Che cos’è l’imperialismo oggi, nell’era di Trump?
Non è una domanda scontata, né una mera speculazione teorica; al contrario, siamo convinti che sia un nodo fondamentale, tanto per chi vuole comprendere il mondo, quanto per chi mira a trasformarlo – partendo, ancora una volta, da dove si è, da dove si è collocati. Un nodo che occorre sciogliere, se vogliamo porci all’altezza delle nuove questioni pratiche e politiche poste dal movimento reale e da questa fase storicamente determinata di guerra sempre più generalizzata. È la porta stretta da cui si è costretti a passare. Ma se vogliamo scioglierlo, crediamo che non possano bastare semplificazioni dottrinarie, facendoci bastare i “sacri testi” nella loro eterna immutabilità. Non ci possono bastare, ma non dobbiamo neanche cadere nell’errore opposto del “nuovismo”, convincendosi che è tutto cambiato, è tutto diverso rispetto a quando l’imperialismo è stato concettualizzato. Per noi, l’ortodossia e il nuovismo sono le due facce della stessa medaglia, le due facce dell’ideologia.
Riportiamo così, dopo l’intervento di Mimmo Porcaro su «L’Italia al fronte», la trascrizione del secondo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», con Raffaele Sciortino, compagno e ricercatore indipendente che non ha bisogno di presentazioni, già stato ospite a Modena. Da tempo lavora sui temi che stiamo discutendo: I dieci anni che sconvolsero il mondo (2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale (2022) sono libri estremamente importanti perché hanno la peculiarità di riuscire a coniugare ambiti di analisi che di solito si trovano separati, ossia un ambito “alto” come la geopolitica, le politiche internazionali e la configurazione della globalizzazione, e la dinamica di classe, un livello “basso” solo in senso figurato. La capacità di tenere insieme questi due piani è appunto una peculiarità che non si riscontra facilmente nei nostri ambiti e va quindi coltivata.
Con lui ci chiediamo come leggere la configurazione concreta che l’imperialismo assume nella fase storica che stiamo vivendo. È una fase di ristrutturazione del capitalismo globale? O piuttosto è una fase di disarticolazione della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta? Stiamo transitando verso un mondo multipolare? Sopravviveranno i vecchi centri egemonici o si moltiplicheranno le tensioni verso una diversa collocazione di potere? Sono tutte domande aperte che occorre mettere all’ordine del giorno e affrontare con realismo. Lo strumento migliore rimane l’analisi qualitativa dello spettro dell’accumulazione, dei rapporti di classe dei rapporti di classe – nazionali e globali – e della geopolitica – intesa soprattutto come osservazione dello scontro tra Stati Uniti e Cina e dal rapporto tra Stati Uniti e Europa.
L’imperialismo ha una sua storia: non è più il quadro capitalistico descritto da Lenin, né quello contro cui i movimenti degli anni Sessanta e Settanta hanno combattuto, e nemmeno quello che hanno provato a mettere a critica i movimenti no Global nei primi Duemila. Eppure, mantiene proprie continuità e invarianti. Partiamo dunque dal leggerlo alla luce del presente: Trump è il precipitato di una nuova configurazione dell’imperialismo, o è un fattore di discontinuità? Come si intreccia oggi la catena imperialistica alla dinamica di classe? Quali implicazioni, soprattutto politiche comporta per noi tale configurazione? Quali sono gli elementi principali che hanno condotto a questa nuova fase dell’imperialismo statunitense? Quali ricadute ha sull’Europa e sull’Unione Europea? Cosa contiene la spinta di classe, o delle classi, che stanno sostenendo il trumpismo? Vedremo in Europa un consenso a tale ristrutturazione capitalistica, o si potranno aprire delle fatture?
Piste di ricerca da seguire e approfondire con metodo, per poter pensare, e non solo osservare, la realtà concreta, e direzionare sul filo del tempo una prassi politica che, dentro i laboratori capitalistici della «fabbrica della guerra», punti a sabotarla e sovvertirla in fabbrica del conflitto di classe.
Buona lettura.

Raffaele Sciortino
Come premessa volevo solo dire che il mio intervento si colloca come ponte tra l’intervento di Mimmo Porcaro e quello del 17 maggio con Robert Ferro. Questi tre interventi sono collegati dal fatto che stiamo ragionando insieme a livello seminariale sulle tematiche che oggi cerchiamo di porre sul tavolo, ossia come si è trasformato l’imperialismo, a partire dalla convinzione comune della sua persistenza, pure nella discontinuità. A me oggi spetta il compito di ritematizzare i nodi concettuali che sono emersi nel dibattito marxista, nella maniera meno didascalica possibile e alla luce di quello che sta succedendo.
Infatti quando avevamo preventivato questi incontri ragionavamo sì su Trump e sullo scontro tra Stati Uniti e Cina, però obiettivamente c’è stata un’accelerazione inattesa dei processi che non è indifferente dalla dinamica e dagli esiti che si intravedono della guerra in Ucraina. È un dato importante, perché quando nel ’71-‘72 scattò la cosiddetta “svolta Nixon” – una svolta insieme economica per la fine dell’assetto di Bretton Woods, e geopolitica, con il reapproachment a Mao – anche allora gli Stati Uniti erano nel bel mezzo della guerra del Vietnam, e affrontavano il problema di riassorbire la sconfitta e trovare una “exit strategy”. Una delle vie d’uscita elaborate dagli Stati Uniti fu quello di scaricare una parte consistente della crisi sull’Europa, il che già ci fa comprendere l’attualità di queste riflessioni. In altri termini, non dobbiamo dimenticare che l’acuirsi dello scontro, per ora, attraverso i dazi tra Stati Uniti e Europa è comunque da inquadrare dentro lo scontro più generale e prioritario tra Stati Uniti e Cina. Non voglio dire che ne è la prima conseguenza, ma comunque è un sottoprodotto “qualificato” di quello scontro.
Capite bene perché sia una necessità vitale tornare a tematizzare il sistema capitalistico mondiale nel suo intreccio e nel suo sviluppo diseguale, ossia nella sua articolazione gerarchica. Vorrei provare a farlo attraverso una chiave di lettura, che penso sia sempre più attuale, che è la polarità, cioè unità e rivalità, tra potenze imperialiste (o più in generale potenze capitaliste) nel loro nesso strettissimo col movimento di classe (inteso in senso lato e ovviamente non solo in Occidente) all’interno dei quadri nazionali.
Vorrei quindi delineare a grandi linee dei cicli storici: da quando si è dato il fenomeno imperialista, grossomodo tra fine Ottocento e inizio Novecento; poi due importanti fasi di transizione; e arrivare quindi all’oggi e provare a vedere come si colloca quello che sta succedendo con Trump e il trumpismo. Il tutto interpretandolo in questa chiave di lettura, ovvero tenendo insieme i tre piani della configurazione economica, delle vicende – in senso non ristretto – geopolitiche e il movimento di classe.
