Negli anni Settanta l’Italia è stata attraversata da un conflitto sociale di durata, diffusione e intensità che non hanno eguali nella storia recente. La questione della rivoluzione in un paese a capitalismo avanzato, nel cuore dell’Occidente, è precipitata e si è riaperta qui, a livello di massa – non a caso, ancora oggi, quel decennio tormenta gli incubi di comanda.
Gli autonomi, in quel tumultuoso passaggio d’epoca, seppero incarnare più di ogni altro, con forza e intelligenza, la sua attualità. L’attualità della rivoluzione, del comunismo, qui e ora: nelle lotte nei quartieri, sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, ma anche nelle strade, nelle relazioni sociali, nel sapere e nelle forme di vita.
Attraverso un metodo, quello dell’autonomia, che parla di anticipazione dei processi, di lettura della composizione di classe, di scommessa sulle soggettività, di ricerca delle possibilità di attacco, di rottura con l’esistente e con quello che si è – soprattutto quando i vecchi schemi non funzionano più, contro ogni pretesa ideologica e identitaria.
Il rifiuto del lavoro e il salario sganciato dalla produttività. La fabbrica diffusa e l’operaio sociale. Il territorio e il contropotere. La spontaneità di movimento e la disciplina di progetto politico. L’organizzazione autonoma e l’autonomia di classe. Questi sono alcuni nodi cruciali su cui il “cervello collettivo” dell’Autonomia ha scommesso e costruito la sua prassi, tra avanzamenti, contraddizioni e vicoli ciechi.
Che cosa vuol dire riaprire la possibilità di una strategia rivoluzionaria, di una militanza comunista in un paese a capitalismo avanzato? Cos’ha contraddistinto la militanza autonoma degli anni Settanta rispetto a quella degli altri gruppi, partiti, sindacati? Qual è stata la cifra organizzativa dell’Autonomia, quali le sue ricchezze e i suoi limiti? Com’è stata concepita la questione dell’esercizio della forza da parte degli autonomi? Quali armi di riflessione politica, oggi, possiamo dissotterrare da questa storia?
Una chiacchierata che non vuole essere sul passato, per “reduci” o “nostalgici” fuori tempo massimo, ma immediatamente sul presente. Consapevoli che l’autonomia non è mai data una volta per tutte, ma la si conquista e reinventa di continuo.
Cosa accomuna il rapinatore bolscevico Kamo, l’operaio nero delle Pantere Nere che difende il quartiere, la studentessa negli anni Settanta che occupa la scuola o l’università? Cosa condividono la staffetta partigiana che sfida gli infami repubblichini, la miliziana nordirlandese che prepara i Troubles contro gli inglesi, il conricercatore degli anni Sessanta che inchiesta la fabbrica per sovvertirla?
La militanza: una forma totale di guardare al mondo e agire al suo interno, per ribaltarlo. Punto di vista, parzialità, conflitto, odio per il nemico, fratellanza con i propri compagni. Baricentro tra spontaneità e organizzazione, il militante si colloca lì dove l’azione modifica la teoria e la teoria indirizza l’azione.
Ripercorrendo la storia e le lotte di questa figura chiave del Novecento, cosa rimane del militante oggi? Quali ricchezze e limiti ha espresso? Che tipo di militante potrà raccogliere le sfide ancora aperte?
Sono queste le domande che ci siamo posti e abbiamo condiviso con Franco Milanesi, autore di un vecchio libretto molto interessante poiché inattuale (Militanti. Un’antropologia politica del Novecento, edito nel 2010 da Punto Rosso) e ospite del primo appuntamento di MILITANTI, ciclo di incontri sulla militanza di ieri e di oggi.
Quelli che seguono, in forma di appunti, sono alcuni dei nodi e delle categorie di riflessione teorico-politica toccati da Franco nella discussione, che ha visto anche confliggere punti di vista ed esperienze di militanza differenti, perfino opposti – compresi i nostri, soprattutto per quanto riguarda i potenziali terreni del conflitto e le ambivalenze dei soggetti sociali che la nostra idea, e prassi, di militanza vuole inchiestare, presidiare, scomporre e ricomporre. Con una battuta, più prossimi al bancone di un bar di quartiere che a istituzioni e “società civile”. Ma questa è solo il nostro parzialissimo punto di vista, che si intreccia a una determinata esperienza militante. Non ci sono ricette, libretti di istruzioni, manuali scolastici: per noi, semmai, rimangono irriducibili lo sguardo su questo mondo e il metodo con cui organizzare l’odio per esso. Lo stile della militanza da far vivere dentro questi nostri tempi e contro di essi, efficacemente, crediamo sia ancora tutto da (ri)conquistare.
