Rita Cucchiara è la nuova rettrice dell’Unimore. Prima donna ad assumere questo ruolo nella storia dell’Università di Modena e Reggio, è stata eletta a giugno 2025 al ballottaggio contro Tommaso Fabbri, con un corpo accademico votante spaccato in due.
Come gruppo di inchiesta universitario, è indicativo per il nostro discorso lo spostamento dei rapporti di forza, di bilanciamento e di potere interni all’istituzione Università dal dipartimento di Economia a quello di Ingegneria. Come vedremo, questo elemento può essere già inteso come indizio della direzione e del ruolo che l’istituzione università sta assumendo, in questa fase accelerata e acuta di crisi, sul nostro territorio inteso nelle sue connotazioni produttive e sociali, nel suo rapporto con lo sviluppo capitalistico a vocazione industriale e dei soggetti da esso messi al lavoro, e in relazione alle trasformazioni del contesto politico e capitalistico non solo locale, ma regionale, nazionale ed europeo, dentro la crisi globale che si fa stato di guerra.
La figura della nuova rettrice sta lì a esprimere questa fase di cruciale trasformazione. Partiamo da qui, cominciando a tracciare qualche punto d’inchiesta sull’università come «laboratorio della guerra», da ampliare, mettere a verifica e agire in senso militante, con punto di vista di parte.
1. La nuova rettrice: Rita Cucchiara
Ordinaria di ingegneria informatica e direttrice di numerosi laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale, Rita Cucchiara viene descritta dai giornali come il volto delle donne nelle STEM italiane, con un curriculum accademico invidiabile. Tuttavia, il dato politico reale che emerge ripercorrendo le tappe della sua carriera accademica e istituzionale è il suo ruolo di raccordo, da un lato, tra ricerca pubblica universitaria e il suo impiego nel rilancio del profitto d’impresa e, dall’altro, tra politica (non solo locale) e accesso alle catene globali del valore. In una traiettoria che, seguendo la curva dell’accumulazione capitalistica nel tempo della crisi e della guerra, descrive chiaramente la porosità tra la produzione – industriale, di sapere, e quindi di soggettività – civile e la produzione militare, oggi esplicata nel paradigma del «dual use».
Sarebbe infatti parziale, e quindi limitante, accontentarsi di contestare superficialmente la sua stretta vicinanza a Israele – sebbene durante il genocodio della popolazione palestinese della striscia di Gaza e il salto di livello nel conflitto in Medio Oriente non esistano posizioni neutrali – trascurando di osservare, in profondità, il significato di quanto realizzato nel contesto in cui siamo collocati, l’Italia e in particolare l’Emilia. Tenere come unica prospettiva critica un generico pacifismo rischia infatti di ridurre l’analisi e quindi la prassi politica a polemica moralista, e soprattutto di non riconoscere la portata reale della direzione di trasformazione in «fabbrica della guerra» del nostro territorio, in cui l’industria della formazione tecnico-scientifica – non limitata a sole scuola e università – svolge un ruolo di primissimo piano: quello di «laboratorio della guerra».
2. Unimore e IDF: la relazione strutturale con Israele
Fatta questa opportuna premessa, è incontestabile che Cucchiara ha svolto un ruolo soggettivo d’impulso nello sviluppo della collaborazione tra Unimore e la ricerca tecnologica israeliana, stringendo partnership pluriennali e organizzando enormi congressi. Si prenda, tra i tanti esempi, la presentazione del laboratorio AIIS, diretto da Cucchiara, al Naftali Building dell’Università di Tel Aviv, con la presenza dell’Ambasciata italiana e di Isaac Ben-Israel, ex generale dell’IDF e oggi direttore della Israeli Space Agency , la ECCV European Conference on Computer Vision del 2022, organizzata da Cucchiara a Tel Aviv insieme a figure di primo piano come Amnon Shashua, CEO miliardario di Mobileye e fondatore dell’omonima Shashua Family Foundation, società “filantropica” il cui Nitzanim Program mira a «duplicare il numero di giovani provenienti da zone svantaggiate nei reparti high-tech dell’IDF» (si veda qui e qui). Ma accanto a queste numerose iniziative estemporanee, vanno sottolineati i tentativi di rendere duratura nel tempo, ovvero strutturale, la collaborazione con Israele, lanciando network pensati ad hoc come la rete ELLIS, un «laboratorio di ricerca sulle AI multicentrico composto di unità e istituti situati in Europa e in Israele»; la rete conta appunto anche un’unità modenese, diretta da Cucchiara.
3. Unimore e NATO: progettare la guerra che viene
Non mancano poi i progetti NATO, quale il programma di riconoscimento facciale BESAFE – Behavioral Learning in Surveilled Areas with Feature Extraction – che la rettrice stessa ha coordinato in collaborazione con la Hebrew University. Sempre Cucchiara ha poi lanciato i suoi laboratori Unimore in grossi progetti alle dirette dipendenze della Difesa e dell’intelligence statunitense, come il progetto di videosorveglianza DIVA di IARPA (Intelligence Advanced Research Project Activity) dell’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale (qui una presentazione del progetto in cui Cucchiara casualmente trascura di indicare l’origine spionistica del progetto). Oltre all’AIIS, un altro laboratorio modenese diretto da Cucchiara, l’AImageLab, viene frequentemente presentato come un esempio virtuoso di collaborazione tra l’Unimore e Leonardo(si veda qui e qui), il colosso globale nel settore della Difesa controllato dallo Stato italiano, tra i maggiori attori del complesso militare-industriale e protagonista oggi, sul territorio modenese ed emiliano (ma non solo, come dimostrano le inchieste torinesi e in Piemonte), nel dare il ritmo e la direzione alla riconversione in senso bellico del tessuto d’imprese meccaniche e metalmeccaniche legato all’automotive in crisi.
Va segnalato, inoltre, il progetto STORE (Shared daTabase for Optronics image Recognition and Evaluation), un enorme consorzio di accademici e colossi dell’industria militare come Rheinmetall (tedesca) e Thales (francese), finanziato con 323 milioni di euro dall’UEper la creazione di un database di immagini esplicitamente rivolta all’analisi tattica delle situazioni di combattimento, a cui Unimore partecipa attraverso il laboratorio AIRI, diretto sempre dalla rettrice neoeletta (si veda qui e qui). Sebbene non ci siano fonti pubbliche chiare in materia, sembra che parte della sperimentazione militare che vede nella Cucchiara interlocutore strategico ruoti, oltre che nella cybersicurezza, intorno al mondo dell’aviazione e dei droni – un arma, quest’ultima, avviata alla produzione di massa il cui potenziale è già stato sperimentato sui fronti ucraino e mediorientali, che sarà protagonista nei futuri scenari bellici come il carrarmato nella Seconda guerra mondiale – che incontra i vari tentativi di Confindustria e della Regione emiliano-romagnola a governo PD di sviluppare un distretto locale dell’aerospazio.
4. Unimore, imprese e politica a sistema per il profitto
A questo punto però è necessaria una precisazione, senza la quale si rischia di fraintendere il senso del quadro descritto. La prossimità della nuova rettrice di Unimore ad articolazioni di Israele e ad apparati della NATO non può prescindere dall’ambito della politica istituzionale, con cui sussistono solidi collegamenti e internità. Dal “curriculum” leggiamo infatti una fitta lista di importanti incarichi istituzionali sia con il governo Conte I (“giallo-verde” a trazione M5S e Lega), sia con il governo Conte II (il cosiddetto governo “giallo-rosso” con M5S e PD), sia infine con l’attuale governo Meloni. È possibile notare, quindi, che il raccordo con il mondo della decisione politica (e quindi con le risorse e i finanziamenti statali e comunitari) non vada ridotto solo a una precisa visione ideologica o a un’adesione a un determinato partito politico.
Tuttavia, nel contesto modenese ed emiliano, è con il sistema radicato del partito che governa il territorio e lo sviluppo, il PD, che sussistono le maggiori relazioni e affinità.
Per quanto riguarda la politica di Modena, i giornali avevano fatto circolare nell’ottobre 2023 l’ipotesi di una candidatura della Cucchiara a sindaco per il Partito Democratico favorita nientemeno che dall’allora presidente (modenese) della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini; sebbene a questa eventualità non seguirono prese di posizione esplicite, il ruolo raggiunto difficilmente la può vedere estranea a collegamenti, appoggi, internità all’area politica del PD che governa il territorio e il suo sviluppo, in sintonia con l’università.
Vale la pena menzionare, a tal riguardo, almeno due eventi particolarmente rilevanti se declinati nell’ottica di rilevare i legami politici della nuova rettrice, e come questi ultimi vengono contestualizzati nel panorama universitario e industriale emiliano e modenese, nell’ottica di interpretarne le presenti e future trasformazioni.
Cucchiara ha preso parte all’iniziativa organizzata dal PD “Impresa & ripresa: il ruolo delle PMI nel Next Gen EU”, tenutasi il 15 Luglio 2021, finalizzata a rafforzare il tessuto produttivo europeo, con tema centrale il ruolo delle PMI – baricentro dell’economia italiana, con particolare rilevanza nel triangolo industriale lombardo-veneto-emiliano – nel rilancio economico postpandemico. L’intervento portato da Cucchiara ha visto come principale punto di attenzione il profondo scollamento, nel nostro Paese, tra innovazione, con focus su quella universitaria relativa all’AI, e apparato industriale, spesso incapace di assorbire conoscenza e pratiche/tecnologie innovative. La rettrice ha dunque auspicato a una sempre più stretta collaborazione tra centri di ricerca universitari con aziende, figure manageriali, amministrazioni locali, anche in ottica di uno sviluppo tecnologico che non si pieghi a una mera acquisizione da soggetti internazionali distaccati dal territorio, e che permetta quindi di rientrare competitivamente nelle catene del valore globali. Tra gli altri, all’evento hanno presenziato Enrico Letta (allora segretario del PD), Andrea Orlando (allora ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel governo guidato da Mario Draghi), Cesare Fumagalli (ex segretario generale di Confartigianato imprese) e Anna Ascani (allora sottosegretaria di Stato al Ministero dello Sviluppo economico).
Un secondo evento sicuramente di rilievo nell’andare a tracciare i legami tra la rettrice e pezzi di Partito Democratico è la convention del 22 luglio 2023 di Energia Popolare, corrente/area di Stefano Bonaccini – ex presidente della regione Emilia-Romagna, ora mandato a curare gli interessi della borghesia locale a Bruxelles come eurodeputato – interna al partito. In tale circostanza Cucchiara ha tenuto il proprio intervento su un piano di analisi di più alto livello, andando a rispondere alla domanda “Perché la politica si deve occupare di AI?” Ha sottolineato quindi come l’AI rappresenti di per sé un “fatto politico”, facendo riferimento al documento “AI for Europe”, votato e firmato il 25 aprile 2018 dagli Stati membri della Comunità europea, che sancisce l’importanza che l’intelligenza artificiale riveste in relazione alle scelte politiche dei nostri paesi. La rettrice riprendeva il documento in questione specificando in particolare come la rivoluzione tecnologica dell’AI dovesse coniugarsi con i “nostri” valori “etici”, di “democrazia”, di “diritti umani”, di “privacy” e ci capacità di gestire i dati personali.
Queste affermazioni in particolare, tolta l’ipocrita retorica progressista ormi ristagnante, generano sicuramente non pochi contrasti con la realtà concreta e pubblica di una stretta collaborazione tra UNIMORE da una parte e articolazioni di Israele e della Nato dall’altra, impegnati in prima linea nel genocidio della popolazione palestinese e nella guerra per procura contro la Russia cercata, scatenata e sostenuta dall’imperialismo delle consorterie euroatlantiche. Collaborazione attuata proprio tramite progetti e laboratori spesso diretti dalla Cucchiara, messi al lavoro, insieme allo sviluppo dell’AI, per la «fabbrica della guerra», per un sistema che produce e riproduce sfruttamento e guerra come ultima spiaggia della valorizzazione capitalistica e del dominio imperialista, schiacciando qualsiasi sedicente valore etico, democrazia, diritto e privacy a seconda dell’interesse e del profitto del momento.
Crediamo sia importante considerare questi eventi e collaborazioni non come un posizionamento strettamente ideologico da parte di Cucchiara, ma come segnali di un legame continuativo e strategico tra la rettrice e le forze politiche che sul territorio modenese ed emiliano rivestono un ruolo decisionale di primo piano nell’ottica di una sempre crescente integrazione tra università, sistema d’impresa dipendente da una ricerca pubblica “messa a profitto” e accodata al trend del dual use civile-militare, e ristrutturazione industriale del territorio in funzione dello sviluppo bellico.
5. Capitalismo in Stato di guerra
Ciò che va osservato nell’apparentemente contraddittorio, passaggio continuo della rettrice dalla destra alla sinistra è la necessità del suo ruolo di stabilire un legame con le forze politiche che si candidano a gestire il potere ai diversi livelli della società e che vedono nell’intelligenza artificiale un elemento strategico.
Come la Cucchiara stessa scrive su «Gnosis» (rivista ufficiale dell’AISI, Agenzia informazioni e sicurezza interna, ossia l’erede del SISDE), parlando del laboratorio AIIS da lei diretto, «nato sotto l’egida del Dipartimento delle informazione per la sicurezza», l’obiettivo dichiarato è di «rafforzare la crescente cooperazione tra ricerca e industria e tra ricerca e istituzioni».
Politico ed Economico trovano punto di mediazione, raccordo e sintesi nello Stato, che attraverso le sue articolazioni li organizza a sistema. In Emilia possiamo vedere, attraverso il punto di osservazione del laboratorio università e dell’indirizzo rappresentato dalla rettrice Cucchiara, la messa a sistema delle esigenze capitalistiche di rilancio di un’accumulazione locale in affaticamento o che rischia di perdere l’aggancio agli anelli alti delle catene globali del valore con il quadro politico dell’avvicinamento e quindi della preparazione a uno scenario di guerra che vede già impegnato lo Stato nella mobilitazione delle sue risorse (obiettivo del 5% del Pil alla Difesa a scapito della spesa sociale, legislazione repressiva del dissenso e della conflittualità interna con il DDL sicurezza, militarizzazione delle decisioni e dei territori in prossimità di strutture energetiche, logistiche, produttive e militari sensibili come il futuro impianto di accumulo energetico di San Damaso, progetti di formazione e propaganda militare nelle scuole, ipotesi di ripristino della leva, eccetera).
Nel nostro territorio, uno degli apici dello sviluppo industriale italiano insieme a Lombardia e Veneto, infatti, la scienza prodotta dalla mano pubblica attraverso l’università, la ricerca, la formazione e il lavoro di ricercatori, serve per essere infusa nella produzione di merci delle imprese – sopperendo una quota di investimenti in ricerca e sviluppo aziendali tra le più basse d’Europa, in particolare nelle medio-piccole imprese che si concentrano nel tessuto industriale emiliano – le quali nell’accesso a programmi di sviluppo tecnologico e mercati ad alto valore aggiunto possono trovare la porta d’ingresso ai piani più alti e redditizi delle catene del valore, quelle filiere in cui spesso hanno maggior peso gli asset immateriali (design, marketing, brevetti, datasets, ecc.).
E quale settore più redditizio, in tempi di guerra imperialista, che l’industria militare, con cui la guerra viene materialmente preparata? Con tutto il corollario di merci, produzioni, subforniture visto come volano per trainare fuori dai guai un capitalismo in crisi di valorizzazione.
6. Dal laboratorio alla fabbrica della guerra: il pivot militare
A fianco del laboratorio università, spetta dunque alle amministrazioni politiche cittadine e regionali plasmate e occupate dal PD – utilizzando anche “cinghie di trasmissione” come la Cgil, la cooperazione, l’associazionismo progressista tipico della società civile emiliana – il ruolo di governare e armonizzare lo sviluppo di questa fabbrica sociale che è il nostro territorio in «fabbrica della guerra», coordinando, mediando, i processi decisionali, attirando flussi di capitale, indirizzando saperi “spendibili”, oltre che organizzando il territorio e la sua forza-lavoro a essere “più competitivi”, “più specializzati”, “più pacificati” rispetto ad altri, e gestire le inevitabili ricadute negative sulla composizione sociale di cui facciamo parte e sull’ecosistema già martoriato e nocivo in cui viviamo.
Non è strana, dunque, la timidezza delle burocrazie e delle strutture dei sindacati concertativi “di Stato” (Cgil-Cisl-Uil) verso i processi di rinconversione in senso militare dell’industria emiliano-modenese, o l’inconsapevolezza di questi processi da parte degli stessi delegati sindacali dentro le fabbriche: il complesso militare-industriale porta commesse, quindi lavoro, spesso anche specializzato, quindi magari a più alto salario in un frangente di scarsa disponibilità di manodopera qualificata o giovanile disposta a introiettare tempi della fabbrica e “status” operaio. E lavoro, per i sindacati, vuol dire rappresentanza, e quindi coinvolgimento in tavoli istituzionali, tavoli di trattativa, tavoli per stilare accordi. Tavoli per controllare la forza-lavoro e dare un senso alla propria esistenza nel suo rapporto con le parti Confindustria e Stato.