Iniziamo dal primo grande ciclo, suppergiù tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Una configurazione che si pone all’intersezione tra tre tendenze. La prima è la classica rivalità interimperialistica investigata dai marxisti dell’epoca, esplosa nella Prima guerra mondiale in maniera plastica, con tratti meno evidenti nella Seconda. La seconda è una geopolitica che definirei “mackinderiana”. Mi riferisco al fatto che le potenze egemoni (dapprima la Gran Bretagna, che dopo la Grande guerra passa il testimone agli Stati Uniti) restano guidate da un imperativo geopolitico che, rischiando di banalizzare The Geographical Pivot of History di Mackinder, vede la storia come uno scontro tra potenze marittime e potenze continentali terrestre. E l’imperativo fondamentale per le potenze marittime – e qui c’è una certa continuità a cui vi chiederei di prestare attenzione – è quella impedire l’unificazione eurasiatica, cioè che una potenza unifichi quell’arco che va dall’Europa al Mar cinese, ed evitare ad ogni costo che questa potenza arrivi a uno sbocco sugli oceani. Ciò viene teorizzato già nel 1904 alla luce del “Great Game”, la lotta per l’Asia centrale concluso con il compromesso tra l’Impero britannico e la Russia zarista. Il terzo è l’ascesa del movimento operaio, allora ristretto sostanzialmente all’Europa occidentale e agli Stati Uniti (in cui, tra l’altro, si licenziano poderose politiche protezioniste), e della Seconda Internazionale; un’ascesa che, prima della frattura su crediti di guerra, sembrava irrefrenabile e che condusse poi all’esperienza bolscevica.
In quegli anni, il dibattito marxista (che pure era aperto all’intellettualità borghese degna di questo nome, si pensi all’importanza di Hobson per Lenin), tanto per coloro che andranno con l’ala rivoluzionaria, sia per chi rimarrà nella socialdemocrazia e nella sinistra riformista, verteva sull’individuare il salto qualitativo tra la fase che allora stava iniziando – la fase appunto imperialista – e la fase precedente di formazione dei mercati nazionali, di ascesa della borghesia e di prima formazione del movimento del movimento operaio.
Il punto di partenza è che quando un’economia nazionale giunge a livello imperialista si assiste a qualcosa che non può essere riducibile semplicemente all’esportazione di merci e alla diffusione del mercato nazionale. Il problema è proprio che c’è qualcosa di nuovo, che non si può ridurre a questo fattore che pure rimane importante. Di pari passo, dal punto di vista politico diciamo, quando si passa a quello che Lenin chiamerà lo «stadio imperialista» si vede un salto qualitativo politico della democrazia. Se prendiamo la democrazia (intesa come formato politico standard dei capitalismi più avanzati), ciò che si rilevava era il passaggio da una democrazia nazionale con compiti di ascesa borghese, ancora quantomeno progressisti, a una democrazia reazionaria.
Questo era il cuore del problema, e viene affrontato attraverso categorie che Marx aveva potuto sviluppare solo fino a un certo punto, in particolar modo quelle di «centralizzazione di capitali» (che diventa altrettanto, se non più importante, dell’accumulazione capitalistica), della «concentrazione di capitali» e dello «sviluppo ineguale», sia a livello di mercato mondiale sia all’interno di ogni economia nazionale. Il mercato mondiale, grazie a questo sviluppo di centralizzazione dei capitali (in termini più scolastici, la seconda rivoluzione industriale, la formazione di trust e così via) da essere il presupposto dello sviluppo industriale imperialista diventa un risultato, diventa esso stesso il prodotto dell’industrializzazione nella fase imperialista.
L’illustrazione classica – che ha tutta una serie di implicazioni politiche anche rispetto a che cos’è una guerra, se una guerra nazionale sia ancora possibile, eccetera – è quella di Lenin. Di questa formulazione qui ci interessano principalmente tre punti.
Primo. L’imperialismo non è semplicemente una politica. Ossia non è una decisione che può essere assunta o abbandonata dall’economia nazionale e dagli Stati che arrivano a questo livello, ma è, appunto, uno stadio irreversibile, un punto di non ritorno in cui si intrecciano economia, politica interna, politica internazionale, e di una specifica parabola del movimento di classe. Secondo. L’imperialismo è caratterizzato da un trasferimento di valore strutturale, o comunque relativamente persistente, tra imprese, tra settori e anche tra economie nazionali. E ciò inizia ad avvenire allora in particolare attraverso il vettore delle esportazione di capitali, a cui l’esportazione di merci rimane subordinata. Terzo. Determinanti diventano i monopoli e gli oligopoli, che uniscono la dimensione produttiva con la dimensione finanziaria.
La distinzione, che ovviamente non è la muraglia cinese, tra esportazione di capitali ed esportazioni di merci rimane rilevante anche oggi, e avrebbe quindi interesse riprendere il dibattito tra Lenin e Luxemburg a riguardo. Non c’è oggi il tempo per approfondire, diciamo solo che nel privilegiare l’esportazione di capitali, Lenin ha alle spalle una lettura di Marx e una peculiare teoria dei mercati in cui la spinta espansionista all’esterno dei capitali, una volta che si sono consolidati e centralizzati all’interno di un’economia nazionale, è dovuta a una caratteristica strutturale del modo di produzione capitalistico, che è quella di una discrasia, di uno squilibrio permanente tra produzione dei mezzi di produzione e produzione dei beni di consumo, e quindi di una compulsione allo sviluppo illimitato. A ciò, dopo la crisi del ‘29, alcuni marxisti tra cui Grossman, pur rifacendosi a Lenin, aggiungeranno il problema della crisi di redditività (su cui adesso non possiamo fermarci) che spinge appunto l’esportazione dei capitali. La spinta dunque non dipende primariamente da ciò che pensava allora Luxemburg, e cioè da un problema di realizzo, di merci che non si riescono a vendere all’interno.
Guardiamo poi alla concorrenza intesa in senso marxista (e non in senso banale, economicista, di domanda e offerta). Come riporta una formuletta relativamente nota, la concorrenza, via via che la centralizzazione dei capitali procede e il numero di monopoli e di economie nazionali si riduce (il classico “pugno di potenze imperialiste” di cui parla Lenin), si disloca come “una concorrenza per bloccare la concorrenza”: una competizione per ampliare il divario tra chi ce l’ha fatta e chi no. La concorrenza a un certo punto può declinarsi come concorrenza tra Stati che può diventare guerra, guerra guerreggiata; ma la concorrenza è già una forma di guerra. Quindi le fasi “pacifiche”, di tregua, e le fasi propriamente belliche di scontro tra potenze imperialiste (che, va sottolineato, coinvolgono anche formazioni capitalistiche di altro genere) sono appunto da leggere non come se la pace fosse la negazione dell’imperialismo, bensì entrambe come fasi di un ciclo, come tappe di uno stadio. La questione è cruciale poiché è precisamente su questo punto che si connette, in maniera molto complessa, la parabola della rivoluzione.
Oltre a questo nesso tra protezionismo, industrializzazione e formazione del movimento operaio, vediamo che poco dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale si accelera il processo che porta alla Rivoluzione d’Ottobre. Perché? Torno al problema del salto rappresentato dall’imperialismo e della difficoltà di coglierlo in tutte le sue caratteristiche. Se noi leggiamo Marx e Engels, diciamo, dal ‘48 alla Comune di Parigi, vediamo che la rivoluzione ha una dinamica che va da Ovest a Est, dall’Europa occidentale, con la formazione di Stati nazionali borghesi e questioni nazionali da risolvere o dal basso o dall’alto. Ma quantomeno fino alla Comune di Parigi questa ondata rivoluzionaria dai contenuti ancora nazionali e borghesi trovava una barriera nella Russia zarista, nell’Est arretrato.
Ora, quando si passa allo Stato imperialista, ossia quando ormai le questioni nazionali in Europa occidentale sono risolte, la barriera reazionaria alla rivoluzione è passata a Ovest, mentre invece il testimone della rivoluzione passa a Est. Ripeto, una rivoluzione che intreccia in maniera peculiare, se vogliamo anche imprevista e confusa, dei contenuti nazionali rivoluzionari ma economicamente borghesi con la possibilità, la potenzialità di trascrescere in una rivoluzione proletaria se si internazionalizza, e ritorna come un boomerang a Occidente. Da qui l’interesse di Lenin per la Cina e l’Oriente. La cosa diventava ancora più interessante per la Russia bolscevica, che aveva questa posizione peculiare tra Est e Ovest, tra Oriente e Occidente, tra la rivoluzione nazionale democratica, però portata avanti non dalle classi borghesi, quanto dalle classi contadine o semiproletarie, e la rivoluzione in Occidente, in stasi a partire dagli anni Venti.
