L’unico dovere di un uomo di cultura diventa dunque quello di aiutare questo popolo a riscattarsi.

È una convinzione che arriva anche a Lenin, direttamente dalla famiglia. Suo padre, per esempio, la declinava fondando scuole, collocandosi nell’ala più moderata del populismo; manco a dirlo, dopo l’attentato allo Zar del 1881, tutte le scuole verranno chiuse perché viste come focolai di libero pensiero. La pesantezza del fallimento è tale che lo porta a un colpo apoplettico e muore. Suo fratello Aleksandr, invece, tenta la strada più radicale. Si unisce giovanissimo ad alcune frange terroriste, cercano di organizzare l’assassinio dello Zar successivo, ma li beccano prima di lanciare l’attacco. E così, quando deve sostenere l’equivalente della prova di matematica alla maturità, a Volodja arriva la notizia dell’impiccagione di suo fratello.

Sebbene resterà sempre apertamente debitore verso il populismo, in questo momento Vladimir capisce che le cose vanno organizzate in modo diverso. Capisce cioè che non ci si può limitare a un riformismo al ribasso, accontentandosi di quel che c’è, o a un gioco di guardie e ladri con la corona cercando di capire chi ammazza per primo chi (perché tanto ce ne mettono subito un altro e non si va granché lontano comunque). Il giovane Lenin, per quel poco che si può ricostruire, è un ragazzo certamente segnato, ma su molte cose mi pare di rivederci i miei vent’anni, con tutti i suoi elementi di cazzonaggine: fughe con gli amicastri in riva sulla Volga, gare a chi beveva più birra – [rivolgendosi al presentatore] come stiamo facendo ora io e te – e di mezzo le letture. Disparate, confuse, ma formative.

Ripeto, sappiamo poco proprio della sua vita di tutti i giorni – alla fine dei conti, è attraverso questi elementi che una persona diventa comprensibile quando si esprime nelle sue forme più alte – perché si è cercato di cancellarne larghe tracce. Forse perché poco si prestavano a farne un “apostolo” politico, forse perché il “ragazzaccio” non rientra nell’immaginario del socialismo ufficiale… chi può dirlo. Fatto sta che scorrendo le memorie dei suoi compagni pubblicate negli anni Venti e confrontandole con le riedizioni di cinque o sei anni dopo, vediamo che tutte le parti più interessanti, più belle, più vive, dove ci sono le cose che rendono di più il senso dell’uomo, sono state tagliate. Non parliamo poi delle sue opere pubblicate in vita: da una parte c’è una quantità di materiale mostruosa (in russo sono 75 volumi e cambiano parecchio da quelle italiane), dall’altra c’è tutto il rimaneggiamento fattoci per costruire il “santino” del rivoluzionario.

Tornando a noi, la prima cosa comunque che ha fatto Lenin da ragazzo è stato quello di porsi il problema della fine di questo ciclo del populismo, cioè questo doppio corno di riforme civili e terrorismo populista. Terrorismo che, si badi, all’epoca era perfettamente giustificato, cosa che pensava anche lo stesso Lenin. Li considerava dei velleitari sul piano strategico, pensò sempre che la violenza andasse organizzata e che quella individuale non servisse a un cazzo, ma certamente quando un uomo di Stato andava in mille pezzi si fregava le mani per la goduria. Insomma, era un terrorismo che trovava un largo consenso. Non è un caso che, nonostante i loro limiti intrinseci, i populisti continueranno ad esistere nel susseguirsi dei decenni come lato alternativo ai socialisti russi: da un lato i marxisti, i socialdemocratici, i bolscevichi e i menscevichi; dall’altra gli esery, cioè i “socialisti rivoluzionari” che venivano dal populismo (leggasi: puntare sui contadini, spontaneismo e soprattutto bombe, tante tante tante bombe contro i ministri). E non sorprenderà quindi neanche che nel 1905-106, gli esery e i bolscevichi si prestassero in leasing i laboratori per la fabbricazione degli esplosivi. Poi ognuno ci faceva quello che voleva e buonanotte.

Un’altra cosa interessante del primo Lenin era la sua capacità di leggere Marx, ma fin da subito cercando di applicarlo alla situazione in cui si trovava la Russia, un paese che Marx non aveva mai immaginato come il detonatore per una rivoluzione mondiale. Secondo il marxismo, diciamo “classico”, la rivoluzione non scoppia in un contesto a industria arretrata. Per di più, sul piano sociale, il Moro vedeva la Russia suppergiù come una cittadella della reazione. Invece Lenin studia veramente, immergendosi nell’osservazione e costruendo di fatto dal nulla una macrosociologia del suo terreno di lotta. La quantità di cose che riusciva a fare è incredibile, io mi chiedo a volte quando dormisse. Leggendo, osservando e dialogando con una mole di lavoratori scandaglia a tappeto l’economia di un paese sconfinato. Scopre così che si va sviluppando un capitalismo moderno non in contrasto con il retroterra agrario, ma piuttosto incistandosi in quel mondo arcaico, brutale, con forme di intimidazione para-mafiosa.

Dunque, per Lenin se vuoi agire su un complesso sociale, la prima cosa da fare è capire esattamente cosa sta succedendo, qui e ora, con buona pace delle teorie a cui si è affezionati. E poi, ovviamente, ci vogliono i militanti. Ma si rende anche conto fin da subito che i militanti non stanno da una qualche parte e non basta andarli a scovare, pescandoli uno dopo l’altro: i militanti vanno creati, specialmente quelli del tipo che servono in una fase peculiare. Siamo infatti in un periodo abbastanza delicato, che finisce con la pubblicazione del Che fare? – ma prima una premessa, specialmente per i più giovani.

Leggere Lenin non è facile. Tutti i suoi testi, tranne una manciata minima, sono scritti per motivi contingenti, specifici, e quindi intrisi di polemica momentanea su questioni delle quali, spesso e volentieri, non sappiamo nulla. Non parliamo poi della ripetitività o della loro pesantezza. Di sicuro non sono testi propriamente teorici, con formule applicabili a tutte le situazioni della vita. Lenin non lo avrebbe mai fatto. Se, come imparerà dall’esperienza, le teorie nascono dalla pratica, ne consegue che quando fissi sulla carta le idee che ti balzano in testa, queste sono ancora sature di quello che stai facendo. Immaginiamo per esempio che voi, dopo un ciclo di lotte che avete fatto coi compagni qui a Modena, scriviate un libro intitolato una roba come “Modena e rivoluzione”. Benissimo. Questo sarà chiaramente pieno di polemiche contro compagni di altri gruppi (che so, di Bologna), di riferimenti più o meno velati a cose che avete vissuto, e a meno che uno non sia venuto a fare a mazzate insieme a voi, non ci capirà fondamentalmente una sega. Ecco, in questo sareste dei leninisti da manuale.

