Militanti, untori
1. Partiamo da un’evidenza. La pandemia di Covid19 ha cambiato la fase. Ha sparpagliato le carte in gioco a livello complessivo, ci troviamo di fronte a un quadro mutato. Non nelle sue strutture portanti, certo, ma a livello dei suoi intimi processi e contraddizioni. Processi già da lungo avviati si sono visti accelerare inesorabilmente, contraddizioni aperte in tempi non sospetti si sono viste acuire. Nella trama complessiva dei rapporti economici, politici, sociali; non solo nello scontro tra classi, ma dentro le stesse classi; non solo nella competizione tra diversi blocchi sovranazionali di interessi capitalistici, ma all’interno di essi. In qualche modo, rispetto al mondo di prima, le condizioni di quello di oggi si sono potenzialmente avvicinate di un “passettino” a un punto di rottura. A sparpagliare le carte, d’altronde, il banco può saltare. Ma come? È l’interesse strategico dei militanti: la ricerca, la preparazione, l’assunzione soggettiva di questa possibilità di rottura. Esprimerne tatticamente la sua attualità, alle condizioni date. Praticarne rigidamente la prospettiva, dentro la tendenza. Strappare la rottura al piano inclinato dell’innovazione capitalistica, per ribaltarla in rottura autonoma, di parte. Trasformarla, quindi, in rivoluzione.
2. Come è ovvio, ciò che accade nella trama oggettiva della realtà si riflette nelle sue cristallizzazioni soggettive. Lo sconvolgimento causato dalla pandemia non poteva che ripercuotersi anche sulle soggettività politiche. Crediamo che, come militanti, l’atteggiamento, la postura, il punto di vista che dobbiamo sforzarci di praticare in tale nuovo quadro sia questo: quello che era, o quanto meno sembrava, valido prima, adesso non lo è più. Non lo può più essere. Il discorso si fa ancora più stringente se guardiamo all’inadeguatezza che già da prima sostanziava i nostri – usiamo un «noi» molto largo, ma che ci riguarda direttamente – ruoli, percorsi, stili assodati. La nostra forma di militanza, di elaborazione di pensiero politico, di produzione di controsoggettività, e quindi di organizzazione del conflitto. Se non eravamo all’altezza della «normalità», ci verrebbe da dire, figurarsi dell’«eccezione». Arriviamo, infatti, a quello che sembra un «appuntamento con la storia» evidentemente impreparati. Impreparati non solo a livello oggettivo, ma soprattutto a livello soggettivo ad affrontare in modo adeguato tutto ciò che comporterà la nuova fase che si sta schiudendo.
3. Per la prima volta da più di un decennio, la pandemia di Covid19 ha portato direttamente all’esperienza di massa fenomeni, nodi e limiti di lungo corso per molto tempo mistificati o nascosti dalla «normalità» della riproduzione capitalistica, della riproduzione del comando, della riproduzione sistemica, tanto a livello geopolitico che a livello microfisico della quotidianità collettiva: dalla fragilità intrinseca dell’economia globalizzata dei flussi alla destrutturazione sistematica dei sistemi di welfare occidentali; dalla contraddizione lacerante tra diritto alla salute e necessità di un salario ai radicali sconvolgimenti – tanto sistemici quanto negli stili di vita di massa – che sarebbero urgentemente necessari per mitigare (almeno) gli effetti catastrofici del riscaldamento globale. Che qualcosa di fondamentale non andasse già da prima, oggi, è diventato una percezione maggiormente condivisa. Che siano in corso grandi manovre, che decideranno sulle nostre vite senza che noi possiamo averne voce, è sotto gli occhi di molti di più. Che ci siano dei responsabili di tutto ciò, con i propri interessi da garantire a dispetto di quelli collettivi, sta diventando un sentire in espansione. Non è davvero poco, non è davvero scontato, a pensarci bene, rispetto solo a qualche mese fa. Il re non è nudo, ma neppure più celato. Inoltre, anche il capitale e la sua governance sono in difficoltà rispetto alla gestione dell’emergenza e alla nuova fase che si è aperta, non solo noi. Si naviga a vista, in balia dei marosi. Entro la classe dominante e le sue strutture di comando è in corso uno scontro tra fazioni di capitale per l’egemonia sui processi di ristrutturazione e innovazione. Una guerra di tutti contro tutti, che ha risvolti sulla conduzione schizofrenica, contraddittoria e pasticciata degli interventi, e riflessi, a scendere, sui ceti a essa collegati, verso cui il tritacarne si fa ancora più violento. Il virus, infatti, è riuscito dove noi, finora, non abbiamo visto, abbiamo fallito o siamo stati inefficaci. In un’economia