Si può dire quindi che nel dibattito dell’epoca c’è una geopolitica della lotta di classe e una geopolitica della rivoluzione. Ne deriva anche un importante corollario, che per approfondire a dovere bisognerebbe riprendere diffusamente il dibattito tra Lenin e Luxemburg: la questione nazionale, che prima era la questione di formazione degli Stati nazionali come mercato interno, che fungeva da presupposto per la formazione del proletariato nel mondo occidentale, diventa questione nazionale anticoloniale e antimperialista nel mondo extraoccidentale. Questo è molto importante se legato appunto a quella geopolitica mackinderiana a cui mi richiamavo prima.
Passiamo avanti. Rivoluzione d’Ottobre, si blocca la rivoluzione in Unione Sovietica, sconfitta in Cina, affermazione dei fascismi, seconda conflitto imperialista (dalla dinamica molto differente dalla prima, se non altro perché non c’è una forza politica degna di questo nome nel movimento operaio che pone il problema della lotta a tutti gli imperialismi, quindi il disfattismo rivoluzionario di Lenin non si dà nella Seconda guerra mondiale). Arriviamo al post ‘45 con gli Stati Uniti che emergono come potenza egemone e dominante a livello mondiale contro un blocco socialista o presunto tale (che, tra l’altro, si dividerà già a fine anni Cinquanta tra Unione Sovietica e Cina maoista), dopo aver subordinato il vecchio colonialismo anglofrancese (pensate al caso di Suez) e soprattutto dopo aver sconfitto definitivamente (o almeno a oggi) l’altro grande rivale, la Germania. La Germania viene divisa ed è ancora un paese soltanto semisovrano dal punto di vista politico, militare, territoriale e così via. La dottrina geopolitica resta mackinderiana, ma viene riformulata già durante la guerra da teorici come Spykman e il più noto Kennan, che teorizzerà la teoria del contenimento.
Gli Stati Uniti aggiungeranno alla teoria mackinderiana dell’Eurasia (che lui chiamava Heartland,la terra centrale) il concetto di Rimland, terra ai margini. Lì c’è già l’idea, che reggerà le politiche di contenimento nella Guerra fredda, per cui gli Stati Uniti e le potenze marittime anglosassoni non sono in grado di conquistare i territori delle potenze eurasiatiche (in quel frangente, l’Unione Sovietica occupava tutto l’Heartland); ne consegue che devono insistere continuamente in azioni di disturbo, creare caos per evitare l’unificazione eurasiatica, impedirgli lo sbocco all’oceano e tenerli sotto da un punto di vista economico. E quindi se voi ci pensate, qui rientra tutto. Pensate al ruolo di Israele nel Medio Oriente, oppure Taiwan e la Corea del Sud rispetto alla Cina.
Per quanto concerne il livello più “nostro”, il piano del movimento di classe, ebbene abbiamo una divaricazione. Nella Prima guerra mondiale la scissione era stata interna al movimento operaio occidentale, tra riformismo e rivoluzione, e il riformismo era diventato appoggio alla guerra, socialsciovinismo, eccetera. Qui siamo in una fase diversa, e se vogliamo anche più grave. Più grave poiché senza potenzialità rivoluzionarie nell’immediato. Non nel senso che non ci sia più una rivoluzione, ma nel senso che si disloca su un unico teatro, quello anticoloniale e antimperialista extraoccidentale, dalla rivoluzione cinese fino a Cuba e il Medio Oriente. Al contrario, in Occidente si apre un ciclo chiaramente controrivoluzionario: ancora una volta, non nel senso che non si dia più lotta di classe, ma nel senso che questa non ha possibilità, in quel quadro, di diventare una lotta rivoluzionaria. Tuttavia in Occidente, a differenza d’oggi, resisteva ancora un riformismo del movimento operaio organizzato (pensiamo al PCI in Emilia).
Di nuovo, attenzione al nesso, abbiamo un mondo diviso in due, l’egemonia è comunque degli Stati Uniti, un soggetto decisamente più forte dell’antagonista sovietico sotto tutti i punti di vista; di modo che si assiste una tendenza all’unità piuttosto che alla rivalità interimperialista, sebbene anche i paesi europei politicamente siano distrutti una volta sotto gli Stati Uniti. All’unità del mondo imperialista corrisponde la debolezza della classe operaia, perlomeno in Occidente (ripeto, non il blocco della rivoluzione anticoloniale).
Date queste premesse, il dibattito marxista non può che risentirne. C’è una dispersione del marxismo rivoluzionario, quantomeno quello che non è direttamente interno al movimento stalinista. Tuttavia troviamo una cosa interessante, perché andando a scartabellare tra le sinistre estreme e antistaliniste di allora emerge una domanda ricorrente nel dibattito: ma l’imperialismo condanna il capitalismo a un declino e/o comunque a una stagnazione?
Era la lettura trotzkista, così come di tutta la componente terzomondista ante litteram della «Monthly Review» di Baran e Sweezy, che sostituiscono il concetto di surplus a quello di plusvalore e che pensano a un capitalismo occidentale in declino che può rispondere solo con riarmo keynesiano rileggendo a loro modo alcuni temi luxemburghiani quali i problemi di realizzo. Dall’altro lato, invece, altri teorici marxisti, allora assolutamente isolati e marginali, vedono l’imperialismo come un’escrescenza del capitalismo, però è anche una sua possibilità di ringiovanimento; anzi, a un certo punto diviene una sua necessità. E in effetti quel ciclo di sviluppo postbellico incredibile, che non s’è mai più visto nella storia del capitalismo, viene portato avanti da una potenza imperialista, gli Stati Uniti, che sfrutta una guerra già iniziata (gli Stati Uniti entrano sempre in guerra dopo, fanno prima dissanguare gli europei e solo poi entrano in campo per raccogliere i frutti) a spese dell’Europa, e in primo luogo della Germania.
La novità importante in questa fase (chiamiamola peculiarmente controrivoluzionaria, ma senza per questo essere eurocentrici) è che i monopoli di cui parlavano Hilferding, Bucharin, Luxemburg, Lenin e compagnia cantante sono oramai le multinazionali. Non compaiono con il ‘45, erano comparse già prima. Ciò va sottolineato perché le multinazionali diventano il vettore peculiare delle esportazioni di capitali di cui aveva parlato il dibattito marxista precedente, che se ricordate è la peculiarità dell’imperialismo rispetto alle esportazione di merci e a logiche più mercantiliste.
Le multinazionali americane iniziano a emergere già dopo la crisi del ‘29, quando si frammenta l’economia occidentale e fallisce quel tentativo di rilanciare l’economia europea sulla scorta di quella statunitense (l’Urss era completamente isolata). Scatta il protezionismo, scattano le svalutazioni competitive. E cosa fa una multinazionale con gli investimenti diretti all’estero? Scavalca le barriere dei dazi, va sul posto, investe e trae profitti che riporta in patria ad altre condizioni. Osserviamo dunque un nesso tra protezionismo e rilancio di questa nuova forma peculiare di esportazione di capitali, che trovo rilevante.
