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Discorsoni / Analisi

Robert Ferro – Dove va l’Europa? Crisi e riarmo nel cuore dell’Unione

Dal welfare al warfare, dall’automotive al carroarmato, dall’«Inno alla gioia» di Beethoven alla «Marcia imperiale» di Dart Fener. Nel cambio di tema che fa da sfondo all’Europa, l’imperialismo colpisce ancora. 

Non «guerra stellare», in una galassia lontana lontana, ma ben più prosaicamente mondiale, è lo scenario per cui gli Stati europei preparano piani.

Guerra terrestre e marittima, sul continente e nei cieli, nelle reti e nei flussi. Guerra di trincee sotto il fuoco dei droni, sabotaggi di gasdotti e infrastrutture civili, di missili sulle metropoli e operazioni terroristiche di intelligence, di eserciti nazionali e legioni di paramilitari, di attacchi cibernetici e finanziari, di sanzioni commerciali e dazi globali. Guerra di materiali, di chip, di intelligenze artificiali, di produzione e ristrutturazione industriale, di innovazione tecnologica, di disarticolazione delle filiere, di estrazione e saccheggio dei territori, delle popolazioni, delle forme di vita.

Guerra preparata da massicci piani di riconversione bellica e da strette repressive del fronte interno. Dalla crisi politica nel cuore dell’Europa alla fine della «fine della storia», dalle debolezze delle borghesie nazionali, dalla subalternità al comando di Washington e ai folli progetti di genocidio di Israele. 

Guerra che già ci coinvolge da vicino, senza però un’«alleanza ribelle», anzi, rivoluzionaria, di classe in grado di sovvertirla, ad ampio respiro, in processo di rottura e fuoriuscita da questo sistema che continuamente l’ha generata e la riproduce, su scala sempre più distruttiva, catastrofica, genocidiaria.

Prepararsi all’inaspettato. Si è già detto che perfino Lenin, nel 1914, a Cracovia, quando arrivò la notizia dello scoppio della guerra, rimase sbalordito: per il tradimento dell’Internazionale, certo, ma anche per il passo decisivo nello scontro militare tra potenze, ipotizzabile, probabile, ma non del tutto prevedibile. Se anche un genio tattico come Volodja fu colto, allora, di sorpresa, chi ne vorrebbe seguire la misteriosa curva, oggi, nella desertificazione di un pensiero strategico materialmente ancorato a una soggettività di classe di là da venire, può dormire sereno. 

Eppure. Eppure il corso della storia può prendere pieghe inaspettate, indipendentemente da ogni attore, da ogni azione soggettiva. Fugaci destabilizzazioni, scosse, sospensioni, dell’apparente linearità. Eventi, movimenti, rotture che rimescolano le carte. Finestre temporali che aprono spazi di manovra, di possibilità. Questi momenti non sono né buoni né cattivi; anzi, possono essere cattivi – quasi sempre lo sono – e possono essere buoni: rapporti di forza che vengono messi in discussione, rapporti di forza che possono essere sovvertiti, riconfigurati, costruiti. Sicuramente, questi momenti saranno tragici. Della tragicità che è propria della libertà, autentica e terribile.

È come arriveremo, e ci staremo dentro, a questi momenti, che farà la differenza. Se saremo riusciti ad arrivarci preparati, all’inaspettato. Se riusciremo a guardarla negli occhi, questa terribile possibilità.  

Per questo, dal punto di vista militante, in tutti i suoi aspetti, pensiamo che il compito minimo che la fase pone oggi sia quello di aguzzare la vista, affinare il fiuto, stimolare la mente e allenare il cuore ad essere pronti. Costruire le condizioni per cui – nella partita che si gioca, nel minuto dell’inaspettato – essere caldi in panchina, per poter entrare in campo. E non farci trovare fuori rosa, sugli spalti, come spettatori. Come, tirando una generosa mediana, siamo oggi.

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Pubblichiamo allora la trascrizione dell’intervento di Robert Ferro, autore del podcast «Il perno originario» e del volume «Le ménage à trois de la lutte des classes», tenuto all’ultimo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», organizzato al Dopolavoro Kanalino78 da ottobre 2024 a maggio 2025 (ciclo suddiviso in due parti: Vol. I – «Modena nel conflitto globale» e Vol. II – «Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema»). Rimandiamo quindi alle introduzioni dei precedenti contributi di Mimmo Porcaro e Raffaele Sciortino, e ancora prima all’approfondimento del primo incontro sull’«industria della formazione», i motivi, gli obiettivi e le prime considerazioni “a caldo” che ci hanno accompagnato lungo questo percorso di inchiesta, analisi e discussione politica, per andare subito alle domande che ci hanno mosso in questo ultimo appuntamento. 

Dove va l’Europa, e quali scenari si aprono, quando i sussulti della crisi, dalle periferie esterne, cominciano a disarticolare il cuore dell’impero, la Germania, e la «fabbrica della guerra» si fa continentale? Dove va l’Europa, quindi, nella ripolarizzazione conflittuale del mondo tra Stati Uniti e Cina? È possibile un’Europa in conflitto con gli Stati Uniti? Cosa significa per il continente, e soprattutto per l’Italia inserita nelle sue catene del valore, la destabilizzazione politica e sociale del modello tedesco? Unione Europea e moneta unica possono essere messe in discussione da Berlino o conquistare una loro “autonomia strategica” imperialistica, in concorrenza con quella americana? Che posizione occupano la Germania e l’Unione Europea nella catena imperialistica globale? Si staglia davanti a noi un processo di radicalizzazione politica del contesto europeo, insieme alla sua rinazionalizzazione? 

Buona lettura.

Robert Ferro

Introduzione. Germania e Versailles, ritorno al futuro

In molti oggi avvertono che il periodo storico più recente – sommariamente, quello della globalizzazione e della sua crisi – è entrato in un frangente delicato, in cui si stanno sciogliendo incognite notevoli, con ricadute altrettanto notevoli sull’evoluzione dei rapporti di classe a qualsiasi latitudine. Il sottoscritto condivide questa impressione. In ciò che segue, si tratterà però di andare oltre le impressioni, cercando di collegarle a dinamiche di lunga durata che riguardano il nostro quadrante di riferimento, quello europeo. La domanda «dove va l’Europa?» è legata a doppio filo alla domanda «dove va la Germania?». 

Per cominciare ad abbozzare una risposta, procederemo in tre tappe: in un primo momento, evidenzieremo alcune invarianti storiche del capitalismo tedesco; in un secondo momento, ci soffermeremo su alcuni passaggi della storia tedesca dall’inizio del secolo scorso ad oggi; in un terzo momento, alla luce degli sviluppi precedenti, arriveremo alle prospettive future.

Ci si potrebbe chiedere quale sia l’utilità di un simile discorso. A mio modo di vedere, è importante per coloro che si definiscono comunisti essere in grado di proiettarsi in un orizzonte temporale di medio-lungo termine con delle ipotesi forti e fondate sui macroprocessi in corso e sul loro punto di caduta. 

Ovviamente, nella storia c’è una componente insopprimibile di incertezza e di contingenza, a cui non sfuggono gli attori più lucidi. Ciò non toglie, per noi, l’esigenza di cercare di anticipare gli eventi, invece che essere costantemente in loro balia o al loro rimorchio. Vista la piega che questi stanno prendendo, non si potrà sfuggire eternamente alla questione del che fare. Affrontarla in maniera quanto più ragionata possibile, significa individuare i due o tre scenari più verosimili e pianificare un intervento in vista di essi. Vi ritorneremo in sede di conclusione. 

Invarianti

Per invarianti, devono qui intendersi invarianti relative, giacché nella storia nulla si ripete mai in maniera identica. Questo detto, chi ha ascoltato il podcast Il perno originario (che va preso per quello che è: un divertissement), avrà forse intuito che accordo una certa importanza alla lunga durata, e più specificamente ai fenomeni di persistenza storica, di inerzia, di tradizione. Questo, per controbilanciare una tendenza molto diffusa nel nostro ambiente, che consiste a concentrarsi unicamente sul divenire, sulle trasformazioni. Non che questa tendenza non abbia la sua legittimità; spinta fino alle sue estreme conseguenze, essa porta però a farsi una rappresentazione errata del processo storico, come fosse un perpetuo stato nascente (in altre parole: come se tutto stesse sempre ricominciando daccapo). Con buona pace dei costruttivismi filosofici divenuti di moda negli ultimi decenni, un materialismo conseguente non può abbandonare il postulato secondo cui nulla si costruisce dal nulla, e il ventaglio di ciò che può essere socialmente «costruito» (o trasformato) è limitato in varie maniere dal materiale a partire da cui si «costruisce». 

Per il caso che ci occupa, questo vuol dire che ogni formazione sociale specifica – cioè ogni declinazione particolare del modo di produzione capitalistico nel tempo e nello spazio – non cade dal cielo bell’e pronta, ma si forma a partire da elementi preesistenti, tra cui (fra gli altri) un territorio e una popolazione. Ovviamente territori e popolazioni non sono immutabili, sono essi stessi plasmati da rapporti sociali pregressi e continuano a trasformarsi nel corso del tempo. Ciononostante, come già anticipato, la portata di queste trasformazioni, in particolare su temporalità ridotte, non è assoluta, e alla scala della nostra storia di specie (300 mila anni circa, allo stato attuale delle conoscenze), uno o due secoli non sono molti. 

Nella storia delle nazioni europee, si distinguono sovente – a mo’ di idealtipi – il caso francese, in cui lo Stato produce la nazione, e il caso germanico, in cui la nazione produce lo Stato. Questo è il primo punto su cui vorrei attirare l’attenzione: l’esistenza di un insieme germanofono e il sentimento di appartenenza nazionale tedesca precedono di gran lunga la sua effettiva territorializzazione sotto forma statale. Nel cuore della penisola europea, nella grande pianura che si estende fino alla Russia senza incontrare ostacoli naturali significativi, lo spazio germanico costituisce un blocco etnico-linguistico denso e piuttosto compatto. Esso è situato al crocevia fra le nazioni occidentali territorializzate dall’Atlantico e dal Mediterraneo, da fiumi e da catene montuose, e l’Est del continente, un vasto spazio geograficamente aperto ed etnicamente frammentato, dove il districarsi delle nazioni non ha potuto imporsi con l’evidenza del fatto naturale. 

La nazione tedesca ha dunque assunto fin dall’inizio una dimensione semicontinentale: in primo luogo ostacolando, in virtù della sua posizione, la proiezione continentale delle nazioni occidentali (Francia, Olanda, Inghilterra, eccetera); in secondo luogo, proiettandosi essa stessa su scala continentale in forma di diaspora, senza con ciò darsi confini territoriali chiaramente definiti. Mi riferisco qui alla storia della Ostsiedlung, cioè alla formazione di colonie di popolamento tedesche al di là del fiume Elba – un processo assai dilatato sia dal punto di vista temporale che spaziale, con prolungamenti che arrivano fin dentro al mondo russo nel XVIII secolo (tedeschi del Volga) e nel XIX secolo (a Bolnissi, in Georgia). Peraltro, questa spinta verso Est comporta anche dei fenomeni di retroazione, che permettono di moderare l’idea abituale secondo cui la concezione tedesca della nazione e della cittadinanza sarebbe strettamente etnicista: in realtà, nello spazio tedesco, il rinnovamento del materiale umano generazione dopo generazione è avvenuto (e continua ad avvenire) in misura non trascurabile attraverso l’assimilazione di popolazioni slave e magiare. 

Questi due elementi – la preesistenza della nazione tedesca rispetto alla sua formalizzazione statale, e la sua proiezione verso Est – non sono una scoperta recente, ma si trovano già nella riflessione dei padri fondatori del socialismo scientifico su questo tema. Ad esempio, si possono trovare indicazioni in tal senso in una lettera del vecchio Engels a Franz Mehring del 14 luglio 1893[1]. Assai più giovane di Engels, Mehring ha fatto in tempo a partecipare all’esperienza della Lega di Spartaco e alla fondazione del Partito comunista tedesco. Come autore, è conosciuto principalmente per la sua biografia di Marx e per una storia in più volumi della socialdemocrazia tedesca. Meno noti sono invece i suoi lavori sulla storia sociale e culturale della Germania, tra cui La leggenda di Lessing (1892), che anticipa molti elementi del dibattito storico sul cosiddetto Sonderweg, la «via originale» tedesca. Nella lettera citata, Engels reagisce in maniera entusiastica all’opera di Mehring, offrendogli in conclusione alcuni spunti supplementari:

«Nello studiare la storia tedesca […] ho sempre trovato che il solo confronto con le corrispondenti epoche della Francia dà il giusto metro di giudizio, perché là accade l’esatto opposto che da noi. […] Là, il conquistatore inglese nel Medioevo rappresenta, nella sua intromissione a favore della nazionalità provenzale contro quella francese-settentrionale, l’ingerenza estera; le guerre con l’Inghilterra prefigurano, per così dire, la guerra dei Trent’anni, che però finisce con la cacciata dello straniero e la sottomissione del Sud al Nord [della Francia, nda]. Viene poi la lotta del potere centrale con il vassallo di Borgogna, che si appoggia a possedimenti esteri recitando la parte del Brandeburgo-Prussia; lotta che però termina definitivamente con la vittoria del potere centrale e la creazione dello Stato nazionale. Esattamente nello stesso periodo, da noi lo Stato nazionale (nei limiti in cui il “regno tedesco” entro i confini del Sacro romano impero può essere chiamato uno Stato nazionale) crolla totalmente e comincia il saccheggio su vasta scala del territorio germanico […]».

E nel paragrafo successivo: 

«Particolarmente significativo per lo sviluppo tedesco è inoltre che i due frammenti di Stato che, alla fine, si sono divisi la Germania non siano, né l’uno né l’altro, Stati puramente tedeschi, ma colonie su territorio slavo conquistato: l’Austria una colonia bavarese, il Brandeburgo una colonia sassone; e che si siano creati una potenza in Germania alla sola condizione di appoggiarsi su possedimenti stranieri, non tedeschi: l’Austria sull’Ungheria (per tacere della Boemia), il Brandeburgo sulla Prussia […]».

In quale maniera questi due elementi si coniugano nella storia socio-economica della Germania moderna? Per cominciare, si può dire che in assenza di un quadro politico-territoriale stabilizzato, l’integrazione economica della nazione tedesca ha preceduto la sua integrazione politica, in particolare attraverso lo Zollverein (1834), una vasta unione doganale promossa non dagli staterelli dell’area renano-vestfaliana, ma dalla Prussia, una regione orientale che dal 1945 non fa più parte dello spazio tedesco. Tale integrazione economica era strettamente legata allo sviluppo del settore ferroviario che, per essere ammortato, doveva necessariamente proiettarsi su un mercato esteso la cui costruzione ha fatto leva su elementi oggettivi di coerenza etnico-linguistica e su un sentimento di appartenenza nazionale comune.

Questo aspetto rimanda a una questione più teorica e generale che mi limiterò solo ad accennare: in un contesto, quello capitalistico, in cui i processi produttivi più efficienti sono generalmente quelli più intensivi in capitale e meno versatili, la redditività del capitale investito è legata alla produzione in serie. Qual è la sua dimensione ottimale? Essa dipende senz’altro dalla natura concreta delle attrezzature in questione, dalla loro indivisibilità tecnica e dal loro grado di specializzazione; ma in generale, si può dire che la dimensione ottimale della produzione in serie nell’ottica di rendere redditizio il capitale investito si ingrandisce nella stessa misura in cui aumentano il progresso tecnico e la divisione del lavoro. 

Il rovescio della medaglia sta nel fatto che è la dimensione del mercato potenziale a determinare, dal punto di vista capitalistico, la scelta tra diverse tecniche produttive, le più efficienti delle quali presuppongono generalmente l’accesso a un mercato più vasto rispetto a quelle meno efficienti. In questo senso, l’esistenza o meno di un vasto insieme nazionale o protonazionale su cui appoggiarsi, predetermina in una certa misura la possibilità per i vari poli capitalistici di emergere come agenti di primo piano dell’accumulazione del capitale. L’estensione crescente dei poli capitalistici egemoni, così come teorizzata da Giovanni Arrighi o da altri autori riconducibili alla World System Theory, non è estranea a questa problematica. 

Novecento

In Germania, lo status di leader legittimo dell’Europa è stato rivendicato esplicitamente solo di recente dai governi in carica (si veda la Zeitenwende proclamata da Olaf Scholz). Le ragioni di questo stato di cose risalgono, a mio modo di vedere, alla prima metà del XX secolo e alla maniera terribilmente violenta e sanguinosa in cui quel periodo si è concluso. 

All’inizio del XX secolo, il relativo declino dell’Impero britannico come «potenza che domina il mercato mondiale» (Marx) apre una competizione tra due poli capitalistici ritardatari, quello americano e quello tedesco, la cui rimonta è stata possibile, in entrambi i casi, solo su basi protezionistiche. In questa competizione, il grande capitale tedesco soffre di una serie di debolezze, la principale delle quali è che il suo Stato – al quale Bismarck, per evitare eccessive ritorsioni, ha dato una forma piccolo-tedesca – non domina il proprio spazio di riferimento. 

Nell’ultimo decennio del XIX secolo, avviene il passaggio dal protezionismo bismarckiano al libero scambio e alla Weltpolitik (politica mondiale) della Germania guglielmina, che reclama il suo «posto al sole» fra le grandi potenze coloniali dell’epoca. Questo passaggio spinge l’Impero tedesco, preso a tenaglia dall’alleanza franco-russa, in un tentativo di presa di controllo delle vie commerciali marittime che lo pone in conflitto diretto con l’Impero inglese (donde, fra l’altro, la dimensione navale del conflitto militare, la guerra sottomarina degli U-Boot tedeschi).

Al termine del conflitto, i debiti di guerra contratti dagli anglo-francesi e ripudiati dalla Russia rivoluzionaria vengono ripercossi sulla Germania, da cui le condizioni draconiane del Trattato di Versailles, che cancella le acquisizioni territoriali degli Imperi centrali ratificate a Brest-Litovsk (1918), amputa il grande capitale tedesco di buona parte dei suoi investimenti esteri, priva la Germania delle sue colonie (principalmente africane: Camerun, Togo, Namibia, e così via) e le impone il pagamento delle riparazioni. L’ordine di Versailles orchestrato dai capitali anglosassoni e francesi ratifica inoltre l’esistenza di tre paesi, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Jugoslavia, con lo scopo di ostacolare la proiezione tedesca verso Est.

Come noto, la sconfitta militare provoca la caduta dell’Impero e una serie di lotte di classe con punte insurrezionali dal 1918 al 1923, la cui sconfitta, combinata con gli effetti devastanti della crisi del 1929, conducono all’ascesa del movimento nazionalsocialista. L’arrivo al potere di Adolf Hitler pone definitivamente fine alla politica di conciliazione con le potenze vincitrici incarnata dalla figura del ministro degli esteri socialdemocratico Gustav Stresemann, e lancia la Germania in una contestazione frontale degli assetti territoriali e geoeconomici usciti dalla Prima guerra mondiale. Fra le altre cose, questa contestazione conduce la Germania a far esplodere i tre paesi riconosciuti a Versailles (nell’ordine: Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia). Come noto, essa si concluderà in maniera catastrofica, alla fine della Seconda guerra mondiale, con una capitolazione senza condizioni implicante smilitarizzazione, smantellamento dello Stato maggiore e smembramento del Reich stesso.

Sia durante la Prima guerra mondiale che durante la Seconda, lo Stato tedesco elabora progetti a lungo termine volti all’integrazione economica, doganale e monetaria del continente europeo. In estrema sintesi, il progetto tedesco di unificazione europea è quello di un grande spazio (si veda il concetto di Großraum nell’opera di Carl Schmitt) retto dall’egemonia regionale della Germania. Nella sua variante nazionalsocialista, esso avrebbe dovuto e potuto contare, se non su un’alleanza con l’Inghilterra, quantomeno sul suo non-intervento sul teatro continentale, in linea con la politica inglese di appeasement degli anni 1930 (che, come noto, viene invece abbandonata dopo la frammentazione della Cecoslovacchia, orchestra dal Reich nel 1938). Per due volte, quindi, il tentativo della Germania di accedere allo statuto di egemone continentale viene sventato.

All’indomani della fine della guerra, gli alleati sono determinati a porre fine alla Germania sia come polo capitalistico avanzato che come Stato unitario e indipendente. Separato dall’Austria, che riacquista rapidamente la sua indipendenza, il territorio tedesco viene balcanizzato tra una Germania occidentale, a sua volta divisa in tre zone (britannica, americana e francese), e una Germania orientale, di cui una parte è sotto il controllo diretto di Mosca (la futura Repubblica democratica tedesca, RDT) e altre due – la Prussia orientale da un lato, la Pomerania unita all’Alta Slesia dall’altro – vengono annesse alla futura Polonia «popolare». 

Il progetto iniziale americano, secondo le raccomandazioni del piano Morgenthau elaborato prima della fine del conflitto, è quello di ridurre la Germania sotto il controllo alleato a un paese di agricoltura e pastorizia. Una politica di riduzione delle capacità industriali tedesche viene effettivamente perseguita fino al 1947, attraverso le riparazioni di guerra. Gli impianti industriali vengono smantellati e trasferiti nei paesi occupanti. Nelle tre zone occidentali della futura Repubblica federale tedesca (RFT), non c’è libera circolazione di beni e servizi e nessuna delle tre è autosufficiente dal punto di vista alimentare. La produzione industriale è scesa al 38% rispetto ai livelli del 1936, mentre il settore agroindustriale risente fortemente della mancanza di macchinari e fertilizzanti. 

Il livello di razionamento alimentare della popolazione è più draconiano di quello in vigore nella futura RDT: 1000 calorie al giorno contro 1500. Le autorità americane sul posto comprendono rapidamente quale sia il rovescio della medaglia. Il generale Clay, responsabile delle forze di occupazione americane, lo esprime in questi termini: «Tra diventare comunisti con 1500 calorie al giorno e credere nella democrazia con 1000, la scelta è presto fatta. La mia sincera opinione è che il razionamento imposto in Germania non solo porterà alla sconfitta dei nostri obiettivi nell’Europa centrale, ma aprirà la strada ad un’Europa comunista». Il passaggio della Cecoslovacchia nel frattempo ricostituita nell’orbita di Mosca nel 1947 e gli scioperi che si moltiplicano nello stesso periodo nei bacini minerari, siderurgici e automobilistici dell’Europa occidentale sembrano confermare questa diagnosi. Inoltre, un mercato così depresso nel cuore dell’Europa non è privo di conseguenze per il capitale americano, che già prima della guerra soffre di un eccesso di capacità produttive domestiche destinato a riproporsi a conflitto terminato, quando i settori economici requisiti e messi al servizio dell’economia di guerra (automobilistico, chimico, eccetera) devono adattarsi alle condizioni postbelliche. 

La combinazione di questi due fattori convince le autorità americane a modificare il loro approccio. Inizia così l’epopea dell’Europa europeista, ovvero la resurrezione del grande capitale tedesco in seno all’impero europeo dell’America. La specificità di questo processo può essere riassunta nel seguente paradosso: il riemergere del capitale tedesco non era voluto, ma si è rivelato passo dopo passo il prezzo necessario e inevitabile del dominio imperiale americano sulla metà «libera» del continente.