Franco Milanesi
Affrontando la questione della militanza dobbiamo affrontare un doppio rischio: da una parte, farneuna forma atemporale, un’astrazione indeterminata; dall’altra scivolare in un eccesso di storicizzazione. Cercherò pertanto di tracciare una fenomenologia del militante in termini di “universale concreto”, cioè articolando il suo profilo con la storicità dell’accedere, poiché le espressioni della militanza politica mutano in rapporto con le trasformazioni della composizione di classe e dei processi organizzativi, del conflitto, delle forme di lotta. Ma anche al mutare del politiconella sua complessa stratificazione di forme.
La militanza è un processo, è soggettività agente, ma è anche produzione di soggettività (anche verso se stessi, in termini motivazionali). Militanza, infine, è sempre “crisi della militanza”, cioè consapevolezza di una sua incessante ridefinizione di confini, di pratiche, di intensità. Uno sconfinamento, dunque, da ogni possibile cristallizzazione.
Proprio in ragione di questa complessa interazione con il “fuori” (storia, collettività sociale, politico) la Figur del militante cade entro precisi limiti cronologici: quelli del Novecento.
Certo, a ritroso, troviamo le pratiche sindacali del XIX secolo, le eresie alle ortodossie e alle Chiese, i ribelli al comando. Ma tutto questo converge nel Novecento in “regime di storicità”, cioè in una fase in cui si impongono e convergono, sul terreno del politico, alcuni fenomeni che insieme definiranno la specificità di quel pezzo di Storia: la politicizzazione del sociale, l’organizzazione del politico, l’affermazione dello Stato, la diffusione di articolate ideologie politiche, una nuova composizione di classe connessa alla trasformazione delle pratiche lavorative. Il fenomeno della militanza è da articolare dentro questa cornice. E le sue espressioni (militanti sindacali, quadri di partito, forme di soggettivazione durante la stagione dei movimenti, prassi istituzionale) da posizionare al suo interno.
Quali sono i tratti antropologici del militante? In estrema sintesi (e schematicità), abbozzerei un’analisi lungo tre assi tematici:
– Temporalità
– Modulazione delle categorie/concetti del politico
– Soggettività
Temporalità
La temporalità del militante – vale a dire, la sua esperienza del tempo – è irriducibile al qui e ora, coincide con una potente storicizzazione dei fenomeni sociali e critica a ogni forma di naturalizzazione.
Il tempo egemonizzato dal capitalismo (e dalla figura borghese che lo implementa) è schiacciato sul presente. E il presente, fin dagli esordi del tentativo egemonico liberista, è presentato in due modalità: come l’esito di un percorso ineluttabile sfociato nel mercato e nella mercificazione del mondo della vita; come stazione definitiva della storia. Comprendiamo a fondo il nesso tra sistema di produzione capitalistico e antropologia borghese solo in questo rapporto, poiché la forma borghese è consustanziale al sistema del Capitale, è la sua realizzazione (il piano politico del capitale).
Il militante “stressa” la temporalità per scardinare il presente. Vi scaglia dentro il passato, rivisitato non come un filologo ma nel senso benjaminiano del riscatto. Il passato: deposito di storia da riscattare (quelli della nostra parte, dei nostri «avi asserviti»), suggerimento, memoria di ciò che è andato distrutto. Afferra il presente nella sua contingenza irriducibile, lo scandaglia, lo studia con freddezza e anche con partecipe abbandono. Con rabbia e con garbo. Con la consapevolezza che il presente “non è”. Solo l’assunto agostiniano scardina la necessità e la narrazione destinale: qui siete, qui vi ha portato la Storia, qui resterete. Scagliare l’agire militante contro il presente: cioè dire «vogliamo altro da “questa cosa”».
Tale alternativa da costruire è un a-venire. Progetto, strategia, utopia, prefigurazione, esempio. La militanza porta in sé tutto questo. Dice: nessuna traccia definita. Dice: la ribellione non basta a se stessa, è prefigurativa e vuole essere performativa.
Entriamo così su un secondo terreno, quello che fa implodere i dualismi su cui anche l’antagonismo si è arenato. Meglio, non le pratiche, ma i confronti divenuti “fronti” interni all’antagonismo di classe. Da cui divisioni, arroccamenti, autosufficienza.
I concetti del politico
Il militante, in ragione del proprio pensare per l’agire, tende al superamento di alcuni dualismi, cioè irrigidimenti teorici che non hanno riscontro fattuale.
In altre parole, se osservate dall’angolazione del soggetto politico militante (fenomeno, come dicevamo, tipicamente novecentesco) alcune alternative “secche” come rivolta-rivoluzione, potenza-potere, movimento-istituzione, destituzione-istituzione mostrano una slabbratura dei margini che obbliga a un ripensamento che le adegui alla specificità del tempo della politica totale.