L’altra grossa novità è Bretton Woods, cioè l’importanza sempre maggiore del sistema monetario internazionale. Quest’ultimo è da intendere non soltanto come la somma dei sistemi valutari nazionali, ma come un tutto che sovradetermina le parti ma – badate bene – in parallelo col sistema degli Stati. È un elemento che era emerso nel dibattito marxista già da inizio Novecento: non si può valutare la posizione, il peso, insomma la peculiarità di uno Stato (oltre che di un’economia nazionale) prendendolo a sé, ma sempre concependolo dentro un sistema di Stati. Del resto Stato e capitale stanno insieme, e uno dei vettori che li unisce è proprio la moneta.
Ora la specificità del mondo post ‘45 è la sostituzione del dollaro alla sterlina nel sistema di Bretton Woods, dove il dollaro diventa dominante, però, attenzione, quantomeno dopo il piano Marshall dentro un sistema in cui le singole economie nazionali, quando iniziano a riprendersi, hanno comunque un controllo relativamente forte sui capitali interni. Il che significa, per loro, la possibilità di dirigere la politica monetaria, la politica dei tassi di investimento, e quindi i tassi di accumulazione. Il dollaro già dominava come moneta di riserva fondamentale, però non siamo ancora nel mondo postfordista o post ‘71.
Passiamo ora alla prima grande fase di transizione. Verso la seconda metà degli anni Sessanta, abbiamo dei segnali di ripresa significativi e di passaggio dall’unità del mondo imperialista sotto gli Stati Uniti a nuove forme di rivalità. In particolare tra Stati Uniti, Germania e Giappone, che dimostrano una ripresa industriale, ritmi di produttività e un livelli di competitività superiori a quelli statunitensi. L’esportazione di capitali, però, è ancora in mano agli Stati Uniti. Le multinazionali sono quasi esclusivamente statunitensi. Gli anni del miracolo economico tedesco e giapponese – e in subordine, italiano – sono da leggere come una ripresa di rivalità coniugata alla cosiddetta accumulazione fordista, all’applicazione della razionalizzazione tayloristica, ma anche a un rilancio di conflittualità di classe.
Sono le lotte dell’operaio massa: ovviamente il ‘68 è stato qualcosa di più ampio, ma nel nostro ragionamento ci interessa la convergenza di rivalità interimperialistica e di una ripresa di lotta di classe anche in Occidente, mentre prosegue fuori dal mondo con il Vietnam e le ultime grandi lotte anticoloniali degli anni Settanta, dal Corno d’Africa ai tentativi in America Latina, violentemente repressi come nel caso del Brasile e soprattutto del dramma argentino e cileno.
A livello geopolitico, proprio in reazione alla lotta antimperialista, gli Stati Uniti stanno perdendo prestigio non solo in Vietnam ma a livello mondiale. È in questa congiuntura che si forma il cosiddetto triangolo strategico tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina. Lo spostamento di alleanze della Cina, dall’Unione Sovietica all’isolamento, poi all’autonomia e infine alla tacita alleanza con gli Stati Uniti di Nixon (repubblicano e fortissimo anticomunista) trascina uno spostamento del bilancio di potenza geopolitico mondiale. Venti anni dopo vedremo che ciò fu uno dei fattori che contribuirono al crollo del cosiddetto socialismo reale e all’implosione dell’Unione Sovietica.
Ora in questo quadro di ripresa di lotta di classe, di ridefinizione della configurazione mondiale delle rivalità, rinasce, per così dire, “il marxismo”, soprattutto nelle due forme di terzomondismo e operaismo, ora intrecciate, ora differenziate o addirittura opposte. E che cosa viene messo a tema nel dibattito marxista, anche al di là della stretta appartenenza a una delle due correnti o riprendendo paradigmi precedenti? Una questione di rilievo anche per noi oggi, ossia il problema dell’unità e della rivalità.
In altri termini: la Germania e il Giappone possono mettere in discussione il dominio statunitense? Si riconosceva infatti che la Germania e il Giappone hanno sì acquisito maggiore produttività e competitività, ma sostanzialmente a livello di esportazione di merci e con monete se non deboli, nemmeno forti. Al contempo, oltre alla perdita di competitività della sua economia, la bilancia dei pagamenti statunitensi va in deficit, perchè il dollaro, divenuto mezzo di pagamento internazionale e valuta di riserva, viene accumulato e detenuto da chi esporta merci.
Nascono però delle tensioni serissime, come quando, sulla scorta della convertibilità del dollaro in oro determinata da Bretton Woods, la Banca centrale francese invia De Gaulle negli Usa con delle navi cariche di dollari pretendendo di scambiarle in oro. Quindi la rivalità è reale. Il problema e il vettore fondamentale rimangono gli investimenti diretti all’estero, e non si tratta semplicemente un’esportazione di capitali di portafoglio, cioè d’investimento in titoli del Tesoro di un altro Stato o in azioni, bensì di andare produrre nell’altro paese per vendere lì o per vendere altrove e ritirare i profitti. E da quel punto di vista, gli Stati Uniti sono ancora imbattuti.
Ciò si lega strettamente all’altro grande tema del dibattito, il «privilegio esorbitante» del dollaro, come lo chiamo Giscard d’Estaing. Da qui il grande salto nel ’71: Nixon decide di sganciare il dollaro dall’oro. Si crea un caos che ha non poche analogie con quello che stiamo vedendo in questi giorni; non a caso la domanda che circola oggi in numerose analisi è “siamo davanti a un nuovo ‘71?” per indicare le trasformazioni del sistema monetario internazionale. Allora il passaggio fu da un sistema valido per l’Occidente, con cambi fissi e relativi controlli nazionali sui capitali (e quindi sulla politica monetaria) a uno a cambi fluttuanti, nel quale diventa fondamentale il vincolo estero sul bilancio interno.
In parole povere: tu Stato devi attirare capitali, ma per attirare capitali devi fare una politica tra virgolette “sana”, ossia non che dà troppo ai proletari, con austerity o comunque con politiche di bilancio possibilmente in avanzo. E devi stare attento con i tassi di interesse, perché devi essere tu ad attirare i capitali, e non li puoi più formare semplicemente dal risparmio interno che hai accumulato. La liberalizzazione dei capitali che scatta tutta a favore, come poi si vedrà, del capitale finanziario statunitense ovviamente ti pone dei vincoli molto forti. Noi siamo abituati a sentir parlare del vincolo esterno all’Unione Europea; ma è un vincolo dipendente soprattutto dai mercati finanziari mondiali, che a sua volta sono legati al dollaro. È lì che inizia questa storia, che oggi vediamo entrare forse non verso la sua fine, ma comunque in una decisa parabola discendente.
I temi di cui potremmo discutere sarebbero molti altri, ma vorrei concentrarmi su uno in particolare. Un marxista francese di origine greca, Poulantzas, conia l’espressione «borghesia interna» nel quadro della discussione sulla possibilità per l’Europa di diventare un soggetto autonomo. Si parlava già allora di un’unione monetaria europea, a cui gli Stati Uniti taglieranno subito le gambe anche sfruttando guerra del Kippur del ’73 e lo shock petrolifero che andrà a vantaggio delle multinazionali energetiche statunitense. Le economie europee, che pure si trovavano per un breve momento in surplus, devono rifornirsi di dollari perché nel frattempo gli accordi tra gli Usa e l’Arabia Saudita avevano stabilito che il petrolio andasse venduto in dollari. La nascita del petrodollaro mostra ancora una volta il gioco dell’imperialismo che preme per una continua esportazione di capitali, in forme sempre innovate. È davanti a tale contesto che Poulantzas elabora la categoria di «borghesia interna» riferendola ai paesi europei, in particolare quelli che in qualche modo potevano fronteggiare l’egemonia statunitense (Germania, Francia, ma anche Giappone, eccetera).
