La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone lo spartito.
Una guerra che non nasce per caso o per malvage singole volontà, ma dalle condizioni strutturali della “pace” che l’ha preparata. Una pace imperialista, incrinata dalla crisi capitalistica globale, rotta dallo scontro tra potenze in declino e attori in ascesa per determinare la nuova architettura del sistema di mercato mondiale. Europa, Medio Oriente e Pacifico sono i suoi diversi fronti, dove già si combatte a diverse intensità o ci si sta preparando per farlo. E noi in mezzo.
E a Modena? Come la guerra sta già entrando nel nostro territorio e coinvolgendo le nostre vite, trasformando scuola, università e fabbrica sociale? Che tipo di figure la scuola dovrà formare alle necessità del conflitto? Quali relazioni intesse l’università con industrie militari e Stati coinvolti? Come si ristruttura il tessuto industriale emiliano a fronte della crisi globale e in funzione della guerra? Quali contraddizioni potrebbero aprirsi e quali soggetti mobilitarsi dentro e contro la «fabbrica della guerra»?
Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono armi e strumenti politici: punto di vista, metodo, inchiesta.
Un ciclo di incontri per discutere e costruire nuovi arsenali, a partire da ciò che funziona ancora di quelli vecchi, per sabotare e sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.
Nella memoria collettiva, la militanza politica sembra scomparire dopo l’assalto al cielo degli anni Settanta. La fase iniziata con gli anni Ottanta, ancora in corso, appare come un “buco nero”. È il periodo della reazione ai grandi cicli di lotte, quello della controrivoluzione capitalistica, del riflusso nel privato, dell’epidemia di eroina, dell’edonismo dilagante, della precarietà generalizzata, dell’avvento di internet e del mondo unipolare, che ha portato al mondo come lo conosciamo oggi.
Tuttavia, gli ultimi quattro decenni non sono stati affatto privi di conflitti, sperimentazioni, movimenti e forme di organizzazione politica anche originali, tra ambivalenze e contraddizioni, che si sono dovuti confrontare con la crisi della militanza: dal movimento antinucleare a quelli studenteschi della Pantera e dell’Onda, dalla stagione dei centri sociali alle mobilitazioni noglobal, dalle tute bianche al blocco nero, fino agli “ultimi fuochi” del 15 ottobre 2011 e alle “piazze populiste” degli anni recenti.
Quali sono stati i soggetti sociali protagonisti degli ultimi movimenti? Quali sono stati pregi e limiti delle loro forme di organizzazione? Come si è trasformata la militanza e il conflitto di fronte all’attivismo e alla testimonianza? Se siamo di fronte all’esaurimento di un ciclo, come immaginare (e praticare) di andare oltre? Ripercorrere questi “decenni smarriti” vuol dire confrontarsi con i nodi irrisolti del presente, per riarmare il pensiero di fronte all’attualità, e costruire una prospettiva solida dentro e contro la storia di oggi. È quello che vuol dire essere militanti.
Ne abbiamo discusso, il 17 giugno a Modena, con Gigi Roggero – ricercatore militante, collaboratore della rivista «Machina», autore di Elogio della militanza (2016), Il treno contro la Storia (2017), L’operaismo politico italiano(2019), Per la critica della libertà (2023), tutti pubblicati con Deriveapprodi – nell’incontro che ha chiuso il ciclo MILITANTI.
Ci sembrava necessario, nel ritessere e riappropriarci di una genealogia e di una storia di parte, ripercorrere criticamente gli ultimi decenni, in particolare quelli da cui la nostra generazione politica proviene e si è formata. Non solo per dare qualche spunto di chiarificazione di dinamiche e processi per lo più sconosciuti alle nuove generazioni che si affacciano a percorsi di militanza politica, ma per osservarli e trattenerli con lucido distacco, quello necessario a mettere in discussione comode certezze, abitudini sedimentate, consueti modi di intendere e di fare che crediamo oggi girino a vuoto, o che semplicemente non ci bastano più – o meglio, non bastano più nella fase in cui ci troviamo. Guardare la strada da cui veniamo, di cui siamo debitori sia di errori e cadute che di saperi ed esperienze, per metterla in prospettiva, in una mappa più ampia: dove la destinazione rimane la stessa, ma vecchi sentieri vanno riaperti, e nuovi battuti. Sentieri impervi, non lineari, poco frequentati, tutti in salita. Sono quei sentieri che, visti dall’alto, sembrano rette, ma che per tracciarli occorre percorrerne la curva.
Certezza di perdersi, scarse probabilità di successo: gli unici sentieri che valgono di essere affrontati insieme.
Gigi Roggero
Non vi dico che “sarò breve”, perché non sarebbe credibile; quindi, saltiamo le premesse irrealistiche. Partirei piuttosto dicendo che auspico soprattutto di aprire un momento di confronto, e che condivido l’interpretazione che i compagni di Modena danno a questa congiuntura. Anzi, la tesi che presentano è quasi pacata. Direi che siamo in una fase in cui, per usare dei termini gramsciani (indipendentemente da Gramsci, che francamente non mi suscita un gran entusiasmo), «il vecchio fatica a morire e il nuovo fatica a nascere». Mi pare che, in estrema sintesi, l’attuale situazione sia questa. Poi si potrebbe anche dire che, oltre a non avere una particolare simpatia per Gramsci, non ho alcuna simpatia per i termini “vecchio” e “nuovo”… ma la metafora è comunque utile per definire lo scenario presente.
Entrando nel dettaglio, che cosa contraddistingue il nostro presente, specialmente per chi, come noi, si è sempre riconosciuto come “militante di movimento”?
A questo proposito facciamo un passo indietro, e partiamo da questa nostra identificazione abituale, in modo tale da meglio comprendere dove stia il succo politico della questione.
Ora, il termine “militante di movimento” è una cosa che potete sentire solo in Italia. Il termine “movimento”, fuori dall’Italia, non significa nulla di quello che noi intendiamo. Quando qui si diceva “militante di movimento”, si intendeva una cosa precisa, ovvero il militante esterno ai partiti che si impegnava, in modo organizzato, per trasformare l’esistente; mentre all’estero e specialmente nel mondo anglosassone – il terrificante mondo anglosassone, da cui proviene tutto il male possibile – il “movimento” sono i social movements, le mobilitazioni sociali. Infatti, a partire dagli anni Ottanta, ci fu chi iniziò a teorizzare che la forma dominante delle mobilitazioni sarebbe stata quella dei movimenti single issue, ovvero imperniati su un singolo tema: banalmente, si minaccia l’apertura di una discarica vicino a casa mia o una centrale nucleare e si raccoglie intorno a questo tema una cerchia di attivisti. Insomma, movimenti legati a una causa specifica e il cui ciclo di vita è legato ad essa. Si vince o si perde, e poi tutti ritornano a fare quello che facevano prima.
Invece qui il “movimento” indica un’anomalia italiana. Nel dibattito ufficiale della sinistra degli anni Novanta si insisteva nel dire che l’anomalia italiana era incarnata da Silvio Berlusconi. Soltanto dopo ci si è resi pienamente conto che la vera anomalia è quanto successo negli anni Sessanta e Settanta (di cui voi avete parlato nello scorso incontro). L’eccezionalità stava tutta dentro un processo di lotta di classe assolutamente unico sul piano internazionale. Capiamoci, in quei decenni non sono sorti processi di lotta solamente in Italia; ma l’Italia è stata caratterizzata dalla lunghezza straordinaria di questi cicli di conflitto, iniziati nei primi anni Sessanta con le lotte operaie, proseguiti nel ’68-’69 dall’alleanza tra operai e studenti, e continuati negli anni Settanta con l’emergere di nuove figure del conflitto, tra cui l’“operaio sociale” (indipendentemente che questa categoria abbia tenuto alla prova dei fatti o meno).
Ecco, questi due decenni di conflitti incredibilmente intensi nel sociale, capaci di mettere realmente in discussione i rapporti di potere sul piano sia politico che produttivo, sono stati condotti non solo al di fuori delle strutture dei partiti esistenti e segnatamente del Partito Comunista, ma contro il Partito Comunista. E questo, badate bene, non in una forma anarchica o anarchicheggiante, bensì organizzata e contrapposta all’incancrenimento degli organi ufficiali del mondo operaio. Anche all’estero questa anomalia italiana è difficile da far comprendere, tant’è vero che la declinazione dell’Autonomia in giro per il mondo è soprattutto in chiave libertaria (sono in parecchi a definirsi anarchici ma guardano con interesse o persino come modello all’Autonomia). E così, proprio la forza e la durata del movimento in Italia ha fatto sì che per decenni dire “sono un militante di movimento” significasse qualcosa di specifico.
Ebbene, oggi il vecchio che fatica a morire è esattamente questo. Cioè assistiamo prima al disfarsi di un qualcosa che non è più produttivo, che non crea più senso comune né immaginario collettivo, ovvero “il movimento”; e poi l’esaurirsi di quello che sono stati i centri sociali. Infatti, se da un lato la forma partito, per come è stata intesa tradizionalmente nel corso del Novecento, sotto molti aspetti era già declinata e morta – anzi, l’operaismo prende le mosse proprio da una critica della forma partito – a questa critica non è seguita una pars construens all’altezza della situazione. Ci sono stati vari tentativi, ma rimane il buco nero delle nuove forme di organizzazione appropriate alla composizione di classe e alle sue trasformazioni.
Che cosa succede negli anni Ottanta? Come ricordavano i compagni in apertura, sono anni a dire il vero poco entusiasmanti, segnati dallo stigma della controrivoluzione capitalistica, su cui ritornerò più oltre; sono gli anni dello yuppismo e della “Milano da bere”; ma anche gli anni seguenti, concedetemi il termine, alla repressione. (Per inciso, “repressione” è un termine che non mi piace usare. Non perché non esista: la repressione è connaturata e non possiamo aspettarci che il nemico sia buono; ma perché non credo mai che dei movimenti possano essere sconfitti solo sul terreno della repressione. Se un movimento perde quando arriva la repressione è perché c’erano dei limiti precedenti non risolti, e non è un problema di razionalità di gestione, ma di rapporti di forza: se uno ha la forza vince, se non ce l’ha perde. E la repressione ha successo quando i rapporti di forza sono in mano al nemico).
Ma torniamo a noi. Parlare degli anni Ottanta significa anche parlare della sconfitta dei decenni precedenti e della sua costellazione di cause (che non analizzerò perché ne avete già parlato). Certo, se mi permettete una provocazione, devo dire che non è sempre facile farlo con chi è uscito dall’esperienza dei Settanta. Si tende sempre ad esaltare quei momenti altissimi, come è ovvio; ma viene comunque da chiedersi: “Ma scusate, se gli altri hanno vinto, ci sarà un motivo?” Come uno che va allo stadio e dice: “Abbiamo giocato benissimo, partita pazzesca…”, “Sì ma a quanto è finita?” “Tre a zero per gli altri”.
Certo, le sconfitte non sono tutte uguali. La sconfitta degli anni Settanta ha lasciato tante cose e noi tutti abbiamo vissuto con una straordinaria eredità consegnataci da quella fase. Però, indubbiamente, gli anni Ottanta sono anni di scomposizione di quanto era stato costruito prima; anni di dispersione, di ritorno al privato, di eroina, di individualismo sfrenato, di paninari… tutte cose che già sappiamo. Ma sono stati anni anche più complessi di così, sebbene finora ci si sia interrogati poco. Proprio per questo, qualche settimana fa abbiamo organizzato un festival insieme alla rivista «Machina» per costruire una “cartografia dei decenni smarriti”, su questi periodi sui quali sappiamo ancora poco all’infuori dei soliti discorsi sul tatcherismo e il reaganismo. Ci sono state anche diverse lotte e numerosi sviluppi nei nostri strumenti, ma ancora dobbiamo esplorarli a dovere per capire dove siamo oggi.
Ritorno ora a un argomento che avevo solo accennato, perché a mio modo di vedere è cruciale per inquadrare bene il tema. “Controrivoluzione capitalistica” non significa “reazione”. Per fare un esempio, reazionario è il Congresso di Vienna, cioè l’utopia passatista (peraltro, fallita) di riportare le lancette dell’orologio a prima del 14 luglio 1789. Allo stesso modo, gli anni Ottanta non sono stati il tentativo di ritornare alla fase precedente al ciclo degli anni Sessanta, restaurando, che so, l’autoritarismo nell’università humboldtiana o il dispotismo di Vittorio Valletta nella produzione.
La questione è molto diversa: con “controrivoluzione” intendiamo una “rivoluzione al contrario”. Significa, cioè, che il capitale ha messo a valore i processi rivoluzionari. Del resto, il capitale funziona precisamente in questi termini. Già Marx, nella Miseria della filosofia, sosteneva che la più grande risorsa produttiva per il capitale è la classe operaia rivoluzionaria. Il capitale si innova, si ristruttura e fa balzi in avanti se riesce a mettere a valore i processi di lotta e conflitto. E precisamente così negli anni Ottanta vediamo il capitale assorbire, inglobare, quella ricchezza soggettiva scatenata nelle lotte degli anni Settanta, rovesciandola di segno.
Pensate, per esempio, alla questione della precarietà e della flessibilità. C’è un libro di due francesi, Boltanski e Chiappello, che analizzano la letteratura manageriale. Be’, fanno vedere che nella manualistica imprenditoriale degli anni Settanta e in quella degli anni Novanta la parola “flessibilità” ritorna in pari misura. Però nel primo caso è associata al terrore dei padroni per l’autonomia del lavoro vivo: è una flessibilità di parte, la flessibilità del rifiuto del lavoro, del sabotaggio, della fuga dalla fabbrica, del lavorare meno. Negli anni Novanta, invece, la stessa parola ritorna a segno invertito: una flessibilità imposta dallo sviluppo capitalistico che diventerà, come abbiamo poi visto, la ricetta salvifica per tutte le politiche del lavoro. Cos’è successo? Semplicemente, si sono rovesciati i rapporti di forza.
Oppure pensate anche al berlusconismo. Berlusconi rappresenta, volenti o nolenti, lo spirito libertario del ’77. Ovviamente in una chiave tutta rovesciata: non in chiave collettiva ma individuale, non di rottura dal capitalismo ma di suo rilancio, eccetera. Pensate anche al recupero della rivoluzione sessuale (da Ambra alle olgettine) o del ruolo della comunicazione: Canale 5 non è altro che la valorizzazione capitalistica di quella rottura del monopolio Rai sulla comunicazione avanzata dalle radio libere, non più giocata in una dinamica di movimento, ma semplicemente per arricchire. Controrivoluzione significa questo.
Cosa succede quindi in quegli anni alle nostre latitudini? Ci sono tentativi di “resistenza”, dove le realtà organizzate hanno tenuto (per esempio in Veneto), e hanno tentato di creare nuove forme di coordinamento: per esempio il Coordinamento antinucleare antiimperialista, che fu protagonista di battaglie accesissime che hanno ottenuto grossi risultati – anche se è un po’ enfatico sostenere che la vittoria sul nucleare venisse dall’ala più radicale e tutto sommato minoritaria.
Tuttavia, sono stati rilanci sempre inseriti in un’ottica di resistenza e in un piano di continuità e rispetto agli anni Settanta. In parole povere, trovavamo un ceto militante e gli immediati eredi dei gruppi in disfacimento che cercavano di rimanere in piedi in un terreno ostile. Era una resistenza che difficilmente si accompagnava alla comprensione delle nuove soggettività che stavano emergendo. Cosa voglio dire? Che per varie ragioni (la mia non è una polemica, un “bisognava fare” o un’accusa di incapacità: è solo un’analisi di un macroprocesso) questi gruppi militanti non erano in connessione con le trasformazioni delle soggettività sociali. Anche gli anni Settanta, attenzione, non erano stati portati avanti solo dai gruppi militanti, essendo questi, come è noto, in strettissima relazione a soggetti sociali concreti, come l’operaio massa e l’operaio sociale. Al contrario, negli anni Ottanta assistiamo a un tentativo di tenuta di gruppi militanti piuttosto sconnesso dalle trasformazioni sociali in corso, che furono intercettate molto meglio da altri soggetti politici.
Quali? La Lega, innanzitutto: nei territori del Nord-Est, è la Lega a capire la direzione della trasformazione e a capire come aggregare il piccolo o piccolissimo imprenditore o il lavoratore autonomo (che, tra l’altro, parte anch’esso dal rifiuto della fabbrica ma, non trovando più una dimensione collettiva di riferimento, piega in senso individualista). Anche il tema dell’indipendentismo non è soltanto un argomento retorico sventolato opportunisticamente, ma qualcosa di sentito davvero, che si incarna dentro un pezzo di composizione sociale importante: se aveste girato in quelle zone in quel periodo, avreste trovato cose che ricordavano i Paesi Baschi, con un radicamento reale ed effettivo, testimoniato dai muri tappezzati di slogan. Insomma, a Lega rimane l’ultimo partito del Novecento con una propria struttura militante. E questo, lo ripeto, grazie alla capacità indubbia di cogliere le trasformazioni della composizione sociale, declinate e giocate in un senso chiaramente interclassista e dunque non in una prospettiva rivoluzionaria.
Il primo scarto, finalmente, viene dato dal movimento della Pantera. Tra la fine del 1989 e l’inizio del 1990, iniziano a essere occupate le facoltà. La prima occupazione è a Palermo, ma subito la mobilitazione dilaga in tutta Italia, arrivando a costituire il primo grosso movimento studentesco dopo il Settantasette e a segnare una generazione intera. Il motivo scatenante è una riforma, firmata dall’allora ministro Ruberti, con cui si introducevano processi di privatizzazione, di costituzione di scuole di serie A e serie B e via di questo passo; ma non è questo il nocciolo della questione. O meglio, sarebbe interessante rianalizzare oggi la riforma Ruberti ed entrare più nel merito della Pantera; ci basti dire, per adesso, che in prima istanza la Pantera ha rappresentato l’emergere di un soggetto sociale (nella fattispecie, studentesco e universitario) che rivitalizza degli spazi fino ad allora confinati alla semplice e strenua resistenza, alla sopravvivenza.