Muoviamo dai due termini che hanno storicamente turbato e scosso la presenza borghese: rivolta e rivoluzione. La teoresi si è affannata attorno ad essi distinguendoli, unificandoli, contrapponendoli e soprattutto prendendo parte per l’uno o per l’altro. Ricostruire alcune curvature di questo percorso serve a far chiarezza attorno al nucleo significativo della militanza. Se la rivolta e la rivoluzione sono effettivamente distinte (l’una raccolto nel qui ed ora, l’altra finalizzata al raggiungimento di una meta di alterità), proprio la militanza politica evidenzia un continuo sconfinamento, un’oscillazione, mettendo in campo pratiche che non erano come tali rivolte o rivoluzioni ma innanzi tutto insubordinazioni al comando borghese.
Dalla scintilla iniziale di una ribellione che scaturiva essenzialmente dalla voglia di vendicarsi di un torto subito secondo aspettative e sentimenti condivisi dalla comunità locale di appartenenza, si era passati a una scintilla che innescava un tipo di militanza alimentato dalla speranza di costruire un mondo nuovo, un uomo nuovo, una società diversa. Insieme a quella figura di militante affiorano progetti che trascendevano le sorti di singoli individui e si riferivano a nuove architetture sociali in cui la vecchia classe dominante doveva essere scalzata dalle sue posizioni, la terra redistribuita, i mezzi di produzione collettivizzati, e tutto questo grazie all’iniziativa diretta e militante dei rivoluzionari.
Di nuovo il tempo. È questo prima, cioè l’insostenibilità di una condizione presente del rapporto sociale tra gli uomini, che rappresenta la più profonda vocatio della politica militante: una “chiamata” al fare, al non lasciare “le cose come stanno”. È questo l’appello all’impegno trasformativo, al prender parte al fine di modificare il presente.
In un certo senso, in questo aurorale moto della soggettività, il ribelle e il rivoluzionario si identificano: nello sdegno, nel rifiuto, nella volontà di cambiamento. Dunque, fatte salve le differenze tra i due “modi” dell’antagonismo antiborghese, si vuole rimarcare che il militante novecentesco ha espresso un’incessante oscillazione tra rivolta e rivoluzione. Una ribellione spontanea, immediata, ma intrisa di idealità; una fretta di risposta al potere del capitale che si sostanzia di teoresi e idealità; uno sdegno che sorge comunque dal sé collocato di fronte a un evento storico e subito si interroga sulla condivisione e diffusione di analoghi sentimenti e ragioni; un’espressione di potenza che non rifiuta il potere, ma ne fa pratica (e spesso critica) puntuale. La militanza è stata un incessante processo rivoluzionario che muove dalla contingenza e dalla ribellione. In questo senso, pertanto, la contrapposizione netta riforme-rivoluzione – che ha impantanato il movimento ribelle in una diatriba reiterata e indefinita – perde rilevanza, essendo le due intrecciate dinamicamente nel Novecento.
Non di meno, la pratica militante aggira la scissione tra destituzione e momento costituente, o tra movimento e istituzione.
Destituire il presente per istituire comunità libere. Il militante politico impara anche a governare il presente. Il potere è contropotere tanto quanto è potere costituente di pratiche di socialità comunitaria. Il governo del presente è sempre progettualità proiettata, il militante lo sa. Pensiero vivente come pensiero istituente.
Il capitale mette a valore ogni agire. Controlla le istituzioni per penetrare più efficacemente nel corpo di divenire del sociale. Di fronte alla pratica militante, allora, può sorgere la domanda: perché non osservare con pari attenzione alcuni luoghi istituzionali? Perché non appoggiare con tutta la forza che abbiamo un “momento” di lotta sindacale o una battaglia per i diritti? Il campo è tracciato dall’avversario, ma è scomposto e imprevedibile.
Come imprevedibile deve essere l’attacco. Nessuna illusione sul carattere immediatamenteanticapitalista delle mete eventualmente raggiunte… Ma su quei terreni si possono fare incontri interessanti, si possono intercettare soggettività disponibili a un salto di qualità del conflitto, magari interessate a inacidirne in senso classista i contenuti.
Se il capitale attacca anche quei luoghi dove si è fatta istituzione – e alle volte lo fa con imprevedibile violenza –, se sussume e mette a valore un centro per anziani, una scuola o i lavori pubblici di un piccolo Comune, può diventare interessante spostare anche lì il livello dello scontro e vedere cosa succede? Come scrive Gigi Roggero, nella «caotica ambiguità dei processi reali» non si nasconde forse la possibilità di «utilizzarli anche contro la direzione che qualcuno si era immaginato»?