dei flussi, dove tutto è connesso e interdipendente e si muove just in time, se viene a mancare, si blocca, o viene sabotato un nodo della rete globale, a cascata tutto il resto della trama rischia di saltare, o viene messo in serie difficoltà. Il nemico politico, per questo, non è il virus. Il virus ha fornito un modello di efficacia di attacco significativo, dal quale dovremmo prendere appunti. Attaccare dove? Quali nodi? In che modo e con quale potenza? Le lotte dell’operaio-massa negli anni Sessanta e poi Settanta riuscirono a mettere in crisi il sistema mondiale fordista uscito dalla Seconda guerra mondiale perché incuneate nel cuore pulsante di quel modello capitalistico: la catena di montaggio. In modo ambivalente, dove il capitale raggiungeva il massimo di sfruttamento, alienazione e soggezione dell’operaio, ma dove l’operaio poteva organizzare, accumulare e colpire con più forza perché il capitale era maggiormente fragile. Non fu un fattore di quantità, ma di qualità dell’attacco, che costrinse il capitale a ribaltare la possibilità della rivoluzione nella sua prosaica innovazione per poter sopravvivere: distruggendo quella classe operaia, decentrando la fabbrica in Asia e polverizzando la catena di montaggio nella società, rendendosi via via sempre più immateriale. Da quelle lotte non si è mai più ripreso. Il processo che hanno innescato è stato il battesimo del mondo di oggi, dove esso giace in uno stato di ultima putrefazione. Il problema che abbiamo di fronte, allora, non è quello di inseguire uno sterile innovazionismo delle lotte scimmiottando quello del capitale, o rinchiuderci in confortevoli posizioni resistenziali di conservazione della propria marginalità. Bisogna prendere congedo da questa «normalità» che chiamiamo impropriamente «movimento». Il problema va oltre: ricercare che tipo di soggettività baricentrale – capace di esprimere forza dal dentro di nodi cruciali della macchina di riproduzione capitalistica – intercettare e organizzare dentro e contro la crisi. Una crisi inedita con esiti imprevedibili. Che è anche crisi delle soggettività antagoniste. Bisogna ragionare dentro queste due crisi.Il contesto generale: nuovi scenari globali
4. La pandemia si candida a essere un punto di svolta: della globalizzazione – ovvero del sistema-mondo capitalistico – come l’abbiamo vista fino ad oggi, dei regimi politici – democratici o meno – che fino ad ora ne hanno dato struttura, fino ai nostri quotidiani, piccoli ma importanti, stili di vita. Ben più che la crisi del 2007/2008, questo evento sta portando infatti al punto di ebollizione, accelerando e acuendo, a tutti i livelli, processi e contraddizioni già dispiegati precedentemente: il passaggio di testimone sui processi di globalizzazione tra Occidente e Asia, tra Stati Uniti e Cina; la (non) tenuta del progetto unitario europeo, tra divergenza politica e unità monetaria; la disgregazione istituzionale tra Stato centrale e regioni; l’allargamento del divario tra metropoli e periferie, capoluoghi e province, rispetto ai flussi della valorizzazione ma anche del sentire sociale, delle soggettività e delle tendenze del conflitto. Si approfondisce, inoltre, la tendenza alla ricerca e all’attuazione di forme alternative al modello di democrazia liberale rappresentativa per quanto riguarda l’ordinamento politico e istituzionale degli Stati, pur dentro una cornice formale di compatibilità democratica, dove a giocare un ruolo decisivo sono ambiguamente paura e richiesta di sicurezza, non riducibili a xenofobia e securitarismo; solitudine e richiesta di comunità, non riducibili a nazionalismo e sovranismo; debolezza e ricerca di forza, non riducibili ad autoritarismo e fascismo. Il modello di ordinamento politico, economico e sociale occidentale, rappresentato dagli Stati Uniti, ne esce con un’immagine internazionale a pezzi a tutti i livelli. Al contrario della Cina, che con intelligenza tattica ha cominciato a dimostrare la valenza del suo soft power attraverso un messaggio universalista e le sue politiche di aiuti. Non da ultimo, l’elefante nella stanza: lo spettro dello scoppio della bolla finanziaria, già presente diffusamente ben prima dell’insorgere della pandemia globale, si sta trasformando nella realtà, molto materiale, della recessione mondiale dell’economia reale, la depressione più importante del secolo, le cui dimensioni e risvolti sono tuttora impossibili da prevedere. Con tutto ciò che ne conseguirà in termini di disoccupazione, declassamento e devastazione sociale di massa.