Non è che prima della Pantera non esistessero i centri sociali o strutture simili; non ci sono dubbi però che il loro grande balzo in avanti avviene in quella congiuntura, a Roma e non soltanto. Dopo la Pantera, per quattro-cinque anni nascono centri sociali occupati ovunque, e di pari passo inizia a crearsi un discorso sugli spazi autogestiti estremamente diffuso in una minoranza giovanile. Una minoranza, certo, ma una minoranza comunque piuttosto consistente, e soprattutto carica di ambivalenze. Infatti, non bisogna pensare che i centri sociali abbiano in sé una connotazione politica esplicita. I centri sociali, per alcuni anni, sono effettivamente “sociali”: sono degli spazi di aggregazione giovanile, punto. Per esempio, io vengo da un paesino in provincia di Torino di 16 mila abitanti e all’inizio degli anni Novanta c’era un collettivo per l’occupazione degli spazi composto di 40-50 ragazzi; però non erano 40-50 “compagni” o “militanti”: erano più semplicemente dei ragazzi che volevano degli spazi di aggregazione laddove mancavano.
È un periodo, l’ultimo direi, di produzione controculturale orbitante intorno al vecchio movimento: è il momento tanto delle Posse, quanto di alcuni gruppi che di lì a poco andranno a suonare a Sanremo. È un punto su cui vale la pena soffermarsi, a patto di non intenderlo in senso moralistico, come dei “traditori che hanno tradito”, ma sforzandoci piuttosto di notare il cambiamento di certi processi. Voglio dire, con il senno di poi è diventato chiaro che i centri sociali sbocciano in una fase di non ancora dispiegata sussunzione capitalistica di quegli stessi spazi che, nel giro di pochi anni, verranno completamente sussunti. Faccio qualche esempio concreto per fare capire di cosa sto parlando.
Il momento apicale dei centri sociali è la manifestazione del 10 settembre 1994, e il simbolo di quel periodo è il Leoncavallo di Milano. Forse solo un simbolo, perché dal punto di vista della produzione di discorso il Leoncavallo non è mai stato grande cosa. Semmai è più interessante evidenziare che parliamo di Milano: il più grande centro sociale di allora è collocato appunto in una città con una storia politica lunga, che lo ricollega direttamente a Fausto e Iaio (ricordati anche da Ignazio La Russa quando si è insediato al Senato, in un bel discorso in cui si è rivendicato tutto; chi dice che è stato strumentale non capirà mai cosa significa riconoscere il nemico e con esso un intero ambiente militante da cui proviene). Ma Milano è anche la città dei nuovi processi capitalistici, di quella controrivoluzione legata alla comunicazione e ai linguaggi su cui si regge la nuova industrializzazione. Milano, in sintesi, era la città di Berlusconi, e il Leoncavallo non poteva nascere altrove.
Dicevo, il Leoncavallo diventa il simbolo di questa fase in due grandi episodi. Il primo è l’agosto del 1989, in cui c’è un tentativo di sgombero e i compagni decidono di resistere sul tetto tirando mattonate in testa ai poliziotti. Le immagini vanno su tutti i giornali e improvvisamente esplodono i centri sociali. Da quel momento in poi, dire “sono un militante del centro sociale X” ha significato qualcosa di preciso e chiunque ti capiva. Era un linguaggio certo di una minoranza, ma una minoranza che comunicava con il contesto sociale.
L’altra grande vicenda è il 10 settembre 1994. Nei mesi precedenti viene sgomberato il Leoncavallo dalla seconda sede in Via Salomone, e così prima dell’estate si convoca una manifestazione per quella data, facendo capire a chi di dovere che quel giorno sarebbe successo il casino. Tutte le principali realtà si attivano, portando 15 mila persone da tutta Italia. Nel frattempo il centro sociale viene rioccupato in Via Watteau (dove è tuttora), ma il grosso avviene dopo. Durante la giornata del 10, infatti, una volta che si è arrivati in piazza Cavour di fronte al blocco della polizia dove il corteo sarebbe dovuto finire, il servizio d’ordine (per la prima volta dopo gli anni Settanta) carica il cordone dei poliziotti. Va detto, il cordone della polizia era francamente disorganizzato, gestito da un prefetto appena nominato e capace di errori imbecilli. Per dare un’idea, questi avevano lasciato aperto un pezzo di piazza Cavour in cui c’era una montagna di sanpietrini per dei lavori in corso. E quei sanpietrini furono prontamente recuperati a nuovo uso. Parte un macello, con i poliziotti che scappano, i compagni che tornano con gli scudi e i distintivi rubati, scene proprio imbarazzanti… Per quanto riguarda l’occupazione, ci fu una sorta di trattativa con i Cabassi (i proprietari degli spazi) che concluderà con un accordo e una concessione, tant’è vero che a distanza di trent’anni è ancora lì.
Però mi ricordo che un paio di anni dopo, credo nel 1996, apre a Milano un locale, il Tunnel, in cui si inizia a fare la stessa musica che veniva fatta al Leoncavallo. E poco alla volta gli stessi gruppi e le Posse che suonavano nei centri sociali iniziano a suonare nei locali commerciali, fino ad arrivare a Sanremo. E così il Leoncavallo si svuota: dopotutto, se la tessera del locale mi costa diecimila lire e un singolo concerto al Leoncavallo me ne costa settemila, vado al Tunnel e ci risparmio perché posso vederne quanti me ne pare.
Con questo cosa intendo dire? Che ho l’impressione che i centri sociali si siano alimentati agendo soprattutto, in quel momento lì, di non ancora completa sussunzione di alcuni fenomeni culturali. Per quanto stretto, questo margine di spazio ha permesso l’attivazione di una fetta di popolazione che altrimenti il mondo militante, forse, non sarebbe riuscito a cogliere.
In estrema sintesi, a una minoranza giovanile (ma una minoranza, ripeto, corposa) che esprimeva dei bisogni di socialità e di espressione che non trovavano riscontri, si è combinata per alcuni anni una soggettività militante che o veniva direttamente dagli anni Settanta (pochi) o si era formata nella controrivoluzione capitalistica degli anni Ottanta (ma, come vedremo, facendo sempre riferimento a quello che era successo prima). Ecco, è stata questa combinazione tra soggettività politica e soggettività sociale a condurre a quella nuova forma organizzativa, il cui ciclo di vita effettivo, secondo me, si colloca tra il 1989-1990 e la metà degli anni Novanta. Cerchiamo quindi di approfondire un poco.
Questa soggettività formata alla fine degli anni Ottanta, cioè la mia generazione, che tipo di soggettività politica descrive? Io credo che sia una soggettività politica che cresce e si forma con un complesso: il complesso di chi è arrivato troppo tardi.
Immaginatevi di essere invitati a una festa. Sbagliate orario, arrivate quando è finita. Da una parte, ritrovate davanti chi è arrivato in punto e vi racconta che è stata una festa della madonna, ci si è divertiti un sacco e voi state lì a rosicare; e dall’altra chi vi dice: “Visto che ormai sei qua, pulisci”. Non ti sei divertito e ti tocca a te tirare su la monnezza. Ecco, la soggettività che si è formata in quel frangente viveva una condizione molto simile.
Ovviamente estremizzo. Tenete poi conto che in questa panoramica generica che sto facendo si potrebbe entrare nel merito specifico delle divisioni tra gruppi, chi ha fatto una cosa e chi un’altra; ma resta vero che le differenze nella geografia politica degli anni Ottanta e Novanta (e successiva) è perlopiù ricalcata sugli anni Settanta. Persino gli scazzi e le tensioni sono ereditati da (e riferiti a) quello che era avvenuto nei dieci anni precedenti. Ecco, di tutto questo non mi interessa parlare qui, perché penso piuttosto che sia più utile analizzare il quadro generale. A partire dal fatto che questa soggettività di cui parlo è una soggettività con il torcicollo, che guarda più alle sue spalle che non davanti a sé.
Proprio per questo complesso del ritardatario, ci si sforzava di imitare e di riprodurre negli immaginari e nelle identità quello che era già successo. Con dei risultati, ammettiamolo, non esaltanti: perché il vero fenomeno che si produceva era l’altra metà della composizione. Voglio dire, in riferimento ai centri sociali la vera novità non stava nella sopravvivenza e nella tenuta del quadro militante (in cui mi ci metto), ma l’altro ingrediente, la composizione giovanile. Una composizione appunto molto ambigua, perché non appena ha la possibilità di andare al Tunnel e a Sanremo, va al Tunnel e a Sanremo; ma le composizioni sono ambigue per natura. Non sono già indirizzate, possono andare in tutte le direzioni.
Il principale errore, quindi, del corpo militante mi pare sia quello di aver perlopiù (e ci sarà chi l’ha fatto di più e chi l’ha fatto di meno, ma non mi interessa) cercato di appiccicare a questa composizione delle parole d’ordine, delle pratiche e degli immaginari che non le appartenevano. Alla fin dei conti, gli anni Novanta sono questo. È una storia in cui le simbologie non appartengono più ai vissuti, con degli effetti talvolta grotteschi. Si ereditavano degli scazzi di cui non sapevi spiegare concretamente il perché: per capirci, tutta la vicenda della dissociazione ha segnato questa generazione in profondità, ma appunto ha segnato chi personalmente non c’era. Il ragionamento era tutto fideistico. Poco alla volta, questo processo ha portato a un’afasia verso il presente e alle trasformazioni della composizione di allora.
Non a caso, quando tra la fine del ’99 e Genova viene fuori il movimento No Global, i centri sociali (ormai intesi come mera rappresentanza militante) non sono in grado di accorgersi che la fase è già cambiata. Il movimento No Global segna già una situazione differente sul piano delle soggettività che emergono; e ancor più sarà così durante l’Onda, tra il 2008 e il 2010. Durante l’Onda infatti si attivano delle realtà organizzate (come la rete Uniriot) che riescono a dare un indirizzo di pratica nelle varie città in cui sono presenti; al contempo però rimangono, rispetto a quella composizione, ampie dosi di incomprensione.
Per esempio, in quel frangente emerge una composizione che inizia a parlare i lessici della meritocrazia. Parole per noi orribili e che avremmo saputo spiegare perché sono tali; il problema è che non abbiamo saputo dimostrare la capacità di cogliere l’ambivalenza di quei lessici. Detta brutalmente, perché quella gente che parla in termini di meritocrazia poi è disponibile a scontrarsi nelle piazze con la polizia? Perché comunque quelle persone cercano un riconoscimento, ma non sono per l’ordine costituito, e così si aprono delle contraddizioni potenzialmente fertili. Dico appunto, “potenzialmente”: per esempio, credo che la composizione dell’Onda sia, concretamente o quantomeno in termini di discorso, la composizione da cui negli anni successivi nascerà il Movimento 5 Stelle, con tutte le sue ambivalenze insite in quello strato di lavoro cognitivo che non vedeva un rispecchiamento tra il titolo di studio e la posizione occupata nel mercato del lavoro. Durante il movimento dell’Onda quella contraddizione lì ha avuto una piega conflittuale; negli anni successivi, in assenza di quella piega conflittuale, si è fatta largo la richiesta alla magistratura di risolvere la contraddizione (magari ridotta a una faccenda di corruzione da eliminare), e da lì alla delega.
Ora, per non farla lunga e per aprire alla discussione, in che fase siamo? Siamo nella fase detta prima dai compagni di Modena, cioè in una fase in cui dire “il centrosocialismo è finito” è ancora poco. Il centrosocialismo, ripeto, finisce alla fine degli anni Novanta come fenomeno di un certo tipo e prosegue come autoriproduzione di un ceto militante. Ci mancherebbe, non sto dicendo che chi ha un centro sociale sia una carogna, o che so: i soldi per fare politica servono, e li si può trovare anche così. Non è quello il problema.
Il nocciolo è la fine del centro sociale come possibile spazio di aggregazione e di socialità tesa a produrre una soggettività politica nuova, funzione che permane in quella manciata di anni di cui abbiamo parlato prima, e poi termina. Dopodiché rimangono dei locali (marginali, ghettizzati, eccetera) o degli spazi in cui si fanno un po’ di soldi vendendo birre, ma da cui non passa più un’aggregazione di socialità potenzialmente antagonista (o anche solo alternativa). Questo è quello che avviene, secondo me, negli anni successivi.
Inoltre, ho l’impressione che questo non valga solo dal punto di vista politico, ma anche per l’aggregazione sociale tout court, come le scene musicali e le forme di espressione artistiche. Dopo le Posse, c’è qualche altro fenomeno che sia stato effettivamente espressione di una soggettività sociale e non già immediatamente mercificato, che non nasca già da subito in una logica commerciale? Temo di no, e credo che quello sia stato l’ultimo fenomeno controculturale, se vogliamo metterla in questi termini. Ma lo chiedo a voi, che le controculture le frequentate da vicino.
Penso, per esempio, alle curve. Mi pare che sia è avvenuta una trasformazione profonda, ma anche in questo caso non credo che possa essere addebitato soltanto alla repressione. È cambiato il ruolo che quelle forme di produzione simbolica e identitaria ricoprono. Quando l’anno scorso si vedevano gli ultras del Milan fare da servizio d’ordine della società, vediamo che ormai quel fenomeno (pur sempre ambiguo e contradditorio) aveva già cambiato funzione. Oppure pensiamo alla vicenda dello Juventus Stadium, di cui invece sono io il frequentatore: è mutato qualcosa a livello profondo, che non dipende solo dalle diffide (che restano cose durissime e preoccupanti, sia chiaro). Nel momento in cui la Juve decide di fare uno stadio all’avanguardia, sul modello americanizzante (che è una tendenza reale, che non riguarda solo alcune società e non altre, e che anzi detterà una linea che verrà seguita), eh be’, allora gli ultras non sono più utili. Anzi, diventano una rottura di palle. Per cui invece del Milan che fa un accordo per assoldarli come buttafuori, nel 2018 la Juve decide di disfarsene e li fa processare per associazione a delinquere, sciogliendo dall’alto la tifoseria organizzata. Questo perché, agli occhi degli industriali dello sport, non sono più utili dentro il modello imprenditoriale ed economico della società. E come hanno reagito gli ultras? Dicendo “ora facciamo lo sciopero del tifo”, appiattendola a una battaglia privata tra un gruppo e la società, cioè tra un’impresa e un gruppo che non è più in relazione con quella composizione sociale che va oggi in curva e che piuttosto preferisce la “macchinizzazion”e dei cori dettati su un cartellone luminoso.
Ora, a proposito di tutti questi contesti che ho nominato, ci tengo a sottolineare una cosa: non possiamo comportarci come dei 5 Stelle qualsiasi, che leggono questi fenomeni solo come una faccenda di corruzione individuale. Non perché di corrotti e venduti non ce ne siano (eccome), ma perché sarebbe riduttivo pensare che derivino da colpe individuali i processi che abbiamo analizzato. Ci allontaneremmo da una comprensione dei nostri limiti, ma anche delle nostre ricchezze: perché ripercorrendo queste nostre esperienze non troviamo solo delle tremende sconfitte e motivi per fustigarci – quanto piuttosto tante intuizioni di cui far tesoro e ripensare nel presente da un lato, e dall’altro cose semplicemente da superare. E per coglierlo, dobbiamo capire che ciò di cui dobbiamo parlare è tutta la nostra storia.
La capacità di costruire una tradizione antagonista viene solo dall’intelligenza di assumere l’intero bagaglio di esperienze. È troppo comodo fare come quelli che fanno gli snob, che dicono, che ne so, “mi piace la Comune di Parigi”, “mi piace l’Ottobre del ’17 ma solo nella notte della presa del Palazzo d’Inverno” e gli piacciono altre robe sparse che selezionano secondo un indice di purezza. No, la capacità di costruire e raccontare una propria storia, una storia concreta, di parte e ricca di insegnamenti, viene soltanto dal coraggio di assumerla tutta in blocco. Per fare tesoro del passato bisogna rivendicare la grandezza e analizzare la tragedia come la nostratragedia. Separare i buoni dai cattivi non solo è troppo comodo, ma è inutile: un’intensa storia di classe diventa una barzelletta alla Walt Disney.
Per questo, nonostante di venduti ce ne furono, ce ne sono e ce ne saranno, non mi interessa stare lì a indicarli, perché non sono certo loro ad aver creato la situazione in cui ci troviamo. Lo ripeto perché alcune analisi mi sembrano andare a volte in quella direzione. C’è chi condivide le vostre e le nostre premesse, riconoscendo che i centri sociali sono finiti, ma poi aggiunge che il problema sono solo alcune personalità specifiche e che, se nascesse “l’autentico centro sociale” allora le cose cambierebbero. Ma quando mai! Sono come quelli che parlano del “socialismo reale”. Io non ho mai capito il termine “reale” di fianco a “socialismo”. Boh, è forse esistito un socialismo “irreale”? Il socialismo è quella cosa lì, ha una storia precisa e se uno continua a definirsi in una certa maniera, continua a restare dentro a quella storia, non ce n’è un’altra. O rompi (come Lenin nel 1917, che riconosce di non potersi più definire socialista e allora basta, inaugura una storia nuova), o fai i conti con tutto quello che è stato.
Lo stesso vale per le esperienze più vicine a noi: se continuiamo sulla linea del centrosocialismo non credo che riusciremmo mai, da una presunta nostra immacolatezza, a raggiungere un’autenticità che sfugge alla possibilità della corruzione altrui. Quindi assumiamo e facciamo nostri gli errori passati per comprenderli a fondo, ma mai avere paura delle discontinuità.