Il “modello Emilia” è stato un modello di sviluppo peculiare che, dal dopoguerra agli anni Ottanta, ha proiettato il sistema economico della regione dal sottosviluppo agricolo a punte d’avanguardia dell’industria internazionale. E ricordiamo che le basi di questo sviluppo industriale, a Modena, sono state posto da acciaierie e fabbriche messe al lavoro per la produzione bellica fin dal primo Novecento. Oggi, dopo il passaggio di crisi del 2008 e dentro le temperie prima pandemiche e poi belliche che dal 2020-2022 stanno ridefinendo il sistema della globalizzazione, anche l’Emilia è investita da un processo di riconfigurazione dagli esiti non scontati, e insieme ad essa Modena. A partire dalla crisi dell’industria tedesca, in particolare l’automotive, a cui pezzi non secondari di industria modenese ed emiliana sono strettamente legati da rapporti di subfornitura. E dalle necessità geopolitiche dell’egemone americano di reshoring e friendshoring, ovvero di ricostituzione interna al campo NATO – o di paesi “fedeli” e “sicuri” selezionati in esso, tra cui l’Italia sembra ambire la posizione – di una base industriale, di catene della produzione, in particolare nel settore militare, che la fase superata di globalizzazione ascendente (1989-2008) ha disperso e allungato in giro per il mondo. Un mondo, oggi, non più pacificato sotto l’indiscutibile dominio degli Stati Uniti e del suo prolungamento Occidente, ma che a Washington sono determinati a far rimanere tale. Preparandosi alla guerra.
In tale contesto l’opportunità, che si fa urgenza, di ammodernare i settori, le filiere e le lavorazioni di punta utilizzando il pivot militare, con buona pace di quello stuolo di imprese (ancora troppo piccole o arretrate, obsolescenti di managing, con forza lavoro dequalificata e scarsamente presenti nei mercati internazionali) che non avrà capacità, canali e capitali per stare al passo se non un’ulteriore dequalificazione, sfruttamento e comando sul lavoro.
Di qui il peso specifico che acquisisce sempre di più, dentro l’istituzione Unimore, il dipartimento di Ingegneria, e l’importanza sistemica di figure di raccordo come la rettrice Cucchiara, con la sua rete di contatti internazionali “dual use” (civili e militari) nei settori strategici più avanzati di sviluppo tecnologico e a più alto valore aggiunto, tra cui figurano colossi dei semiconduttori e dell’Intelligenza artificiale di calibro geopolitico come NVIDIA.
7. Intelligenza artificiale: dalla Motor alla Silicon valley emiliana?
Dal punto di vista capitalistico, solo se si riconfigura integrando vocazione manifatturiera e ricerca tecnologica, produzione e brevetti, utilizzando l’occasione del pivot del militare, l’Emilia può continuare a garantire alla sua imprenditoria di restare a galla in un Italia e in un’Europa strette nella morsa della crisi globale. Ancor meglio se una singola lavorazione o un singolo brevetto può prestarsi contemporaneamente a più settori: ecco il senso del valore strategico del dual use, ossia della capacità di un prodotto di venire utilizzato sia per il mercato civile che per quello militare.
Non sorprenderà dunque che la rettrice Cucchiara sia nel CDA di ART-ER, il consorzio della Regione finalizzato a rafforzare la proiezione internazionale e la produttività delle imprese e della ricerca locali e nel gruppo di lavoro del Programma Strategico per l’Intelligenza Artificiale 2022-2024. Si noti che a entrambi è da ricondurre la “Data valley” di Bologna, ossia un reticolato di imprese e servizi legati all’elaborazione di dati orbitante intorno al supercomputer Leonardo di Cineca: un progetto dal costo stimato di 240 milioni di euro, che fornisce l’infrastruttura materiale anche per le sperimentazioni sviluppate a Modena.
Peter Thiel, fondatore di Palantir, tecno-oligarca della Silicon Valley e ideologo neoreazionario dell’amministrazione Trump, spiega che, come molti altri investitori di alto profilo, ha deciso di scommettere sull’AI perché senza di essa non resta nient’altro: nessun segno di progresso, nessuna immagine del futuro. Nessun nuovo ciclo di sviluppo in grado di superare la grande stagnazione. Nelle sue parole è palpabile una certa disperazione capitalistica.
Per il capitalismo in crisi l’Intelligenza Artificiale è considerato come elemento decisivo, ultima spiaggia attraverso cui far valorizzare flussi di capitali altrimenti in marcescenza: sia nella ristrutturazione della base produttiva nazionalee nel suo riorientamento verso l’estrazione di plusvalore; sia per la cattura di capitali internazionalizzati da mettere a valorizzazione attraverso investimenti; sia nella riconfigurazione della divisione internazionale del lavoro, in cui la competizione tecnologicatra Stati Uniti (e Occidente) e quella dei suoi avversari (su tutti, la Cina) diventa immediatamente una forma di scontro geopolitico esistenziale.
8. Alcune piste aperte di ricerca politica
Grande crisi significa grande guerra nella storia del capitalismo contemporaneo. Oggi, di fronte a tutti, sembra stagliarsi questo passaggio d’epoca. Non sappiamo quanto grande crisi sociale comporterà, se sarà possibile dopo di esso un ritorno di grande ciclo di sviluppo, e se questo passaggio sarà segnato dal ritorno in grande di lotta di classe e lotta politica. Per quanto ci riguarda, il «che fare?» riguarda come starci dentro a questo passaggio. Dentro al nostro tempo, ma contro di esso. Non si tratta di negare quello che è. Si tratta di anticiparlo e, passateci un’immagine, surfarlo. Prenderne atto senza lasciarsi subordinare dalla sua logica. Rovesciandolo nell’occasione che rimette in discussione, ancora prima che il sistema di produzione e il rapporto di potere, il nostro modo di osservare e agire nella complessità del mondo con punto di vista di parte, a partire dai territori e dalle contraddizioni dove siamo socialmente collocati. Alla ricerca di una forza collettiva possibile in grado di farne una scadenza e un passaggio in avanti, di ricomposizione e organizzazione di momenti di attacco e di rottura, di costruzione autonoma di nuove prospettive di fuoriuscita da questa «fabbrica della guerra» che è il modo di produzione capitalistico, la sua forma di vita e il suo modello di società, a partire dai sui «laboratori» più avanzati, come appunto l’università.
Considerate dunque le trasformazioni, dentro e fuori i muri dell’università, in cui il nuovo rettorato dell’Unimore si inserisce e di cui è espressione, si aprono piste di ricerca del conflitto su cui continuare l’inchiesta, dentro il «laboratorio della guerra», reparto baricentrale della «fabbrica della guerra» del nostro territorio. Qui, in conclusione, ne elenchiamo alcune, da ampliare e mettere a verifica nel proseguimento dell’inchiesta.
Composizione studentesca e forza-lavoro dentro l’università.
Quale ruolo e consapevolezza, dentro le trasformazioni dell’università, hanno studenti e lavoratori, in particolare ricercatori, assegnisti di ricerca, dottorandi più o meno precari, coinvolti e messi al lavoro per il «laboratorio della guerra»? Come cambiano la fruizione dell’università e le aspettative studentesche verso di essa in relazione alla «fabbrica della guerra», alla propria formazione in funzione del «dual use», ai percorsi lavorativi interni o coinvolti nel complesso militare-industriale? I lavoratori verranno coinvolti più strettamente, anche grazie a miglioramenti di posizione e di condizione, o il loro lavoro ulteriormente impoverito di autonomia e sfruttato attraverso meccanismi di precarietà? Sono possibili in tale frangente comportamenti di rifiuto della propria condizione e della propria messa al lavoro per la guerra? E di che tipo, su quali basi e in quali settori?
Trasformazione della città e del territorio.
Come si trasformeranno la città di Modena (e il suo territorio allargato alla provincia) a fronte dell’importanza sempre più crescente nel sistema regionale, nazionale e internazionale della propria università in «laboratorio della guerra», di cui Ingegneria avrà sempre più un ruolo preminente? Che tipo di composizione studentesca e lavorativa attirerà, con quali aspettative, a quali condizioni abitative e di possibilità di reddito? Che tipo di infrastrutture dedicate andranno a impattare – e come – sulla popolazione studentesca e cittadina, a fronte di speculazioni edilizie di “studentati” monstre (quello sull’area delle Ex-Officine Corni in via Fanti e via Benassi nel quartiere Sacca) o di lusso, con sventramento e gentrificazione dei quartieri del centro in funzione di movida e turismo (come la trasformazione di via Carteria e zone limitrofe a S. Eufemia, praticata attraverso la cinghia di trasmissione dell’associazionismo progressista), e con quali contraddizioni? Che effettivo ruolo e funzione hanno certe opere impattanti, imposte dall’alto con la scusa della transizione energetica, come il progetto di impianto di accumulo energetico BESS di San Damaso?
Lavoro e fabbrica della guerra.
Che tipo di lavori, con che qualità e salari, si verranno a creare sul territorio trasformato in «fabbrica della guerra» attraverso la filiera del complesso militare-industriale? Che tipo di formazione scolastica e universitaria, tecnica e specialistica, necessiteranno? La piccola-media impresa riuscirà a inserirsi nel processo di riconversione, e come, o assisteremo a processi di ulteriore accentramento? Che tipo di figure operaie e/o tecniche saranno baricentrali in questa settore di produzione? E quale sarà il peso specifico degli ingegneri e tecnici formati dall’Unimore? L’espansione del complesso militare-industriale nella filiera meccanica e metalmeccanica modenese produrrà più scomposizione e frammentazione a livello di classe (salari e inquadramento alti per determinate figure insieme a maggior sfruttamento e dequalificazione per altre) come gestione della crisi o più ambivalenze da poter piegare dentro a un processo di rinnovato sviluppo? Che ruolo avranno i sindacati confederali “di Stato” (Cgil-Cisl-Uil) dentro questo processo e quali possibilità di attivazione conflittuale fuori, oltre, di essi?
Soggettività politica
In un contesto peculiare come Unimore (divisa tra le sedi di Modena e Reggio) che ha sempre faticato a esprimere momenti e spazi conflittualità, perfino dentro le facoltà umanistiche, come si trasforma la composizione studentesca e le soggettività che esprime? Come può e deve cambiare – se è possibile – la militanza politica dentro l’università trasformata in «laboratorio della guerra»? Può essere lo spazio STEM, intrecciato ai più alti processi di sviluppo e trasformazione descritti, essere ambito dove ricercare ambivalenze e potenziali soggetti conflittuali? Attraverso quali canali, linguaggi e forme organizzative? E le figure studentesche delle facoltà umanistiche come si collocano in questo contesto? Quali salti in avanti di metodo e formule organizzative sono necessari per ambire all’altezza dei processi che si vogliono aggredire, sabotare e rovesciare? È possibile pensare percorsi e processi di trasformazione dell’università di Modena da «laboratorio della guerra» a «laboratorio delle lotte»?
Dal welfare al warfare, dall’automotive al carroarmato, dall’«Inno alla gioia» di Beethoven alla «Marcia imperiale» di Dart Fener. Nel cambio di tema che fa da sfondo all’Europa, l’imperialismo colpisce ancora.
Non «guerra stellare», in una galassia lontana lontana, ma ben più prosaicamente mondiale, è lo scenario per cui gli Stati europei preparano piani.
Guerraterrestre e marittima, sul continente e nei cieli, nelle reti e nei flussi. Guerra di trincee sotto il fuoco dei droni, sabotaggi di gasdotti e infrastrutture civili, di missili sulle metropoli e operazioni terroristiche di intelligence, di eserciti nazionali e legioni di paramilitari, di attacchi cibernetici e finanziari, di sanzioni commerciali e dazi globali. Guerra di materiali, di chip, di intelligenze artificiali, di produzione e ristrutturazione industriale, di innovazione tecnologica, di disarticolazione delle filiere, di estrazione e saccheggio dei territori, delle popolazioni, delle forme di vita.
Guerra preparata da massicci piani di riconversione bellica e da strette repressive del fronte interno. Dalla crisi politica nel cuore dell’Europa alla fine della «fine della storia», dalle debolezze delle borghesie nazionali, dalla subalternità al comando di Washington e ai folli progetti di genocidio di Israele.
Guerra che già ci coinvolge da vicino, senza però un’«alleanza ribelle», anzi, rivoluzionaria, di classe in grado di sovvertirla, ad ampio respiro, in processo di rottura e fuoriuscita da questo sistema che continuamente l’ha generata e la riproduce, su scala sempre più distruttiva, catastrofica, genocidiaria.
Prepararsi all’inaspettato. Si è già detto che perfino Lenin, nel 1914, a Cracovia, quando arrivò la notizia dello scoppio della guerra, rimase sbalordito: per il tradimento dell’Internazionale, certo, ma anche per il passo decisivo nello scontro militare tra potenze, ipotizzabile, probabile, ma non del tutto prevedibile. Se anche un genio tattico come Volodja fu colto, allora, di sorpresa, chi ne vorrebbe seguire la misteriosa curva, oggi, nella desertificazione di un pensiero strategico materialmente ancorato a una soggettività di classe di là da venire, può dormire sereno.
Eppure. Eppure il corso della storia può prendere pieghe inaspettate, indipendentemente da ogni attore, da ogni azione soggettiva. Fugaci destabilizzazioni, scosse, sospensioni, dell’apparente linearità. Eventi, movimenti, rotture che rimescolano le carte. Finestre temporali che aprono spazi di manovra, di possibilità. Questi momenti non sono né buoni né cattivi; anzi, possono essere cattivi – quasi sempre lo sono – e possono essere buoni: rapporti di forza che vengono messi in discussione, rapporti di forza che possono essere sovvertiti, riconfigurati, costruiti. Sicuramente, questi momenti saranno tragici. Della tragicità che è propria della libertà, autentica e terribile.
È come arriveremo, e ci staremo dentro, a questi momenti, che farà la differenza. Se saremo riusciti ad arrivarci preparati, all’inaspettato. Se riusciremo a guardarla negli occhi, questa terribile possibilità.
Per questo, dal punto di vista militante, in tutti i suoi aspetti, pensiamo che il compito minimo che la fase pone oggi sia quello di aguzzare la vista, affinare il fiuto, stimolare la mente e allenare il cuore ad essere pronti. Costruire le condizioni per cui – nella partita che si gioca, nel minuto dell’inaspettato – essere caldi in panchina, per poter entrare in campo. E non farci trovare fuori rosa, sugli spalti, come spettatori. Come, tirando una generosa mediana, siamo oggi.
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Pubblichiamo allora la trascrizione dell’intervento di Robert Ferro, autore del podcast «Il perno originario» e del volume «Le ménage à trois de la lutte des classes», tenuto all’ultimo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», organizzato al Dopolavoro Kanalino78 da ottobre 2024 a maggio 2025 (ciclo suddiviso in due parti: Vol. I – «Modena nel conflitto globale» e Vol. II – «Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema»). Rimandiamo quindi alle introduzioni dei precedenti contributi di Mimmo Porcaro e Raffaele Sciortino, e ancora prima all’approfondimento del primo incontro sull’«industria della formazione», i motivi, gli obiettivi e le prime considerazioni “a caldo” che ci hanno accompagnato lungo questo percorso di inchiesta, analisi e discussione politica, per andare subito alle domande che ci hanno mosso in questo ultimo appuntamento.
Dove va l’Europa, e quali scenari si aprono, quando i sussulti della crisi, dalle periferie esterne, cominciano a disarticolare il cuore dell’impero, la Germania, e la «fabbrica della guerra» si fa continentale? Dove va l’Europa, quindi, nella ripolarizzazione conflittuale del mondo tra Stati Uniti e Cina? È possibile un’Europa in conflitto con gli Stati Uniti? Cosa significa per il continente, e soprattutto per l’Italia inserita nelle sue catene del valore, la destabilizzazione politica e sociale del modello tedesco? Unione Europea e moneta unica possono essere messe in discussione da Berlino o conquistare una loro “autonomia strategica” imperialistica, in concorrenza con quella americana? Che posizione occupano la Germania e l’Unione Europea nella catena imperialistica globale? Si staglia davanti a noi un processo di radicalizzazione politica del contesto europeo, insieme alla sua rinazionalizzazione?
Buona lettura.
Robert Ferro
Introduzione. Germania e Versailles, ritorno al futuro
In molti oggi avvertono che il periodo storico più recente – sommariamente, quello della globalizzazione e della sua crisi – è entrato in un frangente delicato, in cui si stanno sciogliendo incognite notevoli, con ricadute altrettanto notevoli sull’evoluzione dei rapporti di classe a qualsiasi latitudine. Il sottoscritto condivide questa impressione. In ciò che segue, si tratterà però di andare oltre le impressioni, cercando di collegarle a dinamiche di lunga durata che riguardano il nostro quadrante di riferimento, quello europeo. La domanda «dove va l’Europa?» è legata a doppio filo alla domanda «dove va la Germania?».
Per cominciare ad abbozzare una risposta, procederemo in tre tappe: in un primo momento, evidenzieremo alcune invarianti storiche del capitalismo tedesco; in un secondo momento, ci soffermeremo su alcuni passaggi della storia tedesca dall’inizio del secolo scorso ad oggi; in un terzo momento, alla luce degli sviluppi precedenti, arriveremo alle prospettive future.
Ci si potrebbe chiedere quale sia l’utilità di un simile discorso. A mio modo di vedere, è importante per coloro che si definiscono comunisti essere in grado di proiettarsi in un orizzonte temporale di medio-lungo termine con delle ipotesi forti e fondate sui macroprocessi in corso e sul loro punto di caduta.
Ovviamente, nella storia c’è una componente insopprimibile di incertezza e di contingenza, a cui non sfuggono gli attori più lucidi. Ciò non toglie, per noi, l’esigenza di cercare di anticipare gli eventi, invece che essere costantemente in loro balia o al loro rimorchio. Vista la piega che questi stanno prendendo, non si potrà sfuggire eternamente alla questione del che fare. Affrontarla in maniera quanto più ragionata possibile, significa individuare i due o tre scenari più verosimili e pianificare un intervento in vista di essi. Vi ritorneremo in sede di conclusione.