5. Se in questi dieci anni la risposta dell’Occidente imperialista (Stati Uniti, Germania) è stata un keynesismo finanziario, ovvero l’enorme immissione di liquidità (Qe, quantitative easing), accompagnato da austerity(tagli salario diretto e indiretto), oggi tuttavia si sta delineando un cambio di passo. Da una parte il nuovo intervento monetario delle banche centrali, con un’immissione straordinaria di liquidità in forme svariate da parte di FED e BCE – più del doppio degli interventi del 2008/2010, in un lasso di tempo concentrato – è servito a tamponare per un primo momento il credit crunch, il blocco del sistema dei pagamenti. Tuttavia è stato insufficiente per eliminare i crolli di borsa: il problema, quindi, si è dimostrato strutturale. Dall’altra, il cambio di passo è stato di interventi massicci nell’economia reale. Dagli Stati Uniti alla Germania, il piano di grandi interventi è servito in primo luogo a salvare le imprese, anche medie e piccole, e ad attutire e tamponare il crollo dell’occupazione con sussidi diretti. La Commissione Europea e la BCE hanno sospeso il patto di stabilità, con la possibilità di sforare i debiti statali: cosa impensabile nella «normalità» pre-Covid19. L’indebitamento, in Italia, è anche servito a tamponare le prime spinte di rivolta sociale che si sono viste a partire dalle fermate spontanee delle fabbriche sul tema della sicurezza, dall’insurrezione delle carceri, dal paventato assalto ai supermercati nel Meridione nelle fasi iniziali della pandemia. Tutto ciò, e qui veniamo al punto, presuppone un ingrossamento della bolla speculativa che si è andata a gonfiare oltre ogni sua sostenibilità in questi anni: quel capitale fittizio che richiede di essere riempito da valore reale, ma che non riesce perché la crisi è della stessa valorizzazione di capitale. Il debito diventerà ingestibile: chi lo paga, a quali condizioni? Torna in una forma drammatica il dilemma che ha lacerato il vecchio continente durante l’Eurocrisi. Un dilemma insolubile, che si può solo rimandare, ma che ben presto tornerà a essere un nodo da sciogliere. E un terreno feroce, potenzialmente trasversale, per quanto riguarda la composizione di classe, di possibilità di organizzazione del conflitto verticale. Chiederci perché abbiamo perso il primo ciclo di lotta all’austerità (2008-2014), riesaminarne alcuni errori, può essere un buon punto di inizio per prepararsi e provare a far meglio.
6. La risposta in Europa è stata disomogenea Stato per Stato, dando respiro ai processi di disgregazione e competizione intraeuropei. In questo contesto, l’Italia – e con lei tutti i soggetti deboli, come la Spagna ma anche in parte la Francia ‒rischia di essere spazzata via industrialmente perché anello fragile della catena europea. La Germania non può permettere un indebitamento più ampio, sostenuto dai paesi del Nord, della periferia meridionale senza mettere a rischio la tenuta del progetto dell’Euro. E dal punto di vista della Germania la crisi non sarà passeggera: se dal 2007/2008 la domanda di beni tecnologici ad alto valore aggiunto della Cina ha permesso la tenuta del paese, questa volta non sarà così, perché lo stesso Dragone orientale è immerso nella crisi. La frattura tra Nord e Sud si approfondisce. La Germania è già in recessione produttiva, i rapporti con gli Usa sono già competitivi. L’aut-aut è molto più serrato rispetto al 2010. Fino a che punto l’area tedesca può salvarsi e mantenere l’euro, conservando questa conformazione dell’Unione Europea? Fino a che punto, per salvare se stessa, la Germania sarà costretta a non permettersi più di restare agganciata all’Unione Europea e all’Euro? E che fenomeni di destabilizzazione, ricadute sociali e conflittualità metteranno in moto questi processi? In prospettiva, con una recessione che si approfondirà e potrebbe diventare una depressione all’orizzonte, non sembrano esserci molte alternative per l’Italia: buona parte del poco apparato produttivo che si era salvato nel 2008 questa volta, probabilmente, salterà. Ma in teoria c’è un’altra strada, che potrebbe rimettere in gioco assetti geoeconomici e geopolitici su scala nazionale ed europea. La variabile dell’attivazione sociale: la prospettiva della lotta di classe dentro le forme di un movimento «neopopulista» alla Gilet Jaune. Siamo quindi davanti all’inizio del secondo tempo della crisi globale innescatasi nel 2007/2008. Ma, questa volta, il terreno è molto più fragile, le dinamiche più centrifughe più sporche e le fratture più difficilmente ricomponibili. Si approfondisce la crisi di una civiltà, quella occidentale a egemonia statunitense, in un vortice sempre più instabile, precario e accelerato: la tendenza, a livello geopolitico, è lo scontro. Il trend generale non è verso un assetto globale multipolare equilibrato, ma una prospettiva di aggressiva competizione multipolare lanciata tendenzialmente verso il conflitto generalizzato.