Nella vulgata riguardante la ricostruzione postbellica, si insiste spesso sull’importanza del piano Marshall. Ma questo non sarebbe stato sufficiente per rilanciare l’economia dei paesi interessati senza l’Unione europea dei pagamenti introdotta, anch’essa sotto pressione statunitense, nel 1951. Nell’ambito del nuovo sistema monetario internazionale varato a Bretton Woods nel 1944, gli scambi internazionali tra i paesi europei devono essere effettuati in dollari. Tuttavia, alla fine degli anni Quuaranta i dollari sono scarsi in Europa, poiché la bilancia commerciale di tutti i paesi europei nei confronti degli Stati Uniti è in deficit. Questo li costringe, in sostanza, a scegliere se commerciare fra loro o con gli Stati Uniti. Il meccanismo di clearing istituito con l’Unione europea dei pagamenti risponde a questo problema. 

Allo stesso modo, la ripresa economica non può avvenire senza risolvere i problemi di approvvigionamento di materie prime di base come il carbone, la cui produzione è insufficiente a soddisfare il fabbisogno delle industrie, e l’acciaio, settore che invece registra un eccesso di capacità produttiva. La Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) istituisce un’autorità sovranazionale responsabile della gestione delle capacità produttive in questi due settori. Il piano Monnet-Schuman (rispettivamente commissario al Piano e ministro degli Affari esteri francesi) per la CECA viene elaborato per risolvere in via prioritaria i problemi dell’industria francese, ma «venduto» agli americani come una soluzione che consentirebbe di evitare la ricostituzione del grande cartello europeo dell’acciaio, dominato a partire dal 1926 dal gigantesco conglomerato tedesco Stahlverein. 

La CECA agisce tuttavia nel senso della costituzione di grandi gruppi nei settori di sua competenza e, soprattutto, consente di eliminare le ultime misure che impongono un limite massimo alle dimensioni delle imprese tedesche. Il cuore produttivo europeo ricomincia a battere. 

Durante tutta la prima metà degli anni Cinquanta, la priorità degli imprenditori tedeschi è il ripristino di un’unione doganale che consenta loro di puntare sulle economie di scala. Essa viene ottenuta puntualmente nel 1957 con la creazione della Comunità economica europea (CEE, ovvero l’Europa dei sei: RFT, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo). Questa, però, si rivela ben presto troppo ristretta per contenere la rapida crescita del grande capitale tedesco, donde gli allargamenti che avranno luogo in seguito[2]. Allo stesso tempo, lo spazio economico integrato così costituito si rivela una formidabile valvola di sfogo per i capitali americani, che trovano in quest’area non solo un mercato di sbocco, ma sempre più (e in particolare dall’inizio degli anni Sessanta in poi) una zona privilegiata di investimento, attraverso l’apertura di filiali europee di multinazionali americane, volta non di rado ad aggirare i dazi doganali della CEE. Queste filiali dispongono di fonti di finanziamento proprie rispetto a quelle dei capitali tedeschi, francesi, olandesi, italiani, eccetera (si veda il mercato dell’eurodollaro).

L’Europa europeista è dunque il risultato di due imperativi opposti: quello dei grandi capitali americani, che mirano ad assicurarsi una vasta zona riservata all’esportazione di merci e capitali, e quello dei capitali tedeschi, che mirano a ritrovare la dimensione critica che consenta loro di inserirsi efficacemente in un contesto di competizione oligopolistica vieppiù internazionalizzata. 

Questi due imperativi si sono combinati in modo più o meno virtuoso, con alti e bassi, per diversi decenni. Tutto questo è avvenuto nel quadro dell’impero europeo dell’America che, pur ammettendo la crescita e lo sviluppo del capitale tedesco, imponeva forti vincoli alla sovranità della Germania (anche riunificata), secondo il motto della NATO: «Tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto». Il medesimo dualismo si è poi tradotto anche all’interno delle alte istanze dell’UE – Corte di giustizia, Commissione, Consiglio, Banca centrale, Parlamento – che, lungi dall’avere un orientamento univoco, fanno prevalere, a seconda delle loro prerogative e del loro funzionamento, il punto di vista tedesco o quello americano (anche travestendolo da espressione dei paesi europei periferici, se necessario), cosicché l’istituzione nel suo insieme si configura come un organo di mediazione fra l’uno e l’altro, in un quadro generale che escluda il ristabilirsi di una piena sovranità tedesca («i tedeschi sotto»)[3].

Riassumendo: dopo la guerra e la capitolazione senza condizioni del Reich, dopo la sua balcanizzazione tra il 1945 e il 1949, dopo la ricostituzione di due Germanie su una base più limitata all’interno di un’Europa divisa dalla cortina di ferro, la ricostruzione economica della sua parte occidentale finisce per riportare, nel giro di qualche decennio, la Germania federale nel girone dei grandi paesi industrializzati. Restano però numerosi fattori caratteristici del mondo bipolare che rendono ancora prematura la questione dell’egemonia continentale, potenziale o effettiva. 

Verso la fine degli anni Sessanta, il polo capitalistico tedesco nuovamente in rimonta (come quello giapponese, del resto) ha ricominciato a farsi esportatore di capitali, ma questa tendenza risulta ancora assai frenata dai meccanismi di controllo sui movimenti di capitale allora vigenti. Inoltre, la divisione dell’Europa dettata dalla cortina di ferro sottrae tutta la parte orientale del continente europeo alla penetrazione tedesco-occidentale di merci e capitali (per quanto evidentemente degli scambi esistano: inaugurazione dell’oleodotto Druzba nel 1963, Ostpolitik 1969-1974, scambi commerciali RFT-RDT, eccetera). 

Questo fatto costringe il grande capitale tedesco a limitare per lo più la sua espansione commerciale in direzione dell’Europa atlantica e mediterranea, allargando la CEE prima alla Gran Bretagna, all’Irlanda e alla Danimarca (1973), poi alle ex dittature militari periferiche: Grecia (che aderisce alla CEE nel 1981), Spagna e Portogallo (che vi aderiscono nel 1986). Nei decenni Settanta e Ottanta, la dimensione mercantilistica, cioè legata all’esportazione di merci, prevale ancora fortemente sulla dimensione imperialistica, legata all’esportazione di capitali – fatto confermato in controluce dai tentativi di integrazione monetaria «morbida» del Serpente monetario (1972-1978), e del Sistema monetario europeo (SME, 1979-1993), elaborati in risposta alla fluttuazione monetaria del dopo-Bretton Woods, principalmente nell’ottica di evitare le svalutazioni competitive degli altri paesi membri del Mercato comune. 

È alla metà degli anni Ottanta – e in particolare con gli accordi del Plaza (1985) che impongono alla Germania una rivalutazione del marco sul dollaro – che lo scenario inizia a cambiare abbastanza rapidamente, sciogliendo via via i nodi prima elencati. Nel 1986, l’Atto unico europeo, con l’introduzione della libera circolazione dei capitali nella CEE (fortemente voluta dalla Germania) può essere considerato come lo spartiacque che segna l’effettivo ritorno sulla scena storica di un imperialismo tedesco in senso stretto, ovvero come fonte di massicce esportazioni di capitale. 

Questo non significa che la Germania sia in assoluto l’unico imperialismo europeo rimasto sulla scena: semplicemente, la sua portata e il suo potenziale sul piano economico sono incomparabilmente più grandi rispetto a quelli di paesi come la Francia, la Gran Bretagna o l’Italia – come il seguito degli eventi tende a mostrare. 

Nel 1990 la Germania occidentale effettua l’Anschluss della RDT, avviando con ciò la brusca ristrutturazione dell’economia tedesco-orientale, anche a prezzo di mandare in frantumi il SME (tre anni più tardi). Nel 1991 l’URSS si dissolve, aprendo la strada alla rapida frammentazione del blocco dell’Est. Allo stesso tempo, ha inizio il lungo decennio delle guerre jugoslave, innescate dal riconoscimento unilaterale dell’indipendenza slovena e croata da parte della Germania. A questi eventi epocali segue, nel 1992, il «divorzio di velluto», cioè la separazione amichevole della Repubblica Ceca e della Slovacchia, divenuti così degli staterelli da 10 e 6 milioni di abitanti rispettivamente, che in seguito saranno interessati da un intenso movimento di investimenti tedeschi. Da allora, un vasto spazio politicamente frammentato, composto da piccoli Stati con poca autonomia sia economica che politica, viene coinvolto dalla dinamica del capitale tedesco, che ne fa un territorio economicamente integrato. 

Infine, questa fase segna anche il ritorno a una politica estera interventista, caratterizzata dall’invio della Bundeswehr per la prima volta dal 1945 fuori dai confini nazionali, nell’ambito dell’intervento della NATO in Kosovo (1999). Gli anni Novanta segnano dunque una svolta diplomatica, in quanto la Germania mette in discussione in modo volontaristico l’architettura europea ereditata da Versailles. Ma segna anche una svolta economica, in quanto l’Europa orientale è uno spazio già industrializzato, con una forza lavoro qualificata, e una vocazione industriale che viene messa al servizio degli investimenti tedeschi. In tutti i paesi della zona, i conglomerati tedeschi realizzano tra il 25 e il 40% dei loro investimenti, dando vita a un vasto blocco economico organizzato, sinergico, funzionale e compatto. 

La «nuova Europa» si organizza ormai attorno al cuore industriale tedesco e al suo hinterland continentale, uno spazio economicamente vivace che contrasta in maniera crescente con la stagnazione dell’Europa atlantica e mediterranea. 

Tuttavia, per ragioni legate sia alle ipoteche che continuano a pesare sulla sovranità politica dello Stato tedesco, sia ai meccanismi interni di legittimazione politica, sia alla volontà di preservare rapporti di buon vicinato con i paesi occupati durante la guerra, nei successivi anni Duemila nessun leader politico tedesco osa ancora alludere all’egemonia continentale tedesca come un obiettivo auspicabile. In questo frangente, l’esistenza di un interesse nazionale tedesco (che come qualsiasi «interesse nazionale» non è un dato, ma un prodotto di mediazioni e arbitraggi) è politicamente inammissibile, e «l’Europa» diviene il nome ufficiale di questi interessi man mano che la CEE, ora divenuta UE, prende forma e slancio[4].

Pur sfruttando a proprio vantaggio le faglie aperte dalla fine del mondo bipolare, la Germania mantiene dunque un profilo basso, preoccupandosi piuttosto di dotare l’UE di un complesso di regole (Maastricht 1992, Amsterdam 1997, e così via) che consentano una sorta di «governo tecnico» sui paesi membri, surrogato di un’autentica egemonia politica. Alla fine degli anni 1990, l’introduzione della moneta unica completa l’edificio, con l’illusione (soprattutto francese) che essa equivalga alla messa in comune del marco tedesco e, di conseguenza, all’impossibilità definitiva di qualsiasi egemonia o autonomia tedesca. La Germania, dal canto suo, lascia fare e trova persino una certa utilità alle velleità di grandezza del galletto francese, che si sogna capofila politico dell’UE.

Sonderweg del terzo millennio

La prima metà degli anni Duemila è una fase di rallentamento economico, in cui la Germania, come sovente nel corso della sua storia, viene considerata come un paese destinato al declino. Sulla stampa economica internazionale vi si fa riferimento come «il malato d’Europa». È questo il periodo delle dolorose riforme del mercato del lavoro del governo Schröder, che rivedono al ribasso il compromesso sociale (mantenimento dell’occupazione in cambio di maggiori margini di compressione salariale), nell’ottica di rilanciare la competitività industriale in loco. Cosicché, sotto la guida di Angela Merkel (2005-2021), la Germania consolida ampiamente il suo statuto di potenza economica. Diversamente da quanto accade altrove, lo spartiacque della grande crisi del 2008 gioca piuttosto a suo favore.

Non ripercorrerò qui nel dettaglio la storia della crisi dei debiti sovrani in Europa e degli anni successivi. A questo proposito, si può dire che in una prima fase (2008-2015) la Germania si è vista costretta a più riprese a uscire allo scoperto per far valere gli interessi specifici dei suoi settori capitalistici dominanti, in condizioni in cui non era più possibile presentarli come interessi generalmente europei (difesa dell’euro forte tra il 2008 e il 2012, disciplinamento della Grecia, accoglienza dei rifugiati siriani nel 2015 e crisi migratoria associata, eccetera).

Il binomio franco-tedesco, che fino ad allora aveva contribuito a contenere la dinamica tedesca, si spacca sulla gestione della crisi greca: malgrado l’appoggio degli Stati Uniti, la Francia, sostenitrice di una politica più flessibile atta a preservare gli interessi del proprio capitale bancario, ne esce provvisoriamente sconfitta. La Germania, dal canto suo, afferma il suo controllo sugli affari interni dei membri dell’eurozona (in Italia, ad esempio, spinge alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi), mantiene una politica della moneta forte e avvia un nuova fase di accumulazione che inizia a basarsi maggiormente sulle esportazioni, prima di merci e poi di capitali, verso i paesi BRICS – Cina in primis. 

In una seconda fase, grossomodo dal 2015 in avanti, essa si trova però a fare i conti con lo scontento che questa politica suscita sia nel contesto europeo che internazionalmente (soprattutto negli Stati Uniti), e deve nuovamente fare un passo indietro. La Germania accetta così di essere messa in minoranza in seno alla direzione della BCE sulla questione della politica monetaria dell’eurozona (il bazooka di Mario Draghi, annunciato nel 2012 e attivato nel 2015) e ancora nel 2020, durante la crisi del Covid, con la ripresa del quantitative easing da parte della BCE, associato a un massiccio piano di aiuti (Next Generation EU) concesso dall’UE sotto la minaccia più o meno esplicita di un Italexit.

Questo approccio riluttante rispetto al ruolo di egemone politico in Europa raggiunge a mio avviso i suoi limiti con la guerra in Ucraina. Presa nel fuoco incrociato del ricatto morale a sostegno dell’Ucraina, della messa sotto accusa delle sue interdipendenze economiche con la Russia, dell’attacco alle sue infrastrutture energetiche (Nord Stream I e II), delle spinte recessive che da allora gravano sul suo tessuto economico interno e su quello del suo hinterland, la Germania deve finalmente decidere a quale gioco vuole giocare. Il momento delle scelte difficili si avvicina.

In parallelo, assistiamo nell’ultimo decennio a un tentativo di autonomizzazione da parte delle alte istanze dell’UE, e in particolare della Commissione europea. A partire dalla Brexit, che giunge a compimento nel 2020, questo tentativo diviene una vera e propria fuga in avanti. Esso si è tradotto in un impiego sempre più incostante e discrezionale del famoso principio di sussidiarietà, applicato in modo ascendente o discendente a seconda delle circostanze, dei compromessi o degli intrighi politici: ascendente quando l’UE, i suoi rappresentanti e i suoi portavoce si attribuiscono funzioni che in linea di principio non sono le loro (come nel caso del dossier ucraino, con l’improvvisa apparizione di una «diplomazia europea» condotta dal duo Von der Leyen-Breton); discendente quando l’UE lascia che i paesi membri se la cavino come possono con questioni che sarebbero di sua competenza, ma che vengono nascoste sotto il tappeto finché che non divengono altamente esplosive.

In sintesi, tutto ciò genera un quadro di difficile lettura, delegittimato e inefficiente (anche quando sono in gioco somme ingenti: si veda il Next Generation EU e i suoi esiti), tanto più che numerosi paesi, nonostante la profusione di annunci roboanti da parte della Commissione, conoscono una stagnazione economica di cui per ora non si vede la via d’uscita. Inoltre, i nazionalismi prosperano ormai anche all’interno delle istituzioni rappresentative dell’UE (in particolare nel Parlamento europeo), per quanto il loro ruolo sia notoriamente ridotto. Quest’ultimo punto, a mio avviso, è indice di una tendenza a lungo termine che sta modificando l’arena europea in base ad accordi e iniziative intergovernative, nonostante gli sforzi in senso contrario della casta politica «europea» situata in cima alla piramide.

Abbiamo dunque a che fare con due tendenze contraddittorie: da un lato, le spinte della Commissione che, attraverso una politica del fatto compiuto, cerca di mantenere per sé l’iniziativa e di serrare i ranghi; dall’altro, la tendenza ad un’Europa delle nazioni, un’Europa a geometria variabile o un’Europa à la carte, destinata a sfuggire in maniera crescente al controllo della Commissione (si veda ad esempio i vertici di «volenterosi» sulla questione ucraina, prima a 15 e più recentemente a quattro, che hanno coinvolto anche la Gran Bretagna post-Brexit).  

La guerra in Ucraina ha reso possibile un ultimo tentativo di centralizzazione sovranazionale da parte dell’UE, soluzione alternativa a quella di un grande spazio esplicitamente dominato dalla Germania. Tuttavia, questo tentativo, incarnato dal protagonismo politico e mediatico di Von der Leyen, è fallito. Tutto l’attivismo di Ursula e dei suoi soldatini per fare della Russia il nemico assoluto, silenziare le voci discordanti e promuovere regime change nei paesi membri recalcitranti, spingere a una rapida adesione dell’Ucraina all’UE nonostante la lista già corposa di paesi candidati, e così via, tutto ciò non è bastato a cambiare l’esito dello scontro militare sul territorio ucraino. La nuova amministrazione americana rincara la dose rompendo ufficialmente con la «diplomazia dei valori» che si supponeva condivisa dall’UE e dagli Stati Uniti, e avviando colloqui per la cessazione del conflitto in Ucraina senza includere rappresentanze dell’UE al tavolo dei negoziati.

Il centralismo di Von der Leyen appare sostenibile solo nel quadro di una prosecuzione dello scontro transatlantico con la Russia, riacceso e pilotato a distanza dagli Stati Uniti. Solo nel quadro di un’alleanza transatlantica stretta, l’Unione europea può tenere assieme i suoi diversi membri[5]. A meno che l’attuale orientamento americano non subisca ulteriori inversioni, questo scenario non è il più probabile, anche malgrado le attuali iniziative europee volte a rilanciare la spesa militare in Europa in maniera coordinata dall’UE (vi ritornerò in sede di conclusione). 

A trent’anni dalla svolta del 1989-1991, dell’ordine mitteleuropeo di Versailles rimane in piedi solo la Polonia. Naturalmente, dal punto di vista economico essa è strettamente annodata al complesso produttivo tedesco: nel 2021, l’interscambio tra Germania e Polonia ha superato quello tra Germania e Italia, la quale resta un importante polo industriale in Europa, forte di una popolazione 60 milioni di abitanti (per quanto in rapido invecchiamento). Tuttavia, la fissazione del confine tedesco sulla linea Oder-Neisse, stabilita a Potsdam nel 1945 e che ha amputato le due Germanie post-belliche della Prussia – confine il cui riconoscimento tardivo è stato imposto dagli Alleati in cambio della riunificazione – lascia in realtà aperta la possibilità di una disputa territoriale tra i due paesi.

La Polonia è un paese di quasi 40 milioni di abitanti, uniti da una forte coscienza nazionale. Essa possiede quindi i due elementi necessari per mettere i bastoni fra le ruote ad un’egemonia politica tedesca esplicitamente affermata: la dimensione critica del suo mercato interno, che le consente di rivendicare una certa autonomia economica sostenendo lo sviluppo di un’industria propriamente nazionale, quantomeno in determinati settori, e quel sentimento nazionale che sostiene la sua capacità di affermare la propria indipendenza nei confronti dell’ingombrante vicino. Dalla disgregazione del blocco dell’Est in poi, la Polonia è riuscita a cavalcare lo sviluppo economico tedesco. In Europa, essa appare come l’unico paese in grado di far fallire un nuovo eventuale tentativo tedesco di instaurare il suo Großraum – fatto che non sfugge agli anglo-americani, i quali vedono in essa il principale vettore dell’atlantismo, e ne hanno fatto il loro avamposto geopolitico sul continente.

Tutto ciò ha implicazioni importanti allorché si consideri l’imperialismo non solo come il dominio di un determinato paese o gruppo di paesi, ma come un processo dinamico di esportazione di una dinamica di sviluppo economico. Giacché, diversamente dal mercantilismo, basato sull’esportazione di merci, l’imperialismo, esportando capitali, esporta necessariamente una dinamica di sviluppo. 

Laddove una simile dinamica giunge a coinvolgere un paese abbastanza grande e coeso, sia dal punto di vista quantitativo (dimensioni del mercato interno) che qualitativo (senso di appartenenza nazionale, necessario a disciplinare la sua classe capitalista), l’imperialismo crea esso stesso gli elementi della propria sovversione. Il rapporto fra Stati Uniti e Cina è un caso esemplare, ma quello tra Germania e Polonia potrebbe costituire un esempio analogo di questo tipo di evoluzione su una scala più ridotta. La contestazione della posizione egemonica, che mette in discussione la supremazia del paese dominante, può quindi portare quest’ultimo a sostituire i mezzi economici con metodi e strumenti politico-militari. 

È evidente come per la Germania vi sia ancora un grande divario tra la prestanza economica del suo grande capitale, e la capacità di tradurre quest’ultima in potere politico e militare nell’arena internazionale. Come già accennato, un simile divario non risulta esclusivamente da un’imposizione esterna (americana), nella misura in cui questa è stata interiorizzata per decenni dalle burocrazie di Stato, dal sistema dei partiti e dalla mentalità di ampi strati della popolazione. 

Gli esiti della Seconda guerra mondiale hanno prodotto una cultura politica molto consensuale, che la caduta del Muro ha reso ancor più conformista. Il grande padronato tedesco ha imparato a farsi discreto, e i partiti di governo si sono abituati a un linguaggio privo di contenuto. «La fine della storia è stata fino a poco tempo fa una realtà per la Germania»[6]. Per lo stesso motivo, però, gli annunci di cambiamenti radicali da parte del ceto politico moderato non devono essere sottovalutati. I segni di accelerazione storica si stanno moltiplicando ovunque e – dalla Zeitenwende alle prospettive di riarmo, passando per la soppressione del freno all’indebitamento – la Germania non fa eccezione.

In definitiva, la visione qui proposta si distanzia dalle analisi del capitalismo tedesco in termini di neomercantilismo – tra le quali la più convincente è senz’altro quella di Joseph Halevi[7]. Ciò non significa che la dimensione mercantilistica (export oriented, direbbero gli economisti) sia necessariamente marginale. Ma bisogna distinguere, da un lato, la natura dei rapporti economici che il grande capitale tedesco ha intrattenuto con i paesi della CEE prima, dell’UE/eurozona poi e, dall’altro, la natura dei rapporti con le aree economiche situate all’esterno di questo perimetro. 

La distinzione fra i due piani suggerisce il succedersi di tre diverse fasi: una prima fase, propriamente mercantilista (1949-1985), nel corso della quale la preoccupazione centrale del grande capitale della RFT è stata quella di ricostruire attorno a sé un’area di mercato sufficientemente estesa da poter assorbire le economie di scala che esso intendeva applicare internamente; una seconda fase (1986-2008) nel corso della quale il grande capitale tedesco si è dispiegato al di fuori della RFT, poi della Germania riunificata, allargando ulteriormente la sua area di mercato privilegiata, ma soprattutto trasformando una parte di essa in una zona di investimento in cui approfondire la divisione del lavoro, strutturando catene del valore complesse; una terza fase (2008-2022), nel corso della quale gli incrementi di produttività preparati dalla fase precedente hanno permesso una più forte penetrazione dei mercati extraeuropei, trasformando inoltre alcuni di questi – in particolare quello americano e quello cinese – in zone di investimento diretto all’estero. 

È ancora troppo presto per definire in maniera soddisfacente la nuova fase, ma quel che si può dire fin da ora è che la sua evoluzione sarà fortemente segnata dalla grande scommessa americana volta a riequilibrare in maniera ricattatoria ed extraeconomica i grandi squilibri globali (global imbalances) intercorrenti tra gli Stati Uniti e i paesi che detengono i maggiori surplus commerciali nei loro confronti. Nel caso della Germania, questa scommessa implica di attirare più investimenti diretti tedeschi verso gli Stati Uniti, sia provocando un’ondata di delocalizzazioni nel contesto domestico, sia dirottando gli investimenti esteri tedeschi già in essere altrove (Cina). 