Invarianti
Per invarianti, devono qui intendersi invarianti relative, giacché nella storia nulla si ripete mai in maniera identica. Questo detto, chi ha ascoltato il podcast Il perno originario (che va preso per quello che è: un divertissement), avrà forse intuito che accordo una certa importanza alla lunga durata, e più specificamente ai fenomeni di persistenza storica, di inerzia, di tradizione. Questo, per controbilanciare una tendenza molto diffusa nel nostro ambiente, che consiste a concentrarsi unicamente sul divenire, sulle trasformazioni. Non che questa tendenza non abbia la sua legittimità; spinta fino alle sue estreme conseguenze, essa porta però a farsi una rappresentazione errata del processo storico, come fosse un perpetuo stato nascente (in altre parole: come se tutto stesse sempre ricominciando daccapo). Con buona pace dei costruttivismi filosofici divenuti di moda negli ultimi decenni, un materialismo conseguente non può abbandonare il postulato secondo cui nulla si costruisce dal nulla, e il ventaglio di ciò che può essere socialmente «costruito» (o trasformato) è limitato in varie maniere dal materiale a partire da cui si «costruisce».
Per il caso che ci occupa, questo vuol dire che ogni formazione sociale specifica – cioè ogni declinazione particolare del modo di produzione capitalistico nel tempo e nello spazio – non cade dal cielo bell’e pronta, ma si forma a partire da elementi preesistenti, tra cui (fra gli altri) un territorio e una popolazione. Ovviamente territori e popolazioni non sono immutabili, sono essi stessi plasmati da rapporti sociali pregressi e continuano a trasformarsi nel corso del tempo. Ciononostante, come già anticipato, la portata di queste trasformazioni, in particolare su temporalità ridotte, non è assoluta, e alla scala della nostra storia di specie (300 mila anni circa, allo stato attuale delle conoscenze), uno o due secoli non sono molti.
Nella storia delle nazioni europee, si distinguono sovente – a mo’ di idealtipi – il caso francese, in cui lo Stato produce la nazione, e il caso germanico, in cui la nazione produce lo Stato. Questo è il primo punto su cui vorrei attirare l’attenzione: l’esistenza di un insieme germanofono e il sentimento di appartenenza nazionale tedesca precedono di gran lunga la sua effettiva territorializzazione sotto forma statale. Nel cuore della penisola europea, nella grande pianura che si estende fino alla Russia senza incontrare ostacoli naturali significativi, lo spazio germanico costituisce un blocco etnico-linguistico denso e piuttosto compatto. Esso è situato al crocevia fra le nazioni occidentali territorializzate dall’Atlantico e dal Mediterraneo, da fiumi e da catene montuose, e l’Est del continente, un vasto spazio geograficamente aperto ed etnicamente frammentato, dove il districarsi delle nazioni non ha potuto imporsi con l’evidenza del fatto naturale.
La nazione tedesca ha dunque assunto fin dall’inizio una dimensione semicontinentale: in primo luogo ostacolando, in virtù della sua posizione, la proiezione continentale delle nazioni occidentali (Francia, Olanda, Inghilterra, eccetera); in secondo luogo, proiettandosi essa stessa su scala continentale in forma di diaspora, senza con ciò darsi confini territoriali chiaramente definiti. Mi riferisco qui alla storia della Ostsiedlung, cioè alla formazione di colonie di popolamento tedesche al di là del fiume Elba – un processo assai dilatato sia dal punto di vista temporale che spaziale, con prolungamenti che arrivano fin dentro al mondo russo nel XVIII secolo (tedeschi del Volga) e nel XIX secolo (a Bolnissi, in Georgia). Peraltro, questa spinta verso Est comporta anche dei fenomeni di retroazione, che permettono di moderare l’idea abituale secondo cui la concezione tedesca della nazione e della cittadinanza sarebbe strettamente etnicista: in realtà, nello spazio tedesco, il rinnovamento del materiale umano generazione dopo generazione è avvenuto (e continua ad avvenire) in misura non trascurabile attraverso l’assimilazione di popolazioni slave e magiare.
Questi due elementi – la preesistenza della nazione tedesca rispetto alla sua formalizzazione statale, e la sua proiezione verso Est – non sono una scoperta recente, ma si trovano già nella riflessione dei padri fondatori del socialismo scientifico su questo tema. Ad esempio, si possono trovare indicazioni in tal senso in una lettera del vecchio Engels a Franz Mehring del 14 luglio 1893[1]. Assai più giovane di Engels, Mehring ha fatto in tempo a partecipare all’esperienza della Lega di Spartaco e alla fondazione del Partito comunista tedesco. Come autore, è conosciuto principalmente per la sua biografia di Marx e per una storia in più volumi della socialdemocrazia tedesca. Meno noti sono invece i suoi lavori sulla storia sociale e culturale della Germania, tra cui La leggenda di Lessing (1892), che anticipa molti elementi del dibattito storico sul cosiddetto Sonderweg, la «via originale» tedesca. Nella lettera citata, Engels reagisce in maniera entusiastica all’opera di Mehring, offrendogli in conclusione alcuni spunti supplementari:
«Nello studiare la storia tedesca […] ho sempre trovato che il solo confronto con le corrispondenti epoche della Francia dà il giusto metro di giudizio, perché là accade l’esatto opposto che da noi. […] Là, il conquistatore inglese nel Medioevo rappresenta, nella sua intromissione a favore della nazionalità provenzale contro quella francese-settentrionale, l’ingerenza estera; le guerre con l’Inghilterra prefigurano, per così dire, la guerra dei Trent’anni, che però finisce con la cacciata dello straniero e la sottomissione del Sud al Nord [della Francia, nda]. Viene poi la lotta del potere centrale con il vassallo di Borgogna, che si appoggia a possedimenti esteri recitando la parte del Brandeburgo-Prussia; lotta che però termina definitivamente con la vittoria del potere centrale e la creazione dello Stato nazionale. Esattamente nello stesso periodo, da noi lo Stato nazionale (nei limiti in cui il “regno tedesco” entro i confini del Sacro romano impero può essere chiamato uno Stato nazionale) crolla totalmente e comincia il saccheggio su vasta scala del territorio germanico […]».
E nel paragrafo successivo:
«Particolarmente significativo per lo sviluppo tedesco è inoltre che i due frammenti di Stato che, alla fine, si sono divisi la Germania non siano, né l’uno né l’altro, Stati puramente tedeschi, ma colonie su territorio slavo conquistato: l’Austria una colonia bavarese, il Brandeburgo una colonia sassone; e che si siano creati una potenza in Germania alla sola condizione di appoggiarsi su possedimenti stranieri, non tedeschi: l’Austria sull’Ungheria (per tacere della Boemia), il Brandeburgo sulla Prussia […]».
In quale maniera questi due elementi si coniugano nella storia socio-economica della Germania moderna? Per cominciare, si può dire che in assenza di un quadro politico-territoriale stabilizzato, l’integrazione economica della nazione tedesca ha preceduto la sua integrazione politica, in particolare attraverso lo Zollverein (1834), una vasta unione doganale promossa non dagli staterelli dell’area renano-vestfaliana, ma dalla Prussia, una regione orientale che dal 1945 non fa più parte dello spazio tedesco. Tale integrazione economica era strettamente legata allo sviluppo del settore ferroviario che, per essere ammortato, doveva necessariamente proiettarsi su un mercato esteso la cui costruzione ha fatto leva su elementi oggettivi di coerenza etnico-linguistica e su un sentimento di appartenenza nazionale comune.
Questo aspetto rimanda a una questione più teorica e generale che mi limiterò solo ad accennare: in un contesto, quello capitalistico, in cui i processi produttivi più efficienti sono generalmente quelli più intensivi in capitale e meno versatili, la redditività del capitale investito è legata alla produzione in serie. Qual è la sua dimensione ottimale? Essa dipende senz’altro dalla natura concreta delle attrezzature in questione, dalla loro indivisibilità tecnica e dal loro grado di specializzazione; ma in generale, si può dire che la dimensione ottimale della produzione in serie nell’ottica di rendere redditizio il capitale investito si ingrandisce nella stessa misura in cui aumentano il progresso tecnico e la divisione del lavoro.
Il rovescio della medaglia sta nel fatto che è la dimensione del mercato potenziale a determinare, dal punto di vista capitalistico, la scelta tra diverse tecniche produttive, le più efficienti delle quali presuppongono generalmente l’accesso a un mercato più vasto rispetto a quelle meno efficienti. In questo senso, l’esistenza o meno di un vasto insieme nazionale o protonazionale su cui appoggiarsi, predetermina in una certa misura la possibilità per i vari poli capitalistici di emergere come agenti di primo piano dell’accumulazione del capitale. L’estensione crescente dei poli capitalistici egemoni, così come teorizzata da Giovanni Arrighi o da altri autori riconducibili alla World System Theory, non è estranea a questa problematica.
Novecento
In Germania, lo status di leader legittimo dell’Europa è stato rivendicato esplicitamente solo di recente dai governi in carica (si veda la Zeitenwende proclamata da Olaf Scholz). Le ragioni di questo stato di cose risalgono, a mio modo di vedere, alla prima metà del XX secolo e alla maniera terribilmente violenta e sanguinosa in cui quel periodo si è concluso.
All’inizio del XX secolo, il relativo declino dell’Impero britannico come «potenza che domina il mercato mondiale» (Marx) apre una competizione tra due poli capitalistici ritardatari, quello americano e quello tedesco, la cui rimonta è stata possibile, in entrambi i casi, solo su basi protezionistiche. In questa competizione, il grande capitale tedesco soffre di una serie di debolezze, la principale delle quali è che il suo Stato – al quale Bismarck, per evitare eccessive ritorsioni, ha dato una forma piccolo-tedesca – non domina il proprio spazio di riferimento.
Nell’ultimo decennio del XIX secolo, avviene il passaggio dal protezionismo bismarckiano al libero scambio e alla Weltpolitik (politica mondiale) della Germania guglielmina, che reclama il suo «posto al sole» fra le grandi potenze coloniali dell’epoca. Questo passaggio spinge l’Impero tedesco, preso a tenaglia dall’alleanza franco-russa, in un tentativo di presa di controllo delle vie commerciali marittime che lo pone in conflitto diretto con l’Impero inglese (donde, fra l’altro, la dimensione navale del conflitto militare, la guerra sottomarina degli U-Boot tedeschi).
Al termine del conflitto, i debiti di guerra contratti dagli anglo-francesi e ripudiati dalla Russia rivoluzionaria vengono ripercossi sulla Germania, da cui le condizioni draconiane del Trattato di Versailles, che cancella le acquisizioni territoriali degli Imperi centrali ratificate a Brest-Litovsk (1918), amputa il grande capitale tedesco di buona parte dei suoi investimenti esteri, priva la Germania delle sue colonie (principalmente africane: Camerun, Togo, Namibia, e così via) e le impone il pagamento delle riparazioni. L’ordine di Versailles orchestrato dai capitali anglosassoni e francesi ratifica inoltre l’esistenza di tre paesi, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Jugoslavia, con lo scopo di ostacolare la proiezione tedesca verso Est.
Come noto, la sconfitta militare provoca la caduta dell’Impero e una serie di lotte di classe con punte insurrezionali dal 1918 al 1923, la cui sconfitta, combinata con gli effetti devastanti della crisi del 1929, conducono all’ascesa del movimento nazionalsocialista. L’arrivo al potere di Adolf Hitler pone definitivamente fine alla politica di conciliazione con le potenze vincitrici incarnata dalla figura del ministro degli esteri socialdemocratico Gustav Stresemann, e lancia la Germania in una contestazione frontale degli assetti territoriali e geoeconomici usciti dalla Prima guerra mondiale. Fra le altre cose, questa contestazione conduce la Germania a far esplodere i tre paesi riconosciuti a Versailles (nell’ordine: Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia). Come noto, essa si concluderà in maniera catastrofica, alla fine della Seconda guerra mondiale, con una capitolazione senza condizioni implicante smilitarizzazione, smantellamento dello Stato maggiore e smembramento del Reich stesso.
Sia durante la Prima guerra mondiale che durante la Seconda, lo Stato tedesco elabora progetti a lungo termine volti all’integrazione economica, doganale e monetaria del continente europeo. In estrema sintesi, il progetto tedesco di unificazione europea è quello di un grande spazio (si veda il concetto di Großraum nell’opera di Carl Schmitt) retto dall’egemonia regionale della Germania. Nella sua variante nazionalsocialista, esso avrebbe dovuto e potuto contare, se non su un’alleanza con l’Inghilterra, quantomeno sul suo non-intervento sul teatro continentale, in linea con la politica inglese di appeasement degli anni 1930 (che, come noto, viene invece abbandonata dopo la frammentazione della Cecoslovacchia, orchestra dal Reich nel 1938). Per due volte, quindi, il tentativo della Germania di accedere allo statuto di egemone continentale viene sventato.
All’indomani della fine della guerra, gli alleati sono determinati a porre fine alla Germania sia come polo capitalistico avanzato che come Stato unitario e indipendente. Separato dall’Austria, che riacquista rapidamente la sua indipendenza, il territorio tedesco viene balcanizzato tra una Germania occidentale, a sua volta divisa in tre zone (britannica, americana e francese), e una Germania orientale, di cui una parte è sotto il controllo diretto di Mosca (la futura Repubblica democratica tedesca, RDT) e altre due – la Prussia orientale da un lato, la Pomerania unita all’Alta Slesia dall’altro – vengono annesse alla futura Polonia «popolare».
Il progetto iniziale americano, secondo le raccomandazioni del piano Morgenthau elaborato prima della fine del conflitto, è quello di ridurre la Germania sotto il controllo alleato a un paese di agricoltura e pastorizia. Una politica di riduzione delle capacità industriali tedesche viene effettivamente perseguita fino al 1947, attraverso le riparazioni di guerra. Gli impianti industriali vengono smantellati e trasferiti nei paesi occupanti. Nelle tre zone occidentali della futura Repubblica federale tedesca (RFT), non c’è libera circolazione di beni e servizi e nessuna delle tre è autosufficiente dal punto di vista alimentare. La produzione industriale è scesa al 38% rispetto ai livelli del 1936, mentre il settore agroindustriale risente fortemente della mancanza di macchinari e fertilizzanti.
Il livello di razionamento alimentare della popolazione è più draconiano di quello in vigore nella futura RDT: 1000 calorie al giorno contro 1500. Le autorità americane sul posto comprendono rapidamente quale sia il rovescio della medaglia. Il generale Clay, responsabile delle forze di occupazione americane, lo esprime in questi termini: «Tra diventare comunisti con 1500 calorie al giorno e credere nella democrazia con 1000, la scelta è presto fatta. La mia sincera opinione è che il razionamento imposto in Germania non solo porterà alla sconfitta dei nostri obiettivi nell’Europa centrale, ma aprirà la strada ad un’Europa comunista». Il passaggio della Cecoslovacchia nel frattempo ricostituita nell’orbita di Mosca nel 1947 e gli scioperi che si moltiplicano nello stesso periodo nei bacini minerari, siderurgici e automobilistici dell’Europa occidentale sembrano confermare questa diagnosi. Inoltre, un mercato così depresso nel cuore dell’Europa non è privo di conseguenze per il capitale americano, che già prima della guerra soffre di un eccesso di capacità produttive domestiche destinato a riproporsi a conflitto terminato, quando i settori economici requisiti e messi al servizio dell’economia di guerra (automobilistico, chimico, eccetera) devono adattarsi alle condizioni postbelliche.
La combinazione di questi due fattori convince le autorità americane a modificare il loro approccio. Inizia così l’epopea dell’Europa europeista, ovvero la resurrezione del grande capitale tedesco in seno all’impero europeo dell’America. La specificità di questo processo può essere riassunta nel seguente paradosso: il riemergere del capitale tedesco non era voluto, ma si è rivelato passo dopo passo il prezzo necessario e inevitabile del dominio imperiale americano sulla metà «libera» del continente.
Nella vulgata riguardante la ricostruzione postbellica, si insiste spesso sull’importanza del piano Marshall. Ma questo non sarebbe stato sufficiente per rilanciare l’economia dei paesi interessati senza l’Unione europea dei pagamenti introdotta, anch’essa sotto pressione statunitense, nel 1951. Nell’ambito del nuovo sistema monetario internazionale varato a Bretton Woods nel 1944, gli scambi internazionali tra i paesi europei devono essere effettuati in dollari. Tuttavia, alla fine degli anni Quuaranta i dollari sono scarsi in Europa, poiché la bilancia commerciale di tutti i paesi europei nei confronti degli Stati Uniti è in deficit. Questo li costringe, in sostanza, a scegliere se commerciare fra loro o con gli Stati Uniti. Il meccanismo di clearing istituito con l’Unione europea dei pagamenti risponde a questo problema.
Allo stesso modo, la ripresa economica non può avvenire senza risolvere i problemi di approvvigionamento di materie prime di base come il carbone, la cui produzione è insufficiente a soddisfare il fabbisogno delle industrie, e l’acciaio, settore che invece registra un eccesso di capacità produttiva. La Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) istituisce un’autorità sovranazionale responsabile della gestione delle capacità produttive in questi due settori. Il piano Monnet-Schuman (rispettivamente commissario al Piano e ministro degli Affari esteri francesi) per la CECA viene elaborato per risolvere in via prioritaria i problemi dell’industria francese, ma «venduto» agli americani come una soluzione che consentirebbe di evitare la ricostituzione del grande cartello europeo dell’acciaio, dominato a partire dal 1926 dal gigantesco conglomerato tedesco Stahlverein.
La CECA agisce tuttavia nel senso della costituzione di grandi gruppi nei settori di sua competenza e, soprattutto, consente di eliminare le ultime misure che impongono un limite massimo alle dimensioni delle imprese tedesche. Il cuore produttivo europeo ricomincia a battere.