7. La pandemia di Covid19 ha sconquassato quello che sembrava, anche per noi, il «normale» procedere delle cose del capitale. Ci trova, per questo, diffusamente impreparati, confusi, impotenti. Ma non dobbiamo cadere nel tranello di pensare che dall’emergenza si darà un blocco definitivo dei processi capitalistici visti finora, che per comodità chiamiamo neoliberali. Una discontinuità che, magicamente, calerà dal cielo attraverso un rinnovato interventismo statale, oscillante tra le sue accezioni socialiste, con un keynesismo fuori tempo massimo da una parte, e fasciste, con il ripresentarsi del decisionismo della comunità organica dall’altra. All’equazione manca infatti il suo elemento portante: i rapporti di forza generati dalla lotta tra classi. Che al momento, da questa parte della barricata, non ci sono. Ci aspetta, invece, una ristrutturazione dei medesimi processi, un uso capitalistico della crisi in termini di innovazione e salti in avanti. Già da ora la controparte si appresta a far ricadere sulle spalle dei lavoratori tutto il peso della ristrutturazione, a far pagare attraverso maggiori sacrifici, sfruttamento e subordinazione al comando il costo del salvataggio della propria macchina. Quei rapporti di forza, quindi, vanno costruiti. In mezzo alla Krisis, tra il livello più alto (geopolitico) e quello più basso (individuale), entro quindi la medianità dei processi sociali, si apre una finestra di inchiesta e azione inedita per le soggettività politiche. Questo virus, infatti, è un fatto politico. Ha ragione chi dice che, dopo l’emergenza, nulla sarà come prima. Per le minoranze organizzate e partigiane, lo sarà solo se saranno capaci di cogliere le opportunità che fasi come queste dischiudono per un determinato lasso di tempo, destinato inevitabilmente a chiudersi, e a coglierne – e agirne – le sotterranee, possibili, tendenze di rottura. A partire da loro stesse. Se le metafore belliche del linguaggio della controparte hanno visto giusto in qualcosa, è che, come in guerra, oggi c’è maggiore possibilità di riuscire a innescare cambiamenti radicali nella società. La fase che si è aperta può cambiare tutto a vantaggio nostro, o tornare a peggio di prima. Fondamentale diventa la capacità di muovere la tattica. Fare errori potrebbe essere catastrofico, molto più di altri momenti. La via della rivoluzione, come quella del capitale, non è una linea retta e progressiva, ma agisce per rotture e balzi, squarci e spinte in avanti. La direzione che prenderà la «normalità» dopo il virus dipenderà da quello che sapremo domandarci, e provare mettere in campo, noi oggi.