Dalla fine degli anni Novanta fino in tempi recenti, l’euro ha formalizzato in maniera relativamente adeguata la combinazione di mercantilismo e imperialismo del capitale tedesco sui due piani summenzionati, ovvero in seno alla propria zona monetaria e al di fuori: un’isola di cambi fissi in un oceano di cambi fluttuanti; una valuta allo stesso tempo forte e svalutata quanto basta per accrescere la competitività delle esportazioni tedesche al di fuori dell’eurozona. Quali che siano i lidi verso i quali il capitale tedesco si dirigerà nei prossimi anni, il necessario prevalere dell’esportazione di capitali sull’esportazione di merci renderà probabilmente superflua la svalutazione del Deutsche Mark data dall’euro. Ciò vale anche nell’ipotesi di un ricentramento degli investimenti diretti tedeschi sul continente, corrispettivo economico del grande spazio di schmittiana memoria. 

Conclusione: guerre di oggi… e di domani

Il piano di riarmo europeo ReArm Europe (già ribattezzato Readiness 2030) va visto e analizzato alla luce delle tendenze e dei processi messi in luce fin qui. Verosimilmente, esso avrà effetti differenziati a seconda dei paesi, dei loro tessuti produttivi e delle loro capacità di riconversione dal civile al militare (ad esempio il settore automotive tedesco e il suo indotto). Inoltre, esso verrà attuato in un contesto di perdita di controllo delle alte istanze dell’UE sulle spinte centrifughe, e reciprocamente conflittuali, agite dagli Stati membri o da gruppi di Stati membri. 

Il ruolo della Germania in questo quadro non è ancora definito, e dipende dal suo posizionamento su una scacchiera più grande. Sulla carta, essa ha tre opzioni: a) rafforzare la sua posizione di junior partner di Washington, puntando tutto sull’accesso agli Stati Uniti sia come mercato di sbocco, sia come zona privilegiata di investimento; b) cercare di traghettare l’UE o una parte di essa verso un’intesa «eurasiatista» con la Cina (in attesa di poter riallacciare i rapporti con la Russia); c) decidere di contare sulle proprie forze, tentando ancora una volta la carta dal grande spazio, nell’ottica di svuotare gli altri paesi europei dei loro capitali nazionali. 

L’occasione fa l’uomo ladro: a più di una decina d’anni di distanza dalla crisi dei debiti sovrani in Europa, i paesi della facciata atlantica e mediterranea sono ormai sufficientemente indeboliti da non potersi opporre ad una scalata aggressiva del capitale tedesco nei confronti delle loro economie. Resta una sola vera spina nel fianco: la Polonia. Significativo in questo senso che fra i sedici paesi che hanno finora attivato il principale dispositivo del piano di riarmo europeo (la clausola di esclusione delle loro spese militari dalle regole del Patto di stabilità e crescita), manchino all’appello la Francia, l’Italia e la Spagna, mentre i due principali paesi aderenti siano, guarda caso, Germania e Polonia: per farsi la guerra domani? 

Per la Germania, il piano di riarmo si inscrive in una svolta più generale che la porterà ad aumentare considerevolmente la sua spesa pubblica. Si tratta di un keynesismo tutto sommato tradizionale, i cui eventuali benefici si faranno apprezzare sul lungo periodo. In quale misura questa politica economica sia una risposta al tentativo americano, già da tempo avviato e in fase di escalation, di suscitare un’ondata di delocalizzazioni e di investimenti diretti tedeschi negli Stati Uniti, è un interrogativo destinato a rimanere per il momento senza risposta. Comunque sia, ne va della sostenibilità del compromesso sociale domestico, nel solo paese europeo «occidentale»[8] che abbia conservato in tali proporzioni distretti industriali e grandi concentrazioni operaie sul suo territorio.

Nel frattempo, l’afflusso sul mercato obbligazionario europeo di un volume massiccio di Bund tedeschi, offrendo agli investitori finanziari un titolo di Stato di alta qualità e in quantità ben più grandi che in passato, potrebbe innescare tensioni questa volta focalizzate sulla Francia – tensioni che potrebbero sancire lo scioglimento dell’eurozona. E se fosse questo lo scopo ricercato? Dalla crisi del 2008 in poi, si sono molto rimproverate alla Germania le sue «ossessioni» austeritarie e le ricadute deflazionistiche della sua politica economica sugli altri paesi europei; meno si sono prese in conto le reali conseguenze di una Germania che le abbandona. 

Ma a monte di simili passaggi, incombono in maniera più ravvicinata le conseguenze politiche della vittoria russa in Ucraina. Quando bisognerà infine mettere questa vittoria per iscritto, l’onda di discredito sulle istituzioni europee e sui gruppi dirigenti dei paesi che più hanno spinto l’Ucraina allo sbaraglio contro la Russia sarà prevedibilmente considerevole. 

I movimenti sociali che potranno emergere da un simile scenario non saranno puramente proletari: saranno interclassisti, sovente nazionalisti, diretti contro il declassamento dei loro paesi dettato dalla leggerezza (vera o presunta, poco importa) di ceti politici sciagurati, e traditori del sacrosanto «interesse nazionale». 

Ma è in simili movimenti, e non in altri più conformi ai nostri schemi e ai nostri desiderata, che bisognerà intervenire nell’ottica di far apparire un’opposizione di classe con una visione antisistemica (anticapitalista). È a questo livello che si pone a mio avviso la prospettiva di una ripresa del movimento di classe nei paesi dell’Europa occidentale e centrale, ed è in primo luogo a questo tipo di scenario che dobbiamo prepararci. 


[1] Una traduzione italiana della lettera si può trovare in appendice all’antologia di Karl Marx e Friedrich Engels, La concezione materialistica della storia, Edizioni Lotta Comunista, Sesto San Giovanni, 2008. Reperibile anche qui: https://sinistracomunistainternazionale.com/wp-content/uploads/2015/06/lettera-di-engels-a-franz-mehring-14-luglio-1893.pdf.

[2] Per il resoconto storico di tutta questa parte, ho attinto a piene mani dal prezioso libro di Jean-Christophe Defraigne, De l’intégration nationale à l’intégration continentale. Analyse de la dynamique d’intégration supranationale européenne des origines à nos jours, L’Harmattan, Parigi, 2004.

[3] Per una storia delle alte istanze dell’UE, vedi Perry Anderson, «Ever Closer Union?», London Review of Books, vol. 43, n.1, gennaio 2021. 

[4] Wolfgang Streeck, «Overextended: The Europeans DIsunion at a Crossroads», American Affairs, vol. IX, n.1, primavera 2025, pp. 100-125. 

[5] Ibid

[6] Ulrike Franke, «La questione tedesca secondo una millennial», Limes, n.1, 2022, p. 109.

[7] Vedi ad es. Joseph Halevi, «Il neomercantilismo tedesco alla prova della guerra», Moneta e credito, vol. 75, n. 298, 2022, pp. 203-211.

[8] Le virgolette sono d’obbligo. È solo al prezzo di grandi forzature e amnesie che la Germania può essere considerata come un paese «occidentale». 

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Raffaele Sciortino – L’imperialismo nell’era Trump. Usa, Cina e le catene del caos globale

Che cos’è l’imperialismo oggi, nell’era di Trump?

Non è una domanda scontata, né una mera speculazione teorica; al contrario, siamo convinti che sia un nodo fondamentale, tanto per chi vuole comprendere il mondo, quanto per chi mira a trasformarlo – partendo, ancora una volta, da dove si è, da dove si è collocati. Un nodo che occorre sciogliere, se vogliamo porci all’altezza delle nuove questioni pratiche e politiche poste dal movimento reale e da questa fase storicamente determinata di guerra sempre più generalizzata. È la porta stretta da cui si è costretti a passare. Ma se vogliamo scioglierlo, crediamo che non possano bastare semplificazioni dottrinarie, facendoci bastare i “sacri testi” nella loro eterna immutabilità. Non ci possono bastare, ma non dobbiamo neanche cadere nell’errore opposto del “nuovismo”, convincendosi che è tutto cambiato, è tutto diverso rispetto a quando l’imperialismo è stato concettualizzato. Per noi, l’ortodossia e il nuovismo sono le due facce della stessa medaglia, le due facce dell’ideologia.

Riportiamo così, dopo l’intervento di Mimmo Porcaro su «L’Italia al fronte», la trascrizione del secondo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», con Raffaele Sciortino, compagno e ricercatore indipendente che non ha bisogno di presentazioni, già stato ospite a Modena. Da tempo lavora sui temi che stiamo discutendo: I dieci anni che sconvolsero il mondo (2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale (2022) sono libri estremamente importanti perché hanno la peculiarità di riuscire a coniugare ambiti di analisi che di solito si trovano separati, ossia un ambito “alto” come la geopolitica, le politiche internazionali e la configurazione della globalizzazione, e la dinamica di classe, un livello “basso” solo in senso figurato. La capacità di tenere insieme questi due piani è appunto una peculiarità che non si riscontra facilmente nei nostri ambiti e va quindi coltivata.

Con lui ci chiediamo come leggere la configurazione concreta che l’imperialismo assume nella fase storica che stiamo vivendo. È una fase di ristrutturazione del capitalismo globale? O piuttosto è una fase di disarticolazione della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta? Stiamo transitando verso un mondo multipolare? Sopravviveranno i vecchi centri egemonici o si moltiplicheranno le tensioni verso una diversa collocazione di potere? Sono tutte domande aperte che occorre mettere all’ordine del giorno e affrontare con realismo. Lo strumento migliore rimane l’analisi qualitativa dello spettro dell’accumulazione, dei rapporti di classe dei rapporti di classe – nazionali e globali – e della geopolitica – intesa soprattutto come osservazione dello scontro tra Stati Uniti e Cina e dal rapporto tra Stati Uniti e Europa.

L’imperialismo ha una sua storia: non è più il quadro capitalistico descritto da Lenin, né quello contro cui i movimenti degli anni Sessanta e Settanta hanno combattuto, e nemmeno quello che hanno provato a mettere a critica i movimenti no Global nei primi Duemila. Eppure, mantiene proprie continuità e invarianti. Partiamo dunque dal leggerlo alla luce del presente: Trump è il precipitato di una nuova configurazione dell’imperialismo, o è un fattore di discontinuità? Come si intreccia oggi la catena imperialistica alla dinamica di classe? Quali implicazioni, soprattutto politiche comporta per noi tale configurazione? Quali sono gli elementi principali che hanno condotto a questa nuova fase dell’imperialismo statunitense? Quali ricadute ha sull’Europa e sull’Unione Europea? Cosa contiene la spinta di classe, o delle classi, che stanno sostenendo il trumpismo? Vedremo in Europa un consenso a tale ristrutturazione capitalistica, o si potranno aprire delle fatture?

Piste di ricerca da seguire e approfondire con metodo, per poter pensare, e non solo osservare, la realtà concreta, e direzionare sul filo del tempo una prassi politica che, dentro i laboratori capitalistici della «fabbrica della guerra», punti a sabotarla e sovvertirla in fabbrica del conflitto di classe.

Buona lettura.

Raffaele Sciortino

Come premessa volevo solo dire che il mio intervento si colloca come ponte tra l’intervento di Mimmo Porcaro e quello del 17 maggio con Robert Ferro. Questi tre interventi sono collegati dal fatto che stiamo ragionando insieme a livello seminariale sulle tematiche che oggi cerchiamo di porre sul tavolo, ossia come si è trasformato l’imperialismo, a partire dalla convinzione comune della sua persistenza, pure nella discontinuità. A me oggi spetta il compito di ritematizzare i nodi concettuali che sono emersi nel dibattito marxista, nella maniera meno didascalica possibile e alla luce di quello che sta succedendo.

Infatti quando avevamo preventivato questi incontri ragionavamo sì su Trump e sullo scontro tra Stati Uniti e Cina, però obiettivamente c’è stata un’accelerazione inattesa dei processi che non è indifferente dalla dinamica e dagli esiti che si intravedono della guerra in Ucraina. È un dato importante, perché quando nel ’71-‘72 scattò la cosiddetta “svolta Nixon” – una svolta insieme economica per la fine dell’assetto di Bretton Woods, e geopolitica, con il reapproachment a Mao – anche allora gli Stati Uniti erano nel bel mezzo della guerra del Vietnam, e affrontavano il problema di riassorbire la sconfitta e trovare una “exit strategy”. Una delle vie d’uscita elaborate dagli Stati Uniti fu quello di scaricare una parte consistente della crisi sull’Europa, il che già ci fa comprendere l’attualità di queste riflessioni. In altri termini, non dobbiamo dimenticare che l’acuirsi dello scontro, per ora, attraverso i dazi tra Stati Uniti e Europa è comunque da inquadrare dentro lo scontro più generale e prioritario tra Stati Uniti e Cina. Non voglio dire che ne è la prima conseguenza, ma comunque è un sottoprodotto “qualificato” di quello scontro.

Capite bene perché sia una necessità vitale tornare a tematizzare il sistema capitalistico mondiale nel suo intreccio e nel suo sviluppo diseguale, ossia nella sua articolazione gerarchica. Vorrei provare a farlo attraverso una chiave di lettura, che penso sia sempre più attuale, che è la polarità, cioè unità e rivalità, tra potenze imperialiste (o più in generale potenze capitaliste) nel loro nesso strettissimo col movimento di classe (inteso in senso lato e ovviamente non solo in Occidente) all’interno dei quadri nazionali.

Vorrei quindi delineare a grandi linee dei cicli storici: da quando si è dato il fenomeno imperialista, grossomodo tra fine Ottocento e inizio Novecento; poi due importanti fasi di transizione; e arrivare quindi all’oggi e provare a vedere come si colloca quello che sta succedendo con Trump e il trumpismo. Il tutto interpretandolo in questa chiave di lettura, ovvero tenendo insieme i tre piani della configurazione economica, delle vicende – in senso non ristretto – geopolitiche e il movimento di classe.

Iniziamo dal primo grande ciclo, suppergiù tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Una configurazione che si pone all’intersezione tra tre tendenze. La prima è la classica rivalità interimperialistica investigata dai marxisti dell’epoca, esplosa nella Prima guerra mondiale in maniera plastica, con tratti meno evidenti nella Seconda. La seconda è una geopolitica che definirei “mackinderiana”. Mi riferisco al fatto che le potenze egemoni (dapprima la Gran Bretagna, che dopo la Grande guerra passa il testimone agli Stati Uniti) restano guidate da un imperativo geopolitico che, rischiando di banalizzare The Geographical Pivot of History di Mackinder, vede la storia come uno scontro tra potenze marittime e potenze continentali terrestre. E l’imperativo fondamentale per le potenze marittime – e qui c’è una certa continuità a cui vi chiederei di prestare attenzione – è quella impedire l’unificazione eurasiatica, cioè che una potenza unifichi quell’arco che va dall’Europa al Mar cinese, ed evitare ad ogni costo che questa potenza arrivi a uno sbocco sugli oceani. Ciò viene teorizzato già nel 1904 alla luce del “Great Game”, la lotta per l’Asia centrale concluso con il compromesso tra l’Impero britannico e la Russia zarista. Il terzo è l’ascesa del movimento operaio, allora ristretto sostanzialmente all’Europa occidentale e agli Stati Uniti (in cui, tra l’altro, si licenziano poderose politiche protezioniste), e della Seconda Internazionale; un’ascesa che, prima della frattura su crediti di guerra, sembrava irrefrenabile e che condusse poi all’esperienza bolscevica.

In quegli anni, il dibattito marxista (che pure era aperto all’intellettualità borghese degna di questo nome, si pensi all’importanza di Hobson per Lenin), tanto per coloro che andranno con l’ala rivoluzionaria, sia per chi rimarrà nella socialdemocrazia e nella sinistra riformista, verteva sull’individuare il salto qualitativo tra la fase che allora stava iniziando – la fase appunto imperialista – e la fase precedente di formazione dei mercati nazionali, di ascesa della borghesia e di prima formazione del movimento del movimento operaio.

Il punto di partenza è che quando un’economia nazionale giunge a livello imperialista si assiste a qualcosa che non può essere riducibile semplicemente all’esportazione di merci e alla diffusione del mercato nazionale. Il problema è proprio che c’è qualcosa di nuovo, che non si può ridurre a questo fattore che pure rimane importante. Di pari passo, dal punto di vista politico diciamo, quando si passa a quello che Lenin chiamerà lo «stadio imperialista» si vede un salto qualitativo politico della democrazia. Se prendiamo la democrazia (intesa come formato politico standard dei capitalismi più avanzati), ciò che si rilevava era il passaggio da una democrazia nazionale con compiti di ascesa borghese, ancora quantomeno progressisti, a una democrazia reazionaria.

Questo era il cuore del problema, e viene affrontato attraverso categorie che Marx aveva potuto sviluppare solo fino a un certo punto, in particolar modo quelle di «centralizzazione di capitali» (che diventa altrettanto, se non più importante, dell’accumulazione capitalistica), della «concentrazione di capitali» e dello «sviluppo ineguale», sia a livello di mercato mondiale sia all’interno di ogni economia nazionale. Il mercato mondiale, grazie a questo sviluppo di centralizzazione dei capitali (in termini più scolastici, la seconda rivoluzione industriale, la formazione di trust e così via) da essere il presupposto dello sviluppo industriale imperialista diventa un risultato, diventa esso stesso il prodotto dell’industrializzazione nella fase imperialista.

L’illustrazione classica – che ha tutta una serie di implicazioni politiche anche rispetto a che cos’è una guerra, se una guerra nazionale sia ancora possibile, eccetera – è quella di Lenin. Di questa formulazione qui ci interessano principalmente tre punti.

Primo. L’imperialismo non è semplicemente una politica. Ossia non è una decisione che può essere assunta o abbandonata dall’economia nazionale e dagli Stati che arrivano a questo livello, ma è, appunto, uno stadio irreversibile, un punto di non ritorno in cui si intrecciano economia, politica interna, politica internazionale, e di una specifica parabola del movimento di classe. Secondo. L’imperialismo è caratterizzato da un trasferimento di valore strutturale, o comunque relativamente persistente, tra imprese, tra settori e anche tra economie nazionali. E ciò inizia ad avvenire allora in particolare attraverso il vettore delle esportazione di capitali, a cui l’esportazione di merci rimane subordinata. Terzo. Determinanti diventano i monopoli e gli oligopoli, che uniscono la dimensione produttiva con la dimensione finanziaria.

La distinzione, che ovviamente non è la muraglia cinese, tra esportazione di capitali ed esportazioni di merci rimane rilevante anche oggi, e avrebbe quindi interesse riprendere il dibattito tra Lenin e Luxemburg a riguardo. Non c’è oggi il tempo per approfondire, diciamo solo che nel privilegiare l’esportazione di capitali, Lenin ha alle spalle una lettura di Marx e una peculiare teoria dei mercati in cui la spinta espansionista all’esterno dei capitali, una volta che si sono consolidati e centralizzati all’interno di un’economia nazionale, è dovuta a una caratteristica strutturale del modo di produzione capitalistico, che è quella di una discrasia, di uno squilibrio permanente tra produzione dei mezzi di produzione e produzione dei beni di consumo, e quindi di una compulsione allo sviluppo illimitato. A ciò, dopo la crisi del ‘29, alcuni marxisti tra cui Grossman, pur rifacendosi a Lenin, aggiungeranno il problema della crisi di redditività (su cui adesso non possiamo fermarci) che spinge appunto l’esportazione dei capitali. La spinta dunque non dipende primariamente da ciò che pensava allora Luxemburg, e cioè da un problema di realizzo, di merci che non si riescono a vendere all’interno.

Guardiamo poi alla concorrenza intesa in senso marxista (e non in senso banale, economicista, di domanda e offerta). Come riporta una formuletta relativamente nota, la concorrenza, via via che la centralizzazione dei capitali procede e il numero di monopoli e di economie nazionali si riduce (il classico “pugno di potenze imperialiste” di cui parla Lenin), si disloca come “una concorrenza per bloccare la concorrenza”: una competizione per ampliare il divario tra chi ce l’ha fatta e chi no. La concorrenza a un certo punto può declinarsi come concorrenza tra Stati che può diventare guerra, guerra guerreggiata; ma la concorrenza è già una forma di guerra. Quindi le fasi “pacifiche”, di tregua, e le fasi propriamente belliche di scontro tra potenze imperialiste (che, va sottolineato, coinvolgono anche formazioni capitalistiche di altro genere) sono appunto da leggere non come se la pace fosse la negazione dell’imperialismo, bensì entrambe come fasi di un ciclo, come tappe di uno stadio. La questione è cruciale poiché è precisamente su questo punto che si connette, in maniera molto complessa, la parabola della rivoluzione.

Oltre a questo nesso tra protezionismo, industrializzazione e formazione del movimento operaio, vediamo che poco dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale si accelera il processo che porta alla Rivoluzione d’Ottobre. Perché? Torno al problema del salto rappresentato dall’imperialismo e della difficoltà di coglierlo in tutte le sue caratteristiche. Se noi leggiamo Marx e Engels, diciamo, dal ‘48 alla Comune di Parigi, vediamo che la rivoluzione ha una dinamica che va da Ovest a Est, dall’Europa occidentale, con la formazione di Stati nazionali borghesi e questioni nazionali da risolvere o dal basso o dall’alto. Ma quantomeno fino alla Comune di Parigi questa ondata rivoluzionaria dai contenuti ancora nazionali e borghesi trovava una barriera nella Russia zarista, nell’Est arretrato.

Ora, quando si passa allo Stato imperialista, ossia quando ormai le questioni nazionali in Europa occidentale sono risolte, la barriera reazionaria alla rivoluzione è passata a Ovest, mentre invece il testimone della rivoluzione passa a Est. Ripeto, una rivoluzione che intreccia in maniera peculiare, se vogliamo anche imprevista e confusa, dei contenuti nazionali rivoluzionari ma economicamente borghesi con la possibilità, la potenzialità di trascrescere in una rivoluzione proletaria se si internazionalizza, e ritorna come un boomerang a Occidente. Da qui l’interesse di Lenin per la Cina e l’Oriente. La cosa diventava ancora più interessante per la Russia bolscevica, che aveva questa posizione peculiare tra Est e Ovest, tra Oriente e Occidente, tra la rivoluzione nazionale democratica, però portata avanti non dalle classi borghesi, quanto dalle classi contadine o semiproletarie, e la rivoluzione in Occidente, in stasi a partire dagli anni Venti.

Si può dire quindi che nel dibattito dell’epoca c’è una geopolitica della lotta di classe e una geopolitica della rivoluzione. Ne deriva anche un importante corollario, che per approfondire a dovere bisognerebbe riprendere diffusamente il dibattito tra Lenin e Luxemburg: la questione nazionale, che prima era la questione di formazione degli Stati nazionali come mercato interno, che fungeva da presupposto per la formazione del proletariato nel mondo occidentale, diventa questione nazionale anticoloniale e antimperialista nel mondo extraoccidentale. Questo è molto importante se legato appunto a quella geopolitica mackinderiana a cui mi richiamavo prima.