E infatti, se guardo retrospettivamente alla mia formazione e a quella della mia generazione, devo dire che il nostro principale limite è stato quello di temere la discontinuità come il peccato. È comodo dirlo adesso, ma il punto non è, lo ripeto, distribuire le colpe: il punto è comprendere cosa possiamo imparare. Agire la discontinuità, assumendo tutta una storia collettiva, diventa un meccanismo attivo e non passivo; se, invece, è la discontinuità che agisce te, ti ritrovi spiazzato, immobile. Ciò vale anche per la fine dei cicli: va sempre anticipata, non bisogna mai arrivare al punto in cui è la fase a sopravanzarti. Bisogna sapere cambiare quando non si è già iniziato a scendere, perché altrimenti è troppo tardi. Figuriamoci cambiare quando si è perso in modo conclamato.
Agire la discontinuità significa questo, comprendere la tendenza e deviarla cambiando le proprie tattiche, senza temere che questo significhi perdere un’identità. Perché (o almeno spero) la nostra identità non dipende da dei simboli eterni.
I simboli, gli immaginari, le parole, le canzoni, le pratiche, lo stile degli abiti vengono inventati e reinventati da ogni generazione. Sarebbe ridicolo riprodurre della roba vecchia e stravecchia. Voglio dire, se oggi scendessimo in piazza vestiti da Guardie rosse saremmo indecenti, saremmo… [qualcuno nel pubblico: “saremmo trotskisti”] Esatto! [risate] E questo però, lo capite bene, non significa “rinnego le Guardie rosse”, ma semplicemente riconoscere che sono cambiate le condizioni per cui quelle cose trovavano una loro comunicabilità rispetto alla potenziale composizione di riferimento. Certo, anche io mi diverto a sparare sul vecchio che fatica a morire, ma dopo un po’ tendo ad annoiarmi. Perché sì, ha sempre ragione il presidente Mao quando diceva di bastonare il cane che affoga, però a questo punto possiamo anche passare oltre. Dunque, una volta che quel vecchio lo diamo per morto, stiamo attenti a non infierire e a non continuare a pizzicarlo. Evitiamo, per rimanere nella metafora, di diventare necrofili. Dopotutto, che senso politico avrebbe? In una serata davanti a una bottiglia di vino uno ride e scherza, va sempre bene, ci mancherebbe; ma non deve distrarci dal capire quale possa essere il nuovo che può nascere.
A ben vedere infatti, questa fase è importante e delicata. Tra l’essere militanti negli anni Settanta e esserlo oggi, ma non c’è paragone: è molto più importante esserlo oggi. Per certi versi, essere militanti negli anni Settanta era l’equivalente, che so, di cantare la trap oggi. Nel senso che quando tutti fanno una cosa, se ti vuoi sentire cool la fai anche tu, e allora scendi a manifestare (estremizzo, ovviamente). Il punto è capire cosa significhi fare politica quando si è assoluta minoranza, perché è allora che diventa tanto difficile quanto importante. Altrimenti si rischia o il torcicollo, come dicevo prima, o di proiettare le proprie voglie di liberazione e di rivoluzione, di lotta e di conflitto su posti lontani e sperduti: che so, il Rojava.
Ve lo devo dire proprio in tutta onestà. Tifare per il Rojava è come andare su YouPorn: uno sublima una dimensione di impotenza guardando quello che non riesce a fare. Ripeto, massimo rispetto per chi va a combattere per il Rojava… ma non sarebbe meglio combattere dove sei? Lungi da me voler mancare di rispetto a chi si arruola, anche perché c’è gente che muore; parlo piuttosto delle fascinazioni di chi sta a casa e sta fermo. Mi sembra un modo per non vedere quanto sia difficile far casino qui, sul posto di lavoro, per venire licenziati il giorno dopo. Era molto più semplice tirare una sassata a Milano nel 1977, che provare di costruire dei processi di organizzazione qui e ora.
Ma non disperiamoci nemmeno. Sapete no, all’inizio degli anni Novanta un neocon americano, Francis Fukuyama, pubblicò un libro, La fine della Storia, che ebbe un grosso successo editoriale fino a rimare come l’emblema di quegli anni. Cosa diceva Fukuyama? Che una volta crollati il muro di Berlino e l’Unione Sovietica, vince il capitalismo; soprattutto diceva che questa non è una vittoria reversibile, ma definitiva, con cui finisce la Storia. Con la vittoria del capitale, nessuno poteva più pensare che la Storia fosse mutabile. Ci può essere innovazione, ma non più rivoluzione.
Ecco, se noi continuassimo ad andare alla ricerca di movimenti in giro per la galassia, convinti che da noi tutto è diventato impossibile, non diremmo cose poi troppo diverse in sostanza. Perché mettiamoci il cuore in pace, i momenti di lotta sono sempre l’eccezione, sono sempre uno stato d’eccezione. La normalità è fatta di momenti come questo. Se guardiamo alla storia, partendo dagli albori del movimento operaio nell’Ottocento a oggi, vediamo subito che fasi come la Comune, l’Ottobre, i consigli, il Settantasette, sono delle eccezioni, e per giunta di breve durata, in un panorama simile al nostro. In cui il vecchio fatica a morire e il nuovo fatica a nascere.
A proposito, non so se avete visto il film Il giovane Karl Marx. È un po’ didascalico, ma non è pessimo. Ebbene, c’è una scena in cui Marx attacca ferocemente Weitling, un utopista che si appellava a un vecchio tipo di operaio ormai tramontato, vicino ancora all’artigiano ottocentesco, con discorsi mistici e appassionati che chiamavano centinaia e centinaia di persone ad applaudirlo. Insomma, una figura di importanza di primissimo piano. Ecco, a un certo punto Marx lo attacca come una furia. E allora la moglie, Engels e lo stesso Weitling rimangono a bocca aperta. Cosa gli saltava in mente a un signor nessuno di andare ad assalire uno che si trovava attorniato e adorato da uno stuolo di operai?
Marx lo attacca perché capisce che ci sono dei momenti in cui bisogna individuare delle tendenze e organizzarsi inserendosi su di esse, e non sforzarsi di rimettere insieme i cocci di una storia finita. Perché mettere insieme una marginalità qui e una marginalità là, ottieni solo una marginalità più grossa, ma poco altro. Noi dobbiamo dimostrare la capacità di uscire dal culto del marginale, dal “marginalesimo”. Puntiamo al cuore, al centro, perché solo da lì si innescano processi profondamente sovversivi.
E quindi, in queste fasi oscure, da dove ripartono i comunisti? In primo luogo, dalla produzione di discorso e di un nuovo orizzonte teorico-strategico. Niente teoria per la teoria e accademia per l’accademia. Questo lo diamo per scontato: una teoria per la pratica, che in essa si verifica. E in secondo luogo, si riparte dalla costruzione di luoghi di aggregazione di una soggettività potenzialmente antagonista. Come ce li re-immaginiamo, oggi, luoghi di aggregazione non per una soggettività già politicizzata, ma per una soggettività la cui politicità è implicita? La politicità va cercata dove ancora non si vede e non si esprime, perché se ci fermiamo a quelli che sono già politicizzati, troviamo sempre e solo dei cadaveri.
Dopotutto, la storia del movimento operaio altro non è che un continuo interrogarsi su queste domande, inventando volta per volta una risposta diversa, attendendola là dove nessun altro la ipotizzava.
Pubblichiamo la seconda e ultima parte (qui la prima) dell’incontro con Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra – rispettivamente, negli anni Settanta, militanti autonomi di Rosso (a Bologna) e dei Collettivi politici veneti per il potere operaio (a Vicenza) – avvenuto a Modena il 13 maggio 2023. La discussione, davvero ricca, ha avuto il pregio di evitare il rischio dell’aneddotica fine a se stessa, riuscendo così a sottolineare qualche punto di metodo su cui forse conviene ragionare. Eccoli di seguito.
Radicamento
I militanti autonomi degli anni Settanta sono stati chiari nel restituire l’idea di radicamento nella composizione sociale. Un radicamento tale che porterebbe ad annullare (parzialmente ma in una misura importante) il confine tra militanti e soggetti sociali. È come se dicessero: “Ho potuto organizzare il rifiuto del lavoro diffuso nella composizione sociale perché io stesso ero espressione di quella composizione e di quel rifiuto”. Posto che oggi non si esprimono forme diffuse e forti di rifiuto del lavoro, ancorché latenti (si veda il fenomeno “grandi dimissioni”), perché si stenta a cogliere, se c’è, quantomeno una qualche istanza della composizione a cui noi stessi apparteniamo? Cosa stiamo sbagliando? Forse che quel confine tra militanti e composizione è eccessivamente marcato? Nonostante la conoscenza teorica delle trasformazioni dei processi produttivi, nonostante gli sforzi per pensare le trasformazioni della soggettività, si fatica a trovare anche solo una piccola soluzione. Oppure la composizione è talmente frammentata, scomposta in microbolle autoreferenziali, da rendere impossibile un qualsiasi radicamento profondo?
Felicità
Questo radicamento, ci dicono Valerio e Donato, poggiava non solo su un diffuso rifiuto del lavoro salariato, ma pure su un’idea di felicità. Forse una questione da non sottovalutare. Quale può essere per noi oggi un’idea di felicità concreta, comprensibile a livello di massa, attorno a cui costruire delle forme organizzative? Questa istanza di felicità è molto diversa dalle istanze del bisogno (un esempio su tutti, la casa): anche all’epoca c’erano forme di soddisfacimento illegale dei bisogni, ma erano strumentali a quell’istanza di felicità e di rifiuto. Oggi il rapporto pare invertito.
Organizzazione
Obiettivo e prassi militante degli autonomi non è stata la ricerca di “oppressi”, ma di una soggettività capace di dare ricomposizione e progetto. Il tipo di militanza e il modello di organizzazione presero la forma di quel soggetto: quindi non ideologiche, non identitarie. L’operaio sociale, “concetto di lotta”, lo dovevi ricomporre territorialmente, la sua forza si riproduceva nel territorio e si riversava nella fabbrica (dalla ronda degli operai-massa nei reparti della fabbrica fordista alla ronda territoriale dell’operaio sociale nella fabbrica diffusa: ogni fabbrica un “reparto” della fabbrica sociale). I modelli organizzativi sono fatti per cambiare – ci dicono gli autonomi degli anni Settanta – vanno articolati su ciò che è efficace, si strutturano per catturare tutta la potenzialità del conflitto e tutta l’intelligenza collettiva espressa dalla composizione-territorio, per metterle in moto. Politica e forza – o ancora meglio, progetto politico e uso della forza – vanno articolate insieme. La politica senza la forza diventa riformismo, la forza senza politica, ribellismo adolescenziale.
Ambivalenza
Un passaggio importante della discussione ha toccato l’ambivalenza di quella soggettività militante. Gli autonomi, osservano Valerio e Donato, erano per lo più giovani scolarizzati, istruiti, la maggior parte proveniente dagli Istituti Tecnici, formati come periti industriali, da mettere al lavoro come quadri intermedi del comando in fabbrica. In quel frangente di tempo, tale soggettività rifiuta il proprio destino assegnato: quei giovani non vogliono di certo essere operai come i propri genitori, ma neanche “i padroni”, coloro che li sfruttano. Rifiutano il loro destino di tecnici del processo produttivo, quadri di comando sulla forza-lavoro per il padrone, e questo rifiuto conduce la soggettività a essere un quadro politico contro il padrone, per il comando della classe operaia. Né operai né padroni: la “terza via” gli autonomi la trovano nel voler fare la rivoluzione comunista.
Amicizia politica
In sala, durante la discussione, ha risuonato molto la questione dell’amicizia e della fratellanza degli autonomi. “Siamo amici prima di diventare militanti”: amici del paese, del quartiere, della scuola. E si rimane amici anche da militanti, anzi la militanza rafforza questa amicizia fino a farla diventare fratellanza. La lealtà, l’affetto, il “pararsi il culo” a vicenda, lo stare insieme sono parte della vita militante. Il senso da dare alla parola “compagno” si arricchisce e approfondisce. Per questo, dicono Valerio e Donato, fenomeni come il pentitismo e gli infami non hanno lacerato le loro organizzazioni come successo invece per altre esperienze politiche. “Come si fa a tradire un proprio fratello?”, si chiedono. “I nostri compagni”: chi ci sta spalla a spalla, affrontando insieme pericoli e gioia, disciplina e conquiste del progetto politico. Facciamo fatica a pensare una militanza fredda, dove ci si incontra solo per la riunione, l’assemblea, l’azione, l’iniziativa, e poi ognuno per la sua strada, come a marcare un cartellino – un’esperienza poverissima. Questo tipo di rapporto militante ha diversi vantaggi, ma anche molti limiti pratici. Come tenere insieme l’essere amici, fratelli e sorelle, con le necessità del funzionamento, dell’organizzazione, del progetto politico?
Sui limiti dell’esperienza dell’Autonomia
Infine occorrerebbe approfondire i limiti di quell’esperienza. A sottolineare come quel confine tra militanti e composizione sociale fosse sfumato, la parabola dell’Autonomia rispecchia le trasformazioni complessive a cui non si è riusciti a dare una risposta organizzativa. Quell’idea di felicità che alimentava le lotte è stata disastrosamente fagocitata dal mercato, l’ambivalenza del rifiuto del proprio destino (“né operai né padroni”) ha trovato esito, negli anni Ottanta, nella diffusione di forme di lavoro autonomo (con tutto il loro portato di autosfruttamento), e la politica si è individualizzata – cercando al massimo di essere dei buoni “padroncini”, di resistere individualmente alla soggettivazione che inevitabilmente quella forma di vita e di lavoro comportano. È da ragionare il nodo irrisolto sul non essere riusciti a chiudere il passaggio organizzativo sul “nazionale” prima dell'”appuntamento con la storia”, in questo caso indicato come il rapimento Moro. Radicamento, ricchezza e forza a livello territoriale dell’Autonomia non hanno retto allo scarto di fase politica e di termini dello scontro complessivi, di fatto dando come alternative ai compagni: chi voleva combattere, con o come le BR; chi non riesce a starci dentro, riflusso nel privato e nell’edonismo, o eroina e autodistruzione. Sta qui forse il buco nero degli anni Ottanta.
Buona lettura.
Domanda
All’inizio avete dato questa definizione di militanza come «una corsa velocissima di una generazione verso la felicità» vissuta come una costruzione quotidiana, «lontana dalla costrizione a cui pensavano di sottometterci». Mi chiedo quindi: quanto era articolata la consapevolezza di cosa fosse quella costrizione? E come nasce la sensazione di essere destinati a un ruolo sociale prescritto proprio nel momento in cui finalmente ti sembra di poterti riappropriare della vita? Considerando questi aspetti della vita militante, l’uscita dalla famiglia (una famiglia che, non solo nel Veneto ma anche in Emilia ha un certo peso), ha in qualche modo inciso sulla messa in comune del rischio, sia politico che biografico?
Durante il vostro discorso, infatti, mi è tornato in mente una cosa che disse un compagno alcuni anni a un militante della vostra generazione: «Voi avete ucciso il padre» – l’Autonomia come i “figli di nessuno” – «ma a noi cosa serve uccidere il padre se il padre è depresso?» Il punto diventa capire che peso ha avuto lo scarto generazionale degli anni Ottanta: dopotutto, tanti di noi sono cresciuti solo come figli della crisi. Cambia dal territorio e nel tempo, ma l’università comunque riproduce forza lavoro e nel farlo tende a produrre una soggettività pronta ad accettare quello che c’è fuori; di modo che, alla fin della fiera, l’effetto smobilitante del “cavarsela da soli” rimane. E tuttavia mi pare che ci sia una differenza importante tra la composizione giovanile di oggi e la vostra: oggi mi sembra che, per molti giovani, ci sia l’impressione che comunque un’alternativa in qualche modo ce l’avrai. Così che non inizi da prima a mettere in discussione dove andrai, proprio perché pensi che comunque la svolti e te la risolvi.
La seconda differenza su cui bisognerebbe interrogarsi riguarda i territori in questione. C’è ancora un’etica del lavoro imposta su di essi, o c’è un’etica dell’io? Infatti, grazie alla vostra profonda conoscenza dei territori, eravate riusciti a problematizzare delle dinamiche che esploderanno successivamente con i distretti, in primo luogo la messa a valore dei saperi taciti; tuttavia, la rivoluzione digitale che è avvenuta in mezzo a voi e noi, ha portato a un cambiamento sia nella qualità del lavoro, sia nella soggettività. Motivo per cui noi siamo cresciuti da una parte con l’autoimprenditoria dei social, e dall’altra con la sfiga, la sconfitta di questa sinistra, che ha perso qualunque spinta verso il riscatto.
Tengo a sottolineare che questo punto si connette direttamente a quanto dicevo prima sulla condivisione del rischio. Avete infatti parlato di militanza complessiva (direi anche esistenziale), cioè un rigetto della scissione tra “adesso entro a lavoro”, “adesso sono all’università” e “adesso vado a fare militanza”. Se le cose stanno così, quanto pensate che sia stato rilevante e abbia ricoperto un peso il fatto che vi siate incontrati prima di entrare nella dimensione lavorativa, che nel 2023 è sempre più individualizzante e competitiva? Quanto pensate abbia influito sull’originalità della scommessa autonoma il vostro essere amici prima – amici contro, per dirla con la bella definizione di Tronti – e compagni poi? Mi pare di capire che si creasse un legame di fiducia nel quale il dubbio viene risolto insieme; nel quale ogni bivio che si presenta individualmente lo risolvi collettivamente; e allo stesso tempo l’individuo esiste, non essendo appunto una dimensione di bassa, dove siete “omologati” e scemi (che magari è quello che abbiamo conosciuto noi nelle organizzazioni politiche, con quell’identitarismo in cui viene a mancare un’interpretazione e un ragionamento personale per salvare l’etichetta).