La vecchia talpa. Alcune piste per malintenzionati
8. Individuazione del nemico. Allargamento. «Chi decide?»
I tempi eccezionali hanno la capacità di diradare le nebbie, e di illuminare i rapporti di forza e gli interessi parziali intrinsecamente confliggenti dentro la «normalità» capitalistica dell’interesse generale. Fin dalla prima fase dell’emergenza da Covid19, Confindustria è emersa chiaramente come chi comanda in questo paese, in base a quali interessi, a discapito di quali altri. Per noi, un nemico concreto, materiale, non astratto, da attaccare, con cui confrontarsi, verso cui dirigere rabbia e odio sociale per i grandi costi umani che la mancata zona rossa di Bergamo e il mancato blocco della produzione hanno generato. Un nemico serio e identificabile, non «il capitalismo», «il neoliberismo», «l’estrattivismo», «la gentrificazione», «il potere» utilizzati a piene mani nella propaganda politica. Il conflitto, per attivarsi, ha bisogno di un nemico in carne ed ossa. I soggetti hanno bisogno di un volto e di una presenza materiale verso cui dirigere il proprio odio. Rabbia e sgomento contro l’associazione degli industriali, nelle prime fasi, hanno spontaneamente percorso non solo la composizione operaia costretta ad andare in fabbrica, ma anche diversi settori sociali, soprattutto delle zone del Nord dove il contagio si è particolarmente espanso. La Cassa Integrazione straordinaria e il blocco dei licenziamenti, in questo senso, sono stati la celere risposta – garantita dallo Stato – per fermare il prima possibile il contagio delle fermate, degli scioperi e del malcontento operai che attraversava i reparti e i magazzini. Avessero agito con la stessa decisione e tempistica per il Covid19, migliaia di nostri affetti, compagni di vita, colleghi e anziani sarebbero ancora qui con noi. Ma quanto dureranno ancora queste misure di fronte alla ristrutturazione? Abbiamo quindi bisogno di mantenere le braci accese, spargendo benzina, contro i padroni delle nostre vite, con messaggi propedeutici all’attivazione, parole d’ordine di rottura in grado di accendere pulsioni nelle soggettività, quelle che servono a innescare o quantomeno preparare il terreno per processi di lotta e controsoggettivazione. Con la crisi che si appresta a devastare la geografia industriale e sociale di questo paese, di cui oggi vediamo le fasi iniziali, Confindustria rimarrà una controparte importante e diretta per quella composizione operaia concentrata soprattutto negli stabilimenti e nei magazzini settentrionali (ma non solo) e diffusa nella provincia padana delle piccola-media impresa dedita alla subfornitura. Tuttavia, sappiamo che l’individuazione del nemico è importante ma non sufficiente se non calibrata sulle specificità dei territori, dei settori produttivi e dei segmenti sociali. Il nemico Confindustria è egualmente sentito nelle grandi metropoli del terziario (Roma in primis, ma anche Milano), nelle regioni del centro-sud a bassa o nulla presenza industriale, nelle periferie produttive italiane? L’inimicizia verso di essa, nonostante il suo ruolo di detentore dei rapporti di forza complessivi, può essere generalizzabile? E attraverso quali articolazioni? Inoltre, Confindustria non è che una faccia della medaglia. Non dobbiamo dimenticarci con chi ha firmato gli accordi: i sindacati confederali, la cui missione è – come sappiamo e come da loro ammesso – quella di spegnere la rabbia, di lavorare per una gestione corporativa della pace sociale. Potrebbe essere lo strumento della trattativa, del confronto, dell’accordo – che racchiude in sé in un unico elemento le tre componenti Confindustria, confederali e governo – l’obiettivo praticabile di una campagna d’attacco? Come trasformare l’antagonismo verso l’accordo – ovvero la questione del chi decide su cosa, come e quando produrre sulla nostra testa, chi decide sulla direzione che vogliamo prendere come società, chi decide sulla nostra vita in quanto individui sociali – in richiesta di potere, e con quali forme? Può, questo tipo di attacco, senza adeguate forme organizzative capaci di incanalarne le possibili eccedenze, portare acqua al mulino di altri soggetti, questi sì organizzati e magari di segno opposto, in grado effettivamente di raccoglierle e metterle a profitto? Consci di questa possibilità, ci sono spazi entro cui anche noi possiamo agire verso i nostri obiettivi?
9. Trasformazioni del lavoro. Smart working e filiera agroalimentare. Ambivalenze, ambiguità, ipotesi.
Ci dicono che nulla sarà più come prima nelle nostre abitudini sociali. Ciò vale anche per l’attività cooperativa per antonomasia, il lavoro. Se delle trasformazioni del lavoro di riproduzione e di cura, soprattutto quello legato a una nuova centralità del settore sanitario, se ne è parlato tanto, vogliamo provare ad allargare lo sguardo dove meno batte il sole. La pandemia di Covid19 è stata infatti il primo banco di prova e di accelerazione dei processi di smart workingin Italia, una modalità di lavoro da casa già diffusa nei paesi a capitalismo più avanzato, soprattutto anglofoni e del nord Europa. Questa innovazione nel modo di lavorare, dentro la ristrutturazione capitalistica e dietro anche la spinta della riconversione ecologica, coinvolgerà probabilmente ampi settori del terziario, più o meno avanzato, ma potrebbe anche toccare porzioni impiegatizie del settore