Durante tutta la prima metà degli anni Cinquanta, la priorità degli imprenditori tedeschi è il ripristino di un’unione doganale che consenta loro di puntare sulle economie di scala. Essa viene ottenuta puntualmente nel 1957 con la creazione della Comunità economica europea (CEE, ovvero l’Europa dei sei: RFT, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo). Questa, però, si rivela ben presto troppo ristretta per contenere la rapida crescita del grande capitale tedesco, donde gli allargamenti che avranno luogo in seguito[2]. Allo stesso tempo, lo spazio economico integrato così costituito si rivela una formidabile valvola di sfogo per i capitali americani, che trovano in quest’area non solo un mercato di sbocco, ma sempre più (e in particolare dall’inizio degli anni Sessanta in poi) una zona privilegiata di investimento, attraverso l’apertura di filiali europee di multinazionali americane, volta non di rado ad aggirare i dazi doganali della CEE. Queste filiali dispongono di fonti di finanziamento proprie rispetto a quelle dei capitali tedeschi, francesi, olandesi, italiani, eccetera (si veda il mercato dell’eurodollaro).
L’Europa europeista è dunque il risultato di due imperativi opposti: quello dei grandi capitali americani, che mirano ad assicurarsi una vasta zona riservata all’esportazione di merci e capitali, e quello dei capitali tedeschi, che mirano a ritrovare la dimensione critica che consenta loro di inserirsi efficacemente in un contesto di competizione oligopolistica vieppiù internazionalizzata.
Questi due imperativi si sono combinati in modo più o meno virtuoso, con alti e bassi, per diversi decenni. Tutto questo è avvenuto nel quadro dell’impero europeo dell’America che, pur ammettendo la crescita e lo sviluppo del capitale tedesco, imponeva forti vincoli alla sovranità della Germania (anche riunificata), secondo il motto della NATO: «Tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto». Il medesimo dualismo si è poi tradotto anche all’interno delle alte istanze dell’UE – Corte di giustizia, Commissione, Consiglio, Banca centrale, Parlamento – che, lungi dall’avere un orientamento univoco, fanno prevalere, a seconda delle loro prerogative e del loro funzionamento, il punto di vista tedesco o quello americano (anche travestendolo da espressione dei paesi europei periferici, se necessario), cosicché l’istituzione nel suo insieme si configura come un organo di mediazione fra l’uno e l’altro, in un quadro generale che escluda il ristabilirsi di una piena sovranità tedesca («i tedeschi sotto»)[3].
Riassumendo: dopo la guerra e la capitolazione senza condizioni del Reich, dopo la sua balcanizzazione tra il 1945 e il 1949, dopo la ricostituzione di due Germanie su una base più limitata all’interno di un’Europa divisa dalla cortina di ferro, la ricostruzione economica della sua parte occidentale finisce per riportare, nel giro di qualche decennio, la Germania federale nel girone dei grandi paesi industrializzati. Restano però numerosi fattori caratteristici del mondo bipolare che rendono ancora prematura la questione dell’egemonia continentale, potenziale o effettiva.
Verso la fine degli anni Sessanta, il polo capitalistico tedesco nuovamente in rimonta (come quello giapponese, del resto) ha ricominciato a farsi esportatore di capitali, ma questa tendenza risulta ancora assai frenata dai meccanismi di controllo sui movimenti di capitale allora vigenti. Inoltre, la divisione dell’Europa dettata dalla cortina di ferro sottrae tutta la parte orientale del continente europeo alla penetrazione tedesco-occidentale di merci e capitali (per quanto evidentemente degli scambi esistano: inaugurazione dell’oleodotto Druzba nel 1963, Ostpolitik 1969-1974, scambi commerciali RFT-RDT, eccetera).
Questo fatto costringe il grande capitale tedesco a limitare per lo più la sua espansione commerciale in direzione dell’Europa atlantica e mediterranea, allargando la CEE prima alla Gran Bretagna, all’Irlanda e alla Danimarca (1973), poi alle ex dittature militari periferiche: Grecia (che aderisce alla CEE nel 1981), Spagna e Portogallo (che vi aderiscono nel 1986). Nei decenni Settanta e Ottanta, la dimensione mercantilistica, cioè legata all’esportazione di merci, prevale ancora fortemente sulla dimensione imperialistica, legata all’esportazione di capitali – fatto confermato in controluce dai tentativi di integrazione monetaria «morbida» del Serpente monetario (1972-1978), e del Sistema monetario europeo (SME, 1979-1993), elaborati in risposta alla fluttuazione monetaria del dopo-Bretton Woods, principalmente nell’ottica di evitare le svalutazioni competitive degli altri paesi membri del Mercato comune.
È alla metà degli anni Ottanta – e in particolare con gli accordi del Plaza (1985) che impongono alla Germania una rivalutazione del marco sul dollaro – che lo scenario inizia a cambiare abbastanza rapidamente, sciogliendo via via i nodi prima elencati. Nel 1986, l’Atto unico europeo, con l’introduzione della libera circolazione dei capitali nella CEE (fortemente voluta dalla Germania) può essere considerato come lo spartiacque che segna l’effettivo ritorno sulla scena storica di un imperialismo tedesco in senso stretto, ovvero come fonte di massicce esportazioni di capitale.
Questo non significa che la Germania sia in assoluto l’unico imperialismo europeo rimasto sulla scena: semplicemente, la sua portata e il suo potenziale sul piano economico sono incomparabilmente più grandi rispetto a quelli di paesi come la Francia, la Gran Bretagna o l’Italia – come il seguito degli eventi tende a mostrare.
Nel 1990 la Germania occidentale effettua l’Anschluss della RDT, avviando con ciò la brusca ristrutturazione dell’economia tedesco-orientale, anche a prezzo di mandare in frantumi il SME (tre anni più tardi). Nel 1991 l’URSS si dissolve, aprendo la strada alla rapida frammentazione del blocco dell’Est. Allo stesso tempo, ha inizio il lungo decennio delle guerre jugoslave, innescate dal riconoscimento unilaterale dell’indipendenza slovena e croata da parte della Germania. A questi eventi epocali segue, nel 1992, il «divorzio di velluto», cioè la separazione amichevole della Repubblica Ceca e della Slovacchia, divenuti così degli staterelli da 10 e 6 milioni di abitanti rispettivamente, che in seguito saranno interessati da un intenso movimento di investimenti tedeschi. Da allora, un vasto spazio politicamente frammentato, composto da piccoli Stati con poca autonomia sia economica che politica, viene coinvolto dalla dinamica del capitale tedesco, che ne fa un territorio economicamente integrato.
Infine, questa fase segna anche il ritorno a una politica estera interventista, caratterizzata dall’invio della Bundeswehr per la prima volta dal 1945 fuori dai confini nazionali, nell’ambito dell’intervento della NATO in Kosovo (1999). Gli anni Novanta segnano dunque una svolta diplomatica, in quanto la Germania mette in discussione in modo volontaristico l’architettura europea ereditata da Versailles. Ma segna anche una svolta economica, in quanto l’Europa orientale è uno spazio già industrializzato, con una forza lavoro qualificata, e una vocazione industriale che viene messa al servizio degli investimenti tedeschi. In tutti i paesi della zona, i conglomerati tedeschi realizzano tra il 25 e il 40% dei loro investimenti, dando vita a un vasto blocco economico organizzato, sinergico, funzionale e compatto.
La «nuova Europa» si organizza ormai attorno al cuore industriale tedesco e al suo hinterland continentale, uno spazio economicamente vivace che contrasta in maniera crescente con la stagnazione dell’Europa atlantica e mediterranea.
Tuttavia, per ragioni legate sia alle ipoteche che continuano a pesare sulla sovranità politica dello Stato tedesco, sia ai meccanismi interni di legittimazione politica, sia alla volontà di preservare rapporti di buon vicinato con i paesi occupati durante la guerra, nei successivi anni Duemila nessun leader politico tedesco osa ancora alludere all’egemonia continentale tedesca come un obiettivo auspicabile. In questo frangente, l’esistenza di un interesse nazionale tedesco (che come qualsiasi «interesse nazionale» non è un dato, ma un prodotto di mediazioni e arbitraggi) è politicamente inammissibile, e «l’Europa» diviene il nome ufficiale di questi interessi man mano che la CEE, ora divenuta UE, prende forma e slancio[4].
Pur sfruttando a proprio vantaggio le faglie aperte dalla fine del mondo bipolare, la Germania mantiene dunque un profilo basso, preoccupandosi piuttosto di dotare l’UE di un complesso di regole (Maastricht 1992, Amsterdam 1997, e così via) che consentano una sorta di «governo tecnico» sui paesi membri, surrogato di un’autentica egemonia politica. Alla fine degli anni 1990, l’introduzione della moneta unica completa l’edificio, con l’illusione (soprattutto francese) che essa equivalga alla messa in comune del marco tedesco e, di conseguenza, all’impossibilità definitiva di qualsiasi egemonia o autonomia tedesca. La Germania, dal canto suo, lascia fare e trova persino una certa utilità alle velleità di grandezza del galletto francese, che si sogna capofila politico dell’UE.
Sonderweg del terzo millennio
La prima metà degli anni Duemila è una fase di rallentamento economico, in cui la Germania, come sovente nel corso della sua storia, viene considerata come un paese destinato al declino. Sulla stampa economica internazionale vi si fa riferimento come «il malato d’Europa». È questo il periodo delle dolorose riforme del mercato del lavoro del governo Schröder, che rivedono al ribasso il compromesso sociale (mantenimento dell’occupazione in cambio di maggiori margini di compressione salariale), nell’ottica di rilanciare la competitività industriale in loco. Cosicché, sotto la guida di Angela Merkel (2005-2021), la Germania consolida ampiamente il suo statuto di potenza economica. Diversamente da quanto accade altrove, lo spartiacque della grande crisi del 2008 gioca piuttosto a suo favore.
Non ripercorrerò qui nel dettaglio la storia della crisi dei debiti sovrani in Europa e degli anni successivi. A questo proposito, si può dire che in una prima fase (2008-2015) la Germania si è vista costretta a più riprese a uscire allo scoperto per far valere gli interessi specifici dei suoi settori capitalistici dominanti, in condizioni in cui non era più possibile presentarli come interessi generalmente europei (difesa dell’euro forte tra il 2008 e il 2012, disciplinamento della Grecia, accoglienza dei rifugiati siriani nel 2015 e crisi migratoria associata, eccetera).
Il binomio franco-tedesco, che fino ad allora aveva contribuito a contenere la dinamica tedesca, si spacca sulla gestione della crisi greca: malgrado l’appoggio degli Stati Uniti, la Francia, sostenitrice di una politica più flessibile atta a preservare gli interessi del proprio capitale bancario, ne esce provvisoriamente sconfitta. La Germania, dal canto suo, afferma il suo controllo sugli affari interni dei membri dell’eurozona (in Italia, ad esempio, spinge alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi), mantiene una politica della moneta forte e avvia un nuova fase di accumulazione che inizia a basarsi maggiormente sulle esportazioni, prima di merci e poi di capitali, verso i paesi BRICS – Cina in primis.
In una seconda fase, grossomodo dal 2015 in avanti, essa si trova però a fare i conti con lo scontento che questa politica suscita sia nel contesto europeo che internazionalmente (soprattutto negli Stati Uniti), e deve nuovamente fare un passo indietro. La Germania accetta così di essere messa in minoranza in seno alla direzione della BCE sulla questione della politica monetaria dell’eurozona (il bazooka di Mario Draghi, annunciato nel 2012 e attivato nel 2015) e ancora nel 2020, durante la crisi del Covid, con la ripresa del quantitative easing da parte della BCE, associato a un massiccio piano di aiuti (Next Generation EU) concesso dall’UE sotto la minaccia più o meno esplicita di un Italexit.
Questo approccio riluttante rispetto al ruolo di egemone politico in Europa raggiunge a mio avviso i suoi limiti con la guerra in Ucraina. Presa nel fuoco incrociato del ricatto morale a sostegno dell’Ucraina, della messa sotto accusa delle sue interdipendenze economiche con la Russia, dell’attacco alle sue infrastrutture energetiche (Nord Stream I e II), delle spinte recessive che da allora gravano sul suo tessuto economico interno e su quello del suo hinterland, la Germania deve finalmente decidere a quale gioco vuole giocare. Il momento delle scelte difficili si avvicina.
In parallelo, assistiamo nell’ultimo decennio a un tentativo di autonomizzazione da parte delle alte istanze dell’UE, e in particolare della Commissione europea. A partire dalla Brexit, che giunge a compimento nel 2020, questo tentativo diviene una vera e propria fuga in avanti. Esso si è tradotto in un impiego sempre più incostante e discrezionale del famoso principio di sussidiarietà, applicato in modo ascendente o discendente a seconda delle circostanze, dei compromessi o degli intrighi politici: ascendente quando l’UE, i suoi rappresentanti e i suoi portavoce si attribuiscono funzioni che in linea di principio non sono le loro (come nel caso del dossier ucraino, con l’improvvisa apparizione di una «diplomazia europea» condotta dal duo Von der Leyen-Breton); discendente quando l’UE lascia che i paesi membri se la cavino come possono con questioni che sarebbero di sua competenza, ma che vengono nascoste sotto il tappeto finché che non divengono altamente esplosive.
In sintesi, tutto ciò genera un quadro di difficile lettura, delegittimato e inefficiente (anche quando sono in gioco somme ingenti: si veda il Next Generation EU e i suoi esiti), tanto più che numerosi paesi, nonostante la profusione di annunci roboanti da parte della Commissione, conoscono una stagnazione economica di cui per ora non si vede la via d’uscita. Inoltre, i nazionalismi prosperano ormai anche all’interno delle istituzioni rappresentative dell’UE (in particolare nel Parlamento europeo), per quanto il loro ruolo sia notoriamente ridotto. Quest’ultimo punto, a mio avviso, è indice di una tendenza a lungo termine che sta modificando l’arena europea in base ad accordi e iniziative intergovernative, nonostante gli sforzi in senso contrario della casta politica «europea» situata in cima alla piramide.
Abbiamo dunque a che fare con due tendenze contraddittorie: da un lato, le spinte della Commissione che, attraverso una politica del fatto compiuto, cerca di mantenere per sé l’iniziativa e di serrare i ranghi; dall’altro, la tendenza ad un’Europa delle nazioni, un’Europa a geometria variabile o un’Europa à la carte, destinata a sfuggire in maniera crescente al controllo della Commissione (si veda ad esempio i vertici di «volenterosi» sulla questione ucraina, prima a 15 e più recentemente a quattro, che hanno coinvolto anche la Gran Bretagna post-Brexit).
La guerra in Ucraina ha reso possibile un ultimo tentativo di centralizzazione sovranazionale da parte dell’UE, soluzione alternativa a quella di un grande spazio esplicitamente dominato dalla Germania. Tuttavia, questo tentativo, incarnato dal protagonismo politico e mediatico di Von der Leyen, è fallito. Tutto l’attivismo di Ursula e dei suoi soldatini per fare della Russia il nemico assoluto, silenziare le voci discordanti e promuovere regime change nei paesi membri recalcitranti, spingere a una rapida adesione dell’Ucraina all’UE nonostante la lista già corposa di paesi candidati, e così via, tutto ciò non è bastato a cambiare l’esito dello scontro militare sul territorio ucraino. La nuova amministrazione americana rincara la dose rompendo ufficialmente con la «diplomazia dei valori» che si supponeva condivisa dall’UE e dagli Stati Uniti, e avviando colloqui per la cessazione del conflitto in Ucraina senza includere rappresentanze dell’UE al tavolo dei negoziati.
Il centralismo di Von der Leyen appare sostenibile solo nel quadro di una prosecuzione dello scontro transatlantico con la Russia, riacceso e pilotato a distanza dagli Stati Uniti. Solo nel quadro di un’alleanza transatlantica stretta, l’Unione europea può tenere assieme i suoi diversi membri[5]. A meno che l’attuale orientamento americano non subisca ulteriori inversioni, questo scenario non è il più probabile, anche malgrado le attuali iniziative europee volte a rilanciare la spesa militare in Europa in maniera coordinata dall’UE (vi ritornerò in sede di conclusione).
A trent’anni dalla svolta del 1989-1991, dell’ordine mitteleuropeo di Versailles rimane in piedi solo la Polonia. Naturalmente, dal punto di vista economico essa è strettamente annodata al complesso produttivo tedesco: nel 2021, l’interscambio tra Germania e Polonia ha superato quello tra Germania e Italia, la quale resta un importante polo industriale in Europa, forte di una popolazione 60 milioni di abitanti (per quanto in rapido invecchiamento). Tuttavia, la fissazione del confine tedesco sulla linea Oder-Neisse, stabilita a Potsdam nel 1945 e che ha amputato le due Germanie post-belliche della Prussia – confine il cui riconoscimento tardivo è stato imposto dagli Alleati in cambio della riunificazione – lascia in realtà aperta la possibilità di una disputa territoriale tra i due paesi.
La Polonia è un paese di quasi 40 milioni di abitanti, uniti da una forte coscienza nazionale. Essa possiede quindi i due elementi necessari per mettere i bastoni fra le ruote ad un’egemonia politica tedesca esplicitamente affermata: la dimensione critica del suo mercato interno, che le consente di rivendicare una certa autonomia economica sostenendo lo sviluppo di un’industria propriamente nazionale, quantomeno in determinati settori, e quel sentimento nazionale che sostiene la sua capacità di affermare la propria indipendenza nei confronti dell’ingombrante vicino. Dalla disgregazione del blocco dell’Est in poi, la Polonia è riuscita a cavalcare lo sviluppo economico tedesco. In Europa, essa appare come l’unico paese in grado di far fallire un nuovo eventuale tentativo tedesco di instaurare il suo Großraum – fatto che non sfugge agli anglo-americani, i quali vedono in essa il principale vettore dell’atlantismo, e ne hanno fatto il loro avamposto geopolitico sul continente.