Valerio
Per quanto riguarda quest’ultima domanda, direi ti sei risposta da sola! Io non avrei niente da aggiungere, tantomeno da insegnare. L’hai analizzata perfettamente. Ma ora, oltre alle analisi, servono soluzioni organizzative, che nessuno di noi ha, che concorrano nella direzione – e scopro l’acqua calda – del conflitto e della rottura rivoluzionaria. In parole povere: all’interno di un progetto di questo genere, come possiamo riprodurre i nostri comportamenti sovversivi? Le invenzioni da fare sono quelle ormai. La nostra generazione fece quello che abbiamo raccontato; oggi la situazione è diversa, ma hai capito perfettamente qual è la strada, e non è mica poco.
Domanda
Mi interessa chiedere a Donato un approfondimento sulla cifra organizzativa dell’Autonomia veneta. Abbiamo parlato dei Gruppi sociali e del rapporto diretto con il territorio, ma vorrei sapere più nel dettaglio come fosse strutturato. Mentre da Guizzo mi sarebbe piaciuto sentire qualcosa di più sul rapporto dell’Autonomia con il Pci. Sono tutte domande che partono dai problemi che abbiamo noi oggi, ovvero la sfida dell’organizzazione e la questione del nemico, di chi comanda, dove però questo veniva visto come “il partito della classe operaia”, “del popolo”, “della Resistenza”. In chiusura, farei una domanda a entrambi: nel vostro percorso militante avete avuto ispirazione o richiami ad altre esperienze estere? E infine, quali sono stati i limiti dell’Autonomia, che ne hanno fatto, come qualcuno sostiene, «una magnifica rivoluzione fallita»?
Domanda
Voi avete parlato delle vostre esperienze, ma volevo chiedervi qualche consiglio per la mia situazione. Vado ancora alle superiori, ho diciassette anni, ma vedo una generazione rassegnata. Magari qualcuno tra noi capisce che la scuola è lo specchio del lavoro, ma comunque si ripete che attivarsi è inutile e che “tanto non serve a niente”. A volte mi pare di vedere un mucchio di marionette. Vi chiedevo quindi qualche consiglio su come smuovere i nostri coetanei, che a volte sembrano non voler vedere il loro effettivo valore, il loro effettivo potenziale.
Donato
Be’, tu sei già la negazione di questa rassegnazione! Il fatto che tu sia qui a dircelo dimostra e testimonia che quel tipo di controllo non funziona. Dopodiché, consigli da noi non fartene dare, non ti conviene! [Risate in sala] Però ripeto, sei tu la contraddizione, sei tu a manifestarla anche “contro” i tuoi compagni di classe. E non pensare che sia così solo per il fatto che adesso sei alle superiori; sarà così fintanto che campi, perché appunto si tratta di rompere un destino già scritto. La scommessa è sempre questa, ora come ieri. Noi mica sapevamo cosa sarebbe successo, ma era chiaro che l’alternativa è la disciplina lavorista. Detto questo, parti da te in quanto incarnazione della contraddizione, cioè come coagulo di tensioni che si estendono anche su altre persone. Perché vedi, nonostante le sirene identitarie dell’attivismo, può anche essere fuorviante in negativo il fatto di sentirsi mosche bianche (o rosse), perché non è così. Sia perché ci sono forze e tensioni in te che riguardano anche “gli altri”; sia perché ci sono accelerazioni nella storia che non ti spieghi razionalmente. Magari tra sei mesi in classe da te il clima è cambiato completamente; ma per verificare che è cambiato, tu devi conservare quel tipo di soggettività che dimostri adesso, non so se mi spiego.
Domanda
Vorrei fare due puntualizzazioni e una domanda. Intanto, anche per dialogare con quello che diceva prima la compagna delle scuole, i periodi storici in cui non succede un cazzo sono molto più lunghi di quelli in cui succedono delle cose. Questo conviene sempre tenerlo a mente. Certo, i racconti di Valerio e di Donato ci fanno accapponare la pelle, ma non dobbiamo mai dimenticarci che prima degli anni Sessanta e Settanta ci sono stati gli anni Cinquanta [Valerio incalza: «E anche tutta la prima metà degli anni Sessanta è stata un disastro»], dove diciamo, l’opinione media dei militanti era “la classe operaia è completamente integrata”, “qua non succederà mai niente”, “coesione nazionalpopolare”, “è impossibile pensare alla rivoluzione in Occidente” e così via. Probabilmente il nostro periodo è più simile a questo che a ciò che ci hanno raccontato Guizzo e Donato. Eppure oggi vediamo sempre nuovi militanti, e le circostanze storiche in cui sono possibili le lotte di massa, gli strappi, le rotture possono sempre riproporsi. Quindi, secondo me quello che bisognerebbe trattenere dal loro racconto sono delle questioni di metodo, cioè l’approccio con cui un militante deve osservare il mondo.
La prima cosa è, come diceva Valerio, nasare, fiutare dove siano possibili i conflitti. Il militante interviene in quel punto, organizzandoli e intensificandoli. La seconda cosa da fare è porre di nuovo una domanda per me fondamentale, che rimane irrisolta: chi sono i soggetti di questo conflitto? Non lo sappiamo ancora. Loro ci hanno consegnato le figure dell’operaio massa, prima ancora dell’operaio professionale e poi dell’operaio sociale; poi, tra gli anni Novanta e Duemila si è scommesso sui lavoratori cognitivi e i precari, ma questi ultimi esperimenti non hanno portato a nulla (se non piccole fiammate, ed è già un parolone). Resta comunque una domanda intorno a cui dobbiamo ragionare. Se ci avete fatto caso, Donato e Guizzo ci hanno parlato a lungo di come fosse organizzata la produzione e a partire da questo si sforzavano di individuare lì dentro i possibili soggetti, soprattutto perché loro stessi erano parte, carne viva, di quella produzione. Credo che dei passi avanti, rispetto alla comprensione delle trasformazioni del lavoro, li dobbiamo ancora fare, e quindi si debba porre all’ordine del giorno l’approfondimento della ricerca in quella direzione. L’altra puntualizzazione di metodo, secondo me molto preziosa (che dal racconto di Donato non emergeva direttamente, ma dal libro sì), è la capacità mimetica delle organizzazioni rivoluzionarie. I gruppi organizzativi li avevate dentro le parrocchie…
Donato
Non è propriamente così, ma è comunque quello il punto. Il nocciolo della questione è un apparente paradosso: il massimo di “radicalità notturna” avveniva dentro il massimo di esposizione pubblica. Sembra una contraddizione, e invece è un elemento fondamentale. Per alcuni anni, in uno dei territori più ricchi d’Italia, abbiamo imbastito un terreno di piena offensiva rivoluzionaria – per un periodo di tempo che va dal convegno di Bologna del settembre 1977 (ovviamente ci sono degli antecedenti, ma prendiamolo per riassumere) fino all’aprile del 1979 –, un’avanzata affrontata senza ricorrere a nessun tipo di mediazione ma piuttosto, come diceva Valerio, impegnandoci nella ricerca quotidiana del conflitto. Dentro questa offensiva trova cittadinanza anche l’uso della forza; ed è in questa spintadialettica che si rende quasi impossibile l’intervento repressivo.
Sembra strano, ma è andata così. Detto altrimenti: nessuno sapeva cosa avesse personalmente fatto Tizio e Caio, ma tutti sapevano che eravamo noi! Ma allora, perché arriviamo a Calogero? Certo, con il 7 aprile, ci sono state forzature giuridiche impressionanti, un’evidente modificazione dello Stato di diritto, e vere infamie procedurali; ma comunque, quali sono le ragioni intrinseche per cui la repressione in precedenza non ha funzionato? Perché dentro questa dialettica c’era sì la soggettività armata, ma c’era una composizione di classe sociale e politica che andava enormemente oltre. Quando noi praticavamo le ronde, parliamo di settanta-cento compagni che alle 4 del mattino andavano in fabbrica; ma dentro a questi cento, solo una parte era dei Collettivi, tutti gli altri erano soggettività che ti conquistavi nelle assemblee di fabbrica e nelle assemblee di territorio. Non erano strettamente militanti d’organizzazione, e neanche ci interessava che lo diventassero! Non siamo mai partiti dall’idea che l’obiettivo fosse bruciare una macchina in più, ma che questa dinamica di crescita interna alla composizione governasse tutti i passaggi del movimento. In quel momento funzionava, e la polizia è riuscita a intervenire nel vicentino solo dopo la tragedia di Thiene che costa la vita ad Antonietta, Angelo e Alberto. Solo dopo l’11 aprile la repressione si scatena come rappresaglia nel territorio con il ruolo principale svolto da Dalla Chiesa e la sua struttura armata che tra arresti, perquisizioni, intimidazioni eccetera, rimane nell’alto vicentino per più di un mese.
Quello che, a quarant’anni di distanza, mi sento di dire è che la nostra è stata un’esperienza irrisolta. Non è arrivata cioè a compimento, è stata troppo veloce e chiusa troppo brutalmente. Tuttavia avevamo indicato quali processi storici si stavano sviluppando – e infatti, detto tra parentesi, tutto quello che avverrà con la Lega Nord e il celebrato Nord-Est parte da qui. Il Pci non li aveva neanche mai ipotizzati, non ha mai capito cosa stesse succedendo. C’è una simultaneità che ha dell’incredibile: il primo convegno della Lega (allora si chiamava ancora Liga Veneta) a Recoaro Terme nel vicentino è del dicembre 1979, mentre il secondo convegno si svolge a Padova nell’ottanta. Quindi dopo il 7 aprile il primo e dopo la direttissima il secondo.
Con il senno di poi si disegna con chiarezza uno scadenzario tra i processi repressivi e lo sviluppo del radicamento leghista. Ma perché? Perché entrambi avevamo colto il passaggio dalla fabbrica alla flessibilità – dove noi pensavamo di risolverla dal punto di vista di classe, e la Lega dal punto di vista individuale.
Qual è stato il limite intrinseco allora? Sicuramente ci sono state falle a livello progettuale su alcuni aspetti dell’uso della forza, ma, se andiamo a guardare a dinamiche più generali, vediamo che, per esempio, Radio Sherwood non ha mai chiuso un giorno. È vero, abbiamo fatto la galera –molto carcere preventivo – ma la si mette sempre in conto. Sarebbe più interessante ragionare sul fatto che, quando io e i miei siamo usciti dal carcere, c’era il Coordinamento antinucleare antimperialista già forte, e quella battaglia contro il nucleare e il Piano energetico nazionale, voluto sia dalla Dc che dal Pci, l’abbiamo vinta. Poi sì, era un altro mondo: ricordo bene che quando mi ritrovavo davanti i punk anarchici torinesi del collettivo Avaria non avevo idea di dove sbucassero fuori, e solo dopo capimmo che anche loro erano il risultato della crisi nella metropoli torinese. Non era più interpretabile con le chiavi di lettura nostre, perché figurati se dalla provincia veneta puoi capire cosa succede ristrutturando una fabbrica come la Fiat; ma nel suo nocciolo, l’autonomia era ancora un progetto in piedi, una scommessa aperta. Infine, tenete sempre presente una cosa: nei primi anni Ottanta, nelle galere dell’“area combattenti”, sono successi dei deliri inenarrabili! Per cui lo ripeto: l’Autonomia non è un gruppo, è un metodo di attraversamento della contraddizione.
Per quanto riguarda i modelli organizzativi, partiamo dal dire che tutti i modelli sono fatti per cambiare. Quello che funzionava, facevamo, e se serviva, veniva fatto. Ciò detto, è chiaro che la fase iniziale vicentina è diversissima da Padova o da Venezia Mestre, e già Venezia e Mestre differiscono tra loro: una arriva nel 1978, l’altra parte fin da subito nel 1976, per dire. Venezia è sicuramente quella che si mette in moto più tardi di tutti, non so perché; certo è che Mestre, con la storia dell’Assemblea autonoma e poi il ciclo del Petrolchimico, viveva una qualità di discussione diversa da Venezia (dove, tra l’altro, l’università non è che abbia prodotto chissà cosa).
In ogni caso, quello che si mette in moto è il protagonismo di questa composizione giovanile che, come dicevo prima, si sottrae alla condizione a cui era destinata. Riallacciandomi a quello che evidenziava la compagna prima, mi limito a dire che noi eravamo scolarizzati e dovevamo entrare nel ciclo produttivo, non alla catena, in una posizione intermedia di comando. All’epoca tiravano gli istituti tecnici, perché alla congiuntura serviva quello, e trovare gli operai non era certo un problema: quella formazione ne produceva una montagna di giovani che non studiavano, che abbandonavano, che venivano espulsi dal ciclo scolastico! Piuttosto, avevano bisogno di quadri intermedi. E così noi saremmo dovuti diventare i nuovi guardiani della produzione. Questo era il compito previsto per la nostra generazione settantasettina, e a questo ci siamo sottratti, dicendo chiaramente che “piuttosto che fare i capi o gli operai, vi combattiamo!” (banalizzo eh, ma neanche troppo).
Per quel che mi riguarda, l’accelerazione è successiva al convegno di Bologna. Allora io facevo già militanza, i Collettivi politici veneti erano attivi ormai da un anno e mezzo, seppur in una forma ancora molto contraddittoria nel vicentino; a Bologna però ci rendiamo conto che non ci siamo solo noi militanti, ma c’è una forte presenza di territorio. Per cui la prima cosa che facciamo appena torniamo a casa è redigere un documento e costruire un’assemblea di zona. Pur limitandoci a discorsi ancora approssimativi, era già evidente a tutti che la contraddizione fondamentale era la costrizione al lavoro. Ciò indirizzò la fase iniziale e, con una velocità sorprendente, nel giro di pochi mesi si innestò un piano inclinato che ha permesso, appunto, per due anni una totale offensiva politica.
I processi organizzativi sono stati inquadrati in questo contesto: ovvero, non erano progettati per il funzionamento interno, ma soprattutto per catturare tutta la disponibilità che un territorio esprime al conflitto. Per cui, con l’assemblea territoriale (che diventerà poi il Gruppo sociale) noi stabiliamo questa chiave di lettura: vogliamo ricomporre il più possibile, non ci interessa l’omogeneità analitica, quello che conta è conquistarci un ruolo di traino e direzione politicalì dentro, nella disponibilità del territorio alla rottura. Comprovata la sua efficacia, teniamo fermo il Gruppo sociale come struttura portante (che, per esempio a Thiene arriva nei momenti alti a ottanta-cento persone, in una città di 20 mila abitanti), e la prima cosa che abbiamo voluto impedire è che diventasse una struttura identitaria. In parole povere, non volevamo che diventasse l’ennesima struttura chiusa. Dunque chi militava nel Gruppo sociale immediatamente doveva intervenire: in fabbrica se era lavoratore, nel comitato d’agitazione se era a scuola, nei comitati sulla casa se abitava nei quartieri… ogni singolo compagno militante aveva un ambito di intervento. Ne consegue che il Gruppo sociale era la sommatoria di questa divisione dei contesti di attivazione, e la discussione che si apriva nel Gruppo sociale puntava a estrarre tutta la ricchezza determinata dal radicamento, riassunta dalle proposte fatte dai comitati (senza parlare poi della discussione degli strumenti d’intervento come la radio, i giornali e quant’altro).
Il Collettivo politico, invece, era composto dai compagni che, a nostro giudizio, erano più capaci di giungere a una sintesi unitaria di questi processi e governarli. Facendo l’esempio del contesto in cui ho militato io, il Collettivo politico di Thiene è arrivato, al suo apice, a diciotto compagni d’organizzazione, che erano poi gli stessi a fare le azioni armate.Dentro al collettivo si era poi ulteriormente strutturati, distinguendo un “Attivo” e un “Nucleo”. Le armi da fuoco non le abbiamo mai fatte usare all’Attivo. E questo per una scelta strategica: volevamo che ci fosse un percorso di crescita non forzato, non eravamo in competizione con nessuno e non avevamo bisogno di dimostrare niente; al contrario, il modello organizzativo messo in moto doveva garantire un’assunzione di responsabilità su di sé da parte del militante. Ci tengo a sottolineare bene che questo elemento, per noi cruciale, della responsabilità individuale era calibrato, ancora una volta, dal contatto pregresso con il territorio. Insomma, proprio perché ci si frequenta da una vita si riusciva a sapere subito se tale dei tali è sì tuo amico, ma ha una costruzione mentale di un tipo o di un’altra, non so se ci siamo intesi… e adottando questo punto di vista non abbiamo mai sbagliato una volta. A dirigere poi i vari Collettivi politici territoriali c’era la Commissione politica provinciale mentre su base regionale funzionava l’Esecutivo.
Sul piano della battaglia politica interna al movimento rivoluzionario a Padova si è data una struttura – il Fronte comunista combattente, che eseguì anche alcuni ferimenti intenzionali – con un duplice intento. Da un lato, sosteneva le cosiddette campagne d’organizzazione (diventate poi note come “notti dei fuochi”), ma doveva anche essere presente nelle battaglie politiche sul piano nazionale. Quest’ultimo è un tema su cui non si è parlato oggi, ma vale la pena dire che non essere riusciti a chiudere il passaggio al nazionale è stato il vero limite dell’Autonomia. Un limite invalicabile, definitivo, che ha reso possibili anche le crisi successive. Considerate che questo tentativo parte ben prima del sequestro di Moro, è già dentro il convegno di Bologna, ne discutevano Rosso e i Volsci. Questo salto di livello non avverrà, per motivi che forse meriterebbero di essere indagati maggiormente. Ora, io non so dire se le cose sarebbero andate diversamente, o se questo si inseriva positivamente nell’emorragia dall’area autonoma verso i combattenti di cui parlava prima anche Valerio; però non escludo che se ci fossimo dotati di una strutturazione più definita anche nazionalmente, forse avremmo tenuto di più. In Veneto (così come nelle zone in cui c’era un’articolazione che funzionava) non si è mai posto questo problema; le Br sono arrivate nel 1980 poggiandosi sui nostri arresti, cose volgarissime con i primi morti a Mestre con noi in pieno processo… robe che anche da un punto di vista etico dici “ma vaffanculo”.