Passiamo avanti. Rivoluzione d’Ottobre, si blocca la rivoluzione in Unione Sovietica, sconfitta in Cina, affermazione dei fascismi, seconda conflitto imperialista (dalla dinamica molto differente dalla prima, se non altro perché non c’è una forza politica degna di questo nome nel movimento operaio che pone il problema della lotta a tutti gli imperialismi, quindi il disfattismo rivoluzionario di Lenin non si dà nella Seconda guerra mondiale). Arriviamo al post ‘45 con gli Stati Uniti che emergono come potenza egemone e dominante a livello mondiale contro un blocco socialista o presunto tale (che, tra l’altro, si dividerà già a fine anni Cinquanta tra Unione Sovietica e Cina maoista), dopo aver subordinato il vecchio colonialismo anglofrancese (pensate al caso di Suez) e soprattutto dopo aver sconfitto definitivamente (o almeno a oggi) l’altro grande rivale, la Germania. La Germania viene divisa ed è ancora un paese soltanto semisovrano dal punto di vista politico, militare, territoriale e così via. La dottrina geopolitica resta mackinderiana, ma viene riformulata già durante la guerra da teorici come Spykman e il più noto Kennan, che teorizzerà la teoria del contenimento.

Gli Stati Uniti aggiungeranno alla teoria mackinderiana dell’Eurasia (che lui chiamava Heartland,la terra centrale) il concetto di Rimland, terra ai margini. Lì c’è già l’idea, che reggerà le politiche di contenimento nella Guerra fredda, per cui gli Stati Uniti e le potenze marittime anglosassoni non sono in grado di conquistare i territori delle potenze eurasiatiche (in quel frangente, l’Unione Sovietica occupava tutto l’Heartland); ne consegue che devono insistere continuamente in azioni di disturbo, creare caos per evitare l’unificazione eurasiatica, impedirgli lo sbocco all’oceano e tenerli sotto da un punto di vista economico. E quindi se voi ci pensate, qui rientra tutto. Pensate al ruolo di Israele nel Medio Oriente, oppure Taiwan e la Corea del Sud rispetto alla Cina.

Per quanto concerne il livello più “nostro”, il piano del movimento di classe, ebbene abbiamo una divaricazione. Nella Prima guerra mondiale la scissione era stata interna al movimento operaio occidentale, tra riformismo e rivoluzione, e il riformismo era diventato appoggio alla guerra, socialsciovinismo, eccetera. Qui siamo in una fase diversa, e se vogliamo anche più grave. Più grave poiché senza potenzialità rivoluzionarie nell’immediato. Non nel senso che non ci sia più una rivoluzione, ma nel senso che si disloca su un unico teatro, quello anticoloniale e antimperialista extraoccidentale, dalla rivoluzione cinese fino a Cuba e il Medio Oriente. Al contrario, in Occidente si apre un ciclo chiaramente controrivoluzionario: ancora una volta, non nel senso che non si dia più lotta di classe, ma nel senso che questa non ha possibilità, in quel quadro, di diventare una lotta rivoluzionaria. Tuttavia in Occidente, a differenza d’oggi, resisteva ancora un riformismo del movimento operaio organizzato (pensiamo al PCI in Emilia).

Di nuovo, attenzione al nesso, abbiamo un mondo diviso in due, l’egemonia è comunque degli Stati Uniti, un soggetto decisamente più forte dell’antagonista sovietico sotto tutti i punti di vista; di modo che si assiste una tendenza all’unità piuttosto che alla rivalità interimperialista, sebbene anche i paesi europei politicamente siano distrutti una volta sotto gli Stati Uniti. All’unità del mondo imperialista corrisponde la debolezza della classe operaia, perlomeno in Occidente (ripeto, non il blocco della rivoluzione anticoloniale).

Date queste premesse, il dibattito marxista non può che risentirne. C’è una dispersione del marxismo rivoluzionario, quantomeno quello che non è direttamente interno al movimento stalinista. Tuttavia troviamo una cosa interessante, perché andando a scartabellare tra le sinistre estreme e antistaliniste di allora emerge una domanda ricorrente nel dibattito: ma l’imperialismo condanna il capitalismo a un declino e/o comunque a una stagnazione?

Era la lettura trotzkista, così come di tutta la componente terzomondista ante litteram della «Monthly Review» di Baran e Sweezy, che sostituiscono il concetto di surplus a quello di plusvalore e che pensano a un capitalismo occidentale in declino che può rispondere solo con riarmo keynesiano rileggendo a loro modo alcuni temi luxemburghiani quali i problemi di realizzo. Dall’altro lato, invece, altri teorici marxisti, allora assolutamente isolati e marginali, vedono l’imperialismo come un’escrescenza del capitalismo, però è anche una sua possibilità di ringiovanimento; anzi, a un certo punto diviene una sua necessità. E in effetti quel ciclo di sviluppo postbellico incredibile, che non s’è mai più visto nella storia del capitalismo, viene portato avanti da una potenza imperialista, gli Stati Uniti, che sfrutta una guerra già iniziata (gli Stati Uniti entrano sempre in guerra dopo, fanno prima dissanguare gli europei e solo poi entrano in campo per raccogliere i frutti) a spese dell’Europa, e in primo luogo della Germania.

La novità importante in questa fase (chiamiamola peculiarmente controrivoluzionaria, ma senza per questo essere eurocentrici) è che i monopoli di cui parlavano Hilferding, Bucharin, Luxemburg, Lenin e compagnia cantante sono oramai le multinazionali. Non compaiono con il ‘45, erano comparse già prima. Ciò va sottolineato perché le multinazionali diventano il vettore peculiare delle esportazioni di capitali di cui aveva parlato il dibattito marxista precedente, che se ricordate è la peculiarità dell’imperialismo rispetto alle esportazione di merci e a logiche più mercantiliste.

Le multinazionali americane iniziano a emergere già dopo la crisi del ‘29, quando si frammenta l’economia occidentale e fallisce quel tentativo di rilanciare l’economia europea sulla scorta di quella statunitense (l’Urss era completamente isolata). Scatta il protezionismo, scattano le svalutazioni competitive. E cosa fa una multinazionale con gli investimenti diretti all’estero? Scavalca le barriere dei dazi, va sul posto, investe e trae profitti che riporta in patria ad altre condizioni. Osserviamo dunque un nesso tra protezionismo e rilancio di questa nuova forma peculiare di esportazione di capitali, che trovo rilevante.

L’altra grossa novità è Bretton Woods, cioè l’importanza sempre maggiore del sistema monetario internazionale. Quest’ultimo è da intendere non soltanto come la somma dei sistemi valutari nazionali, ma come un tutto che sovradetermina le parti ma – badate bene – in parallelo col sistema degli Stati. È un elemento che era emerso nel dibattito marxista già da inizio Novecento: non si può valutare la posizione, il peso, insomma la peculiarità di uno Stato (oltre che di un’economia nazionale) prendendolo a sé, ma sempre concependolo dentro un sistema di Stati. Del resto Stato e capitale stanno insieme, e uno dei vettori che li unisce è proprio la moneta.

Ora la specificità del mondo post ‘45 è la sostituzione del dollaro alla sterlina nel sistema di Bretton Woods, dove il dollaro diventa dominante, però, attenzione, quantomeno dopo il piano Marshall dentro un sistema in cui le singole economie nazionali, quando iniziano a riprendersi, hanno comunque un controllo relativamente forte sui capitali interni. Il che significa, per loro, la possibilità di dirigere la politica monetaria, la politica dei tassi di investimento, e quindi i tassi di accumulazione. Il dollaro già dominava come moneta di riserva fondamentale, però non siamo ancora nel mondo postfordista o post ‘71.

Passiamo ora alla prima grande fase di transizione. Verso la seconda metà degli anni Sessanta, abbiamo dei segnali di ripresa significativi e di passaggio dall’unità del mondo imperialista sotto gli Stati Uniti a nuove forme di rivalità. In particolare tra Stati Uniti, Germania e Giappone, che dimostrano una ripresa industriale, ritmi di produttività e un livelli di competitività superiori a quelli statunitensi. L’esportazione di capitali, però, è ancora in mano agli Stati Uniti. Le multinazionali sono quasi esclusivamente statunitensi. Gli anni del miracolo economico tedesco e giapponese – e in subordine, italiano – sono da leggere come una ripresa di rivalità coniugata alla cosiddetta accumulazione fordista, all’applicazione della razionalizzazione tayloristica, ma anche a un rilancio di conflittualità di classe.

Sono le lotte dell’operaio massa: ovviamente il ‘68 è stato qualcosa di più ampio, ma nel nostro ragionamento ci interessa la convergenza di rivalità interimperialistica e di una ripresa di lotta di classe anche in Occidente, mentre prosegue fuori dal mondo con il Vietnam e le ultime grandi lotte anticoloniali degli anni Settanta, dal Corno d’Africa ai tentativi in America Latina, violentemente repressi come nel caso del Brasile e soprattutto del dramma argentino e cileno.

A livello geopolitico, proprio in reazione alla lotta antimperialista, gli Stati Uniti stanno perdendo prestigio non solo in Vietnam ma a livello mondiale. È in questa congiuntura che si forma il cosiddetto triangolo strategico tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina. Lo spostamento di alleanze della Cina, dall’Unione Sovietica all’isolamento, poi all’autonomia e infine alla tacita alleanza con gli Stati Uniti di Nixon (repubblicano e fortissimo anticomunista) trascina uno spostamento del bilancio di potenza geopolitico mondiale. Venti anni dopo vedremo che ciò fu uno dei fattori che contribuirono al crollo del cosiddetto socialismo reale e all’implosione dell’Unione Sovietica.

Ora in questo quadro di ripresa di lotta di classe, di ridefinizione della configurazione mondiale delle rivalità, rinasce, per così dire, “il marxismo”, soprattutto nelle due forme di terzomondismo e operaismo, ora intrecciate, ora differenziate o addirittura opposte. E che cosa viene messo a tema nel dibattito marxista, anche al di là della stretta appartenenza a una delle due correnti o riprendendo paradigmi precedenti? Una questione di rilievo anche per noi oggi, ossia il problema dell’unità e della rivalità.

In altri termini: la Germania e il Giappone possono mettere in discussione il dominio statunitense? Si riconosceva infatti che la Germania e il Giappone hanno sì acquisito maggiore produttività e competitività, ma sostanzialmente a livello di esportazione di merci e con monete se non deboli, nemmeno forti. Al contempo, oltre alla perdita di competitività della sua economia, la bilancia dei pagamenti statunitensi va in deficit, perchè il dollaro, divenuto mezzo di pagamento internazionale e valuta di riserva, viene accumulato e detenuto da chi esporta merci.

Nascono però delle tensioni serissime, come quando, sulla scorta della convertibilità del dollaro in oro determinata da Bretton Woods, la Banca centrale francese invia De Gaulle negli Usa con delle navi cariche di dollari pretendendo di scambiarle in oro. Quindi la rivalità è reale. Il problema e il vettore fondamentale rimangono gli investimenti diretti all’estero, e non si tratta semplicemente un’esportazione di capitali di portafoglio, cioè d’investimento in titoli del Tesoro di un altro Stato o in azioni, bensì di andare produrre nell’altro paese per vendere lì o per vendere altrove e ritirare i profitti. E da quel punto di vista, gli Stati Uniti sono ancora imbattuti.

Ciò si lega strettamente all’altro grande tema del dibattito, il «privilegio esorbitante» del dollaro, come lo chiamo Giscard d’Estaing. Da qui il grande salto nel ’71: Nixon decide di sganciare il dollaro dall’oro. Si crea un caos che ha non poche analogie con quello che stiamo vedendo in questi giorni; non a caso la domanda che circola oggi in numerose analisi è “siamo davanti a un nuovo ‘71?” per indicare le trasformazioni del sistema monetario internazionale. Allora il passaggio fu da un sistema valido per l’Occidente, con cambi fissi e relativi controlli nazionali sui capitali (e quindi sulla politica monetaria) a uno a cambi fluttuanti, nel quale diventa fondamentale il vincolo estero sul bilancio interno.

In parole povere: tu Stato devi attirare capitali, ma per attirare capitali devi fare una politica tra virgolette “sana”, ossia non che dà troppo ai proletari, con austerity o comunque con politiche di bilancio possibilmente in avanzo. E devi stare attento con i tassi di interesse, perché devi essere tu ad attirare i capitali, e non li puoi più formare semplicemente dal risparmio interno che hai accumulato. La liberalizzazione dei capitali che scatta tutta a favore, come poi si vedrà, del capitale finanziario statunitense ovviamente ti pone dei vincoli molto forti. Noi siamo abituati a sentir parlare del vincolo esterno all’Unione Europea; ma è un vincolo dipendente soprattutto dai mercati finanziari mondiali, che a sua volta sono legati al dollaro. È lì che inizia questa storia, che oggi vediamo entrare forse non verso la sua fine, ma comunque in una decisa parabola discendente.

I temi di cui potremmo discutere sarebbero molti altri, ma vorrei concentrarmi su uno in particolare. Un marxista francese di origine greca, Poulantzas, conia l’espressione «borghesia interna» nel quadro della discussione sulla possibilità per l’Europa di diventare un soggetto autonomo. Si parlava già allora di un’unione monetaria europea, a cui gli Stati Uniti taglieranno subito le gambe anche sfruttando guerra del Kippur del ’73 e lo shock petrolifero che andrà a vantaggio delle multinazionali energetiche statunitense. Le economie europee, che pure si trovavano per un breve momento in surplus, devono rifornirsi di dollari perché nel frattempo gli accordi tra gli Usa e l’Arabia Saudita avevano stabilito che il petrolio andasse venduto in dollari. La nascita del petrodollaro mostra ancora una volta il gioco dell’imperialismo che preme per una continua esportazione di capitali, in forme sempre innovate. È davanti a tale contesto che Poulantzas elabora la categoria di «borghesia interna» riferendola ai paesi europei, in particolare quelli che in qualche modo potevano fronteggiare l’egemonia statunitense (Germania, Francia, ma anche Giappone, eccetera).

Con «borghesia interna» – ed è una categoria che conviene riattualizzare – si intende una borghesia nazionale che non è pienamente autonoma, che quindi non può mettersi in concorrenza interimperialistica, nei termini classici dell’imperialismo del tempo di Lenin, con gli Stati Uniti. Perché? Perché 1) dal punto di vista strettamente geopolitico e politico sono borghesie sconfitte nella Seconda guerra mondiale e 2) gli apparati statali intesi in senso lato degli Stati europei sono infiltrati, controllati dagli apparati statali statunitensi (pensate all’ingerenza militare, o ai servizi segreti). In altre parole, hai una classe dirigente che invece di fare gli interessi delle economie nazionali europee riproducono il dominio statunitense al loro interno.

Lo stesso avviene a livello economico. Quando hai una grande esportazione di capitali per opera di forti multinazionali americane, soprattutto nelle alte tecnologie, cosa succede? Che c’è una paradossale estroversione delle economie nazionali europee che sono più legate agli Stati Uniti che tra di loro. Da qui l’estrema difficoltà del progetto di unificazione europea, di cui si parlava già cinquantacinque e passa anni fa, senza aspettare Draghi e compagnia.

Al tempo stesso però le borghesie europee chiaramente non sono borghesie dipendenti coloniali, perché mantengono una base di accumulazione interna e a loro volta iniziano ad esportare capitali all’estero (in America Latina con la Germania, e poi addirittura negli Stati Uniti). Un ibrido di subalternità e attivismo. Con questa categoria si cercava di catturare concettualmente la nuova situazione, nella quale nonostante la parabola accumulativa non si poteva configurare una successione di egemonia, come l’avrebbe definita la scuola della World System Theory e in particolare Arrighi.

Vedete quindi come l’imperialismo si ricentralizza, si rifocalizza sulle esportazioni di capitali, ma diventa sempre più importante il sistema monetario internazionale, il nesso moneta-credito. Chi diventa la banca di tutte le banche? La Federal Reserve. Qual è l’unico paese, grazie al meccanismo di sganciamento del dollaro dall’oro, a non essere legato al vincolo estero della bilancia dei pagamenti? Appunto gli Stati Uniti, perché possono ripagare le merci che acquistano con assegni, perché il dollaro diventa un assegno quasi in bianco, nel senso che non ha un corrispettivo reale di produzione o ce l’ha in futuro. Quindi è come far credito in continuazione alla Federal Reserve e agli Stati Uniti. Al tempo stesso, essendo il dollaro valuta di riserva internazionale e moneta di pagamento internazionale (in particolare i petrodollari, ma poi gli eurodollari e via discorrendo, e tanto più quando si aprirà l’economia cinese), gli Stati Uniti possono attirare investimenti di portafoglio (la vendita da parte loro dei treasury bill e dei treasury bond); con quei capitali a breve possono investire a lungo nel sistema produttivo interno; quindi finanziare a bassi tassi di interesse il riarmo (il reaganismo, e da allora la grande risalita delle spese militari); ristrutturare i vecchi settori fordisti verso l’high tech e il digitale; e infine andare a esportare capitali conquistando mercati esteri e così via. Insomma, ciò che negli anni Settanta sembrava alludere al declino statunitense, crea una morsa incredibile, di tipo insieme produttivo, finanziario e monetario.

Si apre così una grande ristrutturazione capitalistica globale: una ristrutturazione antioperaia, in cui viene sconfitto l’operaio massa (con i battiti d’ala dei siderurgici francesi nel ’79 e l’ultima grande lotta a Mirafiori nell’80); anti-blocco dell’Est, che dopo dieci anni implode; e contro il Sud del mondo, che disgrega la compattezza che ha dimostrato durante la fase della lotta anticolonialista. Assistiamo quindi, dagli anni Ottanta fino alla crisi del 2008, a un nuovo ciclo chiamato ora «globalizzazione» ora «neoliberismo».

Un ciclo contrassegnato dall’unità piuttosto che dalla rivalità, sempre relativamente parlando; basata su quel meccanismo del dollaro che abbiamo descritto prima (e che si usa nominare con “Bretton Woods 2”); e in cui – punto importantissimo – l’esportazione di capitali non è solo più incentrata tra Stati Uniti e Europa, cioè sulle economie avanzate, ma scatta l’industrializzazione periferica. Si dipinge così una scomposizione internazionale del processo produttivo che darà luogo alle cosiddette «catene globali del valore», in cui il Sud del mondo copre la fase di assemblaggio finale o comunque quelle fasi tecnologicamente meno evolute, e via via a risalire verso i centri egemonici. A quanto accade a livello produttivo equivale la dinamica a livello di finanziamento di crediti, circolazione di capitale e di distribuzione delle merci, dove le aziende leader sono tutte occidentali, in gran parte statunitensi. A questo punto agli Stati Uniti conviene sempre meno investire produttivamente sui settori e le tecnologie medio-basse, ma piuttosto tenere la leadership sulle tecnologie alte e far circuitare la finanza e le merci intorno a questa nuova configurazione; una configurazione che è alla base della crisi attuale.

Sul piano geopolitico, dopo la fine dell’Unione Sovietica si inaugura la fase dell’«unipolarismo», condito di “guerre umanitarie” per “l’esportazione della democrazia”. Unipolarismo che altro non è se non la politica del contenimento riformulata in termini preventivi: per esempio, se Saddam o Gheddafi vogliono vendere il petrolio in euro, facciamoli fuori, tanto sono dittatori, no? Lo stesso vale poi per la Jugoslavia, l’Afghanistan, la guerra al terrore, eccetera.

Per quanto concerne invece il livello delle lotte sociali, va osservato che l’unità, sempre relativa, delle forze imperialiste si associa alla scomposizione del movimento operaio. Oltre alla sconfitta, come dicevamo, dell’operaio massa, vediamo la cosiddetta “cetomedizzazione” i cui risultati si vedono oggi – intendendo con esso non la salita a ceto medio degli strati operai, bensì che il ceto medio si impoverisce o inizia addirittura a proletarizzarsi, persino negli stessi Stati Uniti (un elemento che ha non poche prossimità con il problema del trumpismo oggi). Di pari passo, si sviluppa una proletarizzazione però periferica in Cina, così come in altri paesi quali il Vietnam o il Messico. Una proletarizzazione, però, senza fordismo e senza i benefit del welfare che hanno accompagnato la fase fordista precedente. In termini politici nostri, è una fase di disgregazione: il capitale si centralizza, mentre la classe operaia e il proletario internazionale si frammentano, come segnato anche dai flussi di immigrazione che iniziano a essere consistenti.

Davanti a una vittoria del nuovo imperialismo a guida finanziaria statunitense che sembrava assoluta, abbiamo il crollo del marxismo. Dall’inizio degli anni Ottanta, ciò che rimane del marxismo viene ridotto alla stregua di una critica culturale postmodernista – una declinazione del marxismo che oggi, fortunatamente, sta mostrando in una maniera sempre più evidente la sua irrilevanza. Il primo corollario però è che scompare lo stesso concetto di imperialismo, il che segnala con crudele chiarezza la portata di quella sconfitta: per decenni si parla solo di “neoliberismo”, di “globalizzazione” e chi più ne metta, mentre la categoria di imperialismo oggi paradossalmente lo si usa a proposito di Putin.

Forse l’unica teoria, secondo me, che tenta di coltivare una critica del sistema capitalistico mondiale (pur non essendo marxista e limitandosi a soltanto a recuperarne alcuni concetti) è la World System Theory di Wallerstein e Arrighi, che abbandona il concetto di imperialismo a fine anni Settanta e lo sostituisce con la «successione di egemonie» richiamandosi a Braudel. I suoi autori si focalizzano sulla dinamica centro-periferia, con una sorta di terzomondismo, ma in una fase dove il Sud del mondo è in estrema difficoltà per la sua frammentazione e, come dicevo prima, per l’assorbimento della Cina.

Giungiamo a un punto di estrema importanza, a cui prestare attenzione poiché ogni teoria dell’imperialismo deve darci il sistema, articolato e diseguale, intrecciato e gerarchico. A questo punto infatti inizia quel processo in parallelo di relativa deindustrializzazione degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali (un po’ meno in Giappone, Germania e Italia, relativamente parlando) e di industrializzazione periferica, che proietta la Cina a “officina del mondo”, collocandosi in un primo momento sui segmenti bassi delle filiere globali di fornitura, ma con grandi differenze rispetto ad altri paesi.

Intanto, la Cina non è un paese dipendente qualsiasi, ma ha alle spalle una grande rivoluzione contadina che ha creato un partito-Stato che impedisce l’internalizzarsi del dominio statunitense in Cina, cioè all’interno della sua accumulazione e della sua borghesia privata. In altre parole, non troviamo in Cina quella borghesia interna che Poulantzas aveva teorizzato per l’Europa, ed è un elemento cardine per spiegare la sua capacità di resistenza. In secondo luogo, ma non per importanza, la Cina inizia a esportare. È vero che una parte consistente di questo surplus va alle multinazionali americane e occidentali, ma comunque il resto va all’interno, e non essendo la moneta convertibile, i flussi di capitale sono controllabili. I flussi di capitale sono joint venture che portano anche tecnologia, e non hot money speculativo, che dopo pochi mesi distrugge il paese come hanno sperimentato gli Stati sviluppisti dell’Estremo Oriente nella crisi asiatica del ’97-‘98. Mentre realtà come Taiwan e la Corea del Sud erano stati martoriati dalla capacità del dollaro di giocare a fisarmonica con i tassi di interesse fissati dalla Fed – per cui il dollaro ora si apprezza ora si svaluta e a seconda delle convenienze i capitali vengono attratti o esportati e così attraverso la finanza ti compri quegli apparati produttivi che gli altri hanno avuto fatto sacrifici per costruire –, in Cina non accade, sia per motivi sostanzialmente politici, sia in virtù di un enorme serbatoio di forza lavoro semiproletarizzata. Grazie dunque alla sua capacità di porre dei limiti alla liberalizzazione dei capitali statunitensi, una parte sempre maggiore del surplus prodotto dall’export rimane in loco, può essere investita dai cinesi per rafforzare l’apparato produttivo e per risalire via via le catene del valore, passando così da essere il fanalino di coda delle filiere della fornitura globale ad arrivare a livelli tecnologicamente poderosi.