Tutto ciò ha implicazioni importanti allorché si consideri l’imperialismo non solo come il dominio di un determinato paese o gruppo di paesi, ma come un processo dinamico di esportazione di una dinamica di sviluppo economico. Giacché, diversamente dal mercantilismo, basato sull’esportazione di merci, l’imperialismo, esportando capitali, esporta necessariamente una dinamica di sviluppo.
Laddove una simile dinamica giunge a coinvolgere un paese abbastanza grande e coeso, sia dal punto di vista quantitativo (dimensioni del mercato interno) che qualitativo (senso di appartenenza nazionale, necessario a disciplinare la sua classe capitalista), l’imperialismo crea esso stesso gli elementi della propria sovversione. Il rapporto fra Stati Uniti e Cina è un caso esemplare, ma quello tra Germania e Polonia potrebbe costituire un esempio analogo di questo tipo di evoluzione su una scala più ridotta. La contestazione della posizione egemonica, che mette in discussione la supremazia del paese dominante, può quindi portare quest’ultimo a sostituire i mezzi economici con metodi e strumenti politico-militari.
È evidente come per la Germania vi sia ancora un grande divario tra la prestanza economica del suo grande capitale, e la capacità di tradurre quest’ultima in potere politico e militare nell’arena internazionale. Come già accennato, un simile divario non risulta esclusivamente da un’imposizione esterna (americana), nella misura in cui questa è stata interiorizzata per decenni dalle burocrazie di Stato, dal sistema dei partiti e dalla mentalità di ampi strati della popolazione.
Gli esiti della Seconda guerra mondiale hanno prodotto una cultura politica molto consensuale, che la caduta del Muro ha reso ancor più conformista. Il grande padronato tedesco ha imparato a farsi discreto, e i partiti di governo si sono abituati a un linguaggio privo di contenuto. «La fine della storia è stata fino a poco tempo fa una realtà per la Germania»[6]. Per lo stesso motivo, però, gli annunci di cambiamenti radicali da parte del ceto politico moderato non devono essere sottovalutati. I segni di accelerazione storica si stanno moltiplicando ovunque e – dalla Zeitenwende alle prospettive di riarmo, passando per la soppressione del freno all’indebitamento – la Germania non fa eccezione.
In definitiva, la visione qui proposta si distanzia dalle analisi del capitalismo tedesco in termini di neomercantilismo – tra le quali la più convincente è senz’altro quella di Joseph Halevi[7]. Ciò non significa che la dimensione mercantilistica (export oriented, direbbero gli economisti) sia necessariamente marginale. Ma bisogna distinguere, da un lato, la natura dei rapporti economici che il grande capitale tedesco ha intrattenuto con i paesi della CEE prima, dell’UE/eurozona poi e, dall’altro, la natura dei rapporti con le aree economiche situate all’esterno di questo perimetro.
La distinzione fra i due piani suggerisce il succedersi di tre diverse fasi: una prima fase, propriamente mercantilista (1949-1985), nel corso della quale la preoccupazione centrale del grande capitale della RFT è stata quella di ricostruire attorno a sé un’area di mercato sufficientemente estesa da poter assorbire le economie di scala che esso intendeva applicare internamente; una seconda fase (1986-2008) nel corso della quale il grande capitale tedesco si è dispiegato al di fuori della RFT, poi della Germania riunificata, allargando ulteriormente la sua area di mercato privilegiata, ma soprattutto trasformando una parte di essa in una zona di investimento in cui approfondire la divisione del lavoro, strutturando catene del valore complesse; una terza fase (2008-2022), nel corso della quale gli incrementi di produttività preparati dalla fase precedente hanno permesso una più forte penetrazione dei mercati extraeuropei, trasformando inoltre alcuni di questi – in particolare quello americano e quello cinese – in zone di investimento diretto all’estero.
È ancora troppo presto per definire in maniera soddisfacente la nuova fase, ma quel che si può dire fin da ora è che la sua evoluzione sarà fortemente segnata dalla grande scommessa americana volta a riequilibrare in maniera ricattatoria ed extraeconomica i grandi squilibri globali (global imbalances) intercorrenti tra gli Stati Uniti e i paesi che detengono i maggiori surplus commerciali nei loro confronti. Nel caso della Germania, questa scommessa implica di attirare più investimenti diretti tedeschi verso gli Stati Uniti, sia provocando un’ondata di delocalizzazioni nel contesto domestico, sia dirottando gli investimenti esteri tedeschi già in essere altrove (Cina).
Dalla fine degli anni Novanta fino in tempi recenti, l’euro ha formalizzato in maniera relativamente adeguata la combinazione di mercantilismo e imperialismo del capitale tedesco sui due piani summenzionati, ovvero in seno alla propria zona monetaria e al di fuori: un’isola di cambi fissi in un oceano di cambi fluttuanti; una valuta allo stesso tempo forte e svalutata quanto basta per accrescere la competitività delle esportazioni tedesche al di fuori dell’eurozona. Quali che siano i lidi verso i quali il capitale tedesco si dirigerà nei prossimi anni, il necessario prevalere dell’esportazione di capitali sull’esportazione di merci renderà probabilmente superflua la svalutazione del Deutsche Mark data dall’euro. Ciò vale anche nell’ipotesi di un ricentramento degli investimenti diretti tedeschi sul continente, corrispettivo economico del grande spazio di schmittiana memoria.
Conclusione: guerre di oggi… e di domani
Il piano di riarmo europeo ReArm Europe (già ribattezzato Readiness 2030) va visto e analizzato alla luce delle tendenze e dei processi messi in luce fin qui. Verosimilmente, esso avrà effetti differenziati a seconda dei paesi, dei loro tessuti produttivi e delle loro capacità di riconversione dal civile al militare (ad esempio il settore automotive tedesco e il suo indotto). Inoltre, esso verrà attuato in un contesto di perdita di controllo delle alte istanze dell’UE sulle spinte centrifughe, e reciprocamente conflittuali, agite dagli Stati membri o da gruppi di Stati membri.
Il ruolo della Germania in questo quadro non è ancora definito, e dipende dal suo posizionamento su una scacchiera più grande. Sulla carta, essa ha tre opzioni: a) rafforzare la sua posizione di junior partner di Washington, puntando tutto sull’accesso agli Stati Uniti sia come mercato di sbocco, sia come zona privilegiata di investimento; b) cercare di traghettare l’UE o una parte di essa verso un’intesa «eurasiatista» con la Cina (in attesa di poter riallacciare i rapporti con la Russia); c) decidere di contare sulle proprie forze, tentando ancora una volta la carta dal grande spazio, nell’ottica di svuotare gli altri paesi europei dei loro capitali nazionali.
L’occasione fa l’uomo ladro: a più di una decina d’anni di distanza dalla crisi dei debiti sovrani in Europa, i paesi della facciata atlantica e mediterranea sono ormai sufficientemente indeboliti da non potersi opporre ad una scalata aggressiva del capitale tedesco nei confronti delle loro economie. Resta una sola vera spina nel fianco: la Polonia. Significativo in questo senso che fra i sedici paesi che hanno finora attivato il principale dispositivo del piano di riarmo europeo (la clausola di esclusione delle loro spese militari dalle regole del Patto di stabilità e crescita), manchino all’appello la Francia, l’Italia e la Spagna, mentre i due principali paesi aderenti siano, guarda caso, Germania e Polonia: per farsi la guerra domani?
Per la Germania, il piano di riarmo si inscrive in una svolta più generale che la porterà ad aumentare considerevolmente la sua spesa pubblica. Si tratta di un keynesismo tutto sommato tradizionale, i cui eventuali benefici si faranno apprezzare sul lungo periodo. In quale misura questa politica economica sia una risposta al tentativo americano, già da tempo avviato e in fase di escalation, di suscitare un’ondata di delocalizzazioni e di investimenti diretti tedeschi negli Stati Uniti, è un interrogativo destinato a rimanere per il momento senza risposta. Comunque sia, ne va della sostenibilità del compromesso sociale domestico, nel solo paese europeo «occidentale»[8] che abbia conservato in tali proporzioni distretti industriali e grandi concentrazioni operaie sul suo territorio.
Nel frattempo, l’afflusso sul mercato obbligazionario europeo di un volume massiccio di Bund tedeschi, offrendo agli investitori finanziari un titolo di Stato di alta qualità e in quantità ben più grandi che in passato, potrebbe innescare tensioni questa volta focalizzate sulla Francia – tensioni che potrebbero sancire lo scioglimento dell’eurozona. E se fosse questo lo scopo ricercato? Dalla crisi del 2008 in poi, si sono molto rimproverate alla Germania le sue «ossessioni» austeritarie e le ricadute deflazionistiche della sua politica economica sugli altri paesi europei; meno si sono prese in conto le reali conseguenze di una Germania che le abbandona.
Ma a monte di simili passaggi, incombono in maniera più ravvicinata le conseguenze politiche della vittoria russa in Ucraina. Quando bisognerà infine mettere questa vittoria per iscritto, l’onda di discredito sulle istituzioni europee e sui gruppi dirigenti dei paesi che più hanno spinto l’Ucraina allo sbaraglio contro la Russia sarà prevedibilmente considerevole.
I movimenti sociali che potranno emergere da un simile scenario non saranno puramente proletari: saranno interclassisti, sovente nazionalisti, diretti contro il declassamento dei loro paesi dettato dalla leggerezza (vera o presunta, poco importa) di ceti politici sciagurati, e traditori del sacrosanto «interesse nazionale».
Ma è in simili movimenti, e non in altri più conformi ai nostri schemi e ai nostri desiderata, che bisognerà intervenire nell’ottica di far apparire un’opposizione di classe con una visione antisistemica (anticapitalista). È a questo livello che si pone a mio avviso la prospettiva di una ripresa del movimento di classe nei paesi dell’Europa occidentale e centrale, ed è in primo luogo a questo tipo di scenario che dobbiamo prepararci.
[2] Per il resoconto storico di tutta questa parte, ho attinto a piene mani dal prezioso libro di Jean-Christophe Defraigne, De l’intégration nationale à l’intégration continentale. Analyse de la dynamique d’intégration supranationale européenne des origines à nos jours, L’Harmattan, Parigi, 2004.
[3] Per una storia delle alte istanze dell’UE, vedi Perry Anderson, «Ever Closer Union?», London Review of Books, vol. 43, n.1, gennaio 2021.
[4] Wolfgang Streeck, «Overextended: The Europeans DIsunion at a Crossroads», American Affairs, vol. IX, n.1, primavera 2025, pp. 100-125.
Non è una domanda scontata, né una mera speculazione teorica; al contrario, siamo convinti che sia un nodo fondamentale, tanto per chi vuole comprendere il mondo, quanto per chi mira a trasformarlo – partendo, ancora una volta, da dove si è, da dove si è collocati. Un nodo che occorre sciogliere, se vogliamo porci all’altezza delle nuove questioni pratiche e politiche poste dal movimento reale e da questa fase storicamente determinata di guerra sempre più generalizzata. È la porta stretta da cui si è costretti a passare. Ma se vogliamo scioglierlo, crediamo che non possano bastare semplificazioni dottrinarie, facendoci bastare i “sacri testi” nella loro eterna immutabilità. Non ci possono bastare, ma non dobbiamo neanche cadere nell’errore opposto del “nuovismo”, convincendosi che è tutto cambiato, è tutto diverso rispetto a quando l’imperialismo è stato concettualizzato. Per noi, l’ortodossia e il nuovismo sono le due facce della stessa medaglia, le due facce dell’ideologia.
Riportiamo così, dopo l’intervento di Mimmo Porcaro su «L’Italia al fronte», la trascrizione del secondo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», con Raffaele Sciortino, compagno e ricercatore indipendente che non ha bisogno di presentazioni, già stato ospite a Modena. Da tempo lavora sui temi che stiamo discutendo: I dieci anni che sconvolsero il mondo (2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale (2022) sono libri estremamente importanti perché hanno la peculiarità di riuscire a coniugare ambiti di analisi che di solito si trovano separati, ossia un ambito “alto” come la geopolitica, le politiche internazionali e la configurazione della globalizzazione, e la dinamica di classe, un livello “basso” solo in senso figurato. La capacità di tenere insieme questi due piani è appunto una peculiarità che non si riscontra facilmente nei nostri ambiti e va quindi coltivata.
Con lui ci chiediamo come leggere la configurazione concreta che l’imperialismo assume nella fase storica che stiamo vivendo. È una fase di ristrutturazione del capitalismo globale? O piuttosto è una fase di disarticolazione della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta? Stiamo transitando verso un mondo multipolare? Sopravviveranno i vecchi centri egemonici o si moltiplicheranno le tensioni verso una diversa collocazione di potere? Sono tutte domande aperte che occorre mettere all’ordine del giorno e affrontare con realismo. Lo strumento migliore rimane l’analisi qualitativa dello spettro dell’accumulazione, dei rapporti di classe dei rapporti di classe – nazionali e globali – e della geopolitica – intesa soprattutto come osservazione dello scontro tra Stati Uniti e Cina e dal rapporto tra Stati Uniti e Europa.
L’imperialismo ha una sua storia: non è più il quadro capitalistico descritto da Lenin, né quello contro cui i movimenti degli anni Sessanta e Settanta hanno combattuto, e nemmeno quello che hanno provato a mettere a critica i movimenti no Global nei primi Duemila. Eppure, mantiene proprie continuità e invarianti. Partiamo dunque dal leggerlo alla luce del presente: Trump è il precipitato di una nuova configurazione dell’imperialismo, o è un fattore di discontinuità? Come si intreccia oggi la catena imperialistica alla dinamica di classe? Quali implicazioni, soprattutto politiche comporta per noi tale configurazione? Quali sono gli elementi principali che hanno condotto a questa nuova fase dell’imperialismo statunitense? Quali ricadute ha sull’Europa e sull’Unione Europea? Cosa contiene la spinta di classe, o delle classi, che stanno sostenendo il trumpismo? Vedremo in Europa un consenso a tale ristrutturazione capitalistica, o si potranno aprire delle fatture?
Piste di ricerca da seguire e approfondire con metodo, per poter pensare, e non solo osservare, la realtà concreta, e direzionare sul filo del tempo una prassi politica che, dentro i laboratori capitalistici della «fabbrica della guerra», punti a sabotarla e sovvertirla in fabbrica del conflitto di classe.
Buona lettura.
Raffaele Sciortino
Come premessa volevo solo dire che il mio intervento si colloca come ponte tra l’intervento di Mimmo Porcaro e quello del 17 maggio con Robert Ferro. Questi tre interventi sono collegati dal fatto che stiamo ragionando insieme a livello seminariale sulle tematiche che oggi cerchiamo di porre sul tavolo, ossia come si è trasformato l’imperialismo, a partire dalla convinzione comune della sua persistenza, pure nella discontinuità. A me oggi spetta il compito di ritematizzare i nodi concettuali che sono emersi nel dibattito marxista, nella maniera meno didascalica possibile e alla luce di quello che sta succedendo.
Infatti quando avevamo preventivato questi incontri ragionavamo sì su Trump e sullo scontro tra Stati Uniti e Cina, però obiettivamente c’è stata un’accelerazione inattesa dei processi che non è indifferente dalla dinamica e dagli esiti che si intravedono della guerra in Ucraina. È un dato importante, perché quando nel ’71-‘72 scattò la cosiddetta “svolta Nixon” – una svolta insieme economica per la fine dell’assetto di Bretton Woods, e geopolitica, con il reapproachment a Mao – anche allora gli Stati Uniti erano nel bel mezzo della guerra del Vietnam, e affrontavano il problema di riassorbire la sconfitta e trovare una “exit strategy”. Una delle vie d’uscita elaborate dagli Stati Uniti fu quello di scaricare una parte consistente della crisi sull’Europa, il che già ci fa comprendere l’attualità di queste riflessioni. In altri termini, non dobbiamo dimenticare che l’acuirsi dello scontro, per ora, attraverso i dazi tra Stati Uniti e Europa è comunque da inquadrare dentro lo scontro più generale e prioritario tra Stati Uniti e Cina. Non voglio dire che ne è la prima conseguenza, ma comunque è un sottoprodotto “qualificato” di quello scontro.
Capite bene perché sia una necessità vitale tornare a tematizzare il sistema capitalistico mondiale nel suo intreccio e nel suo sviluppo diseguale, ossia nella sua articolazione gerarchica. Vorrei provare a farlo attraverso una chiave di lettura, che penso sia sempre più attuale, che è la polarità, cioè unità e rivalità, tra potenze imperialiste (o più in generale potenze capitaliste) nel loro nesso strettissimo col movimento di classe (inteso in senso lato e ovviamente non solo in Occidente) all’interno dei quadri nazionali.
Vorrei quindi delineare a grandi linee dei cicli storici: da quando si è dato il fenomeno imperialista, grossomodo tra fine Ottocento e inizio Novecento; poi due importanti fasi di transizione; e arrivare quindi all’oggi e provare a vedere come si colloca quello che sta succedendo con Trump e il trumpismo. Il tutto interpretandolo in questa chiave di lettura, ovvero tenendo insieme i tre piani della configurazione economica, delle vicende – in senso non ristretto – geopolitiche e il movimento di classe.