Passando invece a parlare della ronda, partiamo dal dire che storicamente è l’icona dell’Autonomia. È la manifestazione e l’esercizio più alto di contropotere, perché contiene tutto quello di cui abbiamo parlato: il radicamento territoriale, la capacità organizzativa, la conquista di intelligenze nuove, la battaglia politica con il sindacato, la rivolta contro il sistema dei partiti e infine contro il piano produttivo. La cosa realmente potente è stato riuscire a individuare nello straordinario non solo l’allungamento della giornata lavorativa (di per sé è banale), ma anche la contraddizione con cui scardinarla. Avevamo capito perfettamente che attraverso l’uso politico dello straordinario i padroni riprendevano il controllo sulla produzione e sul conflitto in fabbrica, noi invece pensavamo che rompendo sulla giornata lavorativa avremmo costruito contropotere. Guardate che quello che sarà uno dei luoghi più ricchi del pianeta, non c’era una fabbrica che facesse lo straordinario, o il sabato! Naturalmente, accanto a noi c’era anche quello che faceva la controparte: pensate alle politiche dei sindacati o alla stagione dei contratti del 1979. Proprio perciò nelle fabbriche scatta una lotta durissima, ed è in questa dinamica che la ronda testimonia tutta la sua centralità. Per porla in altri termini, ritorno al punto sul 7 aprile che avevamo introdotto poco fa perché è indicativo di questa dialettica: quando il Pci e il sindacato non sono più in grado di governare l’insubordinazione perché vinciamo su tutto, si apre il 7 aprile.
Valerio
Sui limiti e sulla diagnosi del fallimento, la penso esattamente come Donato. Passo quindi agli altri temi emersi dalle domande e dagli interventi. Per quel che concerne il nazionale, l’analisi dell’Autonomia sulla natura e la funzione del Pci è sempre stata esplicita: per noi era il nemico principale sin dai tempi di Potere Operaio. Il nostro problema era la socialdemocrazia: non era il liberismo, la Democrazia Cristiana o quei quattro mentecatti, cazzo ne so, dei repubblicani e dei socialisti. Il nostro problema era il Pci, perché, ripetendo un vecchio e trito slogan di allora, era “lo Stato nella classe operaia”, punto. Nel ’77 lo avevamo scritto a pennellone ovunque, su ogni muro che ci capitava sotto mano, e potete ritrovare tutta la pubblicistica.
Con questo slogan non intendevamo fare delle dichiarazioni ideologiche di purismo, ma dichiarare molto più semplicemente che con il compromesso storico il Pci stava tendando di entrare, con tutte le proprie forze, al governo del Paese. Dopodiché, a livello nazionale sappiamo come è andata; guardando invece al locale, be’, Bologna era la loro vetrina, e noi l’abbiamo infranta. Non ce l’hanno mai perdonato e ancora oggi per loro è una vendetta infinita. Neanche dopo la Bolognina e i Pds se la sono mai scordata. Soprattutto i vecchi del partito, che si sono fatti tutto ‘sto giro fino al Pd, ancora oggi stanno lì a romperci i coglioni. E a noi piace molto, devo dire. Ma il rapporto di frizione, se possiamo chiamarlo così, inizia molto prima dell’Autonomia, e addirittura a Bologna c’è già con quello che si chiamava allora il Movimento studentesco (di cui una parte evolve in Potere Operaio). Considerate che aprimmo la sede nel novembre 1969, e già allora avevamo il Partito comunista che intravedeva alla sua sinistra l’antagonismo che gli sfuggiva di mano. C’era già stato il Sessantotto e cose come il rifiuto della famiglia e quant’altro (che a noi interessavano poco) gli pungevano nel fianco; ma con la nascita dei gruppi organizzati a Bologna la contraddizione è immediata. Perché a Bologna il Pci è il potere. Governa tutto: l’economia, l’accademia, l’associazionismo, il sindacato, la salute…
Donato
C’è quasi più spazio con i democristiani che con il PCI!
Valerio
Assolutamente sì. Si capisce quindi come noi abbiamo avuto così tante difficoltà, ben più che altre città. Magari Bologna fosse stata come Roma o Milano! Per non parlare poi del fatto che anche “loro” avevano delle articolazioni politico-militari, è inutile che facciano i furbi e ce le andiamo a raccontare. Anche loro avevano strutture di persone che venivano dalla lotta partigiana e che non si erano fatte disarmare dagli americani. Come mi raccontava mio padre e i suoi amici, agli americani avevano rifilato la cianfrusaglia ormai logora e inutilizzabile, armi malmesse non più efficienti; la roba buona l’hanno sotterrata, tenuta lì ed è tornata fuori più di una volta. Per esempio quando ci sono stati i golpe: io ricordo bene una notte in via Barberia, alla sede del Pci, erano tutti partigiani ed erano tutti armati. L’hanno tirata fuori anche durante il Convegno e lo sapevamo (il paese è piccolo, la gente mormora). C’era quindi tra di noi un rapporto di guerra, senza nessuna mediazione. Tutto era affidato alla forza, alla furbizia e al reciproco minacciarsi. Diciamo che a Bologna, dopo “alcuni episodi” – in cui loro dimostrarono la forza, noi la potenzialità – si sono cagati addosso e con l’Unità e i vari fogli territoriali hanno preso ad insultarci con la solita propaganda: “i figli della borghesia”, “ragazzini che giocano a fare il guerrigliero”, “chi li paga”, “cui prodest”…
Donato
Per non dimenticare Catalanotti.
Valerio
Sì, ma quello viene dopo. Per chi non lo sapesse, Bruno Catalanotti è stato il nostro Calogero, che ha anticipato il suo metodo su scala più ridotta. Insomma, il problema del rapporto con il Pci era serio soprattutto perché ci costringeva a muoverci su più fronti, e ci sono parecchi aneddoti che potrebbero mostrarlo. Ad esempio, ai tempi di Potere Operaio noi avevamo un centro stampa (di cui tra l’altro facevo parte, sapete no, facevo l’Istituto d’arte e questi: “ah vuoi fare l’artista? bene, lavora”, e col cavolo che avevamo macchine tipografiche, tutto a manina, in serigrafia) e attaccavamo l’impossibile. Quando c’erano delle scadenze, la notte prima era dedicata all’attacchinaggio. Si attaccava di tutto. A un certo punto iniziamo a vedere che la mattina i manifesti non c’erano più. Per metterci un attimo nell’ottica delle dimensioni, fate conto che in una notte facevamo 1000-1200 manifesti. Ci informiamo in giro e scopriamo che dietro a ogni nostra macchina con cui si usciva ad attacchinare, ce n’era una loro che ci seguiva e passo passo ce li staccava [dal pubblico: “Poi i vigili urbani usati come braccio armato del Partito…”]. A Bologna sì, lo è sempre stato. E non solo: i dipendenti del gas, l’Amga, gli operai delle officine comunali…
Comunque, capiamo che tutta ‘sta gente andava in giro a staccarci i manifesti. E da lì iniziamo a mettere nella colla dei manifesti i vetri frantumati delle lampadine. È un vetro sottilissimo, che così si incollava. Quindi quando al pronto soccorso del Sant’Orsola hanno cominciato a presentarsi per alcune notti dei personaggi strani con le mani ricoperte di sangue, hanno pensato bene di lasciarceli attaccati – ma non si sono dati per vinti, e gli operai della nettezza urbana (tutti militanti del Partito) capirono come staccarli con le palette d’acciaio. E avanti così. La cosa poi si è risolta quando siamo andati a “parlare” con alcuni di loro che conoscevamo. Sapevamo chi erano i furboni e soprattutto chi erano i capi che organizzavano le macchine e questi, finché hanno potuto permetterselo, avevano il via libera. Venne però il momento in cui alcuni di loro, sotto la loro abitazione, hanno trovato persone che erano disposte a discutere con argomenti convincenti, argomenti che loro conoscevano bene perché li avevano usati prima contro di noi… Quando ti trovi dal lato sbagliato di una potenzialità sociale di quel livello, non è una bella cosa. E infatti hanno smesso.
Considerate che qui, proprio perché il Pci era veramente il potere, avevano la collaborazione delle istituzioni. Il servizio d’ordine del Pci (che appunto era composto dagli operai Amga e quelli che dicevo prima) ai tempi di Potere Operaio caricava insieme alla polizia, ci sono mille foto in giro. Il rapporto era quello. Si è lavorato politicamente finché si è potuto, finché la vetrina non si è infranta sul serio: c’è stato il morto (il compagno Francesco Lorusso), c’è stata la guerriglia urbana, ma già dal 1975 eravamo già attivi in senso politico-militare. Per esempio, anche noi facevamo le ronde. A differenza dai veneti, le nostre ronde erano organizzate per campagne. Che so, si battezzava la campagna sul lavoro nero. Ricaviamo tutte le informazioni necessarie dai nostri militanti e capiamo dove si faceva lavoro nero – per inciso, erano quasi sempre uffici e piccole ditte, in cui si sfruttavano soprattutto giovani e donne per lavori da impiegate eccetera. Quindi ci si presentava vestiti bene, facendo finta di essere dei clienti; si entrava negli uffici, ovviamente col ferro; si fermava tutti; si spaccava la qualunque, scritte a bomboletta sui muri; si spiegava ai lavoratori sfruttati perché eravamo lì e se c’era il padrone, ecco, che si pigliava anche il suo avere. Voilà. Senza uccidere nessuno.
Ecco, la ronda tipo per una campagna sul lavoro nero era questa. C’erano poi le campagne, ad esempio, sui vigili urbani. Appunto perché erano quelli che, collaborando con i carabinieri, partendo dalle sezioni del Pci sul territorio (che erano l’occhio del Partito sulla classe e sui quartieri) sapevano bene o male chi si muoveva e chi no, sospetti e non sospetti. Quindi si sceglieva una centrale, si entrava, si prendeva tutto il possibile e via. Ma attenzione, sempre rivendicato con la firma di chi le faceva e poi sempre spiegate in un progetto di lavoro sul territorio. Certo, c’era il Pci che pulsava, ma tenete presente che a Bologna non c’era solo l’Autonomia, era un casino. “Anni di piombo”? Per loro sicuramente, e qualcuno purtroppo lo abbiamo lasciato sull’asfalto anche noi; ma se prediamo anche solo il Settantasette e consideriamo quello che si è mosso e si è innovato anche fuori dalla politica – l’arte, la musica, i fumetti, la radio – vede un laboratorio straordinario. C’è stata una crescita e una creatività incredibili non solo nella politica, ma anche nella socialità e nella cultura. Sì, c’era il momento triste e cupo del combattimento, ma in un contesto generale a dire poco fantastico.
Donato
La felicità sta lì.
Valerio
Esatto! Perché oltre alla vita notturna, c’era la tua quotidianità di giorno, la tua esistenza liberata in città. Anche perché parliamoci chiaro, non lavoravamo mica tutte le notti, non siamo mai stati stakanovisti della militanza. Per noi era fondamentale selezionare bene gli interventi perché erano cose molto impegnative, che chiedevano non solo pianificazione, ma un’organicità con le possibili diramazioni. Le ronde, per esempio, erano fatte da organismi con una ragione d’esistere, che si firmavano e spiegavano la logica che le muoveva. Se si mirava ad opporsi a certe prese di posizione di Confindustria, pubblicamente ci esprimevamo nelle assemblee autonome, e accanto a questo saltava in aria una sede. Solo individuando le lotte “giuste” diventava possibile tenere insieme l’elaborazione concettuale, la ricomposizione della classe e il sabotaggio – senza fare morti, e possibilmente senza fare feriti.
Poi sono arrivati anche quelli andando verso il 1979, quando queste articolazioni politico-militari si sono costituite in organizzazione d’apparato, staccandosi (oggi possiamo dirlo) con una forzatura teorica e politica. Per esempio, limitandoci ai dibattiti interni a Rosso (mica si scriveva e basta, capiamoci) sulla differenza tra Brigate comuniste e Formazioni comuniste combattenti, dovrei oggi riconoscere lì un errore cruciale: quando da strumento, da servizio alla classe, ti fai tu stesso apparato e vai a combattere contro un altro apparato che è molto più potente di te, si compie un passaggio che oggi dovremmo riconsiderare profondamente, senza limitarci allo scandalo del sangue. Allora quella scelta la facemmo e l’abbiamo pagata; ma quello era il contesto e quelle ci sembravano le decisioni necessarie. Polemizzare con il senno di poi è una sciocchezza che non porta a nulla. Soltanto storicizzando, calandosi per quanto possibile in quei momenti di incertezza – cosa che sta facendo l’Archivio autonomia, andatelo a vedere, è una cosa meravigliosa – si riesce a valutare la prospettiva con cui ci si muoveva, le intuizioni indovinate e i passi falsi. Per quanto riguarda gli stimoli dall’estero…
Da noi, semmai, aleggiava una forte ammirazione per il fronte palestinese di Habash, l’Fplp. Per quanto riguarda le articolazioni militari di cui dicevo prima, ci sono stati scambi e contatti. C’erano persone a cui eravamo molto legati: per dire, io a San Giovanni in Monte per un periodo sono stato in cella con Abu Anzeh Saleh (quello dei “missili di Pifano”) che era praticamente l’ambasciatore di Habash in Italia, dal quale ho avuto ragguagli interessantissimi sulle loro lotte in Palestina. Oppure, parlando sempre e soltanto di risultanze processuali, una volta ci fu un campo di addestramento militare gestito dall’Eta con una parte dell’Autonomia, segnatamente le Formazioni comuniste combattenti (cioè noi e i milanesi). Uno di noi aveva contatti con i francesi e da lì, nel Paese basco francese, si svolse un campo, tra l’altro descritto in quei famosi quadernetti ritrovati nelle inchieste.
Per capirci, nel frangente specifico di quel campo, la collaborazione partì da uno scambio di favori: armi corte (non tante, ma roba buona) contro due kit, uno per fare documenti falsi e uno – invenzione degna della sapienza operaia – per fare targhe false. Invece, quello che ci interessava dei movimenti dell’America Latina, sarà banale, erano i loro ottimi manuali di guerriglia e controguerriglia. Loro infatti, non potendo disporre di materiali di fabbrica, dovevano improvvisarli con quello che avevano e in questi testi indicavano come costruire le trappole esplosive e quant’altro. Ci interessava quello, quindi Marighella, i Tupamaros…
Donato
Lì si vede tutta la differenza tra me e te. Io ero un californiano! [Risate] Cresciuto con i Jefferson e i Quicksilver…
Valerio
Ma questo è un fricchettone! [Risate]
Donato
Per cui seguivo le Black Panthers e i Weathermen…
Valerio
Mannaggia oh… Noi a fare i guerriglieri, e questi in California a surfare le onde!
Comunque, prima di chiudere, direi una cosa sul senso di sconfitta. Molti dicono “lì abbiamo perso”, non solo come autonomi, ma in generale il secolo si è concluso con una disfatta, soprattutto a livello psicologico. Però, come una volta disse Paolo Virno, è andata così, ma intanto per dieci anni gli abbiamo impedito di governare, ma soprattutto abbiamo dimostrato che “è possibile”. Non è successo, ma abbiamo dimostrato che è possibile, usando un metodo. Ma anche in senso più largo, io non ho mai pensato di essere uno sconfitto. Non c’è stata nessuna sconfitta. Si è conclusa una fase, punto; una fase di una guerra di classe è fatta di vari momenti, di strategie e di tattiche. Non è finito niente. È vero, ci sono stati gli anni Ottanta, dove non era stata raccolta la memoria storica e si è dovuto ricominciare daccapo; ma si è solo chiusa una fase, e se ne riapriranno delle altre! La lotta di classe continua, il conflitto continua. E noi siamo ancora qui, a discutere, a cercare, nella dialettica lavoro vivo-capitale, di individuare, nella composizione data, altre soggettività emergenti potenzialmente autonome e rivoluzionarie.
Come dare, e organizzare, percorsi di rottura al cuore dello sviluppo capitalistico? Quali i comportamenti potenzialmente sovversivi su cui costruirli, oggi? Quali punti di metodo ancora inattuali trarre dall’esperienza militante di quella generazione politica che per ultima ha tentato l’“assalto al cielo”?
Sono le domande implicite che hanno mosso il terzo incontro del ciclo MILITANTI, tenuto a Modena sabato 13 maggio. Una bella, intensa, arricchente chiacchierata con Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra, militanti autonomi degli anni Settanta – di Rosso, la prima e più originale formazione dell’Autonomia operaia, e dei Collettivi politici veneti per il potere operaio, la più larga, radicata e duratura organizzazione politica dell’Autonomia – autori dei due libri che troverete in fondo a questa prima parte del loro intervento.
Una chiacchierata che fin da subito non ha voluto essere sul passato, per “reduci” o “nostalgici” fuori tempo massimo, ma immediatamente sul presente, per ragionare su alcuni dei nodi che chiunque abbia l’ambizione di conquistare una prassi militante adeguata ed efficace dentro e contro il proprio tempo si trova inevitabilmente a dover affrontare.