Questo perché la teoria deve sgorgare, deve essere la sintesi, il succo della lotta. Non si dà teoria senza lotta. In principio era la lotta, da questa ne scende la teoria e allo stesso tempo la pratica nell’organizzazione. Non credo che Lenin lo abbia mai detto in una formulazione così schematica, ma per lui è un dato indiscutibile.

Ritorniamo così al problema della formazione. Non è che i militanti, fino a quel momento, non ci fossero; la rogna semmai era che erano del tipo populista. Ossia erano quasi tutti del ceto colto (per com’era messa la Russia dell’epoca; la massa popolare era senza diritti, senza cultura, tutti analfabeti…) e si dedicavano alla rivoluzione nel modo detto prima, cioè cercando di migliorare la società per quella che era o creando piccoli gruppi di bombaroli, ma senza nessun legame con il movimento operaio che andava sviluppandosi. C’era semmai qualche contatto con il mondo contadino, ma quest’ultimo restava comunque poco permeabile a certo idealismo. In tutta franchezza, questi disgraziati vivevano poco meglio che nel neolitico e per giunta stavano subendo l’arrivo del capitalismo. Dico, avete presente cosa succede in un paese “arretrato” quando arriva il capitalismo, come avviene oggi nei paesi del Centrafrica? Arriva un capitale doppiamente rapace, doppiamente brutale, che si innesta su debolezze strutturali e schiavitù pregresse…

Lenin, almeno su questo, non aveva dubbi: da bravo marxista per lui la rivoluzione la fanno gli operai. Oggi forse andrebbe rivisto e andarci cauti, così come del resto cauto era anche lui. Perché sì, gli operai saranno anche l’avanguardia, ma la Russia rimaneva un paese a maggioranza contadina e già si assisteva a quella doppia cinghia tra operai e contadini. Contadini, si badi, che non vogliono il socialismo, ma piuttosto una rivoluzione (come si diceva allora, in termini che oggi suonano dottrinari), “piccolo borghese”. Cioè vogliono la libertà, la democrazia e specialmente il loro pezzettino di terra, con quel minimo di tutele legali per venire considerati cittadini al pari degli altri. Per i contadini la rivoluzione era questa roba qua. Lenin certamente li assecondava: “Va benissimo, lasciamoli fare, così loro intanto fanno piazza pulita delle scorie feudali e poi noi proseguiremo”. Però, per questo passaggio ulteriore servono militanti di un tipo nuovo. Ma come si formano?

Be’, da realista Lenin ragiona sulla base di quello che passa il convento. Da una parte c’erano i populisti vecchio stile, magari giovani e con un’etica un po’ idealista del sacrificio esemplare e purificatore; e dall’altra i nuovi operai di un paese non ancora industriale, e dunque concentrati in aree precise come le periferie di Mosca, Pietroburgo e Kiev. Questo il panorama. L’intuizione politica, invece, è notare che si andava compattando del materiale esplosivo tutto nello stesso punto, cioè le periferie appunto. E aggiungiamo che già si osservava una possibile internazionalizzazione degli effetti delle lotte, dal momento che in quelle aree industriali finivano le delocalizzazioni (nessuno ha inventato niente) di imprese estere come la Siemens, la Falck e la Nobel. Enormi stabilimenti nelle periferie delle grandi città in cui arrivavano i contadini spinti dalla fame, dunque una classe operaia di prima generazione. È lì che Lenin e i suoi (allora pochi) compagni vanno.

Occhio però a non abboccare alle solite visioni caricaturali, del tipo che se non fosse stato per quattro fanatici che andavano a rompergli i coglioni tutti i sabati sera, i proletari sarebbero ancora lì a patire e non sarebbe successo nulla. Gli operai russi di allora facevano una vita terrificante, lovecraftiana. Il livello di sfruttamento, di abbruttimento e disperazione arrivava a un punto tale che anche la persona più tonta e meno portata per il pensiero politico prima o poi andava a cercare qualcuno che gli spiegasse come uscirne. Si vive una volta sola e… ti sale la carogna. Ancora una volta, in condizioni diverse oggi troviamo risposte simili. Per esempio, la mancanza di prospettive per un ragazzo giovane è tale che probabilmente anche se non ne si ha voglia, la domanda su come cazzo uscirne te la fai.

A Lenin servivano gli operai, ma anche lui serviva a loro. Si fanno quindi i loro bei circolini dopolavoro, e progressivamente inizia a delinearsi un tipo di militante diverso, che coniuga la sicurezza teorica (magari oggi può sembrare un marxismo tagliato con l’accetta, ma anche la loro vita era tagliata con l’accetta, e non c’era tempo per troppe raffinatezze) con l’energica decisione di impegnarcisi fino in fondo (se tanto la tua vita è una merda, non hai niente da perdere). Forse questi due elementi non confluivano sempre nel singolo individuo, ma di certo nello spirito di gruppo. Passo passo, pescando dalla preparazione dei marxisti e dall’etica dei populisti, emerge un atteggiamento caratteristico che non è però la somma delle parti. Leggendo i carteggi si nota, per esempio, un elemento quasi giocoso, guascone, nella sfida alle guardie zariste; è un gioco serissimo, perché se ti prendono sono cazzi amari, ma c’è poco da fare, a vent’anni il piacere di fare casino ce l’hai.

Naturalmente, una volta che nasce la rete di militanti, si pone il problema di come tenerla insieme a livello informativo. La Russia è grande e il regime è oppressivo, quindi tanti baci alla stampa libera. Comunicare diventa una rogna senza un coordinamento, e così fondano un giornale che abbia funzioni direttive. La sede è, per forza di cose, all’estero, e i modi per farlo entrare in Russia costituiscono un’epica di per sé. Chili di giornali nascosti sotto i giubbotti, tuffi dai finestrini dei treni durante le perquisizioni, catene infinite di passamano tra barcaioli… Ne succedono di ogni, ma ancora è presto per le sparatorie. Impareranno a sparare dopo, con il 1905 (hai voglia se imparano…) unendosi a persone che lo sanno già fare, tra cui il vostro amico Kamo, Ter-Petrosian (lui sì che lo trovano già bello che pronto!). Ma sto andando in fretta. Per farla breve, a voler cambiare le cose siamo in tanti, ed erano in tanti anche allora in quel posto di merda che era l’Impero russo; il problema era che non sapevano niente gli uni degli altri. Quando con la rivista hanno cominciato a comunicare e ad organizzarsi, è arrivato lo step successivo, il partito.