Con «borghesia interna» – ed è una categoria che conviene riattualizzare – si intende una borghesia nazionale che non è pienamente autonoma, che quindi non può mettersi in concorrenza interimperialistica, nei termini classici dell’imperialismo del tempo di Lenin, con gli Stati Uniti. Perché? Perché 1) dal punto di vista strettamente geopolitico e politico sono borghesie sconfitte nella Seconda guerra mondiale e 2) gli apparati statali intesi in senso lato degli Stati europei sono infiltrati, controllati dagli apparati statali statunitensi (pensate all’ingerenza militare, o ai servizi segreti). In altre parole, hai una classe dirigente che invece di fare gli interessi delle economie nazionali europee riproducono il dominio statunitense al loro interno.
Lo stesso avviene a livello economico. Quando hai una grande esportazione di capitali per opera di forti multinazionali americane, soprattutto nelle alte tecnologie, cosa succede? Che c’è una paradossale estroversione delle economie nazionali europee che sono più legate agli Stati Uniti che tra di loro. Da qui l’estrema difficoltà del progetto di unificazione europea, di cui si parlava già cinquantacinque e passa anni fa, senza aspettare Draghi e compagnia.
Al tempo stesso però le borghesie europee chiaramente non sono borghesie dipendenti coloniali, perché mantengono una base di accumulazione interna e a loro volta iniziano ad esportare capitali all’estero (in America Latina con la Germania, e poi addirittura negli Stati Uniti). Un ibrido di subalternità e attivismo. Con questa categoria si cercava di catturare concettualmente la nuova situazione, nella quale nonostante la parabola accumulativa non si poteva configurare una successione di egemonia, come l’avrebbe definita la scuola della World System Theory e in particolare Arrighi.
Vedete quindi come l’imperialismo si ricentralizza, si rifocalizza sulle esportazioni di capitali, ma diventa sempre più importante il sistema monetario internazionale, il nesso moneta-credito. Chi diventa la banca di tutte le banche? La Federal Reserve. Qual è l’unico paese, grazie al meccanismo di sganciamento del dollaro dall’oro, a non essere legato al vincolo estero della bilancia dei pagamenti? Appunto gli Stati Uniti, perché possono ripagare le merci che acquistano con assegni, perché il dollaro diventa un assegno quasi in bianco, nel senso che non ha un corrispettivo reale di produzione o ce l’ha in futuro. Quindi è come far credito in continuazione alla Federal Reserve e agli Stati Uniti. Al tempo stesso, essendo il dollaro valuta di riserva internazionale e moneta di pagamento internazionale (in particolare i petrodollari, ma poi gli eurodollari e via discorrendo, e tanto più quando si aprirà l’economia cinese), gli Stati Uniti possono attirare investimenti di portafoglio (la vendita da parte loro dei treasury bill e dei treasury bond); con quei capitali a breve possono investire a lungo nel sistema produttivo interno; quindi finanziare a bassi tassi di interesse il riarmo (il reaganismo, e da allora la grande risalita delle spese militari); ristrutturare i vecchi settori fordisti verso l’high tech e il digitale; e infine andare a esportare capitali conquistando mercati esteri e così via. Insomma, ciò che negli anni Settanta sembrava alludere al declino statunitense, crea una morsa incredibile, di tipo insieme produttivo, finanziario e monetario.
Si apre così una grande ristrutturazione capitalistica globale: una ristrutturazione antioperaia, in cui viene sconfitto l’operaio massa (con i battiti d’ala dei siderurgici francesi nel ’79 e l’ultima grande lotta a Mirafiori nell’80); anti-blocco dell’Est, che dopo dieci anni implode; e contro il Sud del mondo, che disgrega la compattezza che ha dimostrato durante la fase della lotta anticolonialista. Assistiamo quindi, dagli anni Ottanta fino alla crisi del 2008, a un nuovo ciclo chiamato ora «globalizzazione» ora «neoliberismo».
Un ciclo contrassegnato dall’unità piuttosto che dalla rivalità, sempre relativamente parlando; basata su quel meccanismo del dollaro che abbiamo descritto prima (e che si usa nominare con “Bretton Woods 2”); e in cui – punto importantissimo – l’esportazione di capitali non è solo più incentrata tra Stati Uniti e Europa, cioè sulle economie avanzate, ma scatta l’industrializzazione periferica. Si dipinge così una scomposizione internazionale del processo produttivo che darà luogo alle cosiddette «catene globali del valore», in cui il Sud del mondo copre la fase di assemblaggio finale o comunque quelle fasi tecnologicamente meno evolute, e via via a risalire verso i centri egemonici. A quanto accade a livello produttivo equivale la dinamica a livello di finanziamento di crediti, circolazione di capitale e di distribuzione delle merci, dove le aziende leader sono tutte occidentali, in gran parte statunitensi. A questo punto agli Stati Uniti conviene sempre meno investire produttivamente sui settori e le tecnologie medio-basse, ma piuttosto tenere la leadership sulle tecnologie alte e far circuitare la finanza e le merci intorno a questa nuova configurazione; una configurazione che è alla base della crisi attuale.
Sul piano geopolitico, dopo la fine dell’Unione Sovietica si inaugura la fase dell’«unipolarismo», condito di “guerre umanitarie” per “l’esportazione della democrazia”. Unipolarismo che altro non è se non la politica del contenimento riformulata in termini preventivi: per esempio, se Saddam o Gheddafi vogliono vendere il petrolio in euro, facciamoli fuori, tanto sono dittatori, no? Lo stesso vale poi per la Jugoslavia, l’Afghanistan, la guerra al terrore, eccetera.
Per quanto concerne invece il livello delle lotte sociali, va osservato che l’unità, sempre relativa, delle forze imperialiste si associa alla scomposizione del movimento operaio. Oltre alla sconfitta, come dicevamo, dell’operaio massa, vediamo la cosiddetta “cetomedizzazione” i cui risultati si vedono oggi – intendendo con esso non la salita a ceto medio degli strati operai, bensì che il ceto medio si impoverisce o inizia addirittura a proletarizzarsi, persino negli stessi Stati Uniti (un elemento che ha non poche prossimità con il problema del trumpismo oggi). Di pari passo, si sviluppa una proletarizzazione però periferica in Cina, così come in altri paesi quali il Vietnam o il Messico. Una proletarizzazione, però, senza fordismo e senza i benefit del welfare che hanno accompagnato la fase fordista precedente. In termini politici nostri, è una fase di disgregazione: il capitale si centralizza, mentre la classe operaia e il proletario internazionale si frammentano, come segnato anche dai flussi di immigrazione che iniziano a essere consistenti.
Davanti a una vittoria del nuovo imperialismo a guida finanziaria statunitense che sembrava assoluta, abbiamo il crollo del marxismo. Dall’inizio degli anni Ottanta, ciò che rimane del marxismo viene ridotto alla stregua di una critica culturale postmodernista – una declinazione del marxismo che oggi, fortunatamente, sta mostrando in una maniera sempre più evidente la sua irrilevanza. Il primo corollario però è che scompare lo stesso concetto di imperialismo, il che segnala con crudele chiarezza la portata di quella sconfitta: per decenni si parla solo di “neoliberismo”, di “globalizzazione” e chi più ne metta, mentre la categoria di imperialismo oggi paradossalmente lo si usa a proposito di Putin.
Forse l’unica teoria, secondo me, che tenta di coltivare una critica del sistema capitalistico mondiale (pur non essendo marxista e limitandosi a soltanto a recuperarne alcuni concetti) è la World System Theory di Wallerstein e Arrighi, che abbandona il concetto di imperialismo a fine anni Settanta e lo sostituisce con la «successione di egemonie» richiamandosi a Braudel. I suoi autori si focalizzano sulla dinamica centro-periferia, con una sorta di terzomondismo, ma in una fase dove il Sud del mondo è in estrema difficoltà per la sua frammentazione e, come dicevo prima, per l’assorbimento della Cina.