produttivo. Si tratta di un processo che si porta dietro ambiguità o piuttosto ambivalenze? Se da una parte il lavoratore può risparmiare il denaro e il tempo che utilizzava per spostarsi sul luogo di lavoro, dall’altra il lavoro, il padrone, entra direttamente nella sua casa, nei suoi luoghi privati, nel suo tempo di vita. Inoltre il lavoratore viene ancor più atomizzato e slegato dalla trama dei rapporti sociali che si creano negli ambienti di impiego, tra colleghi, nel bar sotto l’ufficio, tra ufficio e ufficio, tra lavoratori appartenenti a diversi settori. Crediamo che ragionare e inchiestare fin da ora questo passaggio sia necessario per non farci trovare impreparati più di quello che già siamo. Sarà un passaggio indolore, ricercato, o produrrà resistenze, rifiuto? Cambieranno i contratti? Quali conseguenze per le soggettività al lavoro e per l’organizzazione del conflitto? Si aprono maggiori prospettive di autonomia e di gestione del proprio tempo o ulteriori processi di scarico sul lavoratore dei costi d’impresa (connessione, bollette di luce e riscaldamento, software, hardware), anche per quanto riguarda stress, sicurezza sul lavoro, ecc.? C’è la possibilità di produzione di lotte? Di che tipo di lotte? Con quali metodi di conflitto? Con che organizzazione? Oppure rappresenta la pietra tombale sulla conflittualità del lavoro «cognitivo»? Senza la capacità di costruire una forza d’urto collettiva attorno a parole d’ordine o a un programma, è più che probabile che vinca il partito dell’innovazione capitalistica. Tingendosi di ecologismo (meno inquinamento), promesse di liberazione del tempo (niente più ore passate nel traffico o sui mezzi pubblici) del cui carattere ingannevole ci si accorgerà troppo tardi e, nelle fasi iniziali di implementazione, facendo leva sulla sicurezza: «È comunque un privilegio poter lavorare da casa mentre fuori c’è il virus, per cui non provate a lamentarvi». Proprio sul concetto di sicurezza si giocheranno partite sempre più importanti. Per noi, si tratta di strapparlo agli stregoni neoliberisti degli umori della «folla» social, composta da individui connessi ma atomizzati, per riportarlo sul terreno dello scontro nella sua declinazione collettiva di sicurezza sociale. La loro sicurezza, quella del profitto, del patrimonio, dello stato di cose presente, non è evidentemente la nostra, se siamo sottoposti ogni giorno al ricatto de «la borsa o la vita». Con la pandemia, si generalizza infatti una delle contraddizioni centrali del capitalismo, quella tra salario e salute. Fino ad oggi avevamo l’esempio di situazioni eclatanti, come l’Ilva di Taranto, o di quelle più mistificate, come la strage silenziosa da inquinamento nella valle Padana; ma da ora ci troveremo tutti, bene o male, a dover scegliere tra il diritto alla salute e la necessità di un reddito. Un altro nodo che ci sembra debba essere preso in considerazione è quello della «fabbrica verde». La filiera agroalimentare rappresenta una grande percentuale di Pil per il sistema-Italia, votato all’export (made in Italy), soprattutto per le provincie agricole della pianura padana e del centro-Sud. La pandemia, il blocco degli spostamenti e quello parziale dei commerci hanno fatto emergere in modo accelerato nodi già posti dal cambiamento climatico. A fronte della mancanza di manodopera – non solo nei campi, ma anche in tutte le strutture di gestione e lavorazione del prodotto – per la stagione agricola, garantita fino a oggi dalla forza lavoro straniera e irregolare, si tratta di capire come (con che strumenti e in che condizioni) i padroni del settore, attraverso lo Stato, riusciranno a mettere al lavoro (in modo anche coatto) segmenti di classe più disparati: oltre a immigrati, anche disoccupati, studenti, pensionati, percettori di reddito di cittadinanza o da servizio civile. Cosa succederà quando un italiano verrà messo al lavoro alle condizioni di sfruttamento e di sicurezza di un clandestino? Si parla di corridoi verdi tra Stati europei in cerca di forza-lavoro a basso costo, regolarizzazioni, smaltimento della burocrazia, introduzione di voucher agricoli facilitati. Tuttavia si tratta anche di capire come verrà ristrutturata la filiera – dalla coltivazione e raccolta alla grande distribuzione, dagli impianti di lavorazione alla ristorazione, dalle frontiere bloccate per certi tipi di prodotti ai commerci in picchiata – a fronte di una rinnovata importanza dell’autosostentamento alimentare nazionale post-Covid19. Si staglia fin da oggi lo spettro del razionamento? L’aumento dei prezzi di beni di prima necessità nella grande distribuzione è un fenomeno visibile, e comincia a impattare con la situazione di mancanza di reddito di una grossa fetta di popolazione, soprattutto per chi non ha il privilegio di riservare parte del suo paniere mensile ai prezzi del commercio etico, biologico, equo e solidale, chilometro zero, e via di questo passo. Può la richiesta di prezzi calmierati per i beni di prima necessità come il cibo essere coerente senza che una ripresa del conflitto nel settore eviti che i padroni dell’agroalimentare scarichino i costi sui lavoratori? In questo settore, dallo stagionale al bracciantato alla filiera dell’industria agroalimentare, si aprono possibilità di lotte che possono interessarci? In che modo si potrebbe intervenire, oltre alle logiche puramente sindacali?