Capiamoci, io non sono un mistico del partito, ma neanche loro. E infatti, fin da subito si scozzarono non soltanto sulla definizione di partito, ma anche di militante. Chi ammettere e chi no? Militanti di professione o simpatizzanti a maglie larghe? La discussione su questi temi era continua. “Lo dobbiamo prendere o no il professore universitario che alla prima difficoltà si caca in mano e ci tradisce tutti?” “NÒ”, e giù di nuovo con gli insulti. Però parliamoci chiaro, la domanda era tanto cruciale quanto difficile da affrontare fino in fondo. Sinceramente io (che non sono un estremista, che sono vicino a Pap e al Catai, eccetera eccetera) se fossi vissuto allora forse avrei pensato che avevano ragione i menscevichi! Sai no, vista la difficoltà del momento viene naturale pensare che fosse necessario aprire di più le porte, che non fosse il caso di limitarsi ancora di più, perché mai buttare fuori della gente… e invece per Lenin stava dentro solo chi era disposto a fare sul serio. Si spaccarono fino al secondo Congresso – e anche su questo ci sarebbero aneddoti a non finire, come le pulci nei materassi, i pedinamenti della polizia, i ragazzi di strada che gli tirano la frutta marcia dalle finestre…

Potrebbero sembrare questioni di lana caprina. Poi però, quando arriva il momento insurrezionale, scopri che le scelte fatte a monte sul piano della definizione della militanza impongono da sé le loro conclusioni politiche: se tu, non dico hai preso dentro tutti, ma sei stato più a maglie larghe, è normale che una buona parte o persino la maggioranza della tua base sarà orientata ad allearsi con la borghesia, perché è da lì che li hai presi. Soggettivamente magari credono a quello che dicono, però quando il gioco si fa duro, insomma… Alla prova dei fatti la domanda di fondo diventa un’indicazione di metodo fondamentale, che non si può dire conclusa una volta per tutte, ma deve essere riaperta ad ogni cambio di fase: dove si ferma l’allargamento? Che limiti mettere nel bacino di soggetti da aggregare? Per Lenin, visto che nel vivo della mischia ormai diventa impossibile, è meglio avere il coraggio di scremare subito, all’inizio. Quelli che sono con noi al cento per cento, bene, gli altri affanculo.

Questo vale soprattutto per il periodo prima del 1905. Perché contrariamente a quello che si pensa su “Lenin il settario”, l’organizzazione non è mai un feticcio e dipende dal contesto. Come avrete notato leggendo i miei due volumi, lui cambia idea almeno tre o quattro volte, e dopo la rivoluzione la cambia ancora. Altro che dogmi! L’organizzazione che ti dai, lo ripeto, risponde a un determinato momento. Se tu sei debole, isolato, in Paese in cui “la rivoluzione? Boh, chissà quando”, l’idea tattica più adeguata secondo Lenin è quella esposta nel Che fare? ossia: A) delimitarsi prima di unirsi e B) comprendere bene cosa significa che la coscienza di classe arriva “dall’esterno”.

Soffermiamoci un secondo su quest’ultimo punto, che è il più controverso. “Dall’esterno” non vuol dire che arrivo io e spiego agli operai (o ai rider, o ai migranti, o che so) cosa devono pensare (ti mandano a fanculo), ma che la comprensione della politica passa attraverso un’esperienza di lotta che vada oltre le proprie vicende interne al luogo di lavoro. È solo quando le lotte escono da un contesto ristretto, quando si legano ad altri segmenti di società non soltanto in termini di generica solidarietà, ma alzando il tiro dello scontro, allargando e approfondendo il bersaglio – ebbene, è solo lì che tu capisci davvero in cosa possa consistere un’alternativa di sistema. Acquisire coscienza di classe significa alzare progressivamente lo sguardo oltre i propri obiettivi economici immediati per accedere a uno scontro politico più alto, mica ascoltare i pistolotti degli intellettuali radicali.

Non è quindi un caso che il 1905 non scoppi per merito dei bolscevichi. Scoppia perché l’Impero russo era un organismo marcio, e per giunta scoppia nell’occasione di una guerra, la guerra col Giappone. La riflessione sul rapporto tra guerra e scoppio delle contraddizioni non tarderà infatti a partire – e detto per inciso, non vorrei che ci stessimo avvicinando a una situazione di questo tipo, perché questi sconvolgimenti sono imprevisti. In quei mesi la redazione del giornale bombarderà dall’estero le basi locali in patria con articoli e scritti proponendo, ancora una volta, una tattica nuova. Lasciando su due piedi tutti sgomenti, il Lenin esule in Svizzera in quei giorni non fa che ripetere “basta, smettetela di imparare a memoria il Che fare? e basta con la storia dei rivoluzionari di professione, ora serve un partito di massa, trovare gruppi di sostegno alla nostra stampa, perché altrimenti gli attivisti andranno con quegli altri”. Un Lenin movimentista che, stando alle immagini classiche, nessuno si aspetterebbe.

Poi la situazione cambia ancora con il fallimento del 1905 e con la constatazione che un partito di massa diventa impraticabile in una congiuntura di repressione capillare. E tuttavia la situazione non è più quella di partenza, perché nel frattempo si è creato un brulicare di sindacati semilegali, di dopolavoro, persino di associazioni sportive. Per approfondire il radicamento territoriale senza perdere l’efficacia coordinativa, Lenin propone quindi di scommettere su queste strutture. La strategia, in quel preciso momento, diventa quella di permeare tutto questo spazio pubblico sempre in una logica di partito, ma in una maniera reticolare, molecolare. Manco a dirlo, anche su questa fase del bolscevismo si sa poco. Forse ancora di più che per l’infanzia dei leader, questa parentesi si è vista completamente oscurata nel periodo staliniano. Come è facile immaginare, l’amico Baffone e il “molecolare” non è che andassero troppo d’accordo.

Ad ogni modo, l’ho fatta un po’ troppo lunga e prima di chiudere questa prima parte della giornata e passare alle domande, concluderei con la formula del bolscevismo, che non si trova da nessuna parte negli scritti di Lenin ma la possiamo dedurre noi: prima viene la lotta, perché la lotta esiste a prescindere da noi. Non la troviamo già pronta né possiamo orchestrarla da zero, ma possiamo raccoglierla se capiamo esattamente quali sono i suoi termini, quali sono le pedine sulla tavola da gioco. Perché non c’è cosa peggiore in un momento rivoluzionario (e questo invece Lenin lo diceva eccome) di fare il gioco di qualcun altro. Vale a dire portare avanti, con le migliori intenzioni, gli interessi di una classe sociale che non è quella che voglio difendere, sia il re di Prussia o la borghesia democratica.

Prima viene la lotta, ma ci si butta solo ed esclusivamente dopo che si ha compreso fino in fondo quali sono gli interessi reali in gioco e di chi, sulla base di questi interessi, ci si può fidare in un dato momento. Faccio un esempio a caso: come figure sociali, siamo parecchio diversi da come può essere un lavoratore migrante, magari venuto qui dal Sud; eppure, in un una determinata fase storica, i nostri interessi di classe e il tipo di mutamento sociale a cui tendiamo possono collimare con gli interessi oggettivi di questi lavoratori. Ma prima viene la lotta, e poi da essa una teoria che non è una riflessione sui massimi sistemi, ma un ragionamento su quello che succede e la posta in palio. Solo da qui ci si apre alla possibilità di individuare la forma di organizzazione e la figura di militante più adatta.