Con l’internazionalizzazione delle catene del valore, i rapporti di centro-periferia e di dipendenza classici, diciamo terzomondiali, che sulle prime erano fondamentalmente confinate al cosiddetto commercio ineguale, vengono internalizzate nella produzione nella misura in cui la produzione non è più confinata a un solo paese, ma si spalma su tanti paesi collocati gerarchicamente in una scala mondiale imperialistica. Ma se vediamo in parallelo la relativa deindustrializzazione degli Stati Uniti e di altre economie occidentali e la risalita della Cina, sorge spontanea una domanda: la Cina ha una logica imperialista?

No, strutturalmente non può averla perché il suo recupero, in termini arrighiani, dalla periferia alla semiperiferia è basato su surplus commerciali, sull’esportazione di merci, e per giunta i suoi proventi non sono del tutto a sua disposizione. È ancora dentro pienamente una logica mercantilistica, non una logica imperialista basata sulle esportazioni di capitali e sul dominio della moneta, tant’è che lo yuan non deve essere convertibile e i capitali devono rimanere controllabili perché altrimenti avrebbero sbaraccato la sua economia. In aggiunta, nel 2014 la Cina è arrivata a quattro trilioni tra riserve in dollari e titoli del Tesoro americani acquistati, poiché appunto una parte dei profitti cinesi devono andare a finanziare quel circuito globale del dollaro che abbiamo descritto prima.

Permettetemi giusto due parole sulla cesura del 2008, la prima grande crisi della globalizzazione. Passiamo definitivamente dall’unità relativa di un mondo imperialista a un incremento di rivalità che assumono tratti peculiari. Si inasprisce la rivalità tra Stati Uniti ed Europa, sebbene sottotraccia. Ad ogni modo, oggi molti possono concordare su ciò che nel 2010-2012 risultava più controverso, ossia che l’eurocrisi è stata un tentativo di scarico sul Vecchio continente della crisi che ha avuto come epicentro gli Stati Uniti di Obama, finalizzato a indebolire l’euro. Lì iniziano a germogliare i semi di quella tensione che oggi è di nuovo ritornata agli onori della cronaca.

Il problema è che, a parte una certa resistenza tedesca (che però, dalla cancelleria Merkel alla guerra in Ucraina, si è manifestata più come una riottosità ai diktat statunitensi, a cui tra l’altro pian piano hanno ceduto), rimaniamo nella situazione indicata da Poulantzas: le borghesie europee non esistono, l’Europa non è uno stato e non esiste un’economia diciamo “confederata” europea. Rimangono borghesie interne, senza una piena autonomia. E non l’avranno, perché, a parer mio, con l’offensiva Trump si frammenteranno ulteriormente. Tranne – ad è un grosso punto di domanda che rimando alla discussione con Robert Ferro – la Germania.

La Germania avrebbe dei numeri a livello di apparato produttivo forse per iniziare a fare un discorso autonomo, ma è un’ipotesi molto incerta, e potrebbe benissimo uscire dall’offensiva trumpista di nuovo, per la terza volta, con le ossa rotte. Sale poi, e lo vediamo dalla guerra in Ucraina, la rivalità con la Russia. Ma la Russia la possiamo definire al limite una potenza imperiale, se vogliamo assumerla sul versante militare, e rimane sostanzialmente un’esportatrice di materie prime. Dal punto di vista marxista non c’è nessun criterio, né in cielo né in terra, che possa far definire “imperialista” la Russia putiniana. Ben più seria è la rivalità con la Cina. Perché?

Perché inizia a incrinarsi, e oggi quasi si è rotto, l’asse Stati Uniti-Cina di cui ho parlato prima. Con la crisi del 2008 la Cina si rende conto che è troppo legata al dollaro e ai mercati di esportazione occidentali, ma al tempo stesso non ne può fare a meno. Cerca allora sempre più di indirizzare questa logica mercantilista verso una ristrutturazione interna a partire dai mezzi di produzione (e poi anche dei beni di consumo) per risalire le filiere del valore. Il progetto funziona, parte un grande sviluppo tecnologico, e nel mentre cerca di uscire dai confini dell’economia cinese e dalla dipendenza dall’export con le nuove vie della seta. È un inizio di proiezione e di esportazione di capitali, ma che ad ora avviene in una forma ancora molto arretrata. A metà anni ‘10, grazie ai surplus accumulati, la Cina ha lanciato un intervento di tipo keynesiano per attutire i gli effetti della crisi del 2008-2009 (uno stimolo da quasi 600 miliardi di dollari), e non esportare soltanto merci.

Ora, se tu cerchi di esportare capitali devi garantire un minimo di liberalizzazione dei capitali stessi, che devono poter circolare, e la tua moneta deve iniziare a essere un minimo convertibile. Ma rendere convertibile lo yuen e rendere liberi i flussi di capitali sbaraccherebbe quella costruzione che faticosamente ha tenuto su la Cina fino ad oggi rispetto ai marosi dell’economia mondiale e delle sue crisi. C’è stata un’internazionalizzazione molto cauta, e quando hanno tentato di venire in Europa ad acquisire delle aziende di un certo contributo tecnologico, gli Stati Uniti hanno detto no, l’Europa li ha bloccati e da lì parte il protezionismo americano, in funzione anticinese. Nel frattempo tra il 2015 e il 2016 la Cina ha avuto un attacco speculativo di hot money legato alla bolla immobiliare con capitali che entravano e uscivano velocemente. L’amministrazione Xi Jinping ha detto «regolamentiamo più duramente», ed ecco tutte le critiche all’“autocrazia” cinese, al “partito unico”, eccetera.

Detto ciò, nell’intreccio di economia, geopolitica e movimento di classe l’aspetto importante da sottolineare è ancora nel terzo livello. In Occidente era emersa quella che da più parti viene definita la lotta di classe di tipo «populista» per differenziarla da mobilitazioni più classiche. Mi sembra che dal nostro punto di vista la possiamo definire come una lotta di classe interclassista tra ceti medi impoveriti, o che hanno paura di proletarizzarsi, e il proletariato, dove la voce la dà al ceto medio, con i suoi contenuti, i suoi slogan e le sue prospettive, mache raccoglie l’insoddisfazione e il peggioramento della condizione proletaria, e poiché in tale quadro le istanze di nuovo riformismo non hanno più nulla a che vedere col riformismo del movimento operaio classico si registra la divaricazione (a mio parere, strutturale e definitiva) tra la sinistra classica e le istanze di classe.

Sta qui l’origine materiale della «crisi della sinistra» e del “superamento” dell’antinomia sinistra-destra che ha condotto all’affermazione del discorso populista prima in una forma cittadinista e poi espressamente sovranista. È un sommovimento profondissimo che va legato agli altri piani – l’economico e il geopolitico – altrimenti non lo si capisce o lo si vede come semplice reazione fascista. Ovviamente queste derive ideologiche hanno dei fattori di fondo differenti in Europa e negli Stati Uniti, come dimostrato anche dal riemergere dello scontro tra i due. Ma anche in Cina – è bene ricordarlo – dietro i movimenti di reazione agli Stati Uniti e di risalita della catena del valore c’è stata una forte lotta di classe. Se vogliamo, sono state lotte più tradizionali, condotte da operai di seconda-terza generazione, immigrati nelle città; potremmo dire un operaio massa fordista senza fordismo. Lì infatti, la lotta di classe tradizionale spinge verso un «compromesso socialdemocratico» col partito-Stato. Del tipo: abbiamo fatto i sacrifici, adesso dateci il welfare, dateci l’aumento dei salari. Sono state lotte più che significative: come ha anche dimostrato Branko Milanović in via econometrica, senza l’aumento dei salari cinesi la diminuzione della povertà nei paesi extraoccidentali non si sarebbe data. Il divario tra Nord e Sud del mondo è assolutamente cresciuto, così è cresciuta la polarizzazione sociale dentro i paesi occidentali.

Il dibattito a sinistra pian piano si è ripreso, ma all’inizio dell’eurocrisi e dopo il 2008 rimaneva impastoiato in termini ancora molto, molto confusi e in altrettanto vaghi ricordi keynesiani: “ah, la finanza è parassitaria e la produzione reale è buona”. Il problema dell’imperialismo consiste però proprio nel fatto che è un intreccio di finanza e produzione, dove si tratta di capire chi dirige questo intreccio e chi lo utilizza pro domo sua. Difficoltà a non finire. Per esempio, con l’eurocrisi tutti ce l’avevano solo con l’euro o la Germania, senza vedere che dietro la Germania ci sono gli Stati Uniti. Una confusione incredibile, perché comunque le nuove generazioni venivano da venti, trent’anni di euroliberismo che aveva fatto terra bruciata delle categorie critiche, non solo marxiste. Persino l’analista in Italia più autorevole che in qualche modo cerca di rimettere in campo categorie marxiste, cioè Brancaccio, fino a poco tempo fa guardava fondamentalmente al global imbalances, ovvero il surplus sui deficit di commercio e non di capitali; ma va detto che ultimamente sta ricentralizzando la sua attenzione sui flussi di capitali.

Dunque, voi vi aspettavate qualcosa su Trump e il trumpismo, no? [Risate] Ho parlato parecchio, ma a questo punto direi che potremmo avere qualche strumento in più per inquadrare ciò che sta succedendo, però 1) senza fare previsioni, perché quando l’economia mondiale inizia a ballare nelle sue variabili, saltano tutte e 2) senza cadere in un’eccessiva coerentizzazione, perché può esplodere la disarticolazione di tutto quanto e irrompere il caos generale.

Con questa cautela, permettetemi di dire che forse oggi, nell’era Trump, c’è un’analogia con la situazione tra il 1970 e il 1973, con lo shock di Nixon e il passaggio al sistema monetario a tassi flessibili. Nella nuova presidenza Trump c’è sicuramente una continuità rispetto all’immediato passato. Per esempio, l’amministrazione Biden ha tenuto tutti i dazi protezionistici del primo mandato Trump e la Cina è ancora il nemico. Adesso però vediamo confermato quello che prima anticipavamo timidamente: non era Trump la parentesi estemporanea, era Biden.

Biden, con i suoi consiglieri ultraliberal e presentabili, insisteva sulla «foreign policy for the middle class»: tutto quanto viene fatto a livello internazionale (ossia il lato geopolitico e lato economico) deve portare benefici al ceto medio americano e a quel proletariato bianco più o meno pressured, da romanzo postmoderno. In parole povere, hanno capito la crisi interna del globalismo. Oggi gli economisti europei, e sono tanti, non fanno che ripetere basiti “sono pazzi questi americani”, “Trump è uno stupido”, “si dà la zappa sui piedi”. Perché? Perché l’imperialismo, che sembrava vincente, assoluto, produce comunque contraddizioni. Perché quel meccanismo basato sul binomio centralità del dollaro-esportazione di capitali ha favorito un’élite sempre più ristretta. E tutti questi economisti stupiti di quanto sono idioti i membri dell’amministrazione Trump non capiscono che c’è un’istanza, tra virgolette, “di classe” dietro Trump.

Dietro Trump, cioè, c’è il trumpismo, ovvero l’insoddisfazione, il rancore, la voglia di cambiare. Certo, in termini per noi incatalogabili; ma fatto sta che si tratta di quelle istanze di classe, ripeto, interclassiste formate da un ceto medio impoverito, dai suburbi della provincia e un proletariato soprattutto bianco, che ovviamente in quelle condizioni lì, avendo fatto terra bruciata negli anni Sessanta e Settanta di quel minimo di coscienza di classe, se la prende innanzitutto con gli immigrati. Lo stesso immigrato penultimo se la prende con immigrato ultimo. Ma a un certo punto hanno iniziato a prendersela con “l’élite”. Parliamoci chiaro: Biden ha dato un sacco di soldi, ha fatto un sacco di sussidi, e nonostante questo ha perso.

Per noi, il dato politico cruciale è questo: l’imperialismo del dollaro è ricaduto come un boomerang all’interno degli Stati Uniti, ne ha sconvolto la struttura sociale, impoverendo e polarizzando la popolazione. E adesso iniziano a risentirne.

La contraddizione è emersa in una maniera confusissima, che dall’Europa è difficile percepire nella sua interezza, ma ciò non ci esime dal cercare quali siano le istanze che promuove la base sociale del trumpismo e del movimento MAGA. Istanze che Trump e compagnia bella devono disperatamente cercare di connettere quelle frazioni di capitale statunitense che traggono sempre meno benefici dal circuito della globalizzazione: capitali se vogliamo arretrati, più piccoli, ma anche porzioni di finanza in lotta intestina. Blackrock, Vanguard e così via ci guadagnano tantissimo, ma dove investono? Oppure pensiamo alla Silicon Valley, che dalla globalizzazione ci ha guadagnato tantissimo, e che ora ha bisogno di investimenti che solo lo Stato può garantire, sia da un punto di vista economico sia da un punto di vista di difesa geopolitica. I satelliti di Musk, se la guerra in Ucraina continua, chi li difende da una tattica nucleare russa? L’economia? No, la difende lo Stato. Quindi meno Stato per alcuni, più Stato per altri.

La guerra in Ucraina, però, ha dimostrato l’impreparazione degli Stati Uniti a una guerra con un’altra grande potenza. Quindi bisogna evitare e rimandare il più possibile lo scontro diretto con la Russia, ma soprattutto con il nemico dichiarato, la Cina. La parola d’ordine è «prepararsi», certo; ma prepararsi significa fare un passo indietro tattico per farne poi due avanti strategici. Fuor di metafora, ciò equivale a riportare l’industria negli Stati Uniti ad ogni costo. Ma riconfigurare l’industria militare e la componentistica costa grandi sacrifici all’interno. “La borsa è cresciuta troppo? Vabbè, si sgonfia”. “Rischiamo una recessione? Rischiamola pure, ma per rendere l’America grande domani”. “E a chi la facciamo pagare? Innanzitutto all’Europa”.

La rischiosissima scommessa trumpiana è questa a livello geoeconomico e geopolitico: in qualche modo indebolire il dollaro, ma creare le condizioni per cui i titoli del Tesoro statunitense continuino a essere acquistati. Il che, da un punto di vista strettamente economico, è una contraddizione. Vengono allora incontro i rapporti internazionali. Per esempio: l’Europa vuole iniziare a riarmare. Dove le compra le armi? Tra il 60 e l’80% dagli Stati Uniti; quindi via a rinforzare l’industria statunitense delle armi. Altro esempio: hai pochi titoli del Tesoro americano e devi comprarne di più? Uso i dazi. Oppure ti minaccio di non difenderti se non spendi e se non compri da noi. Se non bastasse, ti vendiamo dei titoli del Tesoro a cento anni, che tu sei costretto ad acquistare, o addirittura a scambiare titoli di tesoro a durata più breve con titoli irredimibili, in una sorta di consolidamento del debito. E tu comunque li devi comprare. Ma potremmo continuare.

Dunque un passo indietro rispetto al confronto diretto con la Russia sul piano militare, ma non con la Cina sul piano economico. Poiché il decoupling selettivo di Biden non ha avuto successo, si cerca in ogni modo di isolare la Cina, di costringere l’Europa ad allontanarsene e a creare in Asia sud-orientale un’alleanza anticinese che dia fastidio, rimanendo sempre al di qua del confronto diretto; si tenta di costringere a rivalutare le monete del Giappone, dell’Asia orientale, possibilmente anche della Cina per permettere di svalutare il dollaro, imponendo però al tempo stesso di continuare ad acquistare i titoli del Tesoro. Un azzardo dal punto di vista strettamente economicistico, ma diventa comprensibile se osserviamo il boomerang della configurazione dell’imperialismo dagli anni Settanta in poi, con le sue conseguenze negative sul tessuto sociale e politico, e quindi sulla possibilità di mantenere effettivamente l’egemonia.

Continuando con Biden, con il globalismo e i democratici, il declino degli Usa era garantito. Ecco perché si è avanzata una svolta forte analoga a quella che il Nixon repubblicano e anticomunista fece con la Cina di Mao. I dazi dunque non sono l’obiettivo, ma piuttosto una leva, uno strumento che sarà flessibilmente utilizzato (per frantumare l’Europa, per riunire gli avversari, per dare un contentino ad alcuni settori economici interni, eccetera). Non è scritto da nessuna parte che il tentativo riesca, e ne può uscir fuori un caos inaudito – anzi, forse per noi sarebbe anche meglio così.

Ma non fissiamoci troppo sulla cronaca, e sforziamoci di tenere gli occhi puntati sulle dinamiche generali. La cosa più importante è che l’imperialismo, anche a livelli più alti, aveva eliminato le questioni nazionali. Per converso, oggi l’imperialismo, nel suo punto di sviluppo più recente, attraverso quel boomerang che ho malamente spiegato, ripropone questioni di sovranismo e di difesa della nazione al suo centro, negli Stati Uniti, come difesa dei settori medio-bassi della popolazione da quel globalismo di cui hanno beneficiato i grandi capitali finanziari degli Stati Uniti.

Il che a prima vista apparirebbe paradossale. Capiamoci, questa non è la questione di classe che piacerebbe a noi, pulita e inquadrabile nei termini a cui siamo abituati; ma comunque è una questione di classe, così come in Europa. Ovviamente, quando si parla di sovranismo lasciamo perdere tutti quelli che si definiscono sovranisti, la Meloni piuttosto che Salvini. Già è un po’ più seria la Le Pen, il più serio è Orban, ma comunque… [Kamo: E Vannacci? È serio?] Ma l’Italia è il paese che galleggia! E quindi esprime politici che galleggiano. È così, non contiamo niente. E soprattutto, non c’è neanche la percezione che stanno succedendo cose grosse, cose che sconvolgeranno le nostre vite. Finché non c’è questa percezione non ci si muove, quindi non si può che galleggiare e “sperare che me la cavo”. Però, come dicevamo, già da anni in Europa vediamo in una maniera un po’ buffonesca, ma vedremo in termini sempre più drammatici, un antiamericanismo che serpeggia. Il broncio di Scholz, della Von der Leyen o di Macron è ancora un antiamericanismo da operetta. Però dietro c’è il fatto che l’antiamericanismo era destinato a risorgere anche in Europa.

Voglio quindi chiudere il mio intervento su questo punto, che deve essere molto chiaro: non si muoverà niente in Europa in funzione effettivamente antiamericana se non viene dal basso, ossia facendo pagare a queste élite politiche tutto il loro servilismo rispetto agli Stati Uniti, il loro gioco sporco nella guerra antirussa in Ucraina e via discorrendo. È dunque indispensabile una sua rimessa in moto, che all’inizio non potrà che essere impura, confusissima, interclassista e si darà molto probabilmente non su contenuti immediatamente di classe e internazionalisti, ma con una ripresa dal basso di questi contenuti di difesa nazionale.

Nel cuore dell’imperialismo, ritorna la questione nazionale, in forme veramente inaudite, sconcertanti.

La scommessa di Trump, secondo me, non può essere vinta, ma gli Stati Uniti la giocheranno comunque, e il fatto stesso che la giochino avrà degli effetti sconvolgenti sul sistema internazionale. Un ripiegamento dell’imperialismo su se stesso che ha del paradossale, poiché significa tentare di reinternalizzare una logica mercantilistica dentro un quadro imperialista, bloccando al tempo stesso la potenziale proiezione imperialista della Cina, la quale deve rimanere per gli Stati Uniti bloccata in una logica mercantilista.

Lo ripeto: questo è materiale esplosivo per il sistema mondiale. Per il resto, staremo a vedere, sempre però da una prospettiva, in senso stretto, materialista. Cosa intendo dire? Una cosa non diversa da quella offerta da Lenin. Nel cercare di differenziare l’oggettivismo dal materialismo, Lenin disse che l’oggettivismo vede i processi reali, però si ferma a questi; il materialismo invece vede i processi reali, non interpreta soggettivisticamente, ma li legge alla luce delle contraddizioni che fanno emergere, e quindi delle potenzialità della rivoluzione.

La geopolitica della rivoluzione si è rimessa in moto, seppure in forme che non ci aspettavamo…

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Discorsoni / Analisi

Mimmo Porcaro – L’Italia al fronte. Destre globali e conflitto sociale nell’era Trump

Introduzione

«La fabbrica della guerra» è un ciclo di incontri organizzato a Modena, ospitato dal Dopolavoro Kanalino78, con l’obiettivo di cercare chiavi per comprendere e afferrare la complessità della fase storica in cui siamo immersi, nella quale eventi sempre più accelerati fanno sfuggire la leggibilità del presente. Come coordinata interpretativa abbiamo voluto usare la guerra perché pensiamo sia il grande fatto sociale centrale, la determinante che sta riorganizzando tutto il nostro mondo e le altre dimensioni di questo momento storico, la realtà in cui siamo collocati.

La tendenza alla guerra delle società capitalistiche è diventato un fatto innegabile, lo vediamo sempre più concretamente; ed è una dinamica che arriva a toccarci sempre più direttamente; in altri termini, un fenomeno che sta trasformando non solo il sistema internazionale in cui abbiamo vissuto finora, ma anche la nostra vita quotidiana. Attraversati da questa dinamica, cambiano in profondità i nostri territori, le nostre città, i nostri quartieri, e insieme a loro stili di vita, bisogni, aspettative, punti di vista, comportamenti sociali.

Per i militanti è diventato dunque imprescindibile comprendere queste trasformazioni per agirle, e potenzialmente per ribaltarle. Come recita un vecchio slogan: «Chi pensa deve agire». Noi crediamo che per agire bene bisogna prima pensare bene, ed è questo l’obiettivo del ciclo di incontri.

Il primo tempo di questo ciclo di incontri è stato intitolato «Modena nel conflitto globale».

Quando abbiamo iniziato a riflettere sulla guerra, infatti, non siamo partiti da grandi teorizzazioni, da grandi discorsi di geopolitica. Abbiamo voluto partire dalla visuale del nostro orizzonte, da quello che ci tocca direttamente, quotidianamente. E quindi siamo partiti dal nostro territorio, ossia dall’ambiente geografico e sociale in cui ci muoviamo. L’unico su cui possiamo cominciare ad agire direttamente con i mezzi che abbiamo. Ammettiamolo: non possiamo andare a fermare la guerra in Ucraina e non possiamo fermarla a Gaza, ma invece possiamo agire – dobbiamo agire – qui, dove siamo collocati, sul nostro territorio.

Siamo partiti a inchiestare la «fabbrica della guerra» a cominciare dall’industria della formazione («Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università»), cioè scuola e università, che è parte integrante della catena di montaggio del conflitto. Abbiamo voluto interrogare quei soggetti, studenti delle superiori e universitari, che nei mesi e negli anni scorsi hanno incominciato a mobilitarsi contro la guerra, in particolar modo contro il genocidio a Gaza da parte di Israele. Abbiamo voluto fare una discussione con loro per capire cosa si muovesse a scuola e in università, anche attraverso il metodo della conricerca, presentato dal collettivo Officine della Formazione, attivo nell’università di Bologna, di cui abbiamo presentato un’inchiesta sulla soggettività studentesca. Pensiamo che l’industria della formazione sia baricentrale nella riproduzione capitalistica, andando a formare quelle capacità umane, quei saperi, quelle conoscenze e soprattutto quei soggetti che verranno messi a valore dal sistema capitalistico, e che noi invece dobbiamo provare a “controutilizzare”, “controformare” per andare a combattere la struttura sociale che produce la guerra.