Pertanto, viene da dire, tenere aperte tutte le ipotesi per organizzare forme di vita sottratte alla competizione, alla crescita compulsiva, al criterio del valore, tali da diventare inciampi per il nostro avversario e imprevedibilmente disponibili a essere parte – magari piccola, magari incerta – di un più ampio fronte antagonista.
Da qui, ancora, lo smarcamento rispetto a una secca contrapposizione tra potenza e potere. Alla luce dei “disastri” del potere comunista (non solo sul piano delle libertà individuali, ma del conformismo e dell’assenza assoluta di senso del ridicolo) il pensiero antagonista di fine secolo si è speso in difesa di uno spinoziano conatus di potenza che lasciava dietro di sé la critica di ogni potere.
Alcuni al potere contrappongono flusso di potenza, pulsione materiale di liberazione, divenire, azione svolta lungo il crinale della “singolarità concreta”. Si delinea una “politica della situazione”. A mio parere – come per il culto del “gesto” ribelle – essa finisce per sciogliersi in un impalpabile fluire. La società fluida, il pensiero debole, flussi e luoghi vacui: non sono solo descrizioni. Sono impianti teorici che ci dicono che il presente non si modifica. In questo quadro la militanza diviene un “fluidificante” di un reale che le regole del capitalismo tendono a sussumere.
Certo, non è difficile osservare la frequenza con cui la politica novecentesca ha mostrato modi di insopportabile irrigidimento del potere. I drammi di questo conformismo del pensiero e della politica sono innumerevoli e il comprensibile tentativo di immunizzazione da essi conduce comprensibilmente alla prospettiva di una politica senza potere.
Ma la militanza, anche se colta come azione prevalentemente contingente, si è sempre frastagliata lungo un arco di accadimenti che non rigettano a priori “concentrazioni” di potere, perché in questo potere si muovono e sono con esso – almeno in parte – consustanziali.
Nell’intenso arco politico che va dal 1918 al 1980, i militanti ebbero ben chiara la consapevolezza che di fronte, ad attenderli, non era un generico “inibitore” di un libero fluire delle potenze di vita. Era potere, solido, duro, strutturato. Non solo fornito di istituzioni, esercito, chiese, polizia ma riprodotto in tutti i meccanismi sociali, sostanziale al rapporto di capitale nei luoghi di lavoro, iniettato fin dentro la relazionalità umana. E allora: soviet, consigli di fabbrica, armata rossa in difesa della rivoluzione, lotta armata vietcong, partiti di massa.
Il potere è ridicolo quando si autocelebra, si sclerotizza. Allora va sbeffeggiato, aggredito, scalzato.
Soggettività
Infine. Il militante si chiede incessantemente: dove e come si forma controsoggettività? Come il malessere, la rabbia, si condensano in azione collettiva?
Il tema non è interamente declinabile in termini di “coscienza di classe” o di rapporto tra composizione tecnica e composizione politica. Vorremmo definirlo ancora il piano dell’antropologico-politico.
Il “fare” della militanza non è il passaggio all’atto di una teoria (come se ne fosse l’“applicazione”) ma è la sua trasfigurazione nell’agire di un soggetto che si impegna per sovrapporre ideale e pratica politica. «Pensare per l’agire» (Tronti): in ciò il militante ribadisce l’assoluta inconciliabilità con l’ordo borghese che vive nella scissione tra pensiero e pratica, affidata agli automatismi.
È un campo di ricerca in continuo divenire. Non ci sono formule se non quella di applicare pensiero alla prassi antagonista (di nuovo, nel regime di temporalità in atto per andare oltre esso) e prassi al pensiero tattico e strategico. Smontare anche il discorso della “crisi” (la crisi bellica, la crisi economica) che è il dispositivo del comando capitalistico per mantenere il sociale in una condizione di eccezionalità permanente.
La militanza, infine, non è uno “stato d’animo”. È un impegno che deve avere anche la capacità di staccarsi da se stesso, di sospettare delle proprie identità. L’immagine dell’uomo e della donna avvitati sul loro “essere militanti”, ossessionati dallo “stare contro”, è parodistica. Non vi è dunque nessuna essenza, nessuna sostanza.
Militare nel nostro campo significa appunto “starci”, sapendo bene quali sono le forme che non ci appartengono e che riteniamo dannose, per noi e per tutte e tutti. Fare ciò con passione, intelligenza delle cose, forza. E anche capacità di staccare lo sguardo e posarlo su altro. Altro da cui attingere nuovo impegno, nuova potenza di vita.