Iniziamo dal primo grande ciclo, suppergiù tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Una configurazione che si pone all’intersezione tra tre tendenze. La prima è la classica rivalità interimperialistica investigata dai marxisti dell’epoca, esplosa nella Prima guerra mondiale in maniera plastica, con tratti meno evidenti nella Seconda. La seconda è una geopolitica che definirei “mackinderiana”. Mi riferisco al fatto che le potenze egemoni (dapprima la Gran Bretagna, che dopo la Grande guerra passa il testimone agli Stati Uniti) restano guidate da un imperativo geopolitico che, rischiando di banalizzare The Geographical Pivot of History di Mackinder, vede la storia come uno scontro tra potenze marittime e potenze continentali terrestre. E l’imperativo fondamentale per le potenze marittime – e qui c’è una certa continuità a cui vi chiederei di prestare attenzione – è quella impedire l’unificazione eurasiatica, cioè che una potenza unifichi quell’arco che va dall’Europa al Mar cinese, ed evitare ad ogni costo che questa potenza arrivi a uno sbocco sugli oceani. Ciò viene teorizzato già nel 1904 alla luce del “Great Game”, la lotta per l’Asia centrale concluso con il compromesso tra l’Impero britannico e la Russia zarista. Il terzo è l’ascesa del movimento operaio, allora ristretto sostanzialmente all’Europa occidentale e agli Stati Uniti (in cui, tra l’altro, si licenziano poderose politiche protezioniste), e della Seconda Internazionale; un’ascesa che, prima della frattura su crediti di guerra, sembrava irrefrenabile e che condusse poi all’esperienza bolscevica.
In quegli anni, il dibattito marxista (che pure era aperto all’intellettualità borghese degna di questo nome, si pensi all’importanza di Hobson per Lenin), tanto per coloro che andranno con l’ala rivoluzionaria, sia per chi rimarrà nella socialdemocrazia e nella sinistra riformista, verteva sull’individuare il salto qualitativo tra la fase che allora stava iniziando – la fase appunto imperialista – e la fase precedente di formazione dei mercati nazionali, di ascesa della borghesia e di prima formazione del movimento del movimento operaio.
Il punto di partenza è che quando un’economia nazionale giunge a livello imperialista si assiste a qualcosa che non può essere riducibile semplicemente all’esportazione di merci e alla diffusione del mercato nazionale. Il problema è proprio che c’è qualcosa di nuovo, che non si può ridurre a questo fattore che pure rimane importante. Di pari passo, dal punto di vista politico diciamo, quando si passa a quello che Lenin chiamerà lo «stadio imperialista» si vede un salto qualitativo politico della democrazia. Se prendiamo la democrazia (intesa come formato politico standard dei capitalismi più avanzati), ciò che si rilevava era il passaggio da una democrazia nazionale con compiti di ascesa borghese, ancora quantomeno progressisti, a una democrazia reazionaria.
Questo era il cuore del problema, e viene affrontato attraverso categorie che Marx aveva potuto sviluppare solo fino a un certo punto, in particolar modo quelle di «centralizzazione di capitali» (che diventa altrettanto, se non più importante, dell’accumulazione capitalistica), della «concentrazione di capitali» e dello «sviluppo ineguale», sia a livello di mercato mondiale sia all’interno di ogni economia nazionale. Il mercato mondiale, grazie a questo sviluppo di centralizzazione dei capitali (in termini più scolastici, la seconda rivoluzione industriale, la formazione di trust e così via) da essere il presupposto dello sviluppo industriale imperialista diventa un risultato, diventa esso stesso il prodotto dell’industrializzazione nella fase imperialista.
L’illustrazione classica – che ha tutta una serie di implicazioni politiche anche rispetto a che cos’è una guerra, se una guerra nazionale sia ancora possibile, eccetera – è quella di Lenin. Di questa formulazione qui ci interessano principalmente tre punti.
Primo. L’imperialismo non è semplicemente una politica. Ossia non è una decisione che può essere assunta o abbandonata dall’economia nazionale e dagli Stati che arrivano a questo livello, ma è, appunto, uno stadio irreversibile, un punto di non ritorno in cui si intrecciano economia, politica interna, politica internazionale, e di una specifica parabola del movimento di classe. Secondo. L’imperialismo è caratterizzato da un trasferimento di valore strutturale, o comunque relativamente persistente, tra imprese, tra settori e anche tra economie nazionali. E ciò inizia ad avvenire allora in particolare attraverso il vettore delle esportazione di capitali, a cui l’esportazione di merci rimane subordinata. Terzo. Determinanti diventano i monopoli e gli oligopoli, che uniscono la dimensione produttiva con la dimensione finanziaria.
La distinzione, che ovviamente non è la muraglia cinese, tra esportazione di capitali ed esportazioni di merci rimane rilevante anche oggi, e avrebbe quindi interesse riprendere il dibattito tra Lenin e Luxemburg a riguardo. Non c’è oggi il tempo per approfondire, diciamo solo che nel privilegiare l’esportazione di capitali, Lenin ha alle spalle una lettura di Marx e una peculiare teoria dei mercati in cui la spinta espansionista all’esterno dei capitali, una volta che si sono consolidati e centralizzati all’interno di un’economia nazionale, è dovuta a una caratteristica strutturale del modo di produzione capitalistico, che è quella di una discrasia, di uno squilibrio permanente tra produzione dei mezzi di produzione e produzione dei beni di consumo, e quindi di una compulsione allo sviluppo illimitato. A ciò, dopo la crisi del ‘29, alcuni marxisti tra cui Grossman, pur rifacendosi a Lenin, aggiungeranno il problema della crisi di redditività (su cui adesso non possiamo fermarci) che spinge appunto l’esportazione dei capitali. La spinta dunque non dipende primariamente da ciò che pensava allora Luxemburg, e cioè da un problema di realizzo, di merci che non si riescono a vendere all’interno.
Guardiamo poi alla concorrenza intesa in senso marxista (e non in senso banale, economicista, di domanda e offerta). Come riporta una formuletta relativamente nota, la concorrenza, via via che la centralizzazione dei capitali procede e il numero di monopoli e di economie nazionali si riduce (il classico “pugno di potenze imperialiste” di cui parla Lenin), si disloca come “una concorrenza per bloccare la concorrenza”: una competizione per ampliare il divario tra chi ce l’ha fatta e chi no. La concorrenza a un certo punto può declinarsi come concorrenza tra Stati che può diventare guerra, guerra guerreggiata; ma la concorrenza è già una forma di guerra. Quindi le fasi “pacifiche”, di tregua, e le fasi propriamente belliche di scontro tra potenze imperialiste (che, va sottolineato, coinvolgono anche formazioni capitalistiche di altro genere) sono appunto da leggere non come se la pace fosse la negazione dell’imperialismo, bensì entrambe come fasi di un ciclo, come tappe di uno stadio. La questione è cruciale poiché è precisamente su questo punto che si connette, in maniera molto complessa, la parabola della rivoluzione.
Oltre a questo nesso tra protezionismo, industrializzazione e formazione del movimento operaio, vediamo che poco dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale si accelera il processo che porta alla Rivoluzione d’Ottobre. Perché? Torno al problema del salto rappresentato dall’imperialismo e della difficoltà di coglierlo in tutte le sue caratteristiche. Se noi leggiamo Marx e Engels, diciamo, dal ‘48 alla Comune di Parigi, vediamo che la rivoluzione ha una dinamica che va da Ovest a Est, dall’Europa occidentale, con la formazione di Stati nazionali borghesi e questioni nazionali da risolvere o dal basso o dall’alto. Ma quantomeno fino alla Comune di Parigi questa ondata rivoluzionaria dai contenuti ancora nazionali e borghesi trovava una barriera nella Russia zarista, nell’Est arretrato.
Ora, quando si passa allo Stato imperialista, ossia quando ormai le questioni nazionali in Europa occidentale sono risolte, la barriera reazionaria alla rivoluzione è passata a Ovest, mentre invece il testimone della rivoluzione passa a Est. Ripeto, una rivoluzione che intreccia in maniera peculiare, se vogliamo anche imprevista e confusa, dei contenuti nazionali rivoluzionari ma economicamente borghesi con la possibilità, la potenzialità di trascrescere in una rivoluzione proletaria se si internazionalizza, e ritorna come un boomerang a Occidente. Da qui l’interesse di Lenin per la Cina e l’Oriente. La cosa diventava ancora più interessante per la Russia bolscevica, che aveva questa posizione peculiare tra Est e Ovest, tra Oriente e Occidente, tra la rivoluzione nazionale democratica, però portata avanti non dalle classi borghesi, quanto dalle classi contadine o semiproletarie, e la rivoluzione in Occidente, in stasi a partire dagli anni Venti.
Si può dire quindi che nel dibattito dell’epoca c’è una geopolitica della lotta di classe e una geopolitica della rivoluzione. Ne deriva anche un importante corollario, che per approfondire a dovere bisognerebbe riprendere diffusamente il dibattito tra Lenin e Luxemburg: la questione nazionale, che prima era la questione di formazione degli Stati nazionali come mercato interno, che fungeva da presupposto per la formazione del proletariato nel mondo occidentale, diventa questione nazionale anticoloniale e antimperialista nel mondo extraoccidentale. Questo è molto importante se legato appunto a quella geopolitica mackinderiana a cui mi richiamavo prima.
Passiamo avanti. Rivoluzione d’Ottobre, si blocca la rivoluzione in Unione Sovietica, sconfitta in Cina, affermazione dei fascismi, seconda conflitto imperialista (dalla dinamica molto differente dalla prima, se non altro perché non c’è una forza politica degna di questo nome nel movimento operaio che pone il problema della lotta a tutti gli imperialismi, quindi il disfattismo rivoluzionario di Lenin non si dà nella Seconda guerra mondiale). Arriviamo al post ‘45 con gli Stati Uniti che emergono come potenza egemone e dominante a livello mondiale contro un blocco socialista o presunto tale (che, tra l’altro, si dividerà già a fine anni Cinquanta tra Unione Sovietica e Cina maoista), dopo aver subordinato il vecchio colonialismo anglofrancese (pensate al caso di Suez) e soprattutto dopo aver sconfitto definitivamente (o almeno a oggi) l’altro grande rivale, la Germania. La Germania viene divisa ed è ancora un paese soltanto semisovrano dal punto di vista politico, militare, territoriale e così via. La dottrina geopolitica resta mackinderiana, ma viene riformulata già durante la guerra da teorici come Spykman e il più noto Kennan, che teorizzerà la teoria del contenimento.
Gli Stati Uniti aggiungeranno alla teoria mackinderiana dell’Eurasia (che lui chiamava Heartland,la terra centrale) il concetto di Rimland, terra ai margini. Lì c’è già l’idea, che reggerà le politiche di contenimento nella Guerra fredda, per cui gli Stati Uniti e le potenze marittime anglosassoni non sono in grado di conquistare i territori delle potenze eurasiatiche (in quel frangente, l’Unione Sovietica occupava tutto l’Heartland); ne consegue che devono insistere continuamente in azioni di disturbo, creare caos per evitare l’unificazione eurasiatica, impedirgli lo sbocco all’oceano e tenerli sotto da un punto di vista economico. E quindi se voi ci pensate, qui rientra tutto. Pensate al ruolo di Israele nel Medio Oriente, oppure Taiwan e la Corea del Sud rispetto alla Cina.
Per quanto concerne il livello più “nostro”, il piano del movimento di classe, ebbene abbiamo una divaricazione. Nella Prima guerra mondiale la scissione era stata interna al movimento operaio occidentale, tra riformismo e rivoluzione, e il riformismo era diventato appoggio alla guerra, socialsciovinismo, eccetera. Qui siamo in una fase diversa, e se vogliamo anche più grave. Più grave poiché senza potenzialità rivoluzionarie nell’immediato. Non nel senso che non ci sia più una rivoluzione, ma nel senso che si disloca su un unico teatro, quello anticoloniale e antimperialista extraoccidentale, dalla rivoluzione cinese fino a Cuba e il Medio Oriente. Al contrario, in Occidente si apre un ciclo chiaramente controrivoluzionario: ancora una volta, non nel senso che non si dia più lotta di classe, ma nel senso che questa non ha possibilità, in quel quadro, di diventare una lotta rivoluzionaria. Tuttavia in Occidente, a differenza d’oggi, resisteva ancora un riformismo del movimento operaio organizzato (pensiamo al PCI in Emilia).
Di nuovo, attenzione al nesso, abbiamo un mondo diviso in due, l’egemonia è comunque degli Stati Uniti, un soggetto decisamente più forte dell’antagonista sovietico sotto tutti i punti di vista; di modo che si assiste una tendenza all’unità piuttosto che alla rivalità interimperialista, sebbene anche i paesi europei politicamente siano distrutti una volta sotto gli Stati Uniti. All’unità del mondo imperialista corrisponde la debolezza della classe operaia, perlomeno in Occidente (ripeto, non il blocco della rivoluzione anticoloniale).
Date queste premesse, il dibattito marxista non può che risentirne. C’è una dispersione del marxismo rivoluzionario, quantomeno quello che non è direttamente interno al movimento stalinista. Tuttavia troviamo una cosa interessante, perché andando a scartabellare tra le sinistre estreme e antistaliniste di allora emerge una domanda ricorrente nel dibattito: ma l’imperialismo condanna il capitalismo a un declino e/o comunque a una stagnazione?
Era la lettura trotzkista, così come di tutta la componente terzomondista ante litteram della «Monthly Review» di Baran e Sweezy, che sostituiscono il concetto di surplus a quello di plusvalore e che pensano a un capitalismo occidentale in declino che può rispondere solo con riarmo keynesiano rileggendo a loro modo alcuni temi luxemburghiani quali i problemi di realizzo. Dall’altro lato, invece, altri teorici marxisti, allora assolutamente isolati e marginali, vedono l’imperialismo come un’escrescenza del capitalismo, però è anche una sua possibilità di ringiovanimento; anzi, a un certo punto diviene una sua necessità. E in effetti quel ciclo di sviluppo postbellico incredibile, che non s’è mai più visto nella storia del capitalismo, viene portato avanti da una potenza imperialista, gli Stati Uniti, che sfrutta una guerra già iniziata (gli Stati Uniti entrano sempre in guerra dopo, fanno prima dissanguare gli europei e solo poi entrano in campo per raccogliere i frutti) a spese dell’Europa, e in primo luogo della Germania.
La novità importante in questa fase (chiamiamola peculiarmente controrivoluzionaria, ma senza per questo essere eurocentrici) è che i monopoli di cui parlavano Hilferding, Bucharin, Luxemburg, Lenin e compagnia cantante sono oramai le multinazionali. Non compaiono con il ‘45, erano comparse già prima. Ciò va sottolineato perché le multinazionali diventano il vettore peculiare delle esportazioni di capitali di cui aveva parlato il dibattito marxista precedente, che se ricordate è la peculiarità dell’imperialismo rispetto alle esportazione di merci e a logiche più mercantiliste.
Le multinazionali americane iniziano a emergere già dopo la crisi del ‘29, quando si frammenta l’economia occidentale e fallisce quel tentativo di rilanciare l’economia europea sulla scorta di quella statunitense (l’Urss era completamente isolata). Scatta il protezionismo, scattano le svalutazioni competitive. E cosa fa una multinazionale con gli investimenti diretti all’estero? Scavalca le barriere dei dazi, va sul posto, investe e trae profitti che riporta in patria ad altre condizioni. Osserviamo dunque un nesso tra protezionismo e rilancio di questa nuova forma peculiare di esportazione di capitali, che trovo rilevante.
L’altra grossa novità è Bretton Woods, cioè l’importanza sempre maggiore del sistema monetario internazionale. Quest’ultimo è da intendere non soltanto come la somma dei sistemi valutari nazionali, ma come un tutto che sovradetermina le parti ma – badate bene – in parallelo col sistema degli Stati. È un elemento che era emerso nel dibattito marxista già da inizio Novecento: non si può valutare la posizione, il peso, insomma la peculiarità di uno Stato (oltre che di un’economia nazionale) prendendolo a sé, ma sempre concependolo dentro un sistema di Stati. Del resto Stato e capitale stanno insieme, e uno dei vettori che li unisce è proprio la moneta.
Ora la specificità del mondo post ‘45 è la sostituzione del dollaro alla sterlina nel sistema di Bretton Woods, dove il dollaro diventa dominante, però, attenzione, quantomeno dopo il piano Marshall dentro un sistema in cui le singole economie nazionali, quando iniziano a riprendersi, hanno comunque un controllo relativamente forte sui capitali interni. Il che significa, per loro, la possibilità di dirigere la politica monetaria, la politica dei tassi di investimento, e quindi i tassi di accumulazione. Il dollaro già dominava come moneta di riserva fondamentale, però non siamo ancora nel mondo postfordista o post ‘71.
Passiamo ora alla prima grande fase di transizione. Verso la seconda metà degli anni Sessanta, abbiamo dei segnali di ripresa significativi e di passaggio dall’unità del mondo imperialista sotto gli Stati Uniti a nuove forme di rivalità. In particolare tra Stati Uniti, Germania e Giappone, che dimostrano una ripresa industriale, ritmi di produttività e un livelli di competitività superiori a quelli statunitensi. L’esportazione di capitali, però, è ancora in mano agli Stati Uniti. Le multinazionali sono quasi esclusivamente statunitensi. Gli anni del miracolo economico tedesco e giapponese – e in subordine, italiano – sono da leggere come una ripresa di rivalità coniugata alla cosiddetta accumulazione fordista, all’applicazione della razionalizzazione tayloristica, ma anche a un rilancio di conflittualità di classe.
Sono le lotte dell’operaio massa: ovviamente il ‘68 è stato qualcosa di più ampio, ma nel nostro ragionamento ci interessa la convergenza di rivalità interimperialistica e di una ripresa di lotta di classe anche in Occidente, mentre prosegue fuori dal mondo con il Vietnam e le ultime grandi lotte anticoloniali degli anni Settanta, dal Corno d’Africa ai tentativi in America Latina, violentemente repressi come nel caso del Brasile e soprattutto del dramma argentino e cileno.