Il secondo incontro è stato invece sulla fabbrica emiliana («La guerra sul territorio. Industria modenese, produzione bellica e operai: come si trasforma la fabbrica emiliana nella crisi globale?», di prossima pubblicazione), l’industria in senso stretto, osservando quelle caratteristiche che contraddistinguono il nostro territorio. Parliamo infatti di un territorio a vocazione industriale, soprattutto meccanica. Nel corso dei decenni si è consolidato un tessuto di fabbriche, soprattutto di media o piccola dimensione, molto particolare, organizzato in distretti, che dagli anni Ottanta in poi è riuscito a internazionalizzarsi ed essere volano dello sviluppo e dell’accumulazione capitalistica italiana. Ci troviamo su uno dei vertici di quel triangolo Lombardia-Emilia-Veneto a propensione per l’export, in cui si producono i macchinari e la componentistica che alimentano le catene di subfornitura a livello internazionale e globale; una parte di territorio nazionale che, ancorandosi soprattutto all’economia tedesca, è riuscito a integrarsi profondamente nelle catene del valore della globalizzazione.

Il punto prospettico su cui è stata focalizzata la nostra inchiesta sul tessuto industriale modenese è stato appunto il rapporto tra la crisi dell’automotive tedesco e la tendenza alla guerra. La nostra ipotesi era che la crisi delle grandi case automobilistiche tedesche, determinata dalla distruzione dei fattori cruciali dello sviluppo tedesco – ossia l’energia a basso costo dalla Russia e la penetrazione nel mercato interno cinese –, e la compromissione radicale dell’economia tedesca in senso lato, avrebbe provocato un effetto a catena che si riflette su quel reticolato di subforniture che coinvolge la provincia di Modena – la Motor Valley appunto. La tesi che abbiamo sviluppato è che questa crisi può essere l’occasione, il volano, per una ristrutturazione delle competenze e degli impianti impiegati nel settore automobilistico in funzione bellica. In sintesi, venute meno le commesse tedesche, queste piccole e medie fabbriche modenesi, inserite strettamente nelle catene globali del valore, si riconvertono per fornire componentistica alle industrie belliche (come, per esempio, Leonardo).

Abbiamo presentato questa inchiesta insieme a Giovanni Iozzoli, che invece ha discusso dell’aspetto interno alle fabbriche, con una ricognizione sugli operai e le rappresentanze sindacali. La nostra ipotesi ce l’ha confermata la stessa Meloni qualche qualche tempo dopo, quando è uscito un articolo sul «Corriere della Sera», ripreso poi da tutti gli altri quotidiani, dove si parlava di questo “piano segreto” di riconversione dell’automotive italiana in industria bellica.

Quindi, attraverso un metodo che abbiamo condiviso nel corso degli anni, siamo riusciti ad anticipare e a vedere sul nostro territorio questi processi in atto, che andranno a trasformare il territorio e soprattutto la condizione di chi ci vive, così come i possibili comportamenti dei soggetti sociali che si muovono in esso. Lo ripetiamo, non intendiamo indagare questa situazione per mera conoscenza sociologica, ma per indirizzare politicamente un’azione che sia pregna di contenuto e che sappia anticipare le situazioni che potranno crearsi a fronte dell’accelerazione degli eventi e soprattutto dell’approfondimento dello scenario di guerra che ci coinvolge sempre di più.

Questi i motivi per cui parliamo di «fabbrica della guerra»: è qua che si produce la guerra, sostanzialmente, nei suoi elementi materiali. Le industrie che prima producevano componentistica per auto oggi lavorano su alettoni per missili, cingoli per carri armati; l’università produce software e sviluppatori di software per l’intelligenza artificiale usata anche a scopo bellico, come i sistemi di identificazione e di puntamento, e via di questo passo. La nostra provincia si dimostra una punta avanzata di questo sviluppo tecnologico, improntato sul passaggio dal welfare al warfare.

Per non cadere vittime del localismo, attraverso il secondo tempo del ciclo («Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema») abbiamo provato ad alzare lo sguardo dal nostro orizzonte quotidiano e raggiungere una contestualizzazione di più ampio respiro. Tenendo sempre ancorato lo sguardo sulle trasformazioni nella composizione di classe, abbiamo allargato via via il punto focale per vedere dove questi processi si iscrivono a livello internazionale e globale, e quale la loro dimensione politica.

Abbiamo iniziato a indagare, con Mimmo Porcaro, su quale linea del fronte si colloca l’Italia, tra ascesa di rinnovate destre globali, da Trump a Meloni, e possibile, inedita riemersione di una “questione nazionale” che, a bene vedere, non potrà essere esaurita dentro le destre, ma intercetterà i movimenti a venire della composizione di classe; con Raffaele Sciortino, abbiamo cercato di definire la strutturazione che l’imperialismo ha assunto, tra continuità e discontinuità, dal Novecento alla crisi del 2008, e di capire cos’è oggi alla luce della configurazione concreta del mercato globale e dello scontro Stati Uniti e Cina; infine, con Robert Ferro, abbiamo ragionato sulla traiettoria dell’Europa a fronte della crisi tedesca, al cuore del progetto europeo, e della chiarificazione del rapporto tra Unione Europea e Stati Uniti.

Tutte questioni che, a nostro parere, si intrecciano. Per questo, partendo da singoli anelli, ricostruire la catena dei fenomeni significa provare a comprenderla e possederla – anche per non farci “incatenare” a terra dal caos montante.

Nel primo incontro con Mimmo abbiamo discusso della posizione dell’Italia nella crisi globale. Dove stiamo andando? Che ruolo ha l’Italia in questo caos politico? Cosa rappresenta il successo delle destre in ascesa un po’ in tutto il mondo, da Trump alla Meloni fino all’Est Europa?  È il ritorno del fascismo, come ci dicono le centrali democratiche progressiste, oppure qualcos’altro? Che differenze ci sono tra di loro e tra gli interessi che rappresentano? E poi, in che modo questo accartocciamento delle relazioni internazionali, questo stato di guerra sempre più approfondito può creare le condizioni, le opportunità dello sviluppo di un nuovo ciclo di lotte di classe, o quantomeno di una ripresa delle lotte di classe? E nel caso, che forme e istanze avranno queste lotte?

Dopotutto, le lotte ripartono da dove avevano trovato una sconfitta, ma sempre portando in strada nuovi istanze e nuovi soggetti. Se ci permettete un’immagine, diremmo che assistiamo in un qualche modo a un ritorno dell’antico: la marea della globalizzazione si ritira e lascia sul terreno questioni che aveva sommerso o che aveva voluto sommergere. Questioni tipiche della Modernità come la nazione, la sovranità politica, la realpolitik, l’equilibrio di potenza, le sfere di influenza… e con queste anche la lotta di classe. Tutto ciò ci porta a domandarci se siamo di fronte, o potremmo essere di fronte, a una ripoliticizzazione del sociale, o piuttosto a una ripolarizzazione dello spettro politico, e quale ruolo, dentro ai processi a venire, potranno e dovranno avere i militanti che del processo vogliono organizzare la rottura rivoluzionaria.

Buona lettura.

Mimmo Porcaro

Quando ho letto il titolo della locandina che mi ha mandato generosamente il compagno, gli ho detto “guarda, porto un amico”, perché rispondere a tutte queste domande qua è diventato un po’ difficile. Teniamo conto infatti che sono questioni complesse per chiunque. Si discuteva prima che ho scritto un articolo contro «Limes» e di loro alcune posizioni importanti; ebbene, pensate che adesso i rumors danno Caracciolo in grossa difficoltà dentro la rivista perché pare che il gruppo editoriale Gedi non accetti molto la sua valutazione sul carattere tra virgolette “razionale” del trumpismo. In effetti, ha dei caratteri di razionalità politica elementare che i democratici americani avevano completamente perduto. Sono chiacchiere, rumors, però sicuramente dietro c’è un problema reale, perché quando qualcuno si mette a fare un’analisi obiettiva (si può dire quello che si vuole di «Limes», ma mi sembra che abbia sempre portato dei contributi seri), comincia a diventare fastidioso anche se è uno dei piani alti, molto alti, come suggerisce il cognome stesso.

Per fare un altro esempio della complessità della questione, io avevo scritto un articolo per «La Fionda» e che avevo mandato ai compagni per dare un’idea di quello che avrei voluto dire. Be’, l’ho riscritto. Già solo qualche giorno dopo ho dovuto riscrivere dei pezzi perché non mi convinceva come avevo reso il rapporto tra Trump e il capitalismo finanziario, o tra Trump e il capitalismo industriale… Insomma, siamo dentro situazioni che cambiano continuamente. La nostra capacità analitica già non era eccelsa prima, perché le grandi strutture di analisi legate ai partiti di un tempo sono scomparse, e andiamo avanti tutti in maniera artigianale; ma dobbiamo comunque avere il coraggio di fare delle ipotesi, sapendo che dopodomani potrebbero essere smentite. La situazione è difficile anche per le grandi potenze internazionali, salvo tre o quattro superpotenze che controllano molte variabili e quindi possono decidere con un livello di rischio di errore diciamo basso, basso ma non zero. Salvo loro, anche le cancellerie delle medie potenze europee e internazionali non sanno che pesci prendere, anche perché non sanno che tipo di eventi verranno prodotti dai rapporti difficilissimi, nonostante l’apparenza, tra le tre superpotenze. Oggi quindi siamo qui per tentare di capire, sapendo con umiltà che potremmo sbagliare moltissimo.

Io in realtà, prima di rispondere direttamente alle domande sull’Italia e sulla lotta di classe, devo per forza dire due cose sull’imperialismo e sull’Europa, rubando quindi un po’ del tempo che poi useranno Sciortino e Ferro – con i quali, tra l’altro, da un anno e mezzo a Torino stiamo costruendo assieme ad altri compagni un seminario proprio sull’imperialismo, che attraverso l’analisi dei rudimenti minimi, anche a partire da una rilettura di Marx, sta arrivando a individuare una serie di nodi. Vi dico quello che penso io: noi non abbiamo la pretesa di arrivare a una posizione unitaria, di fare il nuovo partito o queste cose qua. È una discussione molto franca tra compagni di provenienze molto diverse (andiamo dal centrosocialismo al sovranismo di sinistra), e però con grandi capacità di dialogo perché uniti dall’intento comune di cercare di capire qualcosa in funzione di una ripresa del conflitto sociale.

Allora, Trump.

Dunque, partiamo da una cosa abbastanza significativa, un’intervista che lui diede tempo addietro, non so se al «New York Times» o a quale altro giornale americano, in cui l’intervistatore gli disse: «Ma lei, signor Trump, è filo Putin. Ma lei lo sa che Putin è un killer? È un vero son of a bitch?» E risponde lui: «Bah, sì, un killer. Ma noi abbiamo trattato con una marea di killer. Ma cosa credete, che noi siamo innocenti?» Quando uno sente queste cose, pensa subito: “Toh, che simpatica canaglia. Visto che parliamo di un bieco imperialista eccetera eccetera, meglio uno così che dice la verità piuttosto che quegli altri che ammantano l’imperialismo con le guerre umanitarie, i valori e queste cose qua”. È vero sotto certi aspetti, non per il fatto che non dica la verità – io credo che menta nell’80% dei casi, mente come chi deve negoziare e ha una concezione transazionale della vita – però nella sostanza sicuramente mostra con maggiore durezza i rapporti di forza.

Ma non è vero che faccia la stessa cosa che facevano gli altri prima, con l’unica differenza che lui lo ammetta. Lui fa una cosa molto diversa rispetto a quanto abbiamo visto finora. È un’altra modalità, un’altra declinazione dell’imperialismo, ma è diversa da quella precedente e questa differenza conta. Quella precedente è quella che si ammantava dal termine “globalizzazione”, una macrostruttura capitalistica che pensava di riuscire a conquistare il mondo intero attraverso l’allargamento del sistema americano. Allargamento che, guarda caso, ogni tanto aveva bisogno di qualche colpo militare (e quindi Serbia, e quindi l’Iraq, e quindi Libia e così via), ma che però sostanzialmente si basava sull’apertura del libero mercato con il quale, secondo Clinton, si sarebbe riusciti a comprare la Russia e che, secondo tutto il pensiero neocon americano, avrebbe imposto una prospettiva liberale per la Cina facendo crollare il partito comunista. La cosa non ha funzionato.

È una modalità dell’imperialismo, e non va inteso come un mero slogan ma per capire a fondo cosa stiamo vedendo. Si tratta di una modalità dell’imperialismo perché in realtà anche la semplice transazione economica dal punto di vista capitalistico è già una costruzione di gerarchie ed è per questo che ha bisogno di essere continuamente accompagnata dalla forza armata. Non si dà espansione del libero mercato senza l’esistenza di uno o più eserciti che presidino le zone nevralgiche e che consentano di indebolire tutti gli Stati che possano avere quel minimo di forza tale da porre dei limiti al libero movimento del capitale. Se ci pensate, la colpa maggiore di tutti i famosi “dittatori” che sono stati estromessi dalla politica estera americana non era quella di essere dei dittatori (cosa della quale, agli Stati Uniti, non è mai fregato nulla), ma il fatto di avere costruito degli Stati sufficientemente forti da poter dare fastidio. Questo era, diciamo, il primo tempo di quella che era la globalizzazione, una fase storica che troppi della sinistra, soprattutto della sinistra paracomunista, hanno preso come “la fine degli Stati”, lo sviluppo di un “mondo piatto”, senza conflitti statuali (“Finalmente!”, diceva qualcuno, come nei famosi testi di Negri e compagnia briscola).

Era, si noti bene, una modalità dell’imperialismo che ha prodotto degli squilibri tali da non essere più sostenibile. Paradossalmente rispetto agli scopi iniziali, ha prodotto un indebolimento di quella potenza che si pensava come potenza unipolare – gli Stati Uniti – perché sia l’espansione economica che l’espansione militare si sono rilevate alla fine troppo pesanti. L’espansione economica, per come si è sviluppata realmente, ha prodotto uno scompenso fortissimo dei conti con l’estero degli Stati Uniti, sia nella bilancia commerciale che nella bilancia dei pagamenti (in altri termini, questi signori vivono a debito e il giorno che qualcuno richiedesse il pagamento dei debiti in teoria dovrebbero saltare, cosa che chiaramente non succederà nei nostri tempi); e in più la sola estensione militare, a fronte anche delle sconfitte che sono state patite nei progetti militari americani (prima l’Afghanistan, adesso l’Ucraina, e se anche ci fossero Biden o la Harris dovrebbero comunque trattare la pace) è diventata obiettivamente un peso eccessivo per gli Stati Uniti.

La risposta di Trump sotto questo punto di vista si riallaccia a tutta l’elaborazione del cosiddetto realismo politico americano. Per intenderci, quando Clinton, il venerato Clinton, aveva iniziato a dire che bisognava espandere la Nato all’estero verso Est, una cinquantina di osservatori formatisi in questa scuola di realismo politico (gente che aveva gestito la Guerra fredda, quindi non proprio delle colombelle) scrissero una lettera in cui grossomodo dicevano: “Signor Presidente, quello che lei sta commettendo è un gravissimo errore che avrà delle conseguenze incalcolabili”. E Trump non fa che riprendere questo filo di ragionamento dicendo, in sostanza: “Noi dobbiamo dominare, noi dobbiamo essere i primi, ma non possiamo far sì che il mondo sia tutto simile a noi; quindi dobbiamo imporre la nostra volontà all’interno di un rapporto di forze internazionale che, purtroppo, di fatto è multipolare”.

I due punti significativi e interrelati sono questi. Trump riconosce realisticamente che non può far diventare liberale la Cina (e neanche gli interessa), né può far diventare liberaldemocratico Putin. Deve tener conto dei rapporti di forza, ma non per tenerli come sono. Piuttosto, ne tiene conto e accetta il mondo multipolare non come un equilibrio già costruito, ma come un campo di battaglia in cui lui deve in qualche modo primeggiare. Trump rappresenta, diciamo così, una fase di parziale ritirata tattica. Dopo che si era espanso troppo, l’imperialismo americano ha bisogno di rientrare un attimo nei ranghi, di ritornare nel suo mondo (che non è solo costituito dagli Stati Uniti, ma da tutto il blocco occidentale), rafforzare le posizioni all’interno di quel blocco. Per poi? Puntini puntini. Questo lo vedremo perché, come dirò dopo, ci sono anche degli elementi oggettivi che comunque spingono verso una ripresa di una politica aggressiva. Che cosa succede quindi?

Mi riallaccio a un importante studio, poco noto in Italia, svolto da studiosi dell’Università di Amsterdam e raccolto in Trump and the Remaking of American Grand Strategy, che ha il merito di esporre con grande chiarezza e dovizia di elementi la differenza di fondo della situazione odierna. Il precedente corso, iniziato con Clinton e protrattosi fino a Obama, vedeva nell’espansione all’esterno degli Stati Uniti la condizione per la crescita interna e per il benessere interno. Trump, almeno a parole, fa l’operazione contraria: prima rafforzare la base produttiva e finanziaria statunitense, e solo dopo e in funzione di ciò pensare all’espansione all’esterno. È una differenza importante, ma non è una differenza tra la guerra e la pace. Perché?

Spesso si sente dire che Trump sostituisce la logica della guerra con la logica dell’economia, e che un attrito economico è pur sempre preferibile alla guerra aperta. Il problema è che da questo punto di vista la traiettoria di Trump rientra in un quadro che la polemologia ha già individuato da molto tempo, e che in America viene sintetizzata nella formula di Daniel Bell, uno dei più grandi sociologi americani, che sostiene che «l’economia è la continuazione della guerra con altri mezzi». Infatti, come ho detto prima, anche quando l’economia si svolge lungo una dinamica win-win, nascono comunque dei rapporti gerarchici; ma l’economia diventa un elemento bellico e potenzialmente creatore di conflitti bellici soprattutto quando è concepita espressamente come un gioco a somma zero, del tipo io vinco-tu perdi, in cui cioè scompare l’illusione dello scambio che fa contenti tutti. Lo scambio economico è un momento di scontri durissimi, e quindi, in modo o nell’altro, prelude sempre alla possibilità di scontri militari. Ma non finisce qui. C’è sempre da tenere presente che nessuna presidente degli Stati Uniti d’America può ignorare quello che hanno fatto i presidenti precedenti.

Se voi guardate bene c’è una serie di continuità impressionanti su alcuni elementi. Intanto, nel fregarsene dell’Europa tutti sono uguali (solo che lì veramente Trump lo dice a chiare lettere). Però, per esempio, il primo a parlare di dazi è stato Obama, poi è arrivato Trump, poi è arrivato Biden che ha fatto dazi ancora più duri di quanto non avesse fatto Trump, e così via. Perché? Perché da un lato, le scelte dei presidenti precedenti rispondevano comunque a problemi oggettivi, pesanti, reali; dall’altra, quando si muovono gli Stati Uniti non è che si muove il comune sperduto o il paesello, ma creano delle realtà oggettive e dei rapporti sociali che poi non è facile modificare. Si determina così un crescendo tale per cui nessun presidente può far finta che “quello di prima” non abbia fatto niente di buono, e deve in qualche modo proseguire da lì.

Nella fattispecie Trump si troverà di fronte a un nodo fondamentale, ossia la centralità della difesa del dollaro per far sì che gli Stati Uniti si indebitino nella moneta che stampano, rimanendo così a galla. Ma la centralità e la fiducia nel dollaro si può ottenere soprattutto attraverso la costante presenza militare e politica nelle zone centrali del mondo; quindi Trump non potrà – ammesso che lo voglia – tornare completamente indietro rispetto a questa situazione e dovrà farci in qualche modo i conti. Detto ciò, qual è l’ulteriore differenza tra Trump e le presidenze passate che ci interessa più da vicino?

La novità rispetto alle precedenti amministrazioni è l’aperta e decisa rottura con l’Europa e il fatto che quelle forme di scontro che prima venivano indirizzate nei confronti dei paesi fuori dal blocco occidentale, adesso si rivolgono al suo interno per rafforzare dentro l’Occidente la forza degli Stati Uniti d’America e per concentrare tutte le forze possibili e immaginabili ai fini della fase successiva dello scontro. È evidente a tutti che l’Europa sia sotto attacco e che questo sia un problema cruciale per le classi dirigenti. Però, se uno cercasse di guardare con un occhio più storico, si potrebbe chiedere: ma non stanno forse nascendo le condizioni per l’esaurimento degli esiti della Seconda guerra mondiale?

Infatti, per molti studiosi di storia e di geopolitica, la Seconda guerra mondiale non è stata soltanto la sconfitta del nazifascismo, ma soprattutto la sconfitta dell’Europa, perché è stata a) la sconfitta delle pretese coloniali dei grandi imperi, inglese e francese, cosa resa evidentissima nella crisi di Suez del 1956, e b) è stata anche il tentativo ben riuscito di isolare e di combattere quello che poteva essere (e in effetti era) l’avversario economico numero uno degli Stati Uniti in Europa, cioè la Germania. Vi faccio un esempio a mio parere emblematico: il termine “Guerra fredda” non nasce per indicare l’ostilità nei confronti dell’Urss, ma si presenta per la prima volta nel lessico politico americano in ambito giornalistico nel 1943-1944, quando l’esito della guerra in corso era comunque scontato, per indicare l’impellenza vitale di proseguire, anche dopo la pace, un assalto velato nei confronti della Germania, che le avrebbe impedito di avere un ruolo economico in futuro.

Detto ciò, rimangono alcune domande aperte. Infatti, considerando a) che gli americani si disinteressano dell’Europa, b) che dal 1989 lo scontro tra Unione Sovietica e Stati Uniti è finito e c) che oggi non v’è più neanche uno scontro diretto con Putin, perché non si riesce a prendere atto di questo distacco e iniziare una “risovranizzazione” dell’Europa, ossia un percorso che la faccia diventare un vero e proprio soggetto politico? Questo è un bel problema. Riuscire a capire perché gli europei si stiano comportando in questo modo, vale a dire perché continuino una guerra che apparentemente loro non hanno voluto, che hanno solo subito e che oggi gli attori principali vogliono interrompere, è indubbiamente un busillis.

Insomma, come dicono al mio paese d’origine, ccà nisciuno è fess, ma guardarle così certe cose sembrano veramente autolesionistiche. Sarà che abbiamo un ceto politico incapace di fare delle scelte di importanza storica perché è composto di gente cresciuta in un’epoca in cui sembrava che la politica fosse finita (dopo l’‘89 non c’è stato nessuno che avesse la statura dei vecchi leader europei); sarà che finora hanno sostenuto che la guerra in Ucraina è santa e giusta, che ci dovevamo svenare per farla, quindi non è che dall’oggi al domani possano dire «no basta, abbiamo scherzato, non si fa più». Ma questi elementi (pure innegabili) non sono sufficienti a spiegare una situazione che eccede le logiche di comune propaganda politica.

È qualcosa di molto più profondo, perché scegliere la strada del riarmo nei termini in cui l’ha presentata la Von der Leyen significa un cambiamento di paradigma economico, politico e sociale. Ma allora perché siamo a questo punto?

Alcuni elementi mi sento di anticiparli sin da ora. Ovviamente, se tu sai che il tuo alleato principale e protettore ha deciso di diminuire il tasso di protezione, è logico che tu ti ponga un problema di gestione del tuo apparato militare; il che però è diverso da quello che è stato proposto. Il piano presentato a Bruxelles probabilmente dipende da due fattori, tra loro convergenti.