Io, cosa si debba fare adesso, non lo posso sapere e non lo riesco a capire, se non altro perché mi ritrovo a continuare a ragionare con categorie degli anni Novanta, ma a ragion di più c’è bisogno di individuare qualche altro soggetto che, magari dove non ce lo aspetteremmo, scova nuove intuizioni.

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Discorsoni / Analisi

I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Terza (e ultima) parte – Il prossimo non sarà un Sessantotto gioioso

Pubblichiamo la terza e ultima parte (qui e qui le precedenti), relativa al dibattito politico, della presentazione modenese di Raffaele Sciortino del suo ultimo lavoro, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza (Asterios 2022). In queste ultime, incisive battute, l’autore risponde alle domande provenienti dal pubblico: abbiamo quindi optato, per facilitarne la lettura, di unire le risposte in un unico discorso di senso compiuto, apportando un numero minimo di tagli a digressioni e interventi dalla platea. La riflessione complessiva che emerge mette in risalto alcuni, importanti, punti politici, che crediamo si debbano tenere in considerazione, essere dibattuti e approfonditi: la questione baricentrale, nodale, dei ceti medi, che assume forma e valenza differente a seconda di dove collocata e della sua composizione, ma che pervade ogni scenario e che altrettanto dovrà fare per la ricerca militante; il campo di battaglia che sarà lo “stile di vita”, il livello di consumo e lo standard di benessere “di massa” che il piano inclinato di scontro materiale tra Stati Uniti-Occidente e Cina-Russia andrà inevitabilmente e direttamente a intaccare e su cui farà leva per mobilitare (o paralizzare) settori non secondari di società, tra guerra e cambiamento climatico; l’individuazione, non a livello ideologico ma di processi e dinamiche reali, degli Stati Uniti come perno inaggirabile che impedisce una trasformazione sistemica, la contrapposizione verso di essi come porta stretta e obbligata (ma non sufficiente) entro cui passare anche solo per pensarla, l’importanza cruciale che assume per questo ogni loro convulsione, interne ed esterna; le questioni della democrazia e della libertà, nelle declinazioni contraddittorie e anche contrastanti che ne fanno (e faranno) movimenti e istanze, e il necessario punto di vista di parte, e di classe, entro cui leggerle e piegarle; la necessità, speculare a quella di riscrivere una teoria dell’imperialismo, di ritematizzare l’antimperialismo, alle condizione date di esaurimento della parabola del movimento operaio e della natura (e contraddizioni) di nuovi possibili movimenti di là da venire. Tutto questo e molto altro. Buona lettura, e ancora grazie a Raf.

 

Raffaele Sciortino

Partirei da quanto detto dal compagno sulla continua retorica democraticista, perché davvero non si poteva riassumente meglio. Ormai non c’è un evento occasionale che riguardi il mondo extra-occidentale che non diventi un pretesto per la solita propaganda, tesa come sempre a ribadire che noi siamo i migliori perché “gli unici detentori della democrazia”. Guardate ai Mondiali di calcio in Qatar; sono certamente morti una quantità di operai, ma la questione era sempre, incessantemente ridotta a quella dimensione lì.

Sul piano culturale, parla da sé lo spirito antirusso, che si lega a un conformismo realmente imposto. Altro che “pensiero unico”! Persino quando si cerca di ragionare sulle sanzioni, i vantaggi per l’Europa o anche la possibilità che l’alleanza con gli Usa sia una forma di sfruttamento, resta sempre un nodo di fondo, che sarà tosto da sciogliere in futuro. Alla fin fine, cosa ti dice l’avversario, il “difensore della democrazia”, e quindi dell’Occidente? Che se alla Cina o alla Russia riesce il tentativo di ricollocarsi nella divisione geopolitica del valore, i tuoi livelli di vita devono deteriorarsi.

Per quello che interessa le grandi masse, dietro il discorso sulla Cina come minaccia, c’è la difesa spasmodica dei nostri standard di benessere e i nostri stili di vita. Parte sì dai piani alti della cultura con slogan idealistici, ma via via arriva ad aggredire questi nodi di fondo, fino a incistarsi sul piano dei consumi. Il terreno è molto spinoso e va maneggiato con attenzione, perché c’è una tanto amara quanto sostanziale verità che emerge.

Facciamo rapidamente un confronto con gli anni Sessanta e Settanta: una parte del proletariato e dei giovani in Occidente ha potuto abbracciare la lotta antimperialista, perché questa veniva coniugata, oltre che con un’istanza antiautoritaria, con un’istanza di miglioramento delle condizioni di vita per larghi strati della popolazione. Poi certo, c’erano i richiami cultural-politici al sovietismo e al maoismo. Oggi non è – e in futuro non sarà – più così.

In futuro, infatti, il gioco imporrà la scelta “Occidente vs. resto del mondo”, esattamente perché gli standard di consumo diventeranno insostenibili. La vecchia connessione tra l’istanza sociale (l’antiautoritarismo rivolto contro istituzioni come la scuola e il lavoro), l’istanza materiale (le condizioni di vita) e l’istanza ideale (l’apparente richiamo alla sinistra comunista) è tramontata da tempo.

Al momento è abbastanza tragica. Tuttavia, si deve rilevare che mentre allora né l’Urss né tantomeno la Cina avevano la possibilità di intaccare veramente, materialmente, le basi del compromesso sociale tra classi lavoratrici e borghesie nella sfera imperialista, da questo punto di vista oggi la situazione è mutata. A ben guardare, la “minaccia cinese” o l’ostinazione della Russia davanti ai diktat statunitensi mettono in moto processi economico-sociali che influiscono direttamente sulle nostre condizioni. Se emergessero lotte che affrontassero le risposte del nostro padronato al mondo extraeuropeo, potrebbero smuoversi le carte in tavola.

Ora, mi rendo conto che quanto sto dicendo è molto vago. Quello che è fuori discussione è che la propaganda sui valori occidentali diventerà martellante, e a questo dobbiamo prepararci. Da un lato siamo svantaggiati, dall’altro non c’è il rischio di essere equivocati come filorussi o filocinesi: in termini di soft power, quelle società non hanno il minimo richiamo sulle giovani generazioni. Quindi è bene mettesi nella testa da subito che fabbricarci un mito non ha nessun senso politico.