10. Ceti medi, partite iva, non garantiti. Mobilitazioni à la GJ. Conricerca e neopopulismo.
La nostra tesi è che le mobilitazioni a venire, in questo secondo tempo della crisi globale, avranno più la forma dei Forconi piuttosto che quella di Occupy. Composizioni e contenuti estremamente contraddittori si muoveranno al loro interno: non ci sarà un unico motivo della lotta. Come vediamo oggi, ci sarà chi è incazzato perché è costretto ad andare a lavorare e ci sarà chi è incazzato perché è costretto a restare a casa. Lotte sulla sicurezza degli operai e degli operatori ospedalieri (dove l’attacco è a Confindustria per tenere chiuso) ma anche rifiuto del lockdownda parte di una composizione variegata – dai lavoratori autonomi ai «giovani» – per riaprire e tornare ad un’agognata vita sociale nella «normalità». Al cuore della questione un cambio di passo del processo di proletarizzazione del ceto medio in corso ormai da diverso tempo. Un fenomeno che, come la tettonica a placche, nel suo attrito sprigionerà esplosioni di energia non secondarie. Gli spazi di mediazione – dalle politiche di redistribuzione sotto forma di welfare all’esaurimento del risparmio privato – sono ormai completamente asciugati. Dobbiamo aspettarci, potenzialmente, un terremoto. In questa possibilità, crediamo sia necessario esserne parte, al suo interno, prima che la tensione accumulata venga rilasciata. Per tentare di direzionarla, polarizzarne le stratificazioni e trasformala in forza. Non possiamo permetterci, ancora una volta, di arrivare dopo. Che spazi di lotta ci può offrire questo processo? Che tipo di percorso e organizzazione ci immaginiamo al suo interno? Come articolarci adeguatamente nella realtà che abbiamo di fronte, mettendo però a sistema il nostro intervento? Dentro l’emergenza, un soggetto – molto frastagliato, stratificato ed eterogeneo – particolarmente colpito e percorso da rabbia, ambivalenze e potenziali richiami di lotta è quello del lavoro autonomo, delle Partite IVA (tanto «vere» quanto «finte»), dei piccoli artigiani (spesso anch’essi direttamente lavoratori), di chi ha una piccola attività (bar, negozi, esercizi, ecc.), ovvero tutto quel ceto medio-basso che si è visto sprovvisto di ammortizzatori sociali, su cui pesava già una condizione di indebitamento diffuso, autosfruttamento e tassazione esosa (entro cui, volente o nolente, è diffusa la pratica dell’evasione fiscale anche per tenere in piedi la baracca), e la cui garanzia di tenuta è messa seriamente a rischio dal prolungato lockdown, dalle nuove norme sociali post-Covid19 e da possibili ricadute del contagio. È certo che molta di questa composizione sociale eterogenea verrà espulsa dal ciclo economico. Ad oggi, infatti, si aggrappa a misure d’intervento pubblico per poter pensare di tirare avanti. In questo senso, lo scontro più ampio con il governo prenderà il volto della questione della sospensione dei pagamenti, dei sussidi (troppo bassi, a scadenza, con nuove condizionali discriminanti, che non arrivano a tutti ecc.) e del debito, elementi che vedono più direttamente interessati lavoratori autonomi, ma anche disoccupati, finte Partite IVA, precariato strutturale in vari settori. Gli esodati di questa crisi che si cercherà di far rientrare al lavoro in tutte le innovative forme «neoschiavistiche» possibili, insomma. Abbiamo visto come, nel corso dell’ultimo ciclo, questo magma sociale informe abbia dato vita, soprattutto a partire dalle periferie e dalle province, a mobilitazioni esplosive, una su tutte quella dei Gilet Jaune francesi. In Italia processi di mobilitazione di questo genere si sono visti in particolar modo intorno al movimento dei «Forconi» e alla giornata di lotta del 9 dicembre 2013, capitalizzati – non certo per loro merito – dalle aree politiche del neopopulismo, del sovranismo e del neofascismo. A partire dai ragionamenti di Raffaele Sciortino contenuti nel libro I dieci anni che sconvolsero il mondo(Asterios 2019) e dai successivi suoi contributi, crediamo che un possibile riattivarsi di mobilitazioni di questo tipo «spurio», ideologicamente sporche (antifascismo, antirazzismo, transfemminismo, ambientalismo non saranno loro principi cardine…) come il