Giungiamo a un punto di estrema importanza, a cui prestare attenzione poiché ogni teoria dell’imperialismo deve darci il sistema, articolato e diseguale, intrecciato e gerarchico. A questo punto infatti inizia quel processo in parallelo di relativa deindustrializzazione degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali (un po’ meno in Giappone, Germania e Italia, relativamente parlando) e di industrializzazione periferica, che proietta la Cina a “officina del mondo”, collocandosi in un primo momento sui segmenti bassi delle filiere globali di fornitura, ma con grandi differenze rispetto ad altri paesi.
Intanto, la Cina non è un paese dipendente qualsiasi, ma ha alle spalle una grande rivoluzione contadina che ha creato un partito-Stato che impedisce l’internalizzarsi del dominio statunitense in Cina, cioè all’interno della sua accumulazione e della sua borghesia privata. In altre parole, non troviamo in Cina quella borghesia interna che Poulantzas aveva teorizzato per l’Europa, ed è un elemento cardine per spiegare la sua capacità di resistenza. In secondo luogo, ma non per importanza, la Cina inizia a esportare. È vero che una parte consistente di questo surplus va alle multinazionali americane e occidentali, ma comunque il resto va all’interno, e non essendo la moneta convertibile, i flussi di capitale sono controllabili. I flussi di capitale sono joint venture che portano anche tecnologia, e non hot money speculativo, che dopo pochi mesi distrugge il paese come hanno sperimentato gli Stati sviluppisti dell’Estremo Oriente nella crisi asiatica del ’97-‘98. Mentre realtà come Taiwan e la Corea del Sud erano stati martoriati dalla capacità del dollaro di giocare a fisarmonica con i tassi di interesse fissati dalla Fed – per cui il dollaro ora si apprezza ora si svaluta e a seconda delle convenienze i capitali vengono attratti o esportati e così attraverso la finanza ti compri quegli apparati produttivi che gli altri hanno avuto fatto sacrifici per costruire –, in Cina non accade, sia per motivi sostanzialmente politici, sia in virtù di un enorme serbatoio di forza lavoro semiproletarizzata. Grazie dunque alla sua capacità di porre dei limiti alla liberalizzazione dei capitali statunitensi, una parte sempre maggiore del surplus prodotto dall’export rimane in loco, può essere investita dai cinesi per rafforzare l’apparato produttivo e per risalire via via le catene del valore, passando così da essere il fanalino di coda delle filiere della fornitura globale ad arrivare a livelli tecnologicamente poderosi.
Con l’internazionalizzazione delle catene del valore, i rapporti di centro-periferia e di dipendenza classici, diciamo terzomondiali, che sulle prime erano fondamentalmente confinate al cosiddetto commercio ineguale, vengono internalizzate nella produzione nella misura in cui la produzione non è più confinata a un solo paese, ma si spalma su tanti paesi collocati gerarchicamente in una scala mondiale imperialistica. Ma se vediamo in parallelo la relativa deindustrializzazione degli Stati Uniti e di altre economie occidentali e la risalita della Cina, sorge spontanea una domanda: la Cina ha una logica imperialista?
No, strutturalmente non può averla perché il suo recupero, in termini arrighiani, dalla periferia alla semiperiferia è basato su surplus commerciali, sull’esportazione di merci, e per giunta i suoi proventi non sono del tutto a sua disposizione. È ancora dentro pienamente una logica mercantilistica, non una logica imperialista basata sulle esportazioni di capitali e sul dominio della moneta, tant’è che lo yuan non deve essere convertibile e i capitali devono rimanere controllabili perché altrimenti avrebbero sbaraccato la sua economia. In aggiunta, nel 2014 la Cina è arrivata a quattro trilioni tra riserve in dollari e titoli del Tesoro americani acquistati, poiché appunto una parte dei profitti cinesi devono andare a finanziare quel circuito globale del dollaro che abbiamo descritto prima.
Permettetemi giusto due parole sulla cesura del 2008, la prima grande crisi della globalizzazione. Passiamo definitivamente dall’unità relativa di un mondo imperialista a un incremento di rivalità che assumono tratti peculiari. Si inasprisce la rivalità tra Stati Uniti ed Europa, sebbene sottotraccia. Ad ogni modo, oggi molti possono concordare su ciò che nel 2010-2012 risultava più controverso, ossia che l’eurocrisi è stata un tentativo di scarico sul Vecchio continente della crisi che ha avuto come epicentro gli Stati Uniti di Obama, finalizzato a indebolire l’euro. Lì iniziano a germogliare i semi di quella tensione che oggi è di nuovo ritornata agli onori della cronaca.
Il problema è che, a parte una certa resistenza tedesca (che però, dalla cancelleria Merkel alla guerra in Ucraina, si è manifestata più come una riottosità ai diktat statunitensi, a cui tra l’altro pian piano hanno ceduto), rimaniamo nella situazione indicata da Poulantzas: le borghesie europee non esistono, l’Europa non è uno stato e non esiste un’economia diciamo “confederata” europea. Rimangono borghesie interne, senza una piena autonomia. E non l’avranno, perché, a parer mio, con l’offensiva Trump si frammenteranno ulteriormente. Tranne – ad è un grosso punto di domanda che rimando alla discussione con Robert Ferro – la Germania.
La Germania avrebbe dei numeri a livello di apparato produttivo forse per iniziare a fare un discorso autonomo, ma è un’ipotesi molto incerta, e potrebbe benissimo uscire dall’offensiva trumpista di nuovo, per la terza volta, con le ossa rotte. Sale poi, e lo vediamo dalla guerra in Ucraina, la rivalità con la Russia. Ma la Russia la possiamo definire al limite una potenza imperiale, se vogliamo assumerla sul versante militare, e rimane sostanzialmente un’esportatrice di materie prime. Dal punto di vista marxista non c’è nessun criterio, né in cielo né in terra, che possa far definire “imperialista” la Russia putiniana. Ben più seria è la rivalità con la Cina. Perché?
Perché inizia a incrinarsi, e oggi quasi si è rotto, l’asse Stati Uniti-Cina di cui ho parlato prima. Con la crisi del 2008 la Cina si rende conto che è troppo legata al dollaro e ai mercati di esportazione occidentali, ma al tempo stesso non ne può fare a meno. Cerca allora sempre più di indirizzare questa logica mercantilista verso una ristrutturazione interna a partire dai mezzi di produzione (e poi anche dei beni di consumo) per risalire le filiere del valore. Il progetto funziona, parte un grande sviluppo tecnologico, e nel mentre cerca di uscire dai confini dell’economia cinese e dalla dipendenza dall’export con le nuove vie della seta. È un inizio di proiezione e di esportazione di capitali, ma che ad ora avviene in una forma ancora molto arretrata. A metà anni ‘10, grazie ai surplus accumulati, la Cina ha lanciato un intervento di tipo keynesiano per attutire i gli effetti della crisi del 2008-2009 (uno stimolo da quasi 600 miliardi di dollari), e non esportare soltanto merci.