Ma anche così, rimane una contraddizione difficile da gestire. Solo se si andrà a incrinare l’accumulazione capitalistica qui in Occidente – il che, ricordiamolo, avrà ripercussioni severe sui meccanismi della riproduzione sociale – innescando lotte che possano aprire di nuovo un divario tra i nostri padroni e noi, ebbene, solo allora il discorso della propaganda occidentale vedrebbe indebolite le sue basi materiali. La speranza è questa, e molti indicatori ci dicono che si sta andando in una simile direzione. Ovvio, in una maniera non lineare: non sarà un Sessantotto gioioso, e non sarà facile riconnettere noi e le nostre classi lavoratrici con il mondo extraoccidentale.

Ma è altrettanto chiaro che senza questa connessione si va verso la guerra di tutti contro tutti. È inoltre evidente che questa operazione possa venire rapidamente ascritta dai nostri avversari alla categoria dell’antiamericanismo; e ciononostante, nella piena consapevolezza dei rischi, in questo mio contributo ho dovuto (e voluto) rimarcare che, per come si è strutturato il capitalismo mondiale negli ultimi trenta-quarant’anni, se non si indeboliscono gli Stati Uniti non c’è nessuna possibilità che si riapra un discorso antisistemico.

Lo ripeto ancora una volta: non possiamo aspettarci che l’indebolimento degli Stati Uniti sorga in primis dai suoi alleati-avversari imperialisti (Francia, Germania, Giappone). Il primo elemento che può rendere difficile la vita agli Stati Uniti e indebolirli viene necessariamente dal mondo extraeuropeo, in particolare dalla Cina. Ciò significa diventare filocinesi? Assolutamente no, perché la Cina rimane un paese capitalista che, a differenza dal passato, non ha nessun appeal sulle nuove generazioni.

Il punto non è quello. L’antiamericanismo – cioè l’individuare negli Stati Uniti il perno che impedisce il cambiamento del sistema e quindi, in prospettiva, un agente che ci schiaccia, vuoi nelle condizioni economiche, vuoi nell’indirizzarci verso un mondo sempre più segnato dalla guerra – è una condizione necessaria ma non sufficiente per una risposta antisistemica. Da lì però, in qualche modo, bisogna passare.

Ma questo non perché lo abbiamo scelto noi, non perché abbiamo individuato ideologicamente il nemico numero uno, ma perché i processi reali e le dinamiche già in atto ci dicono che se il capitalismo deve rinnovarsi e rivitalizzarsi, lo può fare solo se gli Stati Uniti riescono a combinare un riordinamento geopolitico globale con una ristrutturazione produttiva interna e internazionale.

Dunque, solo se questo suo tentativo non avrà successo possiamo sperare in, pensare a e, poi, lavorare per una risposta collettiva a dei problemi che diventano sempre più globali – basti pensare alle questioni energetiche e al cambiamento climatico. Solo in questo modo possiamo ipotizzare l’aprirsi una fase di transizione che non sarebbe più intra-sistemica (cioè tra un ordine globale e un altro) bensì, sperabilmente, da un sistema all’altro.

Capisco bene che parlare oggi di una fuoriuscita dal sistema di produzione capitalistico sembra fantascienza. Però, se pensiamo alla maniera catastrofica, alla precipitazione inaspettata con cui si è aperta la guerra in Ucraina e tutte le sue conseguenze, be’, se le contraddizioni vanno ad acuirsi noi di simili precipitazioni impreviste ne vedremo sempre di più. Proprio per questo carattere di instabilità catastrofica potrebbe tornare sul tavolo la discussione su quale può essere un nuovo ordinamento sociale per la comunità umana, visto che ormai i problemi si pongono su questa scala di gravità. Di più, sinceramente, al momento non saprei dire.

Sono sicuro, invece, che questo scenario comporterà per noi delle contraddizioni. Facciamo l’esempio dell’Iran. Puoi forse non essere con le donne che si vogliono togliere il velo? Ma al tempo stesso, in quella mobilitazione, gli Stati Uniti hanno inserito l’Isis; i curdi cercano di fare il gioco filostatunitense che hanno tentato di fare in Siria e prima in Iraq (l’unico posto in cui gli è riuscito)… Capite bene che al momento non siamo assolutamente in grado di padroneggiare contraddizioni di questo genere.

Ma da dove viene la nostra incapacità strategica? Perché non sappiamo più che pesci pigliare?

Perché non c’è una lotta di classe seria che possa richiamare a soluzioni fuori d’Europa al contempo democratiche e anticapitaliste. A guardarci un po’ più da vicino, ecco che in questo vuoto ritorna il problema dei ceti medi.

Lasciamo perdere per un momento la questione dell’impoverimento dei ceti medi in Occidente, che ha dato luogo alla prima fase del populismo, agendo dunque come un fattore di instabilità. All’infuori dell’Occidente la questione dei ceti medi si muove lungo due scenari differenti.

Il primo è quello auspicato da Pechino e dal partito-Stato, sul quale conviene aprire una parentesi. Per Pechino gli obiettivi a medio termine sono: risalire la catena del valore, ampliare l’accesso al benessere, rimpolpare i ceti medi privilegiando sui settori salariati. Da un lato quindi deve investire sui tecnici, sui laureati e sugli ingegneri, soggetti cioè che al tempo stesso fuoriescono dalla condizione strettamente proletaria, e che permetterebbero all’industria cinese di risalire a livelli tecnologici più alti, e quindi se non proprio di stare alla pari della concorrenza imperialista occidentale, quantomeno di giocarsela con buoni numeri. Dall’altro deve controllare i ceti medi di lavoro autonomo e di piccolissima impresa (oggi diffusissima in Cina) che potrebbero sfuggire di mano chiedendo istanze democratiche rivolte verso l’Occidente: un po’ come è successo ad Hong Kong. E in mezzo gli studenti, che potrebbero andare in una direzione come nell’altra, facendo parte della propria identità l’ascesa del capitalismo nazionale o il “pluralismo democratico” e la rottura con il partito-Stato.

A grandi linee, quindi, possiamo dire che la Cina, forse, è l’unico paese che ha la possibilità di indirizzare l’ascesa dei ceti medi facendone un elemento di stabilizzazione e di rafforzamento del capitalismo nazionale; ma se noi guardiamo fuori dalla Cina, vediamo cose molto diverse.

Altrove, il rapporto tra ceti medi e mercato mondiale (e con esso, la forza attrattiva che ha tuttora l’imperialismo occidentale sui giovani) si disegna come una sorta di patto, di contratto tacito. Questa l’offerta: se tu mi aiuti a scompaginare quel poco o tanto che sia rimasto di centralizzazione nel tuo capitalismo nazionale, di controllo statale interno, di barriere difensive rispetto al mercato estero (ovvero, nella terminologia occidentale, se tu mi aiuti a “democratizzare” il tuo paese), io ti faccio accedere direttamente al mercato mondiale, vuoi con l’immigrazione, vuoi con l’interscambio commerciale, con l’arrivo di capitali e così via.