A livello geopolitico, proprio in reazione alla lotta antimperialista, gli Stati Uniti stanno perdendo prestigio non solo in Vietnam ma a livello mondiale. È in questa congiuntura che si forma il cosiddetto triangolo strategico tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina. Lo spostamento di alleanze della Cina, dall’Unione Sovietica all’isolamento, poi all’autonomia e infine alla tacita alleanza con gli Stati Uniti di Nixon (repubblicano e fortissimo anticomunista) trascina uno spostamento del bilancio di potenza geopolitico mondiale. Venti anni dopo vedremo che ciò fu uno dei fattori che contribuirono al crollo del cosiddetto socialismo reale e all’implosione dell’Unione Sovietica.
Ora in questo quadro di ripresa di lotta di classe, di ridefinizione della configurazione mondiale delle rivalità, rinasce, per così dire, “il marxismo”, soprattutto nelle due forme di terzomondismo e operaismo, ora intrecciate, ora differenziate o addirittura opposte. E che cosa viene messo a tema nel dibattito marxista, anche al di là della stretta appartenenza a una delle due correnti o riprendendo paradigmi precedenti? Una questione di rilievo anche per noi oggi, ossia il problema dell’unità e della rivalità.
In altri termini: la Germania e il Giappone possono mettere in discussione il dominio statunitense? Si riconosceva infatti che la Germania e il Giappone hanno sì acquisito maggiore produttività e competitività, ma sostanzialmente a livello di esportazione di merci e con monete se non deboli, nemmeno forti. Al contempo, oltre alla perdita di competitività della sua economia, la bilancia dei pagamenti statunitensi va in deficit, perchè il dollaro, divenuto mezzo di pagamento internazionale e valuta di riserva, viene accumulato e detenuto da chi esporta merci.
Nascono però delle tensioni serissime, come quando, sulla scorta della convertibilità del dollaro in oro determinata da Bretton Woods, la Banca centrale francese invia De Gaulle negli Usa con delle navi cariche di dollari pretendendo di scambiarle in oro. Quindi la rivalità è reale. Il problema e il vettore fondamentale rimangono gli investimenti diretti all’estero, e non si tratta semplicemente un’esportazione di capitali di portafoglio, cioè d’investimento in titoli del Tesoro di un altro Stato o in azioni, bensì di andare produrre nell’altro paese per vendere lì o per vendere altrove e ritirare i profitti. E da quel punto di vista, gli Stati Uniti sono ancora imbattuti.
Ciò si lega strettamente all’altro grande tema del dibattito, il «privilegio esorbitante» del dollaro, come lo chiamo Giscard d’Estaing. Da qui il grande salto nel ’71: Nixon decide di sganciare il dollaro dall’oro. Si crea un caos che ha non poche analogie con quello che stiamo vedendo in questi giorni; non a caso la domanda che circola oggi in numerose analisi è “siamo davanti a un nuovo ‘71?” per indicare le trasformazioni del sistema monetario internazionale. Allora il passaggio fu da un sistema valido per l’Occidente, con cambi fissi e relativi controlli nazionali sui capitali (e quindi sulla politica monetaria) a uno a cambi fluttuanti, nel quale diventa fondamentale il vincolo estero sul bilancio interno.
In parole povere: tu Stato devi attirare capitali, ma per attirare capitali devi fare una politica tra virgolette “sana”, ossia non che dà troppo ai proletari, con austerity o comunque con politiche di bilancio possibilmente in avanzo. E devi stare attento con i tassi di interesse, perché devi essere tu ad attirare i capitali, e non li puoi più formare semplicemente dal risparmio interno che hai accumulato. La liberalizzazione dei capitali che scatta tutta a favore, come poi si vedrà, del capitale finanziario statunitense ovviamente ti pone dei vincoli molto forti. Noi siamo abituati a sentir parlare del vincolo esterno all’Unione Europea; ma è un vincolo dipendente soprattutto dai mercati finanziari mondiali, che a sua volta sono legati al dollaro. È lì che inizia questa storia, che oggi vediamo entrare forse non verso la sua fine, ma comunque in una decisa parabola discendente.
I temi di cui potremmo discutere sarebbero molti altri, ma vorrei concentrarmi su uno in particolare. Un marxista francese di origine greca, Poulantzas, conia l’espressione «borghesia interna» nel quadro della discussione sulla possibilità per l’Europa di diventare un soggetto autonomo. Si parlava già allora di un’unione monetaria europea, a cui gli Stati Uniti taglieranno subito le gambe anche sfruttando guerra del Kippur del ’73 e lo shock petrolifero che andrà a vantaggio delle multinazionali energetiche statunitense. Le economie europee, che pure si trovavano per un breve momento in surplus, devono rifornirsi di dollari perché nel frattempo gli accordi tra gli Usa e l’Arabia Saudita avevano stabilito che il petrolio andasse venduto in dollari. La nascita del petrodollaro mostra ancora una volta il gioco dell’imperialismo che preme per una continua esportazione di capitali, in forme sempre innovate. È davanti a tale contesto che Poulantzas elabora la categoria di «borghesia interna» riferendola ai paesi europei, in particolare quelli che in qualche modo potevano fronteggiare l’egemonia statunitense (Germania, Francia, ma anche Giappone, eccetera).
Con «borghesia interna» – ed è una categoria che conviene riattualizzare – si intende una borghesia nazionale che non è pienamente autonoma, che quindi non può mettersi in concorrenza interimperialistica, nei termini classici dell’imperialismo del tempo di Lenin, con gli Stati Uniti. Perché? Perché 1) dal punto di vista strettamente geopolitico e politico sono borghesie sconfitte nella Seconda guerra mondiale e 2) gli apparati statali intesi in senso lato degli Stati europei sono infiltrati, controllati dagli apparati statali statunitensi (pensate all’ingerenza militare, o ai servizi segreti). In altre parole, hai una classe dirigente che invece di fare gli interessi delle economie nazionali europee riproducono il dominio statunitense al loro interno.
Lo stesso avviene a livello economico. Quando hai una grande esportazione di capitali per opera di forti multinazionali americane, soprattutto nelle alte tecnologie, cosa succede? Che c’è una paradossale estroversione delle economie nazionali europee che sono più legate agli Stati Uniti che tra di loro. Da qui l’estrema difficoltà del progetto di unificazione europea, di cui si parlava già cinquantacinque e passa anni fa, senza aspettare Draghi e compagnia.
Al tempo stesso però le borghesie europee chiaramente non sono borghesie dipendenti coloniali, perché mantengono una base di accumulazione interna e a loro volta iniziano ad esportare capitali all’estero (in America Latina con la Germania, e poi addirittura negli Stati Uniti). Un ibrido di subalternità e attivismo. Con questa categoria si cercava di catturare concettualmente la nuova situazione, nella quale nonostante la parabola accumulativa non si poteva configurare una successione di egemonia, come l’avrebbe definita la scuola della World System Theory e in particolare Arrighi.
Vedete quindi come l’imperialismo si ricentralizza, si rifocalizza sulle esportazioni di capitali, ma diventa sempre più importante il sistema monetario internazionale, il nesso moneta-credito. Chi diventa la banca di tutte le banche? La Federal Reserve. Qual è l’unico paese, grazie al meccanismo di sganciamento del dollaro dall’oro, a non essere legato al vincolo estero della bilancia dei pagamenti? Appunto gli Stati Uniti, perché possono ripagare le merci che acquistano con assegni, perché il dollaro diventa un assegno quasi in bianco, nel senso che non ha un corrispettivo reale di produzione o ce l’ha in futuro. Quindi è come far credito in continuazione alla Federal Reserve e agli Stati Uniti. Al tempo stesso, essendo il dollaro valuta di riserva internazionale e moneta di pagamento internazionale (in particolare i petrodollari, ma poi gli eurodollari e via discorrendo, e tanto più quando si aprirà l’economia cinese), gli Stati Uniti possono attirare investimenti di portafoglio (la vendita da parte loro dei treasury bill e dei treasury bond); con quei capitali a breve possono investire a lungo nel sistema produttivo interno; quindi finanziare a bassi tassi di interesse il riarmo (il reaganismo, e da allora la grande risalita delle spese militari); ristrutturare i vecchi settori fordisti verso l’high tech e il digitale; e infine andare a esportare capitali conquistando mercati esteri e così via. Insomma, ciò che negli anni Settanta sembrava alludere al declino statunitense, crea una morsa incredibile, di tipo insieme produttivo, finanziario e monetario.
Si apre così una grande ristrutturazione capitalistica globale: una ristrutturazione antioperaia, in cui viene sconfitto l’operaio massa (con i battiti d’ala dei siderurgici francesi nel ’79 e l’ultima grande lotta a Mirafiori nell’80); anti-blocco dell’Est, che dopo dieci anni implode; e contro il Sud del mondo, che disgrega la compattezza che ha dimostrato durante la fase della lotta anticolonialista. Assistiamo quindi, dagli anni Ottanta fino alla crisi del 2008, a un nuovo ciclo chiamato ora «globalizzazione» ora «neoliberismo».
Un ciclo contrassegnato dall’unità piuttosto che dalla rivalità, sempre relativamente parlando; basata su quel meccanismo del dollaro che abbiamo descritto prima (e che si usa nominare con “Bretton Woods 2”); e in cui – punto importantissimo – l’esportazione di capitali non è solo più incentrata tra Stati Uniti e Europa, cioè sulle economie avanzate, ma scatta l’industrializzazione periferica. Si dipinge così una scomposizione internazionale del processo produttivo che darà luogo alle cosiddette «catene globali del valore», in cui il Sud del mondo copre la fase di assemblaggio finale o comunque quelle fasi tecnologicamente meno evolute, e via via a risalire verso i centri egemonici. A quanto accade a livello produttivo equivale la dinamica a livello di finanziamento di crediti, circolazione di capitale e di distribuzione delle merci, dove le aziende leader sono tutte occidentali, in gran parte statunitensi. A questo punto agli Stati Uniti conviene sempre meno investire produttivamente sui settori e le tecnologie medio-basse, ma piuttosto tenere la leadership sulle tecnologie alte e far circuitare la finanza e le merci intorno a questa nuova configurazione; una configurazione che è alla base della crisi attuale.
Sul piano geopolitico, dopo la fine dell’Unione Sovietica si inaugura la fase dell’«unipolarismo», condito di “guerre umanitarie” per “l’esportazione della democrazia”. Unipolarismo che altro non è se non la politica del contenimento riformulata in termini preventivi: per esempio, se Saddam o Gheddafi vogliono vendere il petrolio in euro, facciamoli fuori, tanto sono dittatori, no? Lo stesso vale poi per la Jugoslavia, l’Afghanistan, la guerra al terrore, eccetera.
Per quanto concerne invece il livello delle lotte sociali, va osservato che l’unità, sempre relativa, delle forze imperialiste si associa alla scomposizione del movimento operaio. Oltre alla sconfitta, come dicevamo, dell’operaio massa, vediamo la cosiddetta “cetomedizzazione” i cui risultati si vedono oggi – intendendo con esso non la salita a ceto medio degli strati operai, bensì che il ceto medio si impoverisce o inizia addirittura a proletarizzarsi, persino negli stessi Stati Uniti (un elemento che ha non poche prossimità con il problema del trumpismo oggi). Di pari passo, si sviluppa una proletarizzazione però periferica in Cina, così come in altri paesi quali il Vietnam o il Messico. Una proletarizzazione, però, senza fordismo e senza i benefit del welfare che hanno accompagnato la fase fordista precedente. In termini politici nostri, è una fase di disgregazione: il capitale si centralizza, mentre la classe operaia e il proletario internazionale si frammentano, come segnato anche dai flussi di immigrazione che iniziano a essere consistenti.
Davanti a una vittoria del nuovo imperialismo a guida finanziaria statunitense che sembrava assoluta, abbiamo il crollo del marxismo. Dall’inizio degli anni Ottanta, ciò che rimane del marxismo viene ridotto alla stregua di una critica culturale postmodernista – una declinazione del marxismo che oggi, fortunatamente, sta mostrando in una maniera sempre più evidente la sua irrilevanza. Il primo corollario però è che scompare lo stesso concetto di imperialismo, il che segnala con crudele chiarezza la portata di quella sconfitta: per decenni si parla solo di “neoliberismo”, di “globalizzazione” e chi più ne metta, mentre la categoria di imperialismo oggi paradossalmente lo si usa a proposito di Putin.
Forse l’unica teoria, secondo me, che tenta di coltivare una critica del sistema capitalistico mondiale (pur non essendo marxista e limitandosi a soltanto a recuperarne alcuni concetti) è la World System Theory di Wallerstein e Arrighi, che abbandona il concetto di imperialismo a fine anni Settanta e lo sostituisce con la «successione di egemonie» richiamandosi a Braudel. I suoi autori si focalizzano sulla dinamica centro-periferia, con una sorta di terzomondismo, ma in una fase dove il Sud del mondo è in estrema difficoltà per la sua frammentazione e, come dicevo prima, per l’assorbimento della Cina.
Giungiamo a un punto di estrema importanza, a cui prestare attenzione poiché ogni teoria dell’imperialismo deve darci il sistema, articolato e diseguale, intrecciato e gerarchico. A questo punto infatti inizia quel processo in parallelo di relativa deindustrializzazione degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali (un po’ meno in Giappone, Germania e Italia, relativamente parlando) e di industrializzazione periferica, che proietta la Cina a “officina del mondo”, collocandosi in un primo momento sui segmenti bassi delle filiere globali di fornitura, ma con grandi differenze rispetto ad altri paesi.
Intanto, la Cina non è un paese dipendente qualsiasi, ma ha alle spalle una grande rivoluzione contadina che ha creato un partito-Stato che impedisce l’internalizzarsi del dominio statunitense in Cina, cioè all’interno della sua accumulazione e della sua borghesia privata. In altre parole, non troviamo in Cina quella borghesia interna che Poulantzas aveva teorizzato per l’Europa, ed è un elemento cardine per spiegare la sua capacità di resistenza. In secondo luogo, ma non per importanza, la Cina inizia a esportare. È vero che una parte consistente di questo surplus va alle multinazionali americane e occidentali, ma comunque il resto va all’interno, e non essendo la moneta convertibile, i flussi di capitale sono controllabili. I flussi di capitale sono joint venture che portano anche tecnologia, e non hot money speculativo, che dopo pochi mesi distrugge il paese come hanno sperimentato gli Stati sviluppisti dell’Estremo Oriente nella crisi asiatica del ’97-‘98. Mentre realtà come Taiwan e la Corea del Sud erano stati martoriati dalla capacità del dollaro di giocare a fisarmonica con i tassi di interesse fissati dalla Fed – per cui il dollaro ora si apprezza ora si svaluta e a seconda delle convenienze i capitali vengono attratti o esportati e così attraverso la finanza ti compri quegli apparati produttivi che gli altri hanno avuto fatto sacrifici per costruire –, in Cina non accade, sia per motivi sostanzialmente politici, sia in virtù di un enorme serbatoio di forza lavoro semiproletarizzata. Grazie dunque alla sua capacità di porre dei limiti alla liberalizzazione dei capitali statunitensi, una parte sempre maggiore del surplus prodotto dall’export rimane in loco, può essere investita dai cinesi per rafforzare l’apparato produttivo e per risalire via via le catene del valore, passando così da essere il fanalino di coda delle filiere della fornitura globale ad arrivare a livelli tecnologicamente poderosi.
Con l’internazionalizzazione delle catene del valore, i rapporti di centro-periferia e di dipendenza classici, diciamo terzomondiali, che sulle prime erano fondamentalmente confinate al cosiddetto commercio ineguale, vengono internalizzate nella produzione nella misura in cui la produzione non è più confinata a un solo paese, ma si spalma su tanti paesi collocati gerarchicamente in una scala mondiale imperialistica. Ma se vediamo in parallelo la relativa deindustrializzazione degli Stati Uniti e di altre economie occidentali e la risalita della Cina, sorge spontanea una domanda: la Cina ha una logica imperialista?
No, strutturalmente non può averla perché il suo recupero, in termini arrighiani, dalla periferia alla semiperiferia è basato su surplus commerciali, sull’esportazione di merci, e per giunta i suoi proventi non sono del tutto a sua disposizione. È ancora dentro pienamente una logica mercantilistica, non una logica imperialista basata sulle esportazioni di capitali e sul dominio della moneta, tant’è che lo yuan non deve essere convertibile e i capitali devono rimanere controllabili perché altrimenti avrebbero sbaraccato la sua economia. In aggiunta, nel 2014 la Cina è arrivata a quattro trilioni tra riserve in dollari e titoli del Tesoro americani acquistati, poiché appunto una parte dei profitti cinesi devono andare a finanziare quel circuito globale del dollaro che abbiamo descritto prima.
Permettetemi giusto due parole sulla cesura del 2008, la prima grande crisi della globalizzazione. Passiamo definitivamente dall’unità relativa di un mondo imperialista a un incremento di rivalità che assumono tratti peculiari. Si inasprisce la rivalità tra Stati Uniti ed Europa, sebbene sottotraccia. Ad ogni modo, oggi molti possono concordare su ciò che nel 2010-2012 risultava più controverso, ossia che l’eurocrisi è stata un tentativo di scarico sul Vecchio continente della crisi che ha avuto come epicentro gli Stati Uniti di Obama, finalizzato a indebolire l’euro. Lì iniziano a germogliare i semi di quella tensione che oggi è di nuovo ritornata agli onori della cronaca.