Ora, se tu cerchi di esportare capitali devi garantire un minimo di liberalizzazione dei capitali stessi, che devono poter circolare, e la tua moneta deve iniziare a essere un minimo convertibile. Ma rendere convertibile lo yuen e rendere liberi i flussi di capitali sbaraccherebbe quella costruzione che faticosamente ha tenuto su la Cina fino ad oggi rispetto ai marosi dell’economia mondiale e delle sue crisi. C’è stata un’internazionalizzazione molto cauta, e quando hanno tentato di venire in Europa ad acquisire delle aziende di un certo contributo tecnologico, gli Stati Uniti hanno detto no, l’Europa li ha bloccati e da lì parte il protezionismo americano, in funzione anticinese. Nel frattempo tra il 2015 e il 2016 la Cina ha avuto un attacco speculativo di hot money legato alla bolla immobiliare con capitali che entravano e uscivano velocemente. L’amministrazione Xi Jinping ha detto «regolamentiamo più duramente», ed ecco tutte le critiche all’“autocrazia” cinese, al “partito unico”, eccetera.
Detto ciò, nell’intreccio di economia, geopolitica e movimento di classe l’aspetto importante da sottolineare è ancora nel terzo livello. In Occidente era emersa quella che da più parti viene definita la lotta di classe di tipo «populista» per differenziarla da mobilitazioni più classiche. Mi sembra che dal nostro punto di vista la possiamo definire come una lotta di classe interclassista tra ceti medi impoveriti, o che hanno paura di proletarizzarsi, e il proletariato, dove la voce la dà al ceto medio, con i suoi contenuti, i suoi slogan e le sue prospettive, mache raccoglie l’insoddisfazione e il peggioramento della condizione proletaria, e poiché in tale quadro le istanze di nuovo riformismo non hanno più nulla a che vedere col riformismo del movimento operaio classico si registra la divaricazione (a mio parere, strutturale e definitiva) tra la sinistra classica e le istanze di classe.
Sta qui l’origine materiale della «crisi della sinistra» e del “superamento” dell’antinomia sinistra-destra che ha condotto all’affermazione del discorso populista prima in una forma cittadinista e poi espressamente sovranista. È un sommovimento profondissimo che va legato agli altri piani – l’economico e il geopolitico – altrimenti non lo si capisce o lo si vede come semplice reazione fascista. Ovviamente queste derive ideologiche hanno dei fattori di fondo differenti in Europa e negli Stati Uniti, come dimostrato anche dal riemergere dello scontro tra i due. Ma anche in Cina – è bene ricordarlo – dietro i movimenti di reazione agli Stati Uniti e di risalita della catena del valore c’è stata una forte lotta di classe. Se vogliamo, sono state lotte più tradizionali, condotte da operai di seconda-terza generazione, immigrati nelle città; potremmo dire un operaio massa fordista senza fordismo. Lì infatti, la lotta di classe tradizionale spinge verso un «compromesso socialdemocratico» col partito-Stato. Del tipo: abbiamo fatto i sacrifici, adesso dateci il welfare, dateci l’aumento dei salari. Sono state lotte più che significative: come ha anche dimostrato Branko Milanović in via econometrica, senza l’aumento dei salari cinesi la diminuzione della povertà nei paesi extraoccidentali non si sarebbe data. Il divario tra Nord e Sud del mondo è assolutamente cresciuto, così è cresciuta la polarizzazione sociale dentro i paesi occidentali.
Il dibattito a sinistra pian piano si è ripreso, ma all’inizio dell’eurocrisi e dopo il 2008 rimaneva impastoiato in termini ancora molto, molto confusi e in altrettanto vaghi ricordi keynesiani: “ah, la finanza è parassitaria e la produzione reale è buona”. Il problema dell’imperialismo consiste però proprio nel fatto che è un intreccio di finanza e produzione, dove si tratta di capire chi dirige questo intreccio e chi lo utilizza pro domo sua. Difficoltà a non finire. Per esempio, con l’eurocrisi tutti ce l’avevano solo con l’euro o la Germania, senza vedere che dietro la Germania ci sono gli Stati Uniti. Una confusione incredibile, perché comunque le nuove generazioni venivano da venti, trent’anni di euroliberismo che aveva fatto terra bruciata delle categorie critiche, non solo marxiste. Persino l’analista in Italia più autorevole che in qualche modo cerca di rimettere in campo categorie marxiste, cioè Brancaccio, fino a poco tempo fa guardava fondamentalmente al global imbalances, ovvero il surplus sui deficit di commercio e non di capitali; ma va detto che ultimamente sta ricentralizzando la sua attenzione sui flussi di capitali.
Dunque, voi vi aspettavate qualcosa su Trump e il trumpismo, no? [Risate] Ho parlato parecchio, ma a questo punto direi che potremmo avere qualche strumento in più per inquadrare ciò che sta succedendo, però 1) senza fare previsioni, perché quando l’economia mondiale inizia a ballare nelle sue variabili, saltano tutte e 2) senza cadere in un’eccessiva coerentizzazione, perché può esplodere la disarticolazione di tutto quanto e irrompere il caos generale.
Con questa cautela, permettetemi di dire che forse oggi, nell’era Trump, c’è un’analogia con la situazione tra il 1970 e il 1973, con lo shock di Nixon e il passaggio al sistema monetario a tassi flessibili. Nella nuova presidenza Trump c’è sicuramente una continuità rispetto all’immediato passato. Per esempio, l’amministrazione Biden ha tenuto tutti i dazi protezionistici del primo mandato Trump e la Cina è ancora il nemico. Adesso però vediamo confermato quello che prima anticipavamo timidamente: non era Trump la parentesi estemporanea, era Biden.
Biden, con i suoi consiglieri ultraliberal e presentabili, insisteva sulla «foreign policy for the middle class»: tutto quanto viene fatto a livello internazionale (ossia il lato geopolitico e lato economico) deve portare benefici al ceto medio americano e a quel proletariato bianco più o meno pressured, da romanzo postmoderno. In parole povere, hanno capito la crisi interna del globalismo. Oggi gli economisti europei, e sono tanti, non fanno che ripetere basiti “sono pazzi questi americani”, “Trump è uno stupido”, “si dà la zappa sui piedi”. Perché? Perché l’imperialismo, che sembrava vincente, assoluto, produce comunque contraddizioni. Perché quel meccanismo basato sul binomio centralità del dollaro-esportazione di capitali ha favorito un’élite sempre più ristretta. E tutti questi economisti stupiti di quanto sono idioti i membri dell’amministrazione Trump non capiscono che c’è un’istanza, tra virgolette, “di classe” dietro Trump.
Dietro Trump, cioè, c’è il trumpismo, ovvero l’insoddisfazione, il rancore, la voglia di cambiare. Certo, in termini per noi incatalogabili; ma fatto sta che si tratta di quelle istanze di classe, ripeto, interclassiste formate da un ceto medio impoverito, dai suburbi della provincia e un proletariato soprattutto bianco, che ovviamente in quelle condizioni lì, avendo fatto terra bruciata negli anni Sessanta e Settanta di quel minimo di coscienza di classe, se la prende innanzitutto con gli immigrati. Lo stesso immigrato penultimo se la prende con immigrato ultimo. Ma a un certo punto hanno iniziato a prendersela con “l’élite”. Parliamoci chiaro: Biden ha dato un sacco di soldi, ha fatto un sacco di sussidi, e nonostante questo ha perso.
Per noi, il dato politico cruciale è questo: l’imperialismo del dollaro è ricaduto come un boomerang all’interno degli Stati Uniti, ne ha sconvolto la struttura sociale, impoverendo e polarizzando la popolazione. E adesso iniziano a risentirne.