Quindi negli altri paesi, nelle loro legittime aspirazioni democratiche questi settori, e in particolare i giovani – che sono rappresentati e si sentono in gran parte come un ceto medio in formazione, come una “gioventù di ceto medio”, e non perché effettivamente lo siano o lo possano diventare (essendo perlopiù proletari o semiproletari), ma per le aspirazioni indotte dalla capacità attrattiva del modello occidentale – vedono l’atlantismo liberale come la via più corta.

Al contrario di quanto succede in Cina, per questi soggetti saltare l’enorme sforzo di costruire un’economia nazionale un minimo più autocentrata, sbaraccare il proprio ceto politico (perché corrotto, arretrato, e così via), eliminare le residue difese protettive davanti ai capitali occidentali diventa la via per arricchirti, per migliorare la tua condizione. Insomma, come capite, il rapporto ceti medi e Occidente, ceti medi e mercato mondiale si pone in maniera non del tutto omogenea.

E allora ritorniamo al punto, secondo me, centrale: dal momento che emergono, e emergeranno sempre più, istanze democratiche e richieste di libertà (la situazione dell’Iran è paradigmatica: trent’anni sotto le sanzioni americane, ha dovuto necessariamente volgersi verso la Cina per resistere economicamente e tutto ciò ha rafforzato la spinta alla chiusura, e quindi l’accelerata repressiva, dello Stato iraniano), tocca prestare molta attenzione.

La priorità, almeno a livello di analisi, è chiedersi: che tipo di libertà chiedono questi movimenti e questi soggetti? Che tipo di democrazia? Qual è il suo contenuto non meramente ideale, politico, filosofico, valoriale, ma che cosa gli corrisponderebbe, se realizzata, a livello di strutturazione economica e sociale? E, domanda ancora più crudele: quali sarebbero le ripercussioni sugli altri strati sociali?

Detto altrimenti – e uso questo termine che non mi piace tanto, proprio perché fa parte dell’“ideologia globalista occidentale”, però qui ci sta – solo se noi riuscissimo a decostruire quella domanda democratica potremmo iniziare a districarci una via tra le contraddizioni.

Che cosa intendo dire?  Facciamo l’esempio delle lotte operaie cinesi. Anche queste, va detto, non portano necessariamente un’istanza anticapitalista o antisistemica, o perlomeno per ora non l’hanno sempre mostrata. Tuttavia, possiamo dire che hanno un’istanza democratica in un doppio senso. Da un lato sono sì lotte per il salario, lotte per il miglioramento delle condizioni economiche (quindi “democraticiste”, o lotte che Lenin definirebbe “tradunioniste”); ma possiamo definirle democratiche anche perché spingono sul proprio capitalismo per una modernizzazione che permetta un compromesso sociale un po’ più avanzato.

Ragionando in termini più precisi ma più complessi, possiamo definirle democratiche perché sì premono per un passaggio di estrazione di forme di plusvalore assoluto (con condizioni di lavoro pessime e orari lunghissimi) a forme di estrazione di plusvalore relativo (dove gli orari di lavoro si accorciano perché la tecnologia ti permette l’intensificazione del processo lavorativo), ma ciononostante i salari reali possono comunque aumentare e quindi aumentare i tuoi consumi, e così permetterti anche di ampliare un welfare.

Queste richieste di democrazia che domandano che più plusvalore rimanga in loco e venga accumulato lì, anche per fini sociali (il che, come vedremo, spinge la Cina a indurire i rapporti con l’imperialismo occidentale), è un’istanza senza dubbio democratica, ma è chiaramente differente dagli studenti di Kong Kong che portano in strada la bandiera britannica.

So bene che questo discorso è difficile, e che potrete dirmi “ma allora cosa sei, sei per lo Stato iraniano degli imam che reprimono le donne e che uccidono i manifestanti?”, ma non è questo il punto. Quello che dobbiamo reimparare a fare è fare analisi di classe, materialistiche, di tutti questi movimenti e di queste istanze.

Su questo punto, parliamoci con franchezza: a riguardo c’è chiaramente stata una cesura nella memoria e nell’organizzazione. Si sono recisi dei fili, tra noi qui (e intendo sia la generazione di voi giovani che la mia di vecchi) e l’esterno. C’è stata fatta terra bruciata intorno. Perché? Perché la globalizzazione ascendente ha confinato tutti i movimenti sociali in Occidente sul terreno dei diritti. Tutto ciò che non è formulato in termini di diritti (e perlopiù di diritti individuali: in queste condizioni, i diritti sociali sono la somma dei diritti individuali) è escluso dal discorso.

E così in Europa anche le sinistre che tentarono un discorso antisistemico (ricordo, per esempio, l’ultimo grande movimento, quello No Global), hanno sostanzialmente imboccato un processo che io chiamo (l’ironia è voluta) radicalizzazione. Le sinistre si sono radicalizzate nel senso anglosassone di radical. In fondo, quello che dicono è: combattiamo contro il capitalismo di oggi, ma accettandolo come piattaforma di fondo, perché solo il “capitalismo democratico” consente mobilitazioni nel senso della democratizzazione e dei diritti. Ciò che invece non è democratico, non ce lo permette. Passo passo, senza volerlo abbiamo introiettato “la superiorità dell’Occidente”.

Lo si vede in continuazione. Quando aiutiamo i profughi con le Ong – vogliamo forse far morire i profughi nel Mediterraneo? Ovviamente no – c’è qualcuno che fa un discorso a monte e a valle? Quando facciamo i passeurs dei profughi e li portiamo in Italia e in Europa, ci occupiamo poi di quello che andranno a fare come lavoro? Andiamo nei campi di pomodoro dove a 45 gradi d’estate si prendono due euro all’ora? Queste Ong vanno lì? E si interrogano, queste Ong, sul dissanguamento, l’impoverimento che il flusso della migliore forza lavoro (perché quelli che vengono qui sono spesso i più scolarizzati, i più motivati) noi provochiamo a quei paesi lì?

È chiaro che se tu fai un discorso di diritti (ricordate il “diritto a migrare”?) non puoi affrontare nemmeno teoricamente tutto quello che sta dietro la questione, cioè il problema, serio, che tu stai comunque contribuendo a creare forza lavoro a basso costo per l’imperialismo occidentale – nonostante questo crei contraddizioni con i nazisti, con i vari pseudo sovranisti e così via.

Le contraddizioni più gravi però non riguardano la nostra purezza morale, ma quello che ci esploderà in mano nei quartieri periferici, perché chiaramente questi non vanno ad abitare nei quartieri bene popolati di gente colta e progressista. Tutto questo è radicalization.