I comportamenti di rifiuto e il salario sganciato dalla produttività. La società che diventa fabbrica e la ricerca della soggettività operaia. Il radicamento nel territorio e nella composizione di classe, e l’esercizio del contropotere. La spontaneità di movimento e la disciplina di progetto politico. L’organizzazione autonoma e l’autonomia di classe. L’uso materiale della forza e la forza materiale del significato vivo dell’essere “compagni”.
Questi sono alcuni nodi cruciali su cui il “cervello collettivo” degli autonomi ha scommesso e costruito la sua prassi, tra avanzamenti, contraddizioni e vicoli ciechi.
Consapevoli che l’autonomia non è mai data una volta per tutte, ma la si conquista e reinventa di continuo, siamo tornati alla stagione degli anni Settanta, quando l’Italia è stata attraversata da un conflitto sociale di durata, diffusione e intensità che non hanno eguali nella storia recente, e di cui oggi le nuove generazioni stentano a credere, o solo immaginare. La questione della rivoluzione in un paese a capitalismo avanzato, nel cuore dell’Occidente, è precipitata e si è riaperta allora, a livello di massa – non a caso, ancora oggi, quel decennio tormenta gli incubi di comanda.
Gli autonomi, in quel tumultuoso passaggio d’epoca – non solo di crisi capitalistica, ancora nelle sue matrici irrisolta, ma anche di crisi di quelle soggettività e forme di organizzazione politiche scaturite dal precedente ciclo storico di lotte –, seppero incarnare più di ogni altro, con forza e intelligenza, la sua attualità. L’attualità della rivoluzione, del comunismo, qui e ora: nelle lotte nei quartieri, sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, ma anche nelle strade, nelle relazioni sociali, nel sapere e nelle forme di vita. Attraverso un metodo, quello dell’autonomia, che parla di anticipazione dei processi, di lettura della composizione di classe, di scommessa sulle soggettività, di ricerca delle possibilità di attacco, di rottura con l’esistente e con quello che si è.
Soprattutto quando i vecchi schemi, come oggi, all’infuori di ogni logica di testimonianza identitaria e di pretesa ideologica, appaiono non funzionare più. Se quella degli autonomi è una storia irrisolta, occorre allora tornarci con le spalle al futuro, per preparare il prossimo assalto al cielo.
Buona lettura.
Donato
Io pensavo che sareste stati voi a spiegarci cos’è l’Autonomia oggi! è un po’ difficile che la risposta a una domanda del genere venga da me o da Valerio. Al limite noi possiamo ricostruire un periodo storico che ormai data mezzo secolo. Ma a ogni modo volevo iniziare con i King Crimson. L’intuizione di usare 21st Century Schizoid Man dei King Crimson per pubblicizzare un evento del genere è azzeccata tanto quanto la scelta delle parole che avete riportato in quel video, perché sono le uniche calzanti. Io, infatti, in questi giorni continuavo a chiedermi: “Ma di cosa parlo sabato? Come fai a definire la militanza negli anni Settanta?” Perché o parli di tutto, oppure devi in un qualche modo troncarla con l’accetta. Per cui, se mi chiedeste di riassumere in una formula edificante cos’è stata per me, vi direi che la militanza è stata una corsa velocissima di una generazione dentro la felicità.
Volevamo tutto, e lo volevamo subito; ma questo tutto e questo subito era l’insieme di enormi felicità, che erano contenute in quello che costruivamo quotidianamente. Se invece dovessi rispondere in una maniera più precisa, vi direi che la militanza autonoma è stata il fatto di essere riusciti – in una finestra storica che è durata poco, perché purtroppo così è stato – a vivere un quotidiano in pieno conflitto con la costrizione lavorista a cui pensavano di sottometterci, una quotidianità che aveva la sua cifra nei suoi aspetti di totale liberazione. La generazione dell’Autonomia o anche quella del Settantasette sono state tali proprio poiché hanno trovato questa chiave di volta. Dopodiché, dentro questo spirito condiviso, ci sono le varie articolazioni progettuali.
Ognuno di noi ha una storia progettuale diversa: io e Valerio siamo entrambi militanti dell’Autonomia, ma tra Bologna e il Veneto già ci sono differenze, nonostante ci fosse un modello produttivo con alcune similitudini. Ovvero, sia da noi che in Emilia non c’era (e non c’è) la Fiat o l’Alfa, e quindi nemmeno l’operaio massa alla catena – o meglio, da noi c’era, ma comunque parliamo di una situazione molto diversa rispetto a Torino. Insomma, Bologna e il Veneto condividevano un modello produttivo che sarà quello che vince storicamente nella ristrutturazione operando il passaggio che supera il fordismo; ma l’elemento che rende distinti e diversi i due territori è la rappresentanza politica. Il sistema dei partiti, per dirla in soldoni.
Nel Veneto si era stabilizzato un sistema a governo democristiano, mentre nell’Emilia rossa (e paranoica, come cantano i Cccp), c’è il Pci. Può sembrare una differenza su un dettaglio secondario, “sovrastrutturale”, ma andando alla sostanza delle cose è una differenza enorme. Perché? Perché nella capacità di comando e di controllo dei conflitti autonomi, il Pci rivela una capacità di disinnesco di gran lunga maggiore della Dc. Nel Veneto, quando i ceti dirigenti non riescono più a governarne politicamente questo rapporto tra una nuova composizione di classe e nuove lotte (e ci provano in mille maniere, ma perdono le assemblee nelle facoltà, perdono le assemblee nelle fabbriche, perdono le assemblee nei quartieri e via così), l’ultima istanza che gli rimane è mettere in piedi, attraverso il teorema Calogero, il “7 aprile”. Direttamente alla repressione poliziesca. Da noi era questo il meccanismo, perché il quadro di comando partitico del Pci non aveva la capacità di esprimere un controllo sociale, che qui invece ha sempre conservato. Ci sono state differenze anche negli sviluppi del movimento (per esempio, in Veneto non c’è stato il Settantasette), ma l’elemento che va indagato per primo è il governo politico del territorio, perché è lì che si comprende chi è il nemico e come si struttura il terreno di battaglia.
Ora, io non so nel 2023 come funzioni a Modena e nelle ricche provincie del Nord (perché ricordiamocelo, qui siamo in assoluto nelle zone più ricche del pianeta, partiamo da questa considerazione altrimenti entriamo in chiavi di lettura strane). Come può darsi un percorso di rottura? Bella domanda. Quelli della nostra generazione possono dire solo “noi abbiamo provato a fare così”. Quindi, se guardiamo in profondità, qual è stato l’elemento che aveva messo in moto quel percorso? È stato il fatto che a diciotto, venti o ventidue anni questa generazione si è sottratta in una maniera totale al fatto di diventare merce. Non volevamo spendere la vita per un salario.
Non volevamo diventare merce forza-lavoro: e abbiamo fatto di tutto, anche armandoci, per sottrarci a questo. Questa è l’eresia assoluta, unica e fondamentale, che spiega il conflitto oltre che con il padrone anche con il Pci e con le ideologie lavoriste della sinistra. Ma badate bene, la giornata lavorativa è precisamente la cornice che tiene insieme e spiega il dopoguerra fino agli anni Sessanta. L’eresia parte infatti prima di noi, già alla Fiat con i sabotaggi delle linee e certo ci sono sviluppi di non poco conto, ma come un filo sottotraccia che esploderà dopo e che attraversa tutta la variegata progettualità che chiameremo “autonomia operaia organizzata” negli anni Settanta. Il rifiuto del lavoro è stata la nostra stella polare. Tutto quello che ne è seguito – processi organizzativi, strumenti di intervento, eccetera – parte da questo presupposto.
Altro elemento dirimente per la nostra storia nella provincia: nei nostri territori non c’è l’università. Io non so bene cosa stia succedendo adesso a Modena, ma di certo non è una città universitaria come Bologna o Padova; ovvero, non c’è il traino delle lotte studentesche. Se non altro per il fatto che sono università probabilmente più giovani, con una massa di studenti minore e con un altro tipo di impatto sulla città. Anche in ciò secondo me Modena assomiglia molto di più a Vicenza che non a Padova o a Bologna, dove invece l’università (umanistica, si noti) ha un grosso peso sui processi sociali e sui conflitti. Ma per ora mi fermo dicendo queste quattro cose, lascio la parola a Valerio e poi proviamo ad aprire la discussione, anche perché, più che a parlare, sia io che lui siamo più interessati a capire cosa significa avere oggi trent’anni.
Valerio
Donato ha introdotto benissimo la questione. Le caratteristiche della gestione politico-amministrativa di Bologna e della provincia veneta erano completamente diverse, dal momento che ognuna delle due si basava sulla struttura produttiva del territorio. L’Emilia-Romagna, come si è detto, non era ai tempi avvicinabile al ciclo del tessile e del chimico nel vicentino. Qui c’era sì la fabbrica diffusa, ma di un tipo profondamente diverso: intanto perché era più orientata sul metalmeccanico, ma soprattutto perché più che di fabbrica diffusa si trattava di fabbrichette e laboratori diffusi. La forma più presente (se escludiamo alcuni grandi impianti) era la piccola fabbrica a gestione bene o male familistica, dove un conflitto al suo interno non scoppiava mai, essendo aziende che contavano otto-dieci operai massimo.
Innescare una ribellione sui luoghi di lavoro diventava difficile, quindi, sia per la fisionomia che assumevano le fabbriche, sia per il controllo dei comportamenti operai da parte del Partito comunista e della Cgil (che, parlando simbolicamente, erano quasi l’uno lo pseudonimo dell’altro). Ora, concedetemi qualche esempio concreto per rendere l’idea del panorama. Nel bolognese cosa avevamo quando abbiamo iniziato? C’erano alcune fabbriche di generose dimensioni, come la Ducati, nella quale i comitati che facevano riferimento a Potere Operaio erano anche riusciti negli anni Settanta a organizzare alcune campagne di lotta. Va detto per inciso che a quei tempi Potop, soprattutto nei primi anni Settanta, era parecchio forte avendo collettivi un po’ dappertutto: in primo luogo nelle scuole medie (ora diremmo superiori) e nell’università, ma anche in qualche fabbrica, ognuna con il suo comitato operaio che organizzava le lotte, i cortei interni, i picchetti (e quindi, come al solito repressione, denunce, eccetera).
C’eravamo dunque alla Ducati, ma soprattutto in aziende più piccole come la Sabiem (che faceva ascensori), la Sasib (che faceva ingranaggi e pezzi per metalmeccanica), la Calzoni (che faceva ingranaggi, trasmissioni di precisione e armamenti, producendo congegni di puntamento su commissione dell’Esercito). Lì noi già da quel periodo cominciammo a fare intervento politico fuori dai cancelli, ai turni alle 4 della mattina (compreso d’inverno, con la neve fino alle orecchie). Nonostante la nostra presenza in città, in quel periodo è stata parecchio dura, per il mero fatto che abbiamo sempre ricevuto una grandissima ostilità.
Vorrei che fosse chiaro: erano gli operai stessi che ci fronteggiavano, e partivano anche le mani. E accanto a questo c’era il servizio d’ordine del Partito e quello della Cgil che rendevano impossibile che un discorso operaista, o comunque di conflitto, potesse permeare la fabbrica dall’interno. Noi su quel punto abbiamo sempre avuto problemi, le fabbriche erano inespugnabili. Ogni fabbrica a Bologna e nell’hinterland erano roccaforti, bastioni del Partito. Lì non si entrava, punto.
Poi, con il passare del tempo, siamo riusciti a penetrare dalla porta di servizio, quando il capitalismo locale andava indirizzandosi verso l’operaio sociale. Incontrammo giovani proletari dei quartieri e della provincia che per loro sfiga (così dicevano) per guadagnarsi qualcosa entravano in fabbrica. E così questi giovani di diciotto-diciannove anni, al loro primo lavoro, tentarono di fare qualcosa dall’interno, ma rimaneva estremamente difficile. La svolta fondamentale è stata che queste esatte persone le ritroveremo più avanti nel movimento, cioè fuori dalla fabbrica. Iniziammo insieme a loro a capire che si trattava di “operai sociali” che cercavano sì di guadagnarsi qualcosa in fabbrica, ma sapendo che stavano seguendo una produzione di valore che eccedeva da lì, che si socializzava. Ma prima di procedere, meglio mettere in chiaro alcuni termini che forse per noi sono ovvi, ma per chi ha avuto una formazione diversa no.
Per quel che concerne l’operaio massa, pensate l’addetto alla catena di montaggio, collocato in una specifica organizzazione capitalistica del lavoro e chiuso in una fabbrica con una disciplina da caserma. È lo scenario nel quale, dopo il famoso autunno caldo del ’69, inizia a fare emergere dentro di sé la famosa “rude razza pagana” descritta da Tronti, la quale inizia ad operare nei reparti con forme di lotta per noi inedite: gli scioperi a gatto selvaggio, i sabotaggi e i cortei interni, dove si spazzavano le linee e si punivano i capi. Dunque, per rispondere a queste nuove forme di insubordinazione il capitale si ristruttura, spalmando la produzione di massa sul territorio.
Si moltiplicano le piccole fabbrichette e i laboratori, ma iniziano anche ad apparire i primi lavori virtuali: nuovi mestieri che creavano una nuova composizione di classe, i cosiddetti “non garantiti”, che altro non erano se non l’antecedente dei precari di oggi. Entra nel lavoro una nuova generazione di giovani, costretti a entrare in un nuovo schema produttivo che soggettivamente rifiutavano, e che di pari passo inventavano nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione. Ecco, è proprio su questo tessuto che a Bologna e in provincia abbiamo lavorato forte. Ma non per scelta teorica, ma perché banalmente c’era poco altro da fare. Da noi, l’unica realtà sociale con del potenziale era quella studentesca.
La Fiat di Bologna era l’Università, ed era attorno ad essa che girava la nuova produzione e il nuovo sfruttamento; e non a caso ancora oggi, in Piazza Verdi, vediamo le tende piantate per denunciare quell’iper-sfruttamento su cui l’intera borghesia bolognese ha vissuto (certo, come osservava un compagno qualche giorno fa, noi le tende le usavamo per andare in vacanza e le case le occupavamo, ma chissà, vedremo come andrà a finire). Tornando a noi, i processi produttivi orbitavano intorno all’Università in quanto polo di sfruttamento e centro di gravità per una nuova composizione, destinata alla disoccupazione e senza un domani. Tutto ciò lo avevano già capito proprio i non garantiti di allora. A diciannove anni avevano capito benissimo che non avrebbero mai avuto la vita che gli era stata promessa; ma la loro novità stava nel dire “ma bene, per fortuna! Noi quella vita borghese non la vogliamo”. E fu così che noi militanti riuscimmo a raccogliere l’ipotesi del rifiuto del lavoro come cornice politica per lanciare i percorsi di lotta che vedremo negli anni Settata. Tutta l’Autonomia bolognese era dunque interna a una nuova composizione, nel vivo dei processi di cambiamento, partendo dal rifiuto del destino assegnato.
Ciò si riverberava anche nella militanza e nei suoi linguaggi. In definitiva, non eravamo più Potere Operaio – nonostante l’Autonomia organizzata altro non fosse che il risultato del trasferimento in blocco dei militanti di Potere Operaio, e segnatamente del servizio d’ordine, nella nuova composizione subito dopo Rosolina. A quel punto però non adottiamo più le forme di prassi allora più usuali, cioè la figura del militante rigido e operaista. Ci accorgiamo, insomma, della necessità di cambiare atteggiamento davanti all’apertura di una fase nuova. Sicché i militanti di Potere Operaio, incontrando l’operaio sociale e trasformandosi in Autonomia, una volta riconosciuto che gli strumenti che si usavano prima non erano più efficaci ai fini del conflitto e della rottura, li abbandonano, sperimentando nuovi linguaggi, nuove tattiche e nuovi terreni di scontro.
Quello che invece teniamo stretto è quello che per noi operaisti è il principio cardine del movimento di classe fin dall’alba dei tempi: la questione della forza. La questione della forza è dirimente, indispensabile per l’Autonomia, oggi compreso. Alla fine dei conti, non riusciamo ancora ad abituarci alla legalità borghese e cose del genere. E il motivo è chiaro, ovvero che per noi la politica deve sempre stare accanto all’“esercizio legittimo della forza” secondo una delle prime formulette, o come diremo dopo all’“illegalità di massa”.
Ma ripeto, per noi non è una novità. Come ci ha spiegato Valerio Evangelisti in quel suo bellissimo libretto, Il Galletto rosso, dal 1892-1896 in poi, in quel grande movimento operaio (socialista, tra l’altro, non ancora rivoluzionario, ma solo “tendente a”), durante gli scioperi dei braccianti e degli scarriolanti si attivavano all’interno delle masse degli operai autorganizzati attraverso azioni di forza. Ma non è che ci andassero tanto per il sottile, eh? Incendi, distruzioni dei frutteti, sequestri dei padroni e dei loro famigliari, qualcuno lo hanno anche fatto fuori… Quel che conta osservare di quei fenomeni è la dimostrazione di come si fosse sempre pensato che la politica e la forza non possano fare a meno l’una dell’altra. La politica senza la forza è riformismo, un arrabattarsi assolutamente inefficace davanti ai mezzi di cui dispongono i padroni (fino alla cooptazione: abbiamo visto che fine ha fatto Andrea Costa, no?); dall’altra, la forza senza la politica non ha senso. Sarà semplice, ma era un punto di partenza indiscusso, certo, cristallino. Quindi, quando l’Autonomia, nei nuovi linguaggi, lancia il tema dell’uso della forza, non inventa assolutamente niente. Porta avanti un programma (proletario, operaio, chiamatelo come vi pare) che non poteva essere diverso.