La contraddizione è emersa in una maniera confusissima, che dall’Europa è difficile percepire nella sua interezza, ma ciò non ci esime dal cercare quali siano le istanze che promuove la base sociale del trumpismo e del movimento MAGA. Istanze che Trump e compagnia bella devono disperatamente cercare di connettere quelle frazioni di capitale statunitense che traggono sempre meno benefici dal circuito della globalizzazione: capitali se vogliamo arretrati, più piccoli, ma anche porzioni di finanza in lotta intestina. Blackrock, Vanguard e così via ci guadagnano tantissimo, ma dove investono? Oppure pensiamo alla Silicon Valley, che dalla globalizzazione ci ha guadagnato tantissimo, e che ora ha bisogno di investimenti che solo lo Stato può garantire, sia da un punto di vista economico sia da un punto di vista di difesa geopolitica. I satelliti di Musk, se la guerra in Ucraina continua, chi li difende da una tattica nucleare russa? L’economia? No, la difende lo Stato. Quindi meno Stato per alcuni, più Stato per altri.
La guerra in Ucraina, però, ha dimostrato l’impreparazione degli Stati Uniti a una guerra con un’altra grande potenza. Quindi bisogna evitare e rimandare il più possibile lo scontro diretto con la Russia, ma soprattutto con il nemico dichiarato, la Cina. La parola d’ordine è «prepararsi», certo; ma prepararsi significa fare un passo indietro tattico per farne poi due avanti strategici. Fuor di metafora, ciò equivale a riportare l’industria negli Stati Uniti ad ogni costo. Ma riconfigurare l’industria militare e la componentistica costa grandi sacrifici all’interno. “La borsa è cresciuta troppo? Vabbè, si sgonfia”. “Rischiamo una recessione? Rischiamola pure, ma per rendere l’America grande domani”. “E a chi la facciamo pagare? Innanzitutto all’Europa”.
La rischiosissima scommessa trumpiana è questa a livello geoeconomico e geopolitico: in qualche modo indebolire il dollaro, ma creare le condizioni per cui i titoli del Tesoro statunitense continuino a essere acquistati. Il che, da un punto di vista strettamente economico, è una contraddizione. Vengono allora incontro i rapporti internazionali. Per esempio: l’Europa vuole iniziare a riarmare. Dove le compra le armi? Tra il 60 e l’80% dagli Stati Uniti; quindi via a rinforzare l’industria statunitense delle armi. Altro esempio: hai pochi titoli del Tesoro americano e devi comprarne di più? Uso i dazi. Oppure ti minaccio di non difenderti se non spendi e se non compri da noi. Se non bastasse, ti vendiamo dei titoli del Tesoro a cento anni, che tu sei costretto ad acquistare, o addirittura a scambiare titoli di tesoro a durata più breve con titoli irredimibili, in una sorta di consolidamento del debito. E tu comunque li devi comprare. Ma potremmo continuare.
Dunque un passo indietro rispetto al confronto diretto con la Russia sul piano militare, ma non con la Cina sul piano economico. Poiché il decoupling selettivo di Biden non ha avuto successo, si cerca in ogni modo di isolare la Cina, di costringere l’Europa ad allontanarsene e a creare in Asia sud-orientale un’alleanza anticinese che dia fastidio, rimanendo sempre al di qua del confronto diretto; si tenta di costringere a rivalutare le monete del Giappone, dell’Asia orientale, possibilmente anche della Cina per permettere di svalutare il dollaro, imponendo però al tempo stesso di continuare ad acquistare i titoli del Tesoro. Un azzardo dal punto di vista strettamente economicistico, ma diventa comprensibile se osserviamo il boomerang della configurazione dell’imperialismo dagli anni Settanta in poi, con le sue conseguenze negative sul tessuto sociale e politico, e quindi sulla possibilità di mantenere effettivamente l’egemonia.
Continuando con Biden, con il globalismo e i democratici, il declino degli Usa era garantito. Ecco perché si è avanzata una svolta forte analoga a quella che il Nixon repubblicano e anticomunista fece con la Cina di Mao. I dazi dunque non sono l’obiettivo, ma piuttosto una leva, uno strumento che sarà flessibilmente utilizzato (per frantumare l’Europa, per riunire gli avversari, per dare un contentino ad alcuni settori economici interni, eccetera). Non è scritto da nessuna parte che il tentativo riesca, e ne può uscir fuori un caos inaudito – anzi, forse per noi sarebbe anche meglio così.
Ma non fissiamoci troppo sulla cronaca, e sforziamoci di tenere gli occhi puntati sulle dinamiche generali. La cosa più importante è che l’imperialismo, anche a livelli più alti, aveva eliminato le questioni nazionali. Per converso, oggi l’imperialismo, nel suo punto di sviluppo più recente, attraverso quel boomerang che ho malamente spiegato, ripropone questioni di sovranismo e di difesa della nazione al suo centro, negli Stati Uniti, come difesa dei settori medio-bassi della popolazione da quel globalismo di cui hanno beneficiato i grandi capitali finanziari degli Stati Uniti.
Il che a prima vista apparirebbe paradossale. Capiamoci, questa non è la questione di classe che piacerebbe a noi, pulita e inquadrabile nei termini a cui siamo abituati; ma comunque è una questione di classe, così come in Europa. Ovviamente, quando si parla di sovranismo lasciamo perdere tutti quelli che si definiscono sovranisti, la Meloni piuttosto che Salvini. Già è un po’ più seria la Le Pen, il più serio è Orban, ma comunque… [Kamo: E Vannacci? È serio?] Ma l’Italia è il paese che galleggia! E quindi esprime politici che galleggiano. È così, non contiamo niente. E soprattutto, non c’è neanche la percezione che stanno succedendo cose grosse, cose che sconvolgeranno le nostre vite. Finché non c’è questa percezione non ci si muove, quindi non si può che galleggiare e “sperare che me la cavo”. Però, come dicevamo, già da anni in Europa vediamo in una maniera un po’ buffonesca, ma vedremo in termini sempre più drammatici, un antiamericanismo che serpeggia. Il broncio di Scholz, della Von der Leyen o di Macron è ancora un antiamericanismo da operetta. Però dietro c’è il fatto che l’antiamericanismo era destinato a risorgere anche in Europa.
Voglio quindi chiudere il mio intervento su questo punto, che deve essere molto chiaro: non si muoverà niente in Europa in funzione effettivamente antiamericana se non viene dal basso, ossia facendo pagare a queste élite politiche tutto il loro servilismo rispetto agli Stati Uniti, il loro gioco sporco nella guerra antirussa in Ucraina e via discorrendo. È dunque indispensabile una sua rimessa in moto, che all’inizio non potrà che essere impura, confusissima, interclassista e si darà molto probabilmente non su contenuti immediatamente di classe e internazionalisti, ma con una ripresa dal basso di questi contenuti di difesa nazionale.
Nel cuore dell’imperialismo, ritorna la questione nazionale, in forme veramente inaudite, sconcertanti.
La scommessa di Trump, secondo me, non può essere vinta, ma gli Stati Uniti la giocheranno comunque, e il fatto stesso che la giochino avrà degli effetti sconvolgenti sul sistema internazionale. Un ripiegamento dell’imperialismo su se stesso che ha del paradossale, poiché significa tentare di reinternalizzare una logica mercantilistica dentro un quadro imperialista, bloccando al tempo stesso la potenziale proiezione imperialista della Cina, la quale deve rimanere per gli Stati Uniti bloccata in una logica mercantilista.
Lo ripeto: questo è materiale esplosivo per il sistema mondiale. Per il resto, staremo a vedere, sempre però da una prospettiva, in senso stretto, materialista. Cosa intendo dire? Una cosa non diversa da quella offerta da Lenin. Nel cercare di differenziare l’oggettivismo dal materialismo, Lenin disse che l’oggettivismo vede i processi reali, però si ferma a questi; il materialismo invece vede i processi reali, non interpreta soggettivisticamente, ma li legge alla luce delle contraddizioni che fanno emergere, e quindi delle potenzialità della rivoluzione.
La geopolitica della rivoluzione si è rimessa in moto, seppure in forme che non ci aspettavamo…