soggetto di cui parliamo, sia molto probabile, e che necessiti di una nostra presenza e capacità di direzione. Pena il vederle egemonizzate da altri. Quello di cui abbiamo certezza è l’urgenza di abbandonare l’imprinting, diffuso in numerose soggettività politiche, della condivisione in senso parallelo e lineare di propri slogan e simboli, provenienti da uno specifico quadro, che puntano alla traduzione lineare e diretta in contesti irrimediabilmente diversi. Occorre articolarci in modo adeguato alle realtà specifiche ed eterogenee che abbiamo di fronte.Si tratta anche suggerire il protagonismo alla composizione sociale e non sostituirci ad essa come palliativi del disagio. Come a dire: «Sei tu che devi agire il disagio, non i militanti». Insomma: di cosa parliamo quando parliamo di questa composizione sociale? Quali sono le sue stratificazioni interne e quali possibilità di ricomposizione di classe? Quali strati possono effettivamente dare vita a conflittualità, e in quali forme? Quali strati possiamo noi più facilmente immaginare di avvicinare o su cui lavorare? In che modo? Quali ambiti possono essere inchiestati? Ci sono già esperienze di questo tipo da cui trarre un esempio? Il campo di battaglia è aperto.
L’essenziale per camminare
11. «Ripartire dall’inchiesta», come tante volte ci siamo detti, non basta. Occorre trasformare questi punti di inchiesta in punti di attacco politico. Nel 1914 i bolscevichi erano un piccolo manipolo di rivoluzionari, banditi ed esiliati: isolati in patria e perseguitati in Europa, erano costretti a riunirsi nei boschi fuori Pietrogrado e nelle soffitte di Ginevra. Rappresentavano una radicale minoranza all’interno del movimento operaio internazionale, e in quanto tale ripudiati dai grandi, potenti e numerosi partiti socialdemocratici e socialisti che si apprestavano a raccogliere le redini dello sviluppo lineare della storia. Nell’Ottobre di tre anni più tardi, mentre la socialdemocrazia già puzzava di fetido cadavere, i bolscevichi stringevano il fulmine tra le mani. All’appuntamento con la rottura del filo del tempo seppero farsi trovare pronti. Disponevano di organizzazione, direzione, pensiero strategico radicato dentro e contro la tendenza. Ma soprattutto, erano riusciti a sfruttare la contingenza di crisi per rompere con la propria storia, il proprio passato, facendo un salto in avanti. Divenendo comunisti. Oggi, come allora, dobbiamo assumere la crisi come terreno di occasione e possibilità, primariamente soggettiva, di rottura con i limiti, i vicoli ciechi e i girare a vuoto che ci hanno contraddistinto come naviganti di uno stagno d’acqua marcia e immota, senza alcun «movimento» possibile, per andare oltre, e spiegare le vele ai venti della tempesta. Il virus, infatti, ha compromesso in modo definitivo ogni schema consolidato e sterile ritualismo. Dobbiamo guardare la crisi come momento di ristrutturazione del capitale, ma anche per ripensarci, e ripensare la nostra forma di militanza, per non scadere nella via più breve e conservativa, la gestione soddisfatta della nostra marginalità. Non c’è niente da conservare, non ci è rimasto più niente da perdere. Da fare, c’è tutto un lavoro di immaginazione di forme e tempi di un potenziale attacco ai nostri nemici. La posta in gioco, come sappiamo, è costruire dall’interno la parzialità e la direzione politica sui processi di crisi: o le forze della rottura riescono a farne una scadenza e un passaggio in avanti, di organizzazione sovversiva, di costruzione autonoma di nuove prospettive, o la scienza del capitale riesce ad appropriarsene, manovrarli, determinandoli anch’esso in avanti, ma come innovazione capitalistica. Crediamo sia un buon momento per abbandonare la critica-critica, come diceva Marx, per tentare la costruzione di altro, la possibilità di «scoprire, appunto, nuove leggi per l’azione». Occorre giocare una scommessa in grande stile: questa è un’occasione che difficilmente ci ricapiterà. Come pensiamo praticamente la rivoluzione oltre la morte del «movimento»? È la questione epocale che ci interroga. Siamo inadeguati rispetto ad essa? Chissenefrega. Giochiamocela. «Dobbiamo avvertire. Con tutto questo siamo ancora al “prologo nel cielo”…»