Oppure, altro esempio. Abbiamo visto tutti la stupenda lotta dei neri contro Trump, che fortunatamente si è allargata, è andata oltre il punto di partenza della blackness. Da lì hanno iniziato a buttar giù statue. Benissimo. Poi è arrivata la guerra in Ucraina. Dove è andata a finire la spinta del movimento Black Lives Matter? È chiaramente una guerra per procura, e non sto difendendo Putin: gli ucraini sono carne da macello; ma tutte le tue istanze anticoloniali, per cui buttavi giù le statue di Colombo, non appena scoppia la guerra, kaputt. E non tiriamo fuori il problema del dilettantismo dei movimenti, perché nello stesso pantano sono finiti gli “intellettuali critici”. Che so, Noam Chomsky. Alé, graaaande intellettuale anarchico [tutti ridono], anche lui subito: «Mandiamo armi all’Ucraina».

Il problema in questa fase, difficilissima per le residue forze che abbiamo, è quello di iniziare finalmente, non saprei come dire, a “decostruire la decostruzione”. Perché altrimenti non ci muoviamo. La situazione di oggi ci impone di affrontare di petto le contraddizioni: non nella speranza di risolverle (perché nessuno qui di noi, neanche con un grande movimento, potrebbe riuscire a risolvere grovigli come quello in Iran), ma quantomeno iniziando a leggerle con un punto di vista di classe.

Una prospettiva quindi antimperialista, non antiamericana, quale condizione necessaria ma non sufficiente per reimpostare un futuro politico (che sarà il vostro, non il mio: dopotutto, il processo che ci ha condotto a questo punto si è formato in cinquant’anni, cioè grossomodo due generazioni, e nel frattempo ci ha bruciato il cervello). Se noi non iniziamo a rompere con questa riduzione della sinistra antagonista al radical anglosassone, siam panati. Perché le contraddizioni sono continue!

Vogliamo guardare a quello che è successo in Cina? […] Lì, anche io mi sono chiesto il perché di questa governance del covid. Non sanno i cinesi che l’omicron è diversa dalla cosiddetta variante Wuhan? Lì c’è innanzitutto un discorso di sanità. Cioè il welfare, proprio perché stanno solo adesso iniziando a provare un processo di sviluppo di welfare universalistico, lì hanno paura che se scoppia un’epidemia di covid su un miliardo e quattrocento milioni di persone, con una popolazione anziana di circa 260 milioni, non sanno gestirlo con le strutture sanitarie disponibili e la legittimità del Partito – che, ricordiamolo, si basa sul mantenere e migliorare la condizione sociale complessiva – ne verrebbe intaccata. […]

Riassumendo, hanno trattato il covid, da subito, come una questione geopolitica e militare. Se vi ricordate, quando è scoppiato il covid a Wuhan, Trump se la rise, come a dire “ben vi sta”, e i cinesi hanno risposto inscenando una sorta di guerra di popolo: “Noi ce la faremo da soli, non saremo decimati dalla minaccia che si avvicina”. Ovviamente questo, nella volatilità delle situazioni tipica di una fase di allentamento delle strutture globali, si è rovesciato nell’opposto. Si noti però che da Deng in poi, i cinesi hanno spesso adottato una particolare strategia, per cui in certe zone e città localizzate si sperimenta, e se funzionano li si generalizza. Principalmente questo metodo lo si è applicato per le aperture economiche, ma è possibile che vadano ad allentare le misure anticovid in aree specifiche, e poi vedranno dove e quando riprodurle.

Quello che però qui importa, è ritrovare sempre la dialettica democratica tra classi lavoratrici e partito-Stato; “democratica”, lo ripeto, non nel senso fasullo del pluralismo nostrano, ma in quello sostanziale della presa in carico delle istanze provenienti dalle basi sociali (e che addirittura possono essere recuperate e utilizzate per la crescita del capitale locale).

Qui possiamo anche collegarci a un’altra questione importante, che non avevo trattato prima. Molte analisi, fatte anche meglio della mia, arrivano spesso a semplificare, dicendo che finora in Cina si sono viste soprattutto lotte sindacali, ma destinate a evolvere in lotte direttamente contro il potere statuale in quanto capitalistico e rappresentante di una borghesia rossa.

Io non credo che sarà questa la traiettoria. È però un problema non di poco conto, perché tutti vorremmo che le classi operaie delle varie nazioni lottassero contro la propria borghesia, si unissero, e allora viva l’internazionalismo. Ma non può andare così, perché la struttura dell’imperialismo di per sé non omogenizza le condizioni operaie, e quindi nemmeno, né ora né in futuro, i percorsi di lotta anticapitalistici. Ipotizzo che per la Cina siano possibili diversi scenari.

Uno è lo “sbaraccamento”, cioè una crisi economica tale per cui il patto sociale interno salta nel momento in cui si imponesse quella parte dei ceti medi che vuole continuare a commerciare con l’Occidente e minare la centralizzazione politica; e allora avremo un rilancio di altri cinquant’anni di imperialismo statunitense, noi ci salutiamo e ci diamo all’arte.

Se la Cina salta in questo modo non ce n’è più per nessuno, perché sì, la contraddizione nell’accumulazione non sarebbe risolta, ma avremo comunque dei dissesti ancora più dirompenti di quelli determinati dalle aperture successive all’implosione dell’Urss. Abbiamo però anche altri scenari, forse anche più plausibili, perché la Cina non si farà mettere sotto tanto facilmente.

Un’altra ipotesi potrebbe essere quella di ritrovare, nella crisi economica e geopolitica che arriverà, una ripresa delle lotte (e con esse, anche del malcontento dei ceti medi, ma pazienza); ma, attenzione, non saranno lotte puramente anticapitalistiche. L’istanza di classe si incrocerà con l’istanza nazionale. Cioè, probabilmente, insieme alla richiesta di miglioramento della propria condizione, risorgerà un’insistenza antioccidentale, o quantomeno antiamericana.

I segnali ci sono già tutti, anche in una parte di quei giovani che fino a qualche anno fa ammiravano in maniera sconsiderata tutto quanto arrivava dagli Stati Uniti. A partire dalla guerra dei dazi di Trump, e a seguire il tentativo di usare il covid in funzione anticinese e l’incrudimento delle relazioni diplomatiche, una parte della gioventù cinese è andata nella direzione di una sorta d nazionalismo antimperialista.

Ora, può essere che queste parole d’ordine si ripresentino anche nelle lotte sindacali. Ciò, ovviamente, comporterà per noi un’ulteriore contraddizione, perché il cappello sulle lotte sarà più sciovinista, ma in prima luogo volto al rafforzamento del potere di Pechino. È anche vero, però, che in prospettiva se questo permetterà a Pechino di reggere, il boomerang ritornerà in Occidente: la situazione economica interna agli Usa peggiorerà, risorgeranno delle contraddizioni di classe anche da noi, e quindi sul lungo periodo si può pensare a una ricongiunzione tra i vari spezzoni di lotte operaie, sapendo però che comunque si va incontro a un purgatorio sociale pesantissimo.