Il primo è il fatto che il cosiddetto capitalismo europeo non è solo europeo, ma è un capitalismo ibrido, misto europeo-americano. Come aveva già brillantemente intuito un grande filosofo marxista negli anni Settanta, Nicos Poulantzas, la presenza dei fondi di investimento americani nel capitalismo europeo è a livelli altissimi. Gli investimenti diretti all’estero (Ide) da parte degli Stati Uniti d’America – Ide che, tra l’altro, secondo Lenin, sono il primo motore dell’imperialismo – negli ultimi decenni sono declinati in tutte le zone del mondo, ma sono invece decisamente aumentati per quanto riguarda il capitale europeo e in particolare per le aziende capitalistiche più centralizzate e a più alto livello tecnologico. Quindi il core del capitalismo europeo è misto, e ha tendenze che sono simili a quelle del capitalismo americano, soprattutto del capitalismo estrovertito che, si noti bene, ha ancora interesse a mantenere comunque un fucile puntato contro la Russia – interesse che peraltro ha lo stesso Trump perché il leitmotiv delle sue ultime dichiarazioni si riassume in “andremo verso la pace e rispetteremo le zone di influenza, però questa è zona mia e deve essere armata, preferibilmente armata con i soldi degli altri”.

Il problema è che poi, lo vedrete, si chiederà all’Unione Europea anche di acquistare il debito pubblico americano in sostituzione di quella fetta di debito che i cinesi non acquisteranno più (e che già stanno già diminuendo vorticosamente). Per ora si tratta ancora di ipotesi e previsioni, ma nell’ultima riunione del seminario che stiamo tenendo, dati alla mano, siamo arrivati a vedere che c’è questa possibilità.

Detta fuori dai denti: se vogliamo capire quello che dobbiamo fare noi, dobbiamo partire da quello che succede in Europa. E in Europa ci troviamo in una situazione per cui quello che i geopolitici chiamano “l’incubo di Mackinder” non si realizza.

Halford Mackinder sosteneva una cosa sacrosanta, che forse con il tempo ha mutato di peso però rimane cruciale prestarle attenzione. Non vi ripeto tutta la formula perché poi ci perdiamo (e perché la geopolitica comincia anche a stufarmi… io sono un filosofo, malriuscito, vedi te se mi devo mettere a studiare ‘ste cose. Ma vabbè, dobbiamo farlo). Ve la faccio breve. Lui parlava dal punto di vista inglese, ma vale a maggior ragione anche per gli Stati Uniti: bisogna evitare che si formi la cosiddetta Eurasia, chiamiamola così. Ovviamente non nel senso dell’euroasiatismo di Dugin, quei blateramenti sulla cultura reazionaria russa che si sposa con la cultura reazionaria europea, no. Il problema è molto più prosaico. Se le risorse tecnologiche e finanziarie dell’Europa e dell’Unione Europea intrecciano le risorse energetiche e politico-strategiche più in generale della Russia, gli Stati Uniti cominciano a declinare veramente, perché oltre a un competitore come la Cina, avremo un competitore euroasiatico fortissimo. E quindi devono fare di tutto per impedire che questa cosa si realizzi.

Come si può impedire l’incubo di Mackinder? Come si può impedire l’unione di europei e di russi? In due modi. O fai la guerra insieme agli europei contro i russi, o ti agganci con i russi con il retropensiero di mantenere divisa l’Europa (così come secondo molti studiosi è stato fatto durante la Guerra fredda, perché quello che teneva in piedi l’equilibrio tra i blocchi era la divisione dell’Europa). Trump sta riuscendo a fare entrambe le cose, perché fa in modo che l’Europa di fatto continui a combattere la sua guerra contro la Russia, e nello stesso tempo lui costruisce un patto con la Russia in barba all’Unione Europea. Quindi, insomma, siamo fregati da tutti i lati.

Tra l’altro, non dimentichiamolo, un ulteriore motivo di giustificazione del bellicismo dell’Unione Europea è il modello di sviluppo che si prospetta. Considerate le difficoltà (tecniche, economiche e politiche) di costruire un modello di accumulazione nuovo attraverso la cosiddetta svolta green: cosa c’è di meglio di un bel riarmo per far ripartire tutto? È quello che mi diceva anche la vecchia saggezza degli avversari: io ho lavorato molto con i commercialisti perché come funzionario del tribunale di Torino facevo anche i giri per i fallimenti, e ne ricordo uno che mi diceva: «Caro dottore mio, ma lo sa cosa ci vuole qui? Una bella guerra come quelle che si facevano una volta!» Ed era uno che i conti li sapeva fare; diceva una castroneria, ma non era del tutto una castroneria. A mio modo di vedere, le vostre analisi e le vostre indagini lo stanno dimostrando in maniera chiara. Come si risponde alla crisi dell’automobile? Non con l’auto elettrica; magari si sarebbe potuta fare se fossimo partiti in maniera diversa, “ma adesso non si può”.

Quindi, per vari motivi, direi che la paura della Russia è la spinta del capitalismo americano – ma comunque questo lasciamo aperto come interrogativo, Robert saprà rispondere molto meglio di me. Di certo il problema è che alla fine, comunque la giri, andiamo verso una prospettiva bellica. E che fa l’Italia della prospettiva bellica? Niente! Rispetto a quello che dovrebbe e potrebbe fare, niente. Allora qui si cominciano a vedere le caratteristiche fondamentali di quello che alcuni giustamente chiamano il “sovranismo di cartone” (posto che si riferiscano solo a questo).

Adesso, non mi interessa saggiare quanto la Meloni sia fascista o meno, ma si trova comunque una costante, una caratteristica fondamentale del nostro nazionalismo. Essendo il nostro, come diceva ancora Lenin, un “imperialismo straccione”, mancando cioè le basi economiche e il patto sociale (sia esso consensuale o autoritario) che ci consentano di avere veramente un ruolo protagonistico in situazioni belliche, cosa fa l’Italia? Il nazionalismo italiano è costretto a scegliersi sempre una potenza a cui appoggiarsi; una potenza che alla fine si rivela più feroce, più determinata, più forte di noi, e quindi condiziona la nostra vita ben oltre le nostre intenzioni. Così ha fatto Mussolini con Hitler; così sta facendo la Meloni con Trump. Addirittura “il capitano” Salvini sta cercando di giocare insieme sia con Trump che con Putin in questa partita (con la differenza che la Meloni fa questo sia per vocazione e per calcolo, però al momento sta giocando un ruolo relativamente centrista, perché la destra estrema continua a stare con Salvini; ma ne parliamo dopo).

Cosa sta facendo il governo in questo caso, con questa scelta di Trump come interlocutore fondamentale? Fa quello che l’Italia ha quasi sempre fatto nelle relazioni internazionali, cioè giocare la carta degli Stati Uniti contro la Francia e la Germania, insieme o a turno. Questo è una invariante della politica italiana. Un’invariante che trovavamo anche nei tempi “eroici”, cioè anche di quando, per capirci, Fanfani faceva il neoatlantista e andava in giro per il Mediterraneo a produrre una politica che effettivamente, se poi messe in parallelo con le scelte di Mattei (anche se i due non lavoravano affatto insieme), significava sicuramente un ruolo progressivo per l’Italia. Ma questo ruolo progressivo è stato giocato perché gli americani in quel momento avevano in odio i francesi e gli inglesi in una sorta di prosecuzione della Seconda guerra mondiale e, data la necessità di tenere gli ex imperi con la testa sotto la sabbia, noi italiani gli servivamo per riuscire a controbilanciare nel Mediterraneo la presenza e la potenza degli altri due attori. Dopodiché, come dicono gli avvocati, male captum bene retentum. Però quello è stato l’unico esempio, l’unico momento virtuoso di questo giochino che noi facciamo con gli americani contro gli altri.

Detto ciò, quali sono le strade che sembrano aprirsi all’Italia in questa competizione?

Poca roba. Al momento le alternative sembrano due – a parte l’adesione integrale alla strategia dei padroni americani del passato, che è una situazione veramente imbarazzante. O vedremo una pseudo-mediazione, che è ciò che sta cercando di portare avanti la Meloni – dico “pseudo” perché non è che Trump aspetti la Meloni per imporre qualcosa all’Europa: noi facciamo solo finta di giocare un ruolo diplomatico da cui lucrare qualche titolo di beneficio per tenere insieme la baracca occidentale facendo, diciamo, il trait d’union tra Trump e la Von der Leyen; secondo me è un ruolo che non porta proprio a nulla se non rimanere sia nel solco del bellicismo europeo, sia nel bellicismo trumpiano – o l’altra scelta, per adesso minoritaria, ma non è detto che lo debba essere sempre, è quella di Salvini, cioè la scelta dell’isolamento relativo dall’Unione Europea e dell’utilizzo dell’accordo potenziale tra Stati Uniti e Russia (o meglio tra Trump e Putin) per riuscire a commerciare con entrambi e a mantenere un duplice rapporto, una duplice investitura internazionale che consentirebbe a questo punto al partito che interpretasse questo ruolo di fare un salto avanti all’interno della situazione politica italiana, in particolare se riuscisse a intercettare i malcontenti.

Se vogliamo descrivere la posizione nostra, così come l’ho sommariamente definita, siamo di nuovo ad alcuni vecchi luoghi comuni dell’analisi geopolitica italiana, in particolare ben studiati da Carlo Maria Santoro, a mio modo di vedere uno dei migliori studiosi del nostro paese. Santoro sostiene che storicamente l’Italia oscilla tra il considerarsi del tutto impotente e il sovrastimare le proprie capacità – quindi ondeggiare tra un liberalismo che se ne sta nascosto alla Giolitti, e un Mussolini; tra un Fanfani tronfio, e le altre soluzioni invece molto più timide; tra un Berlusconi e un Letta. Un’altra fluttuazione tipica della geopolitica italiana è quella, figurativamente parlando, tra l’essere isola o penisola – vale a dire tra comportarsi come un soggetto completamente autonomo che trova la propria legittimità geopolitica ed economica nel Mediterraneo, e solo successivamente media con l’Europa, oppure come soggetto che punta essenzialmente sull’Europa continentale e successivamente porta questa sua forza acquisita dalla mediazione europea nel Mediterraneo.

Allora, io per molto tempo ho pensato alla prospettiva mediterranea come quella “che avrebbe potuto”. Ma non siamo più all’epoca dei Moro, dei Fanfani, dei Mattei, e neanche dei Craxi; quell’epoca in cui il Mediterraneo era in qualche modo, tra molte virgolette, un mare nostrum, un mare in cui comunque non c’erano così tanti conflitti di potenza come oggi. Sì, c’erano gli inglesi che comunque hanno sempre lavorato contro di noi, ma questa era una vecchia storia che ormai sembrava superata. Adesso il Mediterraneo non è un territorio dove tu puoi fare affari, dove puoi portare l’economia estera italiana come un modello non colonialistico… Ora il Mediterraneo è un inferno. Il Mediterraneo è un luogo di guerra latente, e di potenziali conflitti enormi. Nel Mediterraneo si scontrano la Francia e la Russia (e lo scontro Francia-Russia è uno dei motivi del bellicismo europeo, perché la Russia sta scalzando posizioni francesi in Africa), c’è la Turchia… In un contesto simile, con le economie dei paesi costieri in grossa difficoltà, crediamo forse di poter costruire una prospettiva italiana autonoma per poi giocarcela all’interno dell’Unione Europea? Io credo che non sia possibile. Oltretutto, se ci si presenta come isola, saremmo, da soli, sulla linea di confine tra Occidente e Russia: in una relazione che oggi è una relazione di, tra virgolette, “avvicinamento”; ma domani, data la turbolenza mondiale, può essere di nuovo una relazione di scontro. A starci nel mezzo, da solo, finisci male.

[Kamo: Facciamo un inciso. Ricordiamo che dopo la sconfitta della Siria assadista, il grosso della forza navale della Russia nel Mediterraneo è confluita dalle basi siriane di Tartus alla Cirenaica libica. Quindi abbiamo la flotta russa davanti alla Sicilia].

Esatto. Tra l’altro, concedetemi una battuta. Io non capisco (o meglio, lo capisco) perché in Italia non ci sia nessun politico che abbia il coraggio di farlo perché tutti hanno paura di fare i nazionalisti “come si deve”. Il punto è questo: ma è possibile che nessuno si alzi a dire alla Meloni: «Ma che coraggio lei parla di nazione quando un suo governo, con lei ministra degli Affari giovanili e l’attuale presidente del Senato come ministro della Difesa, ha provocato all’Italia la più grande sconfitta strategica dopo la Seconda guerra mondiale e cioè la guerra in Libia? Si vede che ci siete abituati!» Il nazionalismo di cartone si misura da lì. La Libia, sotto certi aspetti, è stato un modello per quanto possibile di relazione tra un paese altamente sviluppato e un paese non sviluppato, perché era sostanzialmente imposto da Gheddafi il massimo regime di parità possibile. Era una relazione utile per entrambi, e per noi decisiva. E poi invece siamo arrivati alla situazione di oggi. La soluzione dell’isola oggi non è praticabile.

Ci sarebbe un’altra soluzione – ma non è praticabile oggi per motivi di classe – ed è l’ipotesi di un diverso rapporto all’interno, non dico dell’Unione Europea, ma dell’Europa. Mi riferisco alla costruzione di rapporti intergovernativi fondati sull’idea di neutralità dell’Europa, o comunque dei paesi che facciano parte di questo accordo; un patto che sia anche un accordo di mutuo aiuto economico, perché uno dei problemi fondamentali per costruire una politica progressiva è quello di riuscire ad essere il più possibile indipendenti dai movimenti internazionali di capitale. Per esserlo tu devi costruire un’area economica relativamente chiusa. Il buon Fassina (che è sempre ottimo nelle diagnosi, non così ottimo nelle terapie) ha sempre detto che l’Europa sarebbe una zona economica chiusa perfetta. Chiaro che quando si dice “zona economica chiusa” se ne parla in senso relativo, cioè a un livello di autosufficienza notevole, soprattutto se nel mentre vengono costruiti rapporti paritetici con la Russia e con il Nord Africa. Con questo interscambio energetico, chi ci ammazza? Ebbene, questa cosa non si può fare perché tutti i governi europei attuali invece puntano ad essere il più aperti possibili al mercato internazionale dei capitali, che è il nemico numero uno di qualunque politica non dico comunista ma anche moderatamente riformista.

Io penso, però, che se ci dobbiamo dare una prospettiva, anche per iniziare a muoverci in termini di lotta di classe, è una delle prospettive da discutere. Con “patto intergovernativo” intendo proprio qualcosa che si realizza sostanzialmente al di fuori dell’Unione Europea. Il che non vuol dire necessariamente una rottura: l’Unione Europea è fatta molto più a buchi di quanto si creda. Quando alcuni governi vogliono, le procedure e i meccanismi fondamentali dell’Unione saltano. Quindi c’è un ventaglio di possibilità enorme. Ovvio, non dobbiamo cadere in semplificazioni secche no euro/si euro, dentro l’Unione/fuori dall’Unione, oppure come diceva Luciano Gallino “usciamo dall’euro ma non dall’Ue”… lasciamo stare. Dobbiamo sapere qual è il nostro obiettivo: costruire una zona finanziariamente autonoma e geopoliticamente neutrale. Dopodiché giochiamocela in concreto per vedere come si può realizzare.

Però, chiaramente, una cosa come quella che ho detto io, implicherebbe l’esistenza di “governi popolari”, diciamo così, non solo in Italia ma quantomeno anche in Francia e Germania. Richiederebbe quindi una svolta nei rapporti di classe: il che non c’è, anche perché credo che la destra di oggi sia talmente forte e radicata da potersi intestare, almeno agli inizi, gli eventuali disagi sociali del bellicismo prodotto dall’Unione Europe. Proprio questa sua doppia faccia, che le consente in questo momento di essere addirittura pacifista, potrebbe giocare (e quasi sicuramente giocherà) per coprire ed egemonizzare una parte del disagio sociale che dovesse manifestarsi. Qui sicuramente abbiamo un problema grosso, particolarmente grosso.

Ora, io posso riportarvi soltanto alcune intuizioni e alcune riflessioni che nascono da una ripresa di considerazione su cosa sono stati gli anni Trenta, cioè gli anni che hanno condotto al nazifascismo. C’è una cosa della situazione attuale che colpisce rispetto all’esperienza del nazifascismo: questa è una reazione senza rivoluzione. I nazifascismi sono stati una risposta a una rivoluzione che si era attuata o comunque si era tentata (in Italia con la settimana rossa; in Germania con la Repubblica di Weimar e l’ingresso del partito socialdemocratico e dei sindacati dentro procedure di concertazione, nonostante si rivelerà una strategia fallimentare), quindi si potevano comprendere le ragioni della reazione avversa delle burocrazie militari e dei centri politici. Ma il punto è che allora c’era effettivamente stata un’ondata rivoluzionaria in tutta l’Europa centrale e meridionale. Oggi invece abbiamo una reazione senza che ci sia stata una precedente minaccia rivoluzionaria, e quindi senza l’esistenza di partiti comunisti che da una parte “giustifichino” la reazione, ma che dall’altra possano costituire comunque una base per un’organizzazione a livello nazionale; per non parlare poi dell’assenza di un intermediario geopolitico con una funzione equivalente all’Unione Sovietica dell’epoca.

Allora, oggi cosa ci si presenta? Si dimostra vera una cosa che diceva Otto Bauer, un grande dirigente della socialdemocrazia austriaca che cercò una via “intermedia” tra bolscevismo e riformismo con esiti forse discutibili, ma con riflessioni molto, molto acute. Bauer sosteneva che la reazione nazifascista non si esercitava veramente contro la minaccia della rivoluzione, perché la rivoluzione all’epoca era già sconfitta: la repressione si esercitava piuttosto contro i risultati del riformismo. Il nazifascismo non sopportava i risultati del riformismo; non sopportava il fatto che fossero state fatte in quegli anni concessioni ai lavoratori (anche perché l’alternativa era davvero la rivoluzione); di pari passo, i ceti intermedi che si rivolgevano al nazismo non sopportavano il fatto che mentre gli operai, organizzati e riconosciuti come interlocutori socioeconomici dal governo e dallo Stato, potevano difendersi dall’inflazione grazie ai sindacati, loro non potevano farlo… Insomma, una reazione contro il riformismo o comunque i suoi residui.

Ciò che secondo me osserviamo oggi, soprattutto negli Stati Uniti (in Italia in maniera forse più sfumata, ma la linea rimane la medesima) è una lotta di classe contro il welfare e contro le mediazioni istituzionali; una lotta operata da alcuni ceti che non possono sopravvivere se non riescono a liberarsi delle regole, degli orpelli e della fiscalità che impedisce loro di fare profitto o di sopravvivere in una situazione sempre più difficile dal punto di vista economico. Per esempio, quando Trump se la piglia contro “la cultura woke”, in realtà se la piglia con i programmi di inclusione nei confronti delle minoranze che questi ambienti hanno sempre sposato, oltre che contro il linguaggio con cui vengono formulati. Il punto è l’ostilità contro i residui del welfare, contro le mediazioni istituzionali che controllano in qualche modo l’impresa, contro la fiscalizzazione, contro le tasse, eccetera.

Vi è poi un’altra differenza abbastanza evidente. La lotta contro l’immigrato non è più semplicemente l’individuazione di un capo espiatorio, come un tempo era l’antisemitismo. Le minacce di deportazione di massa – così come i blocchi o le deportazioni dei vari Salvini – non si realizzeranno perché non devono realizzarsi, e non devono realizzarsi perché quella gente lì serve. Le minacce hanno dunque l’obiettivo di terrorizzare questo strato di proletariato e, su tutto, rendergli più difficile richiedere condizioni di lavoro migliori. Di modo che nella divisione tra proletariato, tra mille virgolette, “garantito” e proletariato non garantito il razzismo trumpiano trova un elemento costitutivo.

Per quanto riguarda invece la destra in Germania, le cose sono diverse ancora, perché l’idea di remigrazione investirebbe una marea di lavoratori che in realtà fa già parte del circuito formale e regolare di lavoro. Non si tratta di sottigliezze, ma di differenze cruciali nei processi di soggettivazione che bisogna sapere se giocare e che avranno un grosso peso per la nostra parte.

Un’altra rilevante novità rispetto al nazifascismo dello scorso secolo è che tanto il fascismo italiano quanto il nazismo tedesco, in maniere diverse, consistettero nell’occupazione dello Stato o quantomeno in una sua trasformazione da parte di un movimento politico che comandava sulle strutture statuali tradizionali o si sostituiva ad esse, a seconda delle situazioni. Ciò in gradazioni molto diverse. Interi settori del nazismo furono apertamente nemici dello Stato, troviamo persino dichiarazioni espresse dai nazisti contro l’idea stessa di sovranità (perché la sovranità dello Stato non è accettabile, l’unica sovranità possibile è quella del Führer come espressione del popolo). Il fascismo fu molto più abile: abilissimo fu Mussolini, per esempio, a non consegnare l’Iri ai suoi uomini e lasciarlo a Beneduce, per dare un’idea. Quindi, mentre il fascismo e il nazismo furono quella roba lì, oggi si assiste invece alla occupazione dello Stato non da parte di movimenti politici ma da parte diretta delle imprese e in particolare delle grandi imprese tecnologiche. Negli Stati Uniti la tendenza impressa da questo nuovo corso trumpista è un chiaro tentativo di sostituzione diretta dell’apparato statale con pezzi dell’apparato industriale, il che fa saltare il ruolo di mediazione dello Stato e può essere prodromo di ulteriori conflitti sociali.

Passiamo quindi a un ultimo aspetto, ma non meno determinante nella destra di questi anni, in particolare di quella americana, poiché dimostra ancora una volta di come Trump non possa fare a meno di operare una scelta conflittuale. I vertici statunitensi hanno un chiaro dilemma davanti: come pagare i progetti di reindustrializzazione negli Stati Uniti e quel po’ di welfare che devono comunque concedere alla parte che li vota? Chi caccia i soldi? Ebbene, i soldi li cacciano “gli altri”. I dazi servono a rimpiazzare quelle tasse che il ceto che porta avanti Trump – un ceto di riccastri, che nemmeno ci sogniamo: stando a quanto rilevano i ricercatori olandesi che nominavo prima, l’amministrazione Trump è stata la più ricca amministrazione di tutta la storia degli Stati Uniti – non vuole pagare. Come nelle migliori tradizioni della destra, i conflitti e le tensioni interne vengono scaricati contro il nemico esterno (ora un nemico interno-esterno come l’immigrato, “l’ebreo” del giorno d’oggi, ora contro il nemico esterno tout court come le altre nazioni, alleate o avversarie).

Arriviamo alla conclusione. In questa situazione, noi cosa diavolo possiamo mai fare?

Io penso che abbiamo veramente tantissime cose da fare. Ipotizzando, come dicevo prima, che in condizioni simili almeno la prima ondata di proteste popolari (ammesso che ce ne saranno) nei confronti della guerra verrà intercettata quasi sicuramente dalla destra, ciò non ci esime da abbozzare un elenco di obiettivi.

Per prima cosa, dobbiamo cercare di ridefinire e di riunire quello che dovrebbe essere il nostro fronte, domandandoci cosa sia oggi quello che un tempo chiamavamo proletariato. È l’interrogativo al quale voi di Kamo state tentando di rispondere con l’analisi e con la pratica quotidiana: come si fa a ricostruire un filo conduttore in una classe che al proprio interno dimostra regimi contrattuali, regimi salariali, nonché idee completamente diverse? La classe operaia è una classe fatta oggi di lavoratori dipendenti garantiti, di lavoratori dipendenti precari, di finte partite Iva… Prendiamo un modello di nucleo familiare sempre più diffuso, per provare a capire come vive la gente e come prova a resistere alla crisi: il maschio, il capo, il padre, che si presenta come il breadwinner ed è lavoratore dipendente; la moglie magari ha un negozietto; un figlio è precario; l’altro figlio studia e cerca di fare del lavoretti anche lui. Bene, una famiglia così è interessata all’aumento salariale? È interessata al taglio del cuneo fiscale? È interessata all’evasione? Risposte che non possiamo generalizzare e che testimoniano quanto sia difficile formare una coalizione come quelle che noi avevamo in mente un tempo.