Ne conseguiva quindi che le nuove teorie e i nuovi linguaggi erano sempre dentro le lotte, dentro il conflitto, ma anche dentro il territorio. Per esempio, con un compagno prima si parlava di contropotere. Be’, cosa significava “contropotere” e “uso legittimo della forza”? Che in certi quartieri la polizia non entrava perché c’erano dei servizi d’ordine di proletari che semplicemente non glielo permettevano. La “questione del reddito”? Significava che se noi non vogliamo lavorare, se non ci interessa il lavoro ma il reddito e voi borghesi non ce lo date, benissimo, noi lo veniamo a prendere, non c’è problema. Ecco in che senso parlavamo di “uso legittimo della forza”, perché ti serviva sia per campare che per portare avanti i tuoi progetti di rottura. Ovvero per cominciare (ed è stato un nostro tratto distintivo) a praticare fin da subito degli elementi di comunismo. L’esproprio è uno di questi: ti organizzi con i proletari di quartiere, entri al supermercato e fai in modo di uscire senza avere danni. Poi, che fuori ci fosse una copertura armata lo sapevamo soltanto noi e gli sbirri, che non a caso non venivano a rompere i coglioni o al limite, sempre per il principio “tengo famiglia”, arrivavano a cose fatte [godimento erisate in sala]. Ma è comprensibile eh! Ognuno fa il suo mestiere…
Donato
Anche lì, tra l’altro, non c’era un unico modello.
Valerio
Verissimo, ogni territorio aveva il suo. Io me lo ricordo ancora, all’Esselunga di Milano ci siamo divertiti un casino, una roba impressionante… [risate] Comunque, questo giusto per dire che le cose funzionavano perché c’era dietro un’organizzazione che le faceva funzionare e le organizzava. Questo è il senso di “uso legittimo della forza”. Ma capiamoci, mica riguardava solo il pollo da mangiare la sera tu e i tuoi bambini, ‘ste robe retoriche da fine Ottocento non ci interessavano minimamente; ma piuttosto la cultura, il divertimento. Tutto questo costava? Lo si andava a prendere. E quindi si entrava gratis al cinema, gratis al teatro, nei locali, dei concerti non ne parliamo neanche… [qualcuno dal pubblico chiede “L’autobus si pagava?”] No, macché, ma chi pagava l’autobus? Ma figurati! Ma neanche il treno! Dico, per il treno si stampavano i biglietti falsi e si andava fino a Parigi così, ne abbiamo fatti a migliaia…
Donato
C’era un tale quantità di sapere su come recuperare reddito che oggi ha dell’incredibile. Faccio un esempio: il bollo del motorino costava 1505 lire. Tu con la scolorina lo cancellavi, mettevi la targa della macchina e con 1505 lire giravi con il bollo della macchina pagato. Voilà. Oggi questo non è più possibile, ma è ovvio che ci saranno altri saperi che possano permettere situazioni del genere e che dovrete mettere in campo. Non vi nascondo che mi sono spesso domandato: “Ma cazzarola, ma è forse possibile che non ci sia una cultura del sabotaggio attraverso l’online, con l’hackeraggio o che ne so, che in un qualche modo riesce a portare a casa reddito?” O comunque a porsi questo problema. Queste sì sarebbero cose interessanti che la vostra generazione dovrebbe mettere a disposizione, aggiungendo un nuovo capitolo a tutto quello che la nostra aveva a suo tempo escogitato per conquistarsi la possibilità di vivere riducendo il carico di lavoro.
Ah, Valerio e io ci siamo dimenticati di una cosa: con l’Autonomia siamo ben prima della rivoluzione informatica. Cominciava a introdursi, e nonostante già all’epoca qualcuno straparlasse disperato sulla tecnica, noi non la demonizzavamo a priori. Perché? Perché la vedevamo come una partita aperta, dove erano i rapporti di forza che a decidere se la rivoluzione informatica e la ristrutturazione del capitale sarebbero andati a liberare dallo sfruttamento o verso l’accumulazione di profitti. Ma siamo sempre lì! Oggi come allora – non ci stancheremo mai di ripeterlo – sono i rapporti di forza che decidono dove pende questo problema. Oggi certo, ci sono sicuramente molti più strumenti di controllo sociale, su questo non ci sono dubbi, ma bisogna comunque scovare da una qualche parte un anello debole che ti permetta di attraversare a tuo favore le dinamiche che incontri. Ed è precisamente su questo punto che agisce la soggettività, è per questo che la militanza prende la forma del soggetto.
Perché capiamoci, quando noi parliamo di operaio massa o operaio sociale, parliamo di concetti di lotta, altrimenti questi non esistono. L’operaio massa è tale perché pratica un particolare terreno di lotta, altrimenti è soltanto forza lavoro, una merce piegata, sottomessa, brutalizzata. Punto. L’operaio sociale, rispetto all’operaio massa, compie un processo ulteriore: mentre l’operaio massa è ricomposto in fabbrica nella catena o nel reparto, l’operaio socialedevi ricomporlo territorialmente. Ma il discorso di fondo resta il medesimo: se al problema gli diamo una lettura di carattere sociologico, allora l’operaio sociale è una figura indistinta, grosso modo attiva nel terziario, prodotta dalla ristrutturazione; ma questo non è un concetto di lotta! A noi non interessano gli “effetti” della ristrutturazione in quanto tali, a noi interessa intercettare la soggettività capace di costruire percorsi e progetto di rottura di classe. E allora l’operaio sociale, deve darsi strumenti ricompositivi rivolti a un programma di rottura.
Noi, ad esempio, questo passaggio lo risolviamo costruendo i Gruppi sociali territoriali (Gs), che prima venivano ricordati. E sia chiaro, noi mica li abbiamo costruiti a partire da una prospettiva ideologica. Addirittura, come appunto veniva sottolineato da uno di voi al bar prima di iniziare, quella di Gruppo sociale era una sigla usata in parrocchia! E perché la recuperiamo così come la troviamo senza inorridirci? Per il semplice fatto che questa sigla, che già era presente, era diventata un volano delle lotte sui trasporti. A noi questo interessava. Ci interessava uscire dalla città (in questo caso, tra Padova e l’alta padovana) ed entrare nei paesi.
Perché l’altro aspetto dominante nel Veneto è tutta quella ricchezza territoriale che va ben oltre la città universitaria. Dalla bassa e l’alta padovana alla Riviera Berica, tutto il vicentino, il bassanese, il rodigino, Chioggia e tutta la zona di San Donà e Portogruaro… la parte politicamente più promettente era la provincia – e ricollegandomi per inciso a quanto dicevamo prima, immagino che trovassimo la stessa composizione che incontrate voi oggi nel modenese. E così lanciamo una scommessa, dicendoci: “Poiché siamo tutti nati e cresciuti nei paesi, sarà proprio quel tipo di conoscenza e di rapporti diretti che abbiamo tra noi il volano fondamentale per costruire un progetto”. Siamo amici prima di diventare militanti. Questi legami ce li portiamo dietro da sempre e arrivano all’oggi. È dentro a questo contesto che si costruisce tutto il percorso politico, ed è nel suo sviluppo che prende forma il contropotere.
In parole povere, per come noi lo concepivamo, il contropotere era l’insieme dei comportamenti autonomi; dunque elementi che andavano molto oltre a quello che noi rappresentavamo a livello organizzativo. Quando vai a fare un’assemblea in una fabbrica di 500 operai, non fai mica battaglia con loro; la fai con gli altri 490 rispetto ai quali c’è un controllo del sindacato, e i dieci tuoi devono essere determinatissimi a fare altrettanto. Solo così poteva funzionare. Ne conseguiva che il rapporto che avevi con i compagni in fabbrica lo costruivi fuori da lì.
Per esempio, nel libro c’è un’intervista a un compagno carissimo, Gianni. Be’, Gianni entra in fabbrica a quindici anni. A quindici anni era così per tutti, non ci sono percorsi universitari nel libro (me compreso: faccio le superiori e appena finite sono già carne da macello dentro la produzione). Ma oltre a condividere un “curriculum”, si partecipa alle stesse esperienze di vita, specialmente quelle che consideravamo (a ragione) più dense di significato. È su quel terreno – prepolitico più che impolitico – che si cementa l’intesa e la fiducia. In termini politici, l’accumulo di forza dei singoli compagni, compresi quelli costretti a subire le otto ore quotidiane, proviene prima dal paese, si riproduce in fabbrica e infine diventa un elemento di battaglia politica.
Lo stesso meccanismo operava sottotraccia, per esempio, in un’altra importante vicenda che riporto nel libro, dove noi prendiamo una fabbrica piccola, l’Italsthul, di 400 operai, e la sconvolgiamo. Vengono castigati i capi, blocchiamo le linee, viene praticato il sabotaggio alle macchine, si vince la vertenza… ma alla base c’era sempre il contropotere, cioè un modo operaio e di classe di attraversare tutta la complessità della contraddizione.
Con il senno di poi abbiamo scoperto che il contropotere costruito, oltre a fornire la bussola organizzativa, è la risposta a un grosso problema dell’Autonomia, grazie al quale c’è una tenuta così forte nonostante una repressione giudiziaria così pesante. La chiave era sempre questa rete di relazioni interpersonali (anche amicali) che precedeva la politica e impediva che partissero delle “derive individualistiche” – non so se ci siamo intesi. La tenuta poggiava sull’impostazione assunta in anticipo, lo dimostra l’unica eccezione, un operaio della Lanerossi che diventa “ammittente”, ma parliamo appunto di un tizio che non è mai stato militante d’organizzazione come lui stesso afferma:ennesima prova di come i processi giudiziari che abbiamo subito si muovessero a partire da suggestioni, accompagnate da un enorme battage propagandistico-pubblicitario promosso dai media. A distanza di cinquant’anni è diventata palese la fragilità dell’ipotesi dell’accusa, ma all’epoca purtroppo ha funzionato, soprattutto attraverso il carcere preventivo.
Quel che mi interessa ribadire è che la chiave di volta per impedire il “combattentismo” prima e il “pentitismo” poi è stata appunto il contropotere, cioè un accumulo di forze che nasceva dalla quotidianità nei quartieri, nella provincia e nei nostri luoghi di vita. E nel frattempo, questo accumulo di forze ha permesso di fare cose oggi impensabili. Non so se rendo l’idea, si entrava in fabbriche come la Laverda (macchine agricole, 1200 operai) o la Zanon (del presidente dei metalmeccanici vicentini) e spegnevamo le macchine. Voglio dire, adesso sembra incredibile anche a me, ma lo abbiamo fatto! L’ho fatto!
Perché insisto tanto su questi esempi? Io pure detesto il reducismo. Insisto solo per dare un’idea di come ragionassimo. Non è che noi razionalmente ci sedessimo a un tavolino e dicessimo “dai, abbiamo capito tutto quindi ora dobbiamo solo partire ed è fatta”, perché non sai mai come si svilupperà. Nessuno di noi, quando a diciassette-diciotto anni abbiamo incominciato ad affacciarci a questo mondo, poteva sapere cosa ne sarebbe venuto fuori. E tuttavia quel tipo di progetto metteva in moto un’intelligenza collettiva sufficiente a catturare il tuo slancio e a renderti disponibile a osare, a superare condividendo anche le paure. Questa è stata la mia militanza, e immagino anche quella di Valerio. Un’intelligenza collettiva e condivisa che ti ha catturato, un’intelligenza rivoluzionaria e comunista in totale rottura con lo stato di cose presente.
È qui che ce la siamo giocata. E così non ci siamo fatti imprigionare il cervello dagli orizzonti dell’arricchimento personale né da soluzioni individuali, che è l’altro lato della medaglia. Il capitalismo funziona così: “Non vuoi fare l’operaio? Diventa un paròn!” Non c’è via di mezzo! [applausi commossi] La nostra eresia stava tutta lì: noi non vogliamo fare gli operai, e non vogliamo fare i padroni: e quindi pensiamo che l’unica soluzione sia la rivoluzione comunista, punto. Questa è stata la bestemmia che ha sconvolto tutti, in primis il Pci. Figurati cazzo! Questi che vogliono fare la rivoluzione senza lavorare! Così è andata.
Ora, io ho settant’anni ormai. Ma se ne avessi venti o trenta mi porrei le stesse domande: quali sono i meccanismi attivi dentro questa nostra voglia di rottura? Perché siamo qua oggi a parlare degli anni Settanta? Qual è l’elemento che ci diversifica dall’accettazione un’altra condizione di vita? Il cuore della vita militante sta lì. Dopodiché in questo vanno aggiunte dinamiche collettive, e non ho dubbi che i termini oggi siano molto diversi da cinquant’anni fa; ma resto convinto che gli elementi di fondo restano gli stessi, altrimenti la storia non avrebbe senso. O si risolve il nodo del salto di grado dal rifiuto individuale del presente all’insubordinazione collettiva, o c’è poco da fare – ma questo, scusatemi, è un problema vostro. Per cui al limite quello che possiamo venire a dirvi è: “Per noi ha funzionato questo” (o “sono stati questi gli elementi costituenti”, per usare un linguaggio dell’oggi), dopodiché è un problema vostro e di ogni nuova generazione
Lo so che è oggi molto più dura, ma voglio dire, anche noi siamo partiti spaccando con i gruppi e uscendo. La storia di Potere Operaio nel Veneto è solo a Padova e Marghera; già a Vicenza non aveva quella rilevanza. Nel nostro territorio era egemone Lotta Continua, con quadri e avanguardie operaie inseriti soprattutto nelle fabbriche di Schio. Quindi, tutto il percorso viene messo in moto superando quel tipo di progettualità, quando capiamo che nel contrastare la ristrutturazione in corso tra il ’74 e il ’75 la strumentazione dei gruppi era insufficiente. E così usciamo, amen. Ma proprio qui sta la premessa cruciale per l’uso della forza.
Anche prima c’erano state esperienze che vedevano un servizio d’ordine armato. La differenza fondamentale della nuova fase stava nell’esplicita volontà di costruire un’organizzazione politico-militare. Attenzione: armata, non clandestina! Se io non ho mai fatto un giorno di clandestinità, non è stato un caso. È andata così perché siamo sempre partiti dall’idea che ogni singolo compagno dei Collettivi politici veneti che facesse intervento politico in fabbrica, in mensa, in facoltà, nel quartiere dovesse anche “andar sotto”, come dicevamo allora. Era precisamente su questo insieme – intervento nella composizione e conflitto – che modulavamo le azioni, comprese le azioni armate.
La rilevanza di un’azione non era mai concepita a partire dalla sua cruenza; l’importante era che crescesse un “quadro collettivo”, una rete di compagni che fosse coordinata e capace di districarsi in un sociale sempre più complesso. Non abbiamo mai pensato ad “alzare il tiro” o di attaccare “al cuore dello Stato”, di discorsi del genere non ce ne poteva fregare di meno. Per noi era più importante che il capo che rompeva i coglioni in fabbrica potesse trovare gente capace di sfasciargli la macchina e farla franca, poiché era proprio questa rete a dimostrare direttamente i suoi frutti positivi quando andavi al lavoro il giorno dopo. Oh, ci sono compagni a cui per vent’anni (vent’anni!), dopo le loro vicende nell’Autonomia, non hanno più rotto i coglioni in fabbrica finché non sono andati in pensione. Ma vi pare poco? Questa era la forza del contropotere, cioè della forza immersa, intrecciata ai tuoi luoghi di vita. La clandestinità era l’esatto contrario.
Valerio
Il discorso di Donato, sull’applicazione nel territorio dell’uso legittimo della violenza, mi pare interessantissimo anche perché si notano le enormi differenze tra i cicli produttivi nell’alto Veneto e nell’Emilia; ma per quanto concerne lo stile di militanza, le nostre esperienze sono identiche. Là si applicava su un contesto di fabbrica, cosa che non accadeva a Bologna – e dico Bologna perché in Romagna non c’era niente, c’era un centro importante di Potere Operaio a Ferrara (con Guido Bianchini, mica cazzi) e a Modena, ma era un’altra fase. C’era una composizione sociale completamente diversa, con grosse fabbriche di “intoccabili” e piccole officine a dire poco “sonnolente”. Però quello che succedeva da voi veneti in fabbrica succedeva anche qui, e sempre in rapporto a quello che i “testi sacri” ci indicano come operaio sociale. Cambiava la posizione nel ciclo produttivo: i nuovi mestieri, l’informatica che avanza, la disoccupazione rivendicata in senso critico, eccetera.
L’Autonomia Operaia bolognese lavorava su questo tessuto esattamente come la compagine veneta lavorava su chi individuava come loro referente. L’idea di partire non da scelte ideologiche, ma da quello che il tuo territorio ti pone davanti, era perfettamente condivisa. E c’erano anche analogie nelle pratiche, come appunto il controllo del quartiere. Una cosa giustissima che sottolineava Donato prima è che il rapporto militante tra “avanguardie”, diciamo così, e base sociale non si forma sul luogo di lavoro (la fabbrica da loro, l’università da noi), ma si crea fuori, ed è prima un rapporto di amicizia e poi diventa di militanza. La seria attenzione che dedicavamo ai nuovi linguaggi deriva anche da questo confronto con il tuo presente. Sapete no, a Bologna in quegli anni c’era di tutto: gli indiani metropolitani, i buddisti…
Donato
Oddio, gli indiani mi sarebbero stati anche simpatici, i buddisti non so eh… [ridono]
Valerio
Guarda, c’era veramente di tutto. Per esempio, c’erano anche diversi gruppi di femministe, tra cui quelle che provenivano da Potere Operaio (quelle del salario al lavoro domestico, per capirci) con cui avevamo un rapporto storico e che finiranno tutte nell’Autonomia, tant’è vero che molte di loro tra il ‘77 e il ’79 finiranno arrestate per questioni di lotta armata (il gruppo del Self Help ha avuto due arresti e una latitante poiché associato dal Pm a noi di Rosso, per intenderci). Insomma, si lavorava su questa composizione perché questa c’era. E non è un caso che, sulla questione della forza, si parlasse di “illegalità di massa”. Ricorderete quella grande pagina di «Rosso», no? Ecco, riassunta in due pennellate l’illegalità di massa era esattamente quello: l’uso legittimo e proporzionato della forza in funzione del conseguimento di obiettivi pratici.