Il problema è che, a parte una certa resistenza tedesca (che però, dalla cancelleria Merkel alla guerra in Ucraina, si è manifestata più come una riottosità ai diktat statunitensi, a cui tra l’altro pian piano hanno ceduto), rimaniamo nella situazione indicata da Poulantzas: le borghesie europee non esistono, l’Europa non è uno stato e non esiste un’economia diciamo “confederata” europea. Rimangono borghesie interne, senza una piena autonomia. E non l’avranno, perché, a parer mio, con l’offensiva Trump si frammenteranno ulteriormente. Tranne – ad è un grosso punto di domanda che rimando alla discussione con Robert Ferro – la Germania.
La Germania avrebbe dei numeri a livello di apparato produttivo forse per iniziare a fare un discorso autonomo, ma è un’ipotesi molto incerta, e potrebbe benissimo uscire dall’offensiva trumpista di nuovo, per la terza volta, con le ossa rotte. Sale poi, e lo vediamo dalla guerra in Ucraina, la rivalità con la Russia. Ma la Russia la possiamo definire al limite una potenza imperiale, se vogliamo assumerla sul versante militare, e rimane sostanzialmente un’esportatrice di materie prime. Dal punto di vista marxista non c’è nessun criterio, né in cielo né in terra, che possa far definire “imperialista” la Russia putiniana. Ben più seria è la rivalità con la Cina. Perché?
Perché inizia a incrinarsi, e oggi quasi si è rotto, l’asse Stati Uniti-Cina di cui ho parlato prima. Con la crisi del 2008 la Cina si rende conto che è troppo legata al dollaro e ai mercati di esportazione occidentali, ma al tempo stesso non ne può fare a meno. Cerca allora sempre più di indirizzare questa logica mercantilista verso una ristrutturazione interna a partire dai mezzi di produzione (e poi anche dei beni di consumo) per risalire le filiere del valore. Il progetto funziona, parte un grande sviluppo tecnologico, e nel mentre cerca di uscire dai confini dell’economia cinese e dalla dipendenza dall’export con le nuove vie della seta. È un inizio di proiezione e di esportazione di capitali, ma che ad ora avviene in una forma ancora molto arretrata. A metà anni ‘10, grazie ai surplus accumulati, la Cina ha lanciato un intervento di tipo keynesiano per attutire i gli effetti della crisi del 2008-2009 (uno stimolo da quasi 600 miliardi di dollari), e non esportare soltanto merci.
Ora, se tu cerchi di esportare capitali devi garantire un minimo di liberalizzazione dei capitali stessi, che devono poter circolare, e la tua moneta deve iniziare a essere un minimo convertibile. Ma rendere convertibile lo yuen e rendere liberi i flussi di capitali sbaraccherebbe quella costruzione che faticosamente ha tenuto su la Cina fino ad oggi rispetto ai marosi dell’economia mondiale e delle sue crisi. C’è stata un’internazionalizzazione molto cauta, e quando hanno tentato di venire in Europa ad acquisire delle aziende di un certo contributo tecnologico, gli Stati Uniti hanno detto no, l’Europa li ha bloccati e da lì parte il protezionismo americano, in funzione anticinese. Nel frattempo tra il 2015 e il 2016 la Cina ha avuto un attacco speculativo di hot money legato alla bolla immobiliare con capitali che entravano e uscivano velocemente. L’amministrazione Xi Jinping ha detto «regolamentiamo più duramente», ed ecco tutte le critiche all’“autocrazia” cinese, al “partito unico”, eccetera.
Detto ciò, nell’intreccio di economia, geopolitica e movimento di classe l’aspetto importante da sottolineare è ancora nel terzo livello. In Occidente era emersa quella che da più parti viene definita la lotta di classe di tipo «populista» per differenziarla da mobilitazioni più classiche. Mi sembra che dal nostro punto di vista la possiamo definire come una lotta di classe interclassista tra ceti medi impoveriti, o che hanno paura di proletarizzarsi, e il proletariato, dove la voce la dà al ceto medio, con i suoi contenuti, i suoi slogan e le sue prospettive, mache raccoglie l’insoddisfazione e il peggioramento della condizione proletaria, e poiché in tale quadro le istanze di nuovo riformismo non hanno più nulla a che vedere col riformismo del movimento operaio classico si registra la divaricazione (a mio parere, strutturale e definitiva) tra la sinistra classica e le istanze di classe.
Sta qui l’origine materiale della «crisi della sinistra» e del “superamento” dell’antinomia sinistra-destra che ha condotto all’affermazione del discorso populista prima in una forma cittadinista e poi espressamente sovranista. È un sommovimento profondissimo che va legato agli altri piani – l’economico e il geopolitico – altrimenti non lo si capisce o lo si vede come semplice reazione fascista. Ovviamente queste derive ideologiche hanno dei fattori di fondo differenti in Europa e negli Stati Uniti, come dimostrato anche dal riemergere dello scontro tra i due. Ma anche in Cina – è bene ricordarlo – dietro i movimenti di reazione agli Stati Uniti e di risalita della catena del valore c’è stata una forte lotta di classe. Se vogliamo, sono state lotte più tradizionali, condotte da operai di seconda-terza generazione, immigrati nelle città; potremmo dire un operaio massa fordista senza fordismo. Lì infatti, la lotta di classe tradizionale spinge verso un «compromesso socialdemocratico» col partito-Stato. Del tipo: abbiamo fatto i sacrifici, adesso dateci il welfare, dateci l’aumento dei salari. Sono state lotte più che significative: come ha anche dimostrato Branko Milanović in via econometrica, senza l’aumento dei salari cinesi la diminuzione della povertà nei paesi extraoccidentali non si sarebbe data. Il divario tra Nord e Sud del mondo è assolutamente cresciuto, così è cresciuta la polarizzazione sociale dentro i paesi occidentali.
Il dibattito a sinistra pian piano si è ripreso, ma all’inizio dell’eurocrisi e dopo il 2008 rimaneva impastoiato in termini ancora molto, molto confusi e in altrettanto vaghi ricordi keynesiani: “ah, la finanza è parassitaria e la produzione reale è buona”. Il problema dell’imperialismo consiste però proprio nel fatto che è un intreccio di finanza e produzione, dove si tratta di capire chi dirige questo intreccio e chi lo utilizza pro domo sua. Difficoltà a non finire. Per esempio, con l’eurocrisi tutti ce l’avevano solo con l’euro o la Germania, senza vedere che dietro la Germania ci sono gli Stati Uniti. Una confusione incredibile, perché comunque le nuove generazioni venivano da venti, trent’anni di euroliberismo che aveva fatto terra bruciata delle categorie critiche, non solo marxiste. Persino l’analista in Italia più autorevole che in qualche modo cerca di rimettere in campo categorie marxiste, cioè Brancaccio, fino a poco tempo fa guardava fondamentalmente al global imbalances, ovvero il surplus sui deficit di commercio e non di capitali; ma va detto che ultimamente sta ricentralizzando la sua attenzione sui flussi di capitali.
Dunque, voi vi aspettavate qualcosa su Trump e il trumpismo, no? [Risate] Ho parlato parecchio, ma a questo punto direi che potremmo avere qualche strumento in più per inquadrare ciò che sta succedendo, però 1) senza fare previsioni, perché quando l’economia mondiale inizia a ballare nelle sue variabili, saltano tutte e 2) senza cadere in un’eccessiva coerentizzazione, perché può esplodere la disarticolazione di tutto quanto e irrompere il caos generale.
Con questa cautela, permettetemi di dire che forse oggi, nell’era Trump, c’è un’analogia con la situazione tra il 1970 e il 1973, con lo shock di Nixon e il passaggio al sistema monetario a tassi flessibili. Nella nuova presidenza Trump c’è sicuramente una continuità rispetto all’immediato passato. Per esempio, l’amministrazione Biden ha tenuto tutti i dazi protezionistici del primo mandato Trump e la Cina è ancora il nemico. Adesso però vediamo confermato quello che prima anticipavamo timidamente: non era Trump la parentesi estemporanea, era Biden.
Biden, con i suoi consiglieri ultraliberal e presentabili, insisteva sulla «foreign policy for the middle class»: tutto quanto viene fatto a livello internazionale (ossia il lato geopolitico e lato economico) deve portare benefici al ceto medio americano e a quel proletariato bianco più o meno pressured, da romanzo postmoderno. In parole povere, hanno capito la crisi interna del globalismo. Oggi gli economisti europei, e sono tanti, non fanno che ripetere basiti “sono pazzi questi americani”, “Trump è uno stupido”, “si dà la zappa sui piedi”. Perché? Perché l’imperialismo, che sembrava vincente, assoluto, produce comunque contraddizioni. Perché quel meccanismo basato sul binomio centralità del dollaro-esportazione di capitali ha favorito un’élite sempre più ristretta. E tutti questi economisti stupiti di quanto sono idioti i membri dell’amministrazione Trump non capiscono che c’è un’istanza, tra virgolette, “di classe” dietro Trump.
Dietro Trump, cioè, c’è il trumpismo, ovvero l’insoddisfazione, il rancore, la voglia di cambiare. Certo, in termini per noi incatalogabili; ma fatto sta che si tratta di quelle istanze di classe, ripeto, interclassiste formate da un ceto medio impoverito, dai suburbi della provincia e un proletariato soprattutto bianco, che ovviamente in quelle condizioni lì, avendo fatto terra bruciata negli anni Sessanta e Settanta di quel minimo di coscienza di classe, se la prende innanzitutto con gli immigrati. Lo stesso immigrato penultimo se la prende con immigrato ultimo. Ma a un certo punto hanno iniziato a prendersela con “l’élite”. Parliamoci chiaro: Biden ha dato un sacco di soldi, ha fatto un sacco di sussidi, e nonostante questo ha perso.
Per noi, il dato politico cruciale è questo: l’imperialismo del dollaro è ricaduto come un boomerang all’interno degli Stati Uniti, ne ha sconvolto la struttura sociale, impoverendo e polarizzando la popolazione. E adesso iniziano a risentirne.
La contraddizione è emersa in una maniera confusissima, che dall’Europa è difficile percepire nella sua interezza, ma ciò non ci esime dal cercare quali siano le istanze che promuove la base sociale del trumpismo e del movimento MAGA. Istanze che Trump e compagnia bella devono disperatamente cercare di connettere quelle frazioni di capitale statunitense che traggono sempre meno benefici dal circuito della globalizzazione: capitali se vogliamo arretrati, più piccoli, ma anche porzioni di finanza in lotta intestina. Blackrock, Vanguard e così via ci guadagnano tantissimo, ma dove investono? Oppure pensiamo alla Silicon Valley, che dalla globalizzazione ci ha guadagnato tantissimo, e che ora ha bisogno di investimenti che solo lo Stato può garantire, sia da un punto di vista economico sia da un punto di vista di difesa geopolitica. I satelliti di Musk, se la guerra in Ucraina continua, chi li difende da una tattica nucleare russa? L’economia? No, la difende lo Stato. Quindi meno Stato per alcuni, più Stato per altri.
La guerra in Ucraina, però, ha dimostrato l’impreparazione degli Stati Uniti a una guerra con un’altra grande potenza. Quindi bisogna evitare e rimandare il più possibile lo scontro diretto con la Russia, ma soprattutto con il nemico dichiarato, la Cina. La parola d’ordine è «prepararsi», certo; ma prepararsi significa fare un passo indietro tattico per farne poi due avanti strategici. Fuor di metafora, ciò equivale a riportare l’industria negli Stati Uniti ad ogni costo. Ma riconfigurare l’industria militare e la componentistica costa grandi sacrifici all’interno. “La borsa è cresciuta troppo? Vabbè, si sgonfia”. “Rischiamo una recessione? Rischiamola pure, ma per rendere l’America grande domani”. “E a chi la facciamo pagare? Innanzitutto all’Europa”.
La rischiosissima scommessa trumpiana è questa a livello geoeconomico e geopolitico: in qualche modo indebolire il dollaro, ma creare le condizioni per cui i titoli del Tesoro statunitense continuino a essere acquistati. Il che, da un punto di vista strettamente economico, è una contraddizione. Vengono allora incontro i rapporti internazionali. Per esempio: l’Europa vuole iniziare a riarmare. Dove le compra le armi? Tra il 60 e l’80% dagli Stati Uniti; quindi via a rinforzare l’industria statunitense delle armi. Altro esempio: hai pochi titoli del Tesoro americano e devi comprarne di più? Uso i dazi. Oppure ti minaccio di non difenderti se non spendi e se non compri da noi. Se non bastasse, ti vendiamo dei titoli del Tesoro a cento anni, che tu sei costretto ad acquistare, o addirittura a scambiare titoli di tesoro a durata più breve con titoli irredimibili, in una sorta di consolidamento del debito. E tu comunque li devi comprare. Ma potremmo continuare.
Dunque un passo indietro rispetto al confronto diretto con la Russia sul piano militare, ma non con la Cina sul piano economico. Poiché il decoupling selettivo di Biden non ha avuto successo, si cerca in ogni modo di isolare la Cina, di costringere l’Europa ad allontanarsene e a creare in Asia sud-orientale un’alleanza anticinese che dia fastidio, rimanendo sempre al di qua del confronto diretto; si tenta di costringere a rivalutare le monete del Giappone, dell’Asia orientale, possibilmente anche della Cina per permettere di svalutare il dollaro, imponendo però al tempo stesso di continuare ad acquistare i titoli del Tesoro. Un azzardo dal punto di vista strettamente economicistico, ma diventa comprensibile se osserviamo il boomerang della configurazione dell’imperialismo dagli anni Settanta in poi, con le sue conseguenze negative sul tessuto sociale e politico, e quindi sulla possibilità di mantenere effettivamente l’egemonia.
Continuando con Biden, con il globalismo e i democratici, il declino degli Usa era garantito. Ecco perché si è avanzata una svolta forte analoga a quella che il Nixon repubblicano e anticomunista fece con la Cina di Mao. I dazi dunque non sono l’obiettivo, ma piuttosto una leva, uno strumento che sarà flessibilmente utilizzato (per frantumare l’Europa, per riunire gli avversari, per dare un contentino ad alcuni settori economici interni, eccetera). Non è scritto da nessuna parte che il tentativo riesca, e ne può uscir fuori un caos inaudito – anzi, forse per noi sarebbe anche meglio così.
Ma non fissiamoci troppo sulla cronaca, e sforziamoci di tenere gli occhi puntati sulle dinamiche generali. La cosa più importante è che l’imperialismo, anche a livelli più alti, aveva eliminato le questioni nazionali. Per converso, oggi l’imperialismo, nel suo punto di sviluppo più recente, attraverso quel boomerang che ho malamente spiegato, ripropone questioni di sovranismo e di difesa della nazione al suo centro, negli Stati Uniti, come difesa dei settori medio-bassi della popolazione da quel globalismo di cui hanno beneficiato i grandi capitali finanziari degli Stati Uniti.
Il che a prima vista apparirebbe paradossale. Capiamoci, questa non è la questione di classe che piacerebbe a noi, pulita e inquadrabile nei termini a cui siamo abituati; ma comunque è una questione di classe, così come in Europa. Ovviamente, quando si parla di sovranismo lasciamo perdere tutti quelli che si definiscono sovranisti, la Meloni piuttosto che Salvini. Già è un po’ più seria la Le Pen, il più serio è Orban, ma comunque… [Kamo: E Vannacci? È serio?] Ma l’Italia è il paese che galleggia! E quindi esprime politici che galleggiano. È così, non contiamo niente. E soprattutto, non c’è neanche la percezione che stanno succedendo cose grosse, cose che sconvolgeranno le nostre vite. Finché non c’è questa percezione non ci si muove, quindi non si può che galleggiare e “sperare che me la cavo”. Però, come dicevamo, già da anni in Europa vediamo in una maniera un po’ buffonesca, ma vedremo in termini sempre più drammatici, un antiamericanismo che serpeggia. Il broncio di Scholz, della Von der Leyen o di Macron è ancora un antiamericanismo da operetta. Però dietro c’è il fatto che l’antiamericanismo era destinato a risorgere anche in Europa.
Voglio quindi chiudere il mio intervento su questo punto, che deve essere molto chiaro: non si muoverà niente in Europa in funzione effettivamente antiamericana se non viene dal basso, ossia facendo pagare a queste élite politiche tutto il loro servilismo rispetto agli Stati Uniti, il loro gioco sporco nella guerra antirussa in Ucraina e via discorrendo. È dunque indispensabile una sua rimessa in moto, che all’inizio non potrà che essere impura, confusissima, interclassista e si darà molto probabilmente non su contenuti immediatamente di classe e internazionalisti, ma con una ripresa dal basso di questi contenuti di difesa nazionale.
Nel cuore dell’imperialismo, ritorna la questione nazionale, in forme veramente inaudite, sconcertanti.
La scommessa di Trump, secondo me, non può essere vinta, ma gli Stati Uniti la giocheranno comunque, e il fatto stesso che la giochino avrà degli effetti sconvolgenti sul sistema internazionale. Un ripiegamento dell’imperialismo su se stesso che ha del paradossale, poiché significa tentare di reinternalizzare una logica mercantilistica dentro un quadro imperialista, bloccando al tempo stesso la potenziale proiezione imperialista della Cina, la quale deve rimanere per gli Stati Uniti bloccata in una logica mercantilista.
Lo ripeto: questo è materiale esplosivo per il sistema mondiale. Per il resto, staremo a vedere, sempre però da una prospettiva, in senso stretto, materialista. Cosa intendo dire? Una cosa non diversa da quella offerta da Lenin. Nel cercare di differenziare l’oggettivismo dal materialismo, Lenin disse che l’oggettivismo vede i processi reali, però si ferma a questi; il materialismo invece vede i processi reali, non interpreta soggettivisticamente, ma li legge alla luce delle contraddizioni che fanno emergere, e quindi delle potenzialità della rivoluzione.
La geopolitica della rivoluzione si è rimessa in moto, seppure in forme che non ci aspettavamo…