Leggiamola per un secondo con le lenti dell’analisi di classe, altrimenti, ancora una volta, la scelta sembra semplice. Se vediamo che gli operai cinesi diventano nazionalisti, dobbiamo sperare che resistano, lottino diventando transitoriamente nazionalisti e che tentino di fare il salto (sebbene i problemi attuali non possano essere risolti né dagli Usa né dalla Cina, ma riguardano la comunità umana mondiale)? Oppure è meglio facciano le loro lotte fregandosene del quadro geopolitico internazionale attaccando il potere centrale à la Tienanmen, con una democratizzazione (ma “democratizzazione” per chi?) che comporterebbe anche una penetrazione occidentale? Una bella rogna.

Io penso che, ad oggi, non abbiamo nessun strumento né previsionale né politico per rispondere a queste contraddizioni, però nominarle diventa inaggirabile. Altrimenti ci prendiamo in giro. Quindi pensare che lottiamo per i diritti e per la democrazia, dovunque, allo stesso modo, senza guardare cosa ci sta dietro, è un suicidio. Ormai la sinistra si è sparata da sola, è morta per quello. E allora, se dobbiamo lasciare il testimone al futuro, dobbiamo almeno essere onesti. Io non ho più intenzione, sinceramente, di fare l’ala sinistra dei democratici.

Anche parlando a Torino sono venute fuori domande su temi simili, come tematizzare l’antimperialismo oggi. Ciò che preoccupava i compagni è che oggi non è praticabile; quindi, intorno a questo nucleo non riesci a riorganizzare un soggetto, a creare un nuovo tessuto valoriale e una prospettiva di lotta. Un problema al momento inaggirabile. Però vorrei dire una cosa: proviamo a non partire da noi.

Guardiamo dall’alto la situazione: sembra proprio che si vada verso una recessione, l’inflazione non è facilmente aggirabile, la guerra ucraina continuerà e infine c’è il piano inclinato tra Usa e Cina. Benissimo. Dunque, chiediamoci: tenuto conto della morte della sinistra e della fine del vecchio movimento operaio, se rinascono delle lotte, che forma potrebbero avere?

Io penso che non potranno ripresentarsi in forme ideologicamente appetibili, in primo luogo interclassiste. Come ricorderete, questo era uno dei tratti distintivi populismo della prima ondata. La differenza rispetto ad oggi è che se in quella fase a dare voce ai programmi erano soprattutto i ceti medi, io presumo che in una potenziale seconda fase, se mai si apriranno delle mobilitazioni, saranno più spostate verso il proletariato.

Ciò che infatti prosegue dagli anni del covid e al periodo della guerra è la progressiva divaricazione tra ceti medi e proletariato. Lo vediamo anche nelle elezioni italiane: è un governicchio, che galleggia a malapena, ma notiamo che tutta una fetta di piccola borghesia e lavoro autonomo gli si è aggrappata disperatamente, lasciando fuori i settori più poveri. Il reddito di cittadinanza va tolto: la Meloni lo ha detto fin dalla campagna elettorale. I condoni sono rivolti solo da un lato, e nel frattempo si parla direttamente contro i poveri, compresi quelli che lavorano (pensiamo al tema voucher e alle altre strade che prende la nuova precarizzazione).

Se si aprissero delle mobilitazioni, bisognerebbe essere pronti a cogliere questo divario, perlomeno incipiente. A ben guardare, infatti, l’asse del malcontento si sta lentamente spostando non solo verso una composizione ma anche verso temi più proletari, come il reddito di cittadinanza e la sanità universalistica. Fin qui, per la sinistra ufficiale è tutto bello. E però, ciò che mette in difficoltà la classe dirigente europea è il fatto che se comunque l’alleanza con gli Stati Uniti non si tocca, d’ora in poi anche per una lotta sindacale, il tema guerra diventa inaggirabile. Ma non perché lo porremo noi!

Per esempio, in Germania questi discorsi solitamente vengono sventolati dai populisti di destra, ma sempre più spesso c’è chi lo azzarda anche tra i nostri. Fino a non troppo tempo fa, parlare con i compagni tedeschi era assolutamente impossibile se prima non mettevi dieci mani avanti e recitavi le formule d’obbligo del “poveri ucraini”, “bastardo Putin”, “viva la gloriosa resistenza” e via così – se non altro per le condizioni peculiari della Germania, in cui l’antisemitismo resta una ferita apertissima. Eppure, ben prima del sabotaggio, ci sono state manifestazioni per attivare Nord Stream 2. Manifestazioni, è scontato, nelle quali si sono inserite anche la Afd e i nazi, ma attraversate soprattutto da gente comune (dopotutto, l’ex Ddr è tuttora dipendente dai gasdotti russi). E ancora lo scorso primo maggio è stata contestata la Baerbock…

Insomma, se si scampa al binomio passivizzazione-guerra di tutti contro tutti, questi processi prima di porsi a noi passeranno anche da altri lidi. Non sentiremo più uno pseudo sovranismo come quello di Meloni e Salvini, ma piuttosto un’istanza di indipendenza dagli Stati Uniti che assumerà tratti nazionalistici, non propriamente classisti. Ricordo però che, secondo molti compagni, anche il primo populismo aveva in seno dinamiche di classe, che abbiamo però sprecato. Ciò che resta da ammettere è che, essendo morta la sinistra e il movimento operaio, noi non dobbiamo guardare al punto di partenza, ma al punto di arrivo.

Perché non può più essere dato per scontato niente! L’internazionalismo e il posizionamento di classe possono essere semmai i risultati di un lungo processo contraddittorio, non lineare e sporco. A differenza delle speranze delle mobilitazioni civili, saremo sempre più costretti ad affrontare i nodi di fondo della situazione attuale, per esempio il clima. Guardate come è andato a finire il movimento di Greta: ora dice che il nucleare è pulito, che con il lockdown si respirava bene (nonostante fosse la riprova che se anche riduciamo i consumi gli aerei partivano lo stesso)… Solo per dire che tutti questi movimenti di ceto medio, giovanili o meno, non reggono minimamente al livello di profondità delle contraddizioni.

Certo, possiamo andare verso la guerra, perché all’immediato il discorso pare: “Tu cinese vuoi togliere a me”. È un esito possibile, non scontato, tra i molti: la comune rovina delle classi in lotta. Dopodiché io inviterei a non porsi il problema di quello che è immediatamente praticabile, perché altrimenti dobbiamo chiudere bottega. Ormai la linearità tra lotte democratiche e lotte anticapitaliste è completamente saltata e, sotto certi punti di vista, il movimento di classe nei suoi 150 anni di storia non ha mai affrontato una congiuntura così complessa; quantomeno, non c’è mai stata una situazione in cui una soluzione strettamente nazionale abbia meno corso.

Oggi, o risolvi i problemi globalmente, oppure sei parte del problema. Non so se è una magra consolazione: questo lo potrete vedere solo voi.

Chi non lo legge è un gioioso Ottantanove.