Donato
Che poi è sempre una definizione di parte… perché secondo l’altra eravamo solo delinquenti, eh. Sono sempre, anche quelli, rapporti di forza.
Valerio
Esattamente. Anche su quel piano c’era una risposta dello Stato, ma nulla toglie che ci fosse un’enorme differenza tra quanto facevamo noi e le altre organizzazioni. In primo luogo, ci distanziavamo risolutamente dal modello delle Brigate Rosse e degli altri gruppi comunisti combattenti che si autoriferivano come “partito combattente”, ovvero centrati sull’idea del “nucleo comunista armato” che avrebbe attirato attorno a sé la classe operaia per poi muovere una rivoluzione diretta dal nucleo stesso. Niente di più diverso dall’Autonomia. E infatti anche noi a Bologna, così come i compagni veneti, non abbiamo mai praticato la clandestinità – se non, forse, per problemi strettamente emergenziali, come quando venivi individuato e partivano i mandati di cattura e dovevi sparire.
Donato
Però quella – lo dico perché magari ai ragazzi non è chiaro – quella non è clandestinità, è latitanza. Anche io mi sono fatto i miei anni di latitanza, ma c’eri costretto e amen.
Valerio
E infatti si lavorava anche quando si era via…
Donato
E come no! Appunto perché era solo latitanza, non clandestinità.
Valerio
Ricordo anche che a un certo punto, con una formuletta buffa e che a me faceva molto ridere, a Bologna si parlasse di “militante complessivo”. Cosa s’intendeva? Quello che diceva Donato prima: che stavi dentro alla classe, dentro a quella composizione che avevi davanti per dargli un vettore organizzativo. Detto altrimenti, significava che oltre agli scontri facevi conricerca, stando attento a qualsiasi cosa si muovesse per comprenderla dall’interno così da orientare una sua eventuale effervescenza – o magari capivi che, nonostante le apparenze iniziali, quei soggetti non ti interessavano e mandavi tutto a fanculo, ma il punto è lo stesso. Insomma, una ricerca continua del conflitto. Laddove c’era una contraddizione, tu entravi e cercavi di capire come riuscire cogliere quell’esuberanza e trarci una rivolta.
L’uso della forza era proporzionato e finalizzato solo ed esclusivamente a questo. “Una struttura di servizio alla classe”, come riassumeva qualcuno, con cui andare dove la classe, da sola, non riusciva. Ripeto, ritorniamo al Galletto rosso e alle pratiche di sempre: il padrone non cede alle rivendicazioni? Be’ cederà, e cede eccome! Non voglio dilungarmi, ci siamo capiti. Se queste erano le premesse, ne deriva che tu scomparivi dal tuo tessuto sociale solo se venivi individuato dalla repressione; ma questo era interpretato come un incidente sul lavoro, a differenza di altri gruppi che andavano in clandestinità senza essere mai ricercati. Pensate a come le Brigate Rosse distinguevano i loro quadri tra “irregolari”, cioè il giro largo di simpatizzanti e collaboratori, e “regolari”, cioè brigatisti veri e propri che, pur non essendo ricercati, decidono di costruire il partito armato della rivoluzione, e fanno solo quello.
La nostra e la loro erano quindi due concezioni della lotta armata completamente diverse, e certe volte antagoniste. Tocca ammettere però che, soprattutto dopo Moro, molte di queste esperienze si sono incrociate. Per dinamiche differenti da momento a momento, da città a città, da soggetto a soggetto; non è facile riassumerlo in pochi cenni. Io posso parlare solo di Bologna. Sono stato in Potere Operaio dalla nascita nel ’69 al suo scioglimento nel ’73, e poi nell’Autonomia dal ’73 fino al ’79 con il processo “7 aprile”; quindi queste connessioni le conosco bene e posso dire che sì, qualcuno le ha tentate, ma non sono mai riuscite.
Bologna poi ha avuto un’altra caratteristica, in virtù di quel sentimento amicale, di amore fraterno di cui parlavamo prima e che da noi ha avuto un significato politico enorme. Eravamo tutti amici, eravamo davvero compagni, si viveva giorno e notte insieme. Si faceva intervento in continuazione, ma si dormivano tre-quattro ore per notte soprattutto perché si era sempre per strada. C’erano le feste, i casini, i cortei notturni, le cose fatte alla cazzo tra amici… E questa fratellanza ce la siamo ritrovata anche in tribunale. Quando partì un grosso processo, il cosiddetto “Prima Linea bis” (Prima Linea non c’entrava un cazzo, si chiamava così solo perché alcuni infami milanesi e torinesi avevano coinvolto alcuni dei nostri e così sono stati tirati dentro; da noi c’erano le Fcc, che erano un’altra roba, ma non divaghiamo), vengono presi in 23 tra compagni e compagne (sottoscritto compreso). A Bologna in quel processo e sul suo seguito non abbiamo avuto nessun pentito. Mai. Perché? Forse sbaglierò, ma sono convinto che questa tenuta venisse anche dalla fratellanza profonda tra compagni, da quell’impossibilità spontanea a fare del male ai tuoi.
Faccio un rapido esempio. Quando mi hanno arrestato erano le tre di notte. Mi hanno portato nella caserma di via dei Bersaglieri, perché il nucleo operativo antiterrorismo era lì. Ci ho trovato sì i carabinieri, ma soprattutto il Pm lì che mi aspettava. Mi fece vedere il mandato di cattura, con l’associativo per banda armata, ma anche altri 32 reati specifici, con robe assurde… A quel punto mi ha messo davanti a un’alternativa: “Trent’anni e passa di galera, oppure decidi per un percorso di collaborazione che comincia stanotte. Tu inizia a parlare e se continui stasera torni a casa”. Io l’ho mandato letteralmente affanculo. Si è incazzato, ha detto che quello non era linguaggio consono a un magistrato, e mi sono fatto la galera.
Ma potevo io, quando mi chiedeva i nomi (e ci ha provato, il merda, “conosci questo, conosci quest’altro?”), potevo denunciare mio fratello, mia sorella? E badate che qui la politica e l’eroismo non c’entrano un cazzo, c’entra il voler bene alle persone con cui hai condiviso gioie e pericoli. Darsi alla lotta armata e trovarsi in scontri a fuoco dove rischi di morire da un momento all’altro non sono bazzecole. Certo, qualcuno trent’anni prima di noi aveva passato le stesse cose, o almeno mio padre, che è stato partigiano, me le raccontava così: il succo era lo stesso. In quegli anni è capitato più di una delazione, ma sempre da altre parti, in organizzazioni dove le cose andavano a modo loro. Che devo dire, siamo stati fortunati?
Donato
Eh no, non è mica questione di fortuna!
Valerio
Non lo è perché per noi militanza non è soltanto lo stare fianco a fianco in azione, ma esserci anche fuori. Essere amici, affrontare i problemi, compresi quelli personali, che ti tieni nella testa. Nonostante l’attenzione e la disciplina che ti dai, non puoi essere sempre sicuro di te. E allora, se hai dei compagni veri ti volti e chiedi conferme, magari a una tua compagna che è anche femminista. [Rivolto a Donato] Ma quante notti abbiamo passato a parlare di dubbi, di problemi, del rapporto uomo-donna o dei rapporti di potere nei gruppi? Il dubbio ci ha sempre accompagnato e l’unico modo per affrontarlo seriamente era discuterne con i tuoi, con quella gente con cui poi condividevi anche le lotte. Non siamo mai stati supereroi, abbiamo sempre avuto le nostre debolezze e le nostre fragilità; poi certo, in azione era tutta un’altra cosa. Lì il cervello funziona in un’altra maniera, ci sei tu e ci sono loro, “classe contro classe, forza contro forza”, punto. Con il nemico il rapporto è tecnico, essenzialmente tecnico. Ma chi tu sei veramente lo capisci e lo discuti fuori.
Donato
Giustissimo, condivido tutto. Torno però un secondo su una questione importante, visto che magari è passata in sordina. Noi non abbiamo mai concepito l’omicidio politico, bisogna dirlo chiaro e tondo. È anche questo che ha permesso una tenuta politica. Ci sono stati anche tra di noi casi di tortura, ma è altrettanto ovvio che quando arriva, in situazioni come la nostra si innestano dinamiche completamente diverse nel momento della repressione, e per vari motivi. Primo, perché sei una figura pubblica, e quindi hai immediatamente chi fuori ti guarda le spalle. Vi faccio un esempio molto terra terra: io sono stato arrestato da latitante, dopo un anno e mezzo, per cui potevano spaccarmi. Volevano sapere cosa aprissero le chiavi che avevo in tasca visto che oltre al sottoscritto c’erano un’altra decina di compagni latitanti. Per cui io subito ho pensato: “Ecco, ora può mettersi male”. E invece perché non è successo? Perché non appena mi hanno arrestato mi trovano un documento che avevo con me, un documento di un compagno che avevo falsificato talmente bene che non ci credevano. I carabinieri vanno quindi da lui e immediatamente si avvia una catena di Sant’Antonio, una rete di protezione fuori dalla cella che mi salva da ulteriori problemi oltre all’arresto. Tutto questo perché eravamo figure pubbliche, sostenute fuori dal movimento.
L’altro fattore, appunto, è che non abbiamo mai concepito l’omicidio premeditato come strumento di crescita del contropotere. Io non so se ci saremmo arrivati, perché parliamo di un periodo storico molto preciso, e chissà cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente; ma nella nostra esperienza non è mai accaduto che quest’ipotesi potesse essere discussa. Poi l’incidente poteva sempre capitare, come quando vai a fare una rapina in banca e finisce male; ma non si è mai preso in considerazione l’omicidio intenzionale, che è tutt’altra faccenda. La tenuta dei compagni sta anche in queste coordinate.
Avete visto, Valerio finisce in un’inchiesta pilotata per reprimere delle aree autonome e gli arriva una botta di accuse di attentati che neanche sai dove girarti. È successo anche a me, quando avviene la tragedia a Thiene in risposta agli arresti del “7 aprile”, dove muoiono Angelo Dal Santo, Antonietta Berna e Alberto Graziani. Io vengo immediatamente coinvolto, spiccano il mandato di cattura la sera stessa e mi tirano addosso tutto quello che è stato rivendicato nel Veneto. Quindi, i mandati di cattura su cosa sono costruiti? Sono costruiti sulla radicalità del conflitto, e usano questo genere di suggestione caricando il singolo accusato di tutto quello che è riconducibile al gruppo, e solo a questo punto imbastiscono l’indagine. L’indagine è costruita sulla pesantezza delle accuse: più il mandato è pesante e più ti cercano, all’estero con l’Interpol o con Dalla Chiesa che rastrella i paesi e via discorrendo. Quindi la tenuta dell’Autonomia deriva in parte dalla scelta delle pratiche e in parte da un lato dal suo radicamento, che permise che fin dalla sera stessa degli arresti ci fosse chi andava in piazza a rivendicare la “libertà per i comunisti”…
Valerio
E anche a Bologna funzionava così, il giorno dopo c’era già un corteo.
Donato
E infatti di quello si parlava nel palazzetto al convegno del ’77, quello in cui le Br si dicono: “Toh, quanto consenso che abbiamo!” Era una battaglia politica con la “destra” del movimento sull’uso della forza. Mica volevamo entrare nelle Br, pensiero che non mi ha mai sfiorato neanche per sbaglio: rivendicare Curcio e la detenzione politica diventava un elemento di battaglia politica. Questo per dire che l’estensione della solidarietà per i detenuti era centrata su quello che sarebbe avvenuto fuori dal carcere una volta che ci finivi tu.
Poi, vorrei parlare di un altro elemento e parto anche qui da un esempio concreto. Primavera del ’78, siamo in pieno sequestro Moro. A Milano all’Alfa il sindacato contratta con il direttore di stabilimento i famosi “sabati lavorativi”. Cioè firma un accordo dove si stabilisce che, per come è organizzata, la fabbrica produce poco e si possono fare venti Giuliette di più al giorno. Ripeto, è il sindacato che gestisce ‘sta porcata e che si mette a fare il controllore della produzione, e parallelamente è su queste basi che il Pci si gioca l’ingresso nell’area di governo. Tutto il nostro disprezzo per il Pci parte dal governo dei processi produttivi, mica dalle seghe mentali dell’ortodossia ideologica (detto per inciso, questo straordinario non pagato rientra in quella “teoria dei sacrifici” di Lama, giusto per dare un po’ di concretezza ad altri discorsi che avrete sentito parlare in una maniera fumosa). I compagni vanno per impedire lo straordinario, c’è una reazione del servizio d’ordine Cgil e piciista, posto a difesa della produttività, che li carica assieme alle forze dell’ordine.
Tutto questo avviene in contemporanea al sequestro Moro. Quindi, tu da un lato vedi l’Autonomia che vuole scardinare la giornata lavorativa sociale, perché individua lì il nocciolo del problema e della rigidità di governo che informa le relazioni sociali; e dall’altra parte chi che crede che il problema sia raggiungere un fantomatico “cuore dello Stato”.
Valerio
Esatto, perfetto. L’hai detta benissimo.
Donato
Questa è la contraddizione che si gioca tra noi e i “combattenti”. L’elemento che volevamo rompere era la rigidità delle otto ore. Ed è così ancora oggi! Sono passati cinquant’anni e non soltanto non riusciamo a trovare strumenti per spaccare su quel punto, ma anzi le ore stanno aumentando! Quello che a Valerio e me sembra incomprensibile, oggi, è che sia sparito il tema della riduzione dell’orario di lavoro, che per noi era centralissimo e su cui ci siamo giocati tutto. Quando parlavamo di “lavorare tutti per lavorare meno” ci credevamo! Eravamo convinti che quella fosse la strada della rottura, la strada che ci avrebbe permesso di uscire da quella crisi del capitale. Nel discutere sulla presenza o no di un processo rivoluzionario in quelle esperienze, è a questo punto che dobbiamo guardare, perché era per noi il modo per introdurre nella crisi di capitale la soluzione verso la rivoluzione comunista. Così è andata.
E io sono ancora convinto, dati alla mano, che nell’insistere sull’orario e sulla frattura della giornata lavorativa ci avessimo visto giusto. Proprio perché è esattamente quello che si è realizzato: non come lo volevamo – ovvero un controllo della crisi attraverso appunto il contropotere, attraverso cioè un accumulo di forze che ti permettesse di usare la flessibilità nella giornata lavorativa a tuo vantaggio – ma ribaltata nella sconfitta – cioè il precariato. Tutti gli aspetti peggiori della condizione lavorativa di oggi sono il risultato di quella sconfitta.
Se io dovessi suggerire a chi oggi fa militanza una chiave di lettura, partirei chiedendogli: ma tu come hai risolto, anche singolarmente, questa contraddizione nel lavoro vivo delle otto ore e della rigidità? Come pensi di affrontarla?
GKN a Firenze, Gianetti a Monza, Timken a Brescia. Sono solo le ultime e più note fabbriche che hanno chiuso nella notte, di nascosto, scappando come ladri.
Centinaia di operai e operaie che si ritrovano senza lavoro da un giorno all’altro, con una mail e tanti saluti dall’Amministratore delegato. Che si vanno ad aggiungere alle migliaia di lavoratori interinali, delle cooperative, precari lasciati a casa dai padroni, che siano italianissimi industriali, multinazionali o fondi speculativi.
Si scrive ristrutturazione, si legge macelleria. Ed è solo l’inizio. Sono le conseguenze dello sblocco dei licenziamenti voluto da Confindustria, appoggiato dal governo Draghi – e da tutti i partiti dal PD alla Lega, dai Cinquestelle alla Meloni – e sottoscritto dai sindacati senza colpo ferire.
Padroni e politici fanno il loro lavoro: profitti e poltrone, a ogni costo necessario. Ma i sindacati? Gli stessi sindacati che oggi si dicono dalla parte dei lavoratori ma che giusto ieri erano al tavolo con governo e Confindustria per concordare, tutti insieme appassionatamente, la macelleria che viene. Che oggi s’indignano per le «modalità non corrette» dei licenziamenti (per le mail!) e non per le intere comunità, le famiglie e i lavoratori prima usati e poi gettati nei rifiuti. I sindacati che prima si accordano per licenziare, e poi dopo i licenziamenti fanno sciopero… di due ore. Che prima lo mettono in culo ai lavoratori, e poi si presentano ai cancelli della fabbrica con i moduli dell’esubero e degli ammortizzatori da firmare (ovviamente previa tessera!). Una presa in giro a cui è arrivato il momento di dire BASTA.
E allora questi sindacati vanno sanzionati. E gli va ricordato quello che sono: pagliacci da licenziare. Perché non fanno i nostri interessi ma solo quelli dei padroni: che è la pace sociale, l’accettazione, la gestione della crisi attraverso deleghe, tavoli, burocrazia e accordi mentre passano sulle nostre vite. Un costo che, arrivati a questo punto, non possiamo più permetterci di sostenere.
Oggi non abbiamo bisogno di delegare qualcuno per piagnucolare e mettersi al tavolo di chi ci sfrutta e di chi ci comanda. Oggi abbiamo bisogno di organizzarci per lottare, qui e ora, con tutti coloro che sono senza riserve. Per riprendere in mano le nostre vite, per riprendere il potere di decidere.
Quel tavolo, noi, abbiamo solo bisogno di ribaltarlo.