Ma se anche raggiungessimo l’unità del proletariato, resta il problema di come diavolo si riesca a creare un fronte tra questo proletariato e la marea delle piccole e medie imprese. Perché c’è poco da fare, in Italia non si può fare politica “odiando” la piccola media impresa.

Poi, inutile a dirsi, abbiamo il bisogno di costruire un programma. Ma vogliamo un programma per “l’isola” o un programma per “la penisola”? Un programma ottimale o un programma di risulta?

Domande sempre da rinnovare, perché man mano che costruiamo le nostre idee, ci troveremo in una situazione esterna completamente stravolta. C’è un problema fortissimo di organizzazione, qui ci sarebbe da parlare per una vita sul modello del partito e via discorrendo: io mi limito solo a dire che dovremo cercare di uscire dalla forma-social. La modalità social è un disastro, perché ti dà l’illusione della connessione mentre in realtà la impedisce.

Però, e finisco con questo, in realtà la cosa più importante che dobbiamo costruire per cercare sia di riaggregare un soggetto, sia di motivare noi stessi, è un’idea. E ve lo dico da materialista. Una delle più grandi cose che diceva Lucrezio nel De rerum naturae era che i pesci non nascono sugli alberi di mele. Le idee non derivano solo dal disagio socialista o solo dal conflitto: le idee derivano anche dalle idee, derivano dalla battaglia ideale fatta con i materiali ideali presenti contro determinate idee presenti. Allora, rimanendo fermo il fatto che se non costruiamo una prospettiva socialista, secondo me non andiamo avanti, anche perché il capitalismo non è che stia entrando “nella sua fase finale”. Se noi non riprendiamo un discorso sul socialismo non faremo un solo passo avanti.

Ma c’è un altro discorso che possiamo proporre come idea unificante: il rapporto tra la lotta di classe e l’idea di nazione, intendendo con essa una nazione democratica. C’è un dato di fatto obiettivo: ipotizziamo che stiamo facendo il migliore ciclo di lotta di classe mai visto in Italia; si costruisce un governo popolare; può questo fare una qualunque politica senza avere un’idea di quello che è l’interesse nazionale definito, sia chiaro, dal punto di vista dei lavoratori e la posizione geopolitica del paese? Può farlo? No. Si può raggiungere un’idea di interesse nazionale senza partire da se stessi, cioè rivendicando la propria sovranità non come arma contro le altre nazioni, ma come punto di partenza per una libera rinegoziazione dei rapporti internazionali?

È un punto delicato e scivoloso, ma con cui prima o poi toccherà fare i conti. D’altro canto, secondo me, senza una dinamica di lotta popolare che aumenti la base sociale interessata a un processo trasformativo, nessuna delle forze sociale presenti in Italia è in grado di proporre da sola una dignitosa alternativa politica che non sia regressiva. Non lo possono fare le classi rappresentate dalla Meloni, non lo possono fare i nuclei più forti del capitalismo italiano (che guarda caso sono nuclei bancari, quindi interessati al capitalismo transnazionale). Io penso che oggi uno dei pochi elementi capaci di rinfocolare gli individui a riorganizzare un’identità collettiva contro i rapporti di sfruttamento possa essere quello di farli sentire come membri, cittadini di una repubblica democratica, dentro la quale possono trovare gli elementi di potere che gli consentono di contrastare gli avversari di classe.

Uno stretto (anche se mi rendo conto quanto delicato) circolo virtuoso tra lotta di classe e nazione potrebbe essere una delle idee unificanti di un proletariato, il quale altrimenti, secondo me, rischia di essere preda di altre forze.

Alcune domande della discussione

– Come interpreti la piazza che è stata chiamata il 15 marzo da Michele Serra, alla quale hanno aderito tutte le organizzazioni della sinistra liberalprogressista, dalle vecchie catene di trasmissione della Cgil e dei sindacati, al Partito Democratico e all’Arcigay? Una piazza oggettivamente interventista, ma che a differenza degli interventisti del ‘15-‘18 non crediamo sia composta da una composizione che sbava per combattere. Almeno i guerrafondai del 1915 erano coerenti: si sono tutti arruolati – e poi gran parte morti. Questi invece chiamano la guerra, partono da ideali e da slogan di per sé abbastanza vuoti per muovere l’Italia verso un impegno sempre più diretto, ma hanno dietro un blocco sociale? Cioè quali sono i ceti interessati a queste iniziative? Hanno dietro di sé porzioni sociali di peso, o invece si risolve tutto in utile idiotismo? Te lo chiediamo perché oggettivamente la svolta estera di Trump e l’accelerazione che ha impresso alle dinamiche internazionali hanno in qualche modo ribaltato un quadro politico, quantomeno in Europa. Vediamo infatti i liberalprogressisti da sempre culo e camicia con l’America che guardano Trump come il nemico numero uno; vediamo pezzi della Lega,  specialmente quelli che compongono la base produttiva delle regioni in cui la Lega è stata per tanto tempo egemone, invece riscoprirsi estremamente europeisti. Giorgetti un po’ rappresenta a livello governativo l’espressione politica delle piccole e medie imprese, come dicevamo prima, estremamente legate alle catene del valore globale e soprattutto tedesche. In Emilia gli interessi di questo ceto li cura il PD, che ha mandato anche Bonaccini in Europ,a e lui lì a curare interessi appunto della Pmi emiliana. Trump insomma ha innescato tutta una serie di contraddizioni, che possono sembrare ribaltamenti ma sono invece sostanzialmente chiarificazioni.

– Andando un po’ più al profondo dei processi, questo passaggio al warfare può passare solo attraverso la distruzione del welfare, oppure può tirarsi dietro in qualche modo anche uno scambio con la classi popolari? Perché se passiamo al warfare, quindi a un’economia di guerra, ci deve essere qualcuno però a combatterla questa guerra, e per prima cosa appunto servono gli uomini e donne a combatterla, serve una popolazione soprattutto giovane che l’Italia e l’Europa non ha assolutamente, una popolazione quantomeno in salute, quindi il welfare è sempre stato storicamente alla guerra, attraverso il peso politico che hanno potuto avanzare le classi popolari, la classe operaia in guerra si è tirata dietro il welfare. Pensiamo al piano Beveridge, per garantirsi l’appoggio e i sacrifici delle classi popolari, del fronte interno, ha dovuto garantire in qualche modo un tornaconto a livello sociale, di protezione. Pensiamo anche all’Unione Sovietica. Il popolo sovietico non crediamo abbia patito quasi 30 milioni di caduti per salvare i piani quinquennali. C’è stata sicuramente una riscoperta anche di un’idea patriottica, ma soprattutto, secondo noi, c’era un patto sociale interno all’Unione Sovietica – le conquiste della rivoluzione, il potere degli operai e dei contadini che garantivano un certo grado di autonomia nei luoghi di lavoro, un certo grado di potere sociale e quindi con tutte le allocazioni del caso in un fatto di politiche abitative, politiche sanitarie, politiche di welfare, di costituzione sociale – che ha garantito la tenuta di fronte alla peggiore guerra di sterminio mai lanciata in Europa. Questo passaggio al warfare può portarsi dietro un nuovo patto sociale con qualche grado di condizioni positive per segmenti di classe operaia, o oggettivamente può solo abbassare, affossare invece la loro condizione? Ci sono contraddizioni legate alla riconversione industriale, alla possibilità di un nuovo ciclo di sviluppo, alle commesse, che servono per capire dove potrà andare anche la lotta di classe.

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Discorsoni / Analisi

Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema

0. Si apre un tempo di incertezza, che non fa ancora epoca. Per conquistarne l’altezza, occorre rovesciare il punto di vista. E cogliere, nell’incertezza del tempo, il tempo delle opportunità.

1. «La fabbrica della guerra». Abbiamo voluto chiamare così un ciclo di incontri dedicati a guardare in faccia, da diverse angolature e piani, ma sempre dallo stesso punto di vista di parte, il grande fatto del nostro tempo, processo che irrompe al cuore delle nuove costituzioni materiali in definizione delle società capitalistiche entro cui viviamo. Per riportarlo, dai cieli di un piano più astratto d’analisi, impalpabile, dove spesso teoria e ideologia si confondono, con i piedi per terra, lì dove è pensabile e possibile aggredirlo politicamente.

2. Fabbrica della guerra, quindi, come traccia per provare a inchiestare, sul territorio nel quale è situato il punto di vista, dove e come si produce per la guerra, e quindi la guerra stessa. In forma materiale e immateriale. Merci, saperi, poteri e soggetti, e le relazioni tra di essi. Ripercorrere le filiere oggettive e soggettive che la compongono, individuare i diversi pezzi che la assemblano, carpire la logica concreta che la produce e come tecnicamente la produce, attraverso quali reti di attori sistemici, capaci di mobilitare quelli locali e subalterni, e figure messe al lavoro per essa.

3. La guerra è già qua. Ne facciamo parte. Si può affrontarla testimoniando la propria incrollabile e generica opposizione morale. Cercando di mobilitare le “coscienze civili” della società. Appellandosi all’“umanità” e al suo buon cuore. Fino a che, raggiunta finalmente la “maggioranza democratica” delle coscienze, si potrà dire fine alla guerra… Auguri. Chi non è oggi contro la guerra, d’altronde? Chi può dirsene a favore? Chiedetelo a qualsiasi passante, al vostro compagno di banco, al professore, al collega, al sindacalista, all’amministratore locale, al politicante che vi piace, a quello che disprezzate. Tutti sono contro la guerra. Eppure la guerra continua, e continuerà. Tra pause, rallentamenti, strappi, salti e accelerazioni. Approfondendosi, generalizzandosi. Percorrendo e militarizzando piani quali l’economia, la tecnologia, l’energia, la comunicazione, la formazione, la sicurezza, il diritto. Lambendoci, coinvolgendoci, mobilitandoci, a partire dal pagamento dei suoi costi, dalla produzione delle sue merci, dalla messa alla guerra della vita intera. Tutta la libertà d’opinione e nessuna di decidere, nei regimi della “Democrazia reale” che fanno Patto Atlantico, chiamati Occidente.

4. Oppure. Oppure, a partire da dove il punto di vista è collocato, guardare alla specifica conformazione capitalistico-industriale del territorio, sedimentato e intrecciato di storia, società, politica, sviluppo in relazione al posizionamento nazionale e internazionale nelle catene del valore, a come è già diventato e diventerà ingranaggio della fabbrica sistemica della guerra. Capire, per anticipare, quale sarà la direzione delle sue trasformazioni, le modalità e i tempi della sua mobilitazione alla messa a valore, i soggetti che in esso saranno messi al lavoro per la guerra, le nuove figure che saranno formate, quelle che ne verranno espulse. Le istituzioni adibite alla loro formazione, i luoghi che ne diverranno discarica di scarti. Le promesse frustrate, le aspettative disilluse, le forme di vita imposte tra tempi, tecnologie, condizioni di lavoro e salario complessivo. Le soggettività possibili.

5. La ristrutturazione come momento di gestione della crisi o fase preliminare di rilancio di uno sviluppo? Con quali connotazioni, entro quali filiere, su quali prospettive, per quali segmenti di composizione? Soggettività e lotte connotate dal declino e dal collasso sono diverse da soggettività e lotte inscritte in processi di accumulazione e crescita. Contraddizioni. Ambivalenze. Possibilità. Si tratta di inchiestarle per ricercarne una forza, dal di dentro dei processi di trasformazione radicale e accelerata nei quali siamo immersi in questi tempi di incertezza, o di certezza del caos.

6. Non si tratta di fare scienza del capitale, che è scienza del dominio. Ma di un tentativo di fare di scienza operaia, che è «processo in atto di rovesciamento dei fatti». Conoscere la «fabbrica della guerra» nelle sue articolazioni – oggettive e soggettive, produttive e sociali – come la fabbrica l’hanno sempre conosciuta gli operai: per rallentarne i ritmi disumani, per ostacolarne il funzionamento di morte, per sabotarla buttando sabbia, bulloni e chiavi inglesi nelle sue macchine. E infine per sovvertirla in fabbrica di conflitto sociale e politico.

7. Iniziare a guardare in faccia la guerra, o almeno il volto che possiamo concretamente osservare, a livello del nostro orizzonte determinato, per forza di cose limitato. E da lì, poi, risalire verticalmente. Operazione non solo di scienza e conoscenza di parte, che sappiamo indissolubilmente legate alla nemicità, quindi al conflitto, ma di prospettiva. Primariamente politica.

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«Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema» è la seconda parte del ciclo «La fabbrica della guerra» (organizzato negli spazi del Dopolavoro Kanalino78 a Modena). Strumento per risalire e interrogare, dal piano del nostro orizzonte, anello dopo anello, la catena che determina la configurazione concreta dei rapporti di classe, di capitale, intercapitalistici e imperialistici, nella loro fase attuale di traumatica e violenta ridefinizione, la quale si riflette in ciò che abbiamo provato in piccola parte a osservare, tracciare e saggiare nella prima parte del ciclo, «Modena nella crisi globale». La cornice imprescindibile, da discutere e costruire, attraverso cui dare solido sfondo, e quindi significato più generale, alle ipotesi di lavoro militante e definire, anticipandoli, i processi materiali, oggettivi e soggettivi, che vanno a connotare complessivamente il quadro dei nostri tempi, e l’altezza dei problemi che essi pongono. A partire dai tre nodi che abbiamo scelto come guida (l’imperialismo oggi, la crisi tedesca nel cuore d’Europa, il fronte dell’Italia), a cui intrecciare i piani della lotta di classe e della soggettività.

– Quale collocazione, ruolo e teatri sono assunti attivamente dall’Italia nel conflitto globale? Che posizione occupa nella catena imperialista, tra Stati Uniti e Unione Europea? Com’è interpretato tutto ciò dalle Destre al governo e in ascesa nell’“era Trump”, e di cosa esse sono sintomo e strumento? In che modo la “guerra multipolare” appena iniziata potrebbe creare, in Europa e in Italia, le condizioni di un nuovo ciclo di lotte di classe? Quali potranno essere le sue caratteristiche, a fronte dell’assorbimento del primo momento neopopulista e dell’impasse del sovranismo italiano dall’eurocrisi a oggi?

Una discussione con Mimmo Porcaro, autore e collaboratore della rivista «La Fionda», l’8 marzo.

– Che cos’è l’imperialismo oggi, di cui la cosiddetta “era Trump” è precipitato? Come concretamente si configura, a monte dello scontro Usa-Cina? Con quali eventuali discontinuità rispetto a precedenti epoche? Su quali piani, con quali strumenti, attraverso quali anelli la catena imperialistica si definisce sul sistema mondo e nel mercato mondiale? Come si intreccia alle dinamiche di classe, e quale l’anello decisivo? Quali implicazioni politiche comporta per noi tale configurazione? Tracce e appunti per una nuova, e necessaria, riconcettualizzazione dell’imperialismo all’altezza delle nuove questioni pratiche poste dal movimento storico reale.

Con Raf Sciortino, autore di I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios 2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze (Asterios 2022), il 5 aprile.

– Cosa succede quando la crisi, dalle periferie mediterranee, colpisce il cuore industriale e politico dell’Europa? Cosa significa per il continente, e soprattutto per l’Italia inserita nelle sue catene del valore, la destabilizzazione politica e sociale del modello tedesco? Unione Europea e moneta unica possono essere messe in discussione da Berlino o conquistare una loro “autonomia strategica” imperialistica? Che posizione occupano la Germania e l’Unione Europea nella catena imperialistica globale? Si staglia davanti a noi un processo di radicalizzazione politica del contesto europeo, insieme alla sua rinazionalizzazione? Dove va l’Europa nella ripolarizzazione conflittuale del mondo tra Stati Uniti e Cina?

Una discussione con Robert Ferro, autore del podcast Il perno originario. Appunti sul respiro delle rovine di Radio Blackout, il 17 maggio.

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Si dice che Lenin, nel 1914, esule a Cracovia, quando arrivò la notizia dello scoppio della guerra, rimase sbalordito: per il tradimento dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, certo, ma anche per il passo decisivo degli attori di potenza nell’andare allo scontro bellico, ipotizzabile ma non del tutto prevedibile. Anche Lenin fu colto di sorpresa, ma si era reso pronto a guardare negli occhi la terribile occasione dell’inaspettato. Si apre un tempo di incertezza. Per conquistarne l’altezza, occorre rovesciare il punto di vista. E cogliere, nell’incertezza del tempo, il tempo delle opportunità. Iniziamo, nel nostro piccolo, a farlo, formulando le domande giuste.

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Discorsoni / Analisi

Guerra e industria della formazione. Il conflitto dentro scuola e università

Note per approfondire la discussione

La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano. Tra questi, la scuola e l’università, punti nodali della riproduzione capitalistica e sociale.

Da una parte, come «industrie della formazione» atte a produrre e disciplinare la merce oggi più preziosa: quei soggetti che verranno chiamati a lavorare e combattere per la guerra dentro fabbriche, magazzini, laboratori, aule e uffici, o direttamente sul campo di battaglia. Dall’altra, tuttavia, come luoghi di mobilitazione giovanile e comportamenti di rifiuto che negli ultimi anni, intorno ai conflitti globali, e in special modo la Palestina, che coinvolge anche le dimensioni decoloniale e della razzializzazione interne alla composizione di classe delle nostre latitudini, hanno visto una nuova generazione politica prendere parola, tra tentativi di conflitto, spontaneità e contraddizioni.

Come si stanno trasformando scuola e università dentro la guerra? Quale funzione sono chiamate a ricoprire, da Stato, imprese e politica, nell’organizzazione, mobilitazione, e produzione bellica? Quale ruolo degli istituti tecnici e professionali, baricentrali per la formazione della forza lavoro specializzata per la fabbrica della guerra e al contempo alla formazione allo sfruttamento, con alta concentrazione di soggettività razzializzate, ma sovente esclusi o impermeabili agli interventi politici? Quali sono i soggetti coinvolti dentro i processi di trasformazione e che istanze, pulsioni e visioni materiali esprimono (o possono esprimere) nelle mobilitazioni contro la «fabbrica della guerra»?

Sono queste alcune piste da cui siamo partiti nella discussione del primo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», organizzato il 12 ottobre 2024 al Dopolavoro Kanalino78 a Modena, con studenti – militanti di collettivi e organizzazioni – attivi nelle lotte di scuole e università. Un ciclo pensato come una macchinetta per inchiestare soggetti, territori e processi coinvolti in questo tempo di guerra da decifrare e sovvertire, e inquadrare nuovi strumenti, punti di vista, elementi in grado di affrontarne la complessità all’altezza giusta – obiettivo sicuramente alto – dei problemi.

Vogliamo qui, in questa introduzione agli interventi, elaborare meglio il nostro punto di vista su alcuni nodi che la discussione con i compagni ci ha permesso di definire meglio. Senza certezze in tasca, se non quella della materialità dei problemi che si pongono collettivamente, e alcuna ricetta per l’avvenire, se non quella di porre tale materialità a verifica e alla proficua discussione, che speriamo possa approfondirsi e costruire un punto di vista più avanzato sui problemi, insieme a tutti i compagni validi come quelli intervenuti al dibattito.

Il protagonismo sociale, o della ricerca dell’autonomia

Tagliando subito con l’accetta, dagli interventi del dibattito crediamo emerga chiaramente un punto critico di questa fase, che non è una novità ma portato lungo di fasi precedenti che non possiamo qui approfondire: la debolezza, quando non proprio assenza, di protagonismo sociale dei soggetti – in questo caso, appunto, studenti, ma il discorso si può generalizzare. Protagonismo sociale che possiamo (e ci piace) chiamare anche autonomia, con la a minuscola. Se c’è un nemico da scardinare, è questo non protagonismo, questa passività, che come Kamo abbiamo toccato con mano direttamente anche a Modena nelle esperienze e negli incontri avuti insieme al soggetto giovanile della nostra città.

Questo non protagonismo, dal nostro punto di vista, può assumere varie forme.

La più immediata è il ritirarsi individuale e individualistico da ogni tipo di partecipazione collettiva, da processi di attivazione e decisione dove mettere in gioco la propria forma di vita che lo status quo capitalistico ha assegnato alla nascita, dal farsi avanti all’interno di una dimensione di mobilitazione che ecceda il proprio io e lo arricchisca, in una sintesi non più scindibile, in un noi. Il ritirarsi, quindi, in un privato oggi sovrapponibile completamente al mondo della merce, al suo più o meno edonistico e nichilistico godimento. Il godimento davvero povero della potenza della vita fatta coincidere col segno impresso su di essa dal rapporto sociale di capitale. Questa è la forma che è stata chiamata e che riteniamo corretto chiamare della diserzione, maggioritaria oggi tra gli studenti oltre che nella società più complessiva, con tutte le sfumature e gradazioni del caso: dal votarsi all’imperativo di arricchimento facile e veloce che la ragione neoliberale, ancora nella sua fase di putrefazione, promette possibile e auspicabile (magari cavalcando la schizofrenia dei flussi tramite app di trading e criptovalute che hanno reso portatile la speculazione finanziaria), al ritagliarsi una nicchia di comfort, civile e moralmente sostenibile, vivibile e discretamente sensibile, nel caos sempre più crescente della realtà percepita.

Ma vediamo anche la forma della delega del proprio protagonismo a un ceto di attivisti “professionisti”, scegliendosi il “brand” identitario che più aggrada o si addice al proprio curriculum, accontentandosi di seguire, condividere, likeare – nella vita vera come si fa sui social – contenuti fruiti ma mai prodotti dalla propria autonomia, per poi passare ad altro al cambio di trend; fruizione passiva, momentanea, di cause o lotte, da utenti consumatori, che in una città come Modena le articolazioni istituzionali e le cinghie di trasmissione del centrosinistra (spesso coincidenti) hanno buon gioco a sussumere e capitalizzare nei propri meccanismi, con risorse materiali e di posizione adeguate ad assorbire e rendere compatibile ogni piccolo sussulto di protagonismo potenzialmente di rottura. È questa la forma debole e impalpabile della società civile, di cui spesso abbiamo visto processi organizzativi e di lotta finire per scambiare un suo sfruttamento tattico come soggetto di riferimento e fine strategico. Se certi tipi di segnali di protagonismo vengono facilmente assorbiti da questa forma, crediamo che il problema non sia tutto sui limiti dei militanti che non li hanno saputi intercettare e deviare: spesso il problema è nelle soggettività stesse poco interessanti (e interessate) ai fini della rottura.

Infine, per ultimo, ma spesso non meno problematico per lo sviluppo di autonomia, quello che può sembrare un ossimoro: il non protagonismo che rischia di esprimersi attraverso la militanza. Una forma di militanza che coincide con l’adesione a organizzazioni partitiche, gruppi protopartitici, sindacalistici o attivistici che negli ultimi anni, a fronte del blocco dello sviluppo di larghi sommovimenti di classe o di pezzi di classe, tanto reali quanto spuri, su istanze materiali di soggettività altrettanto ambivalenti quanto reali (pensiamo, in questo senso, a ciò che è stata l’Onda tra 2008 e 2011, o all’irrompere delle lotte dei facchini tra 2011-2014), abbiamo visto fiorire e diffondersi, coinvolgendo pezzi non secondari delle nuove generazioni politiche emergenti. Gran parte delle organizzazioni, delle più varie tendenze e strutturazioni nazionali (perfino internazionali), rispondono facilmente alla richiesta di certezze da parte di soggetti giovanili che affrontano i loro tempi con ben poche di esse in tasca. La certezza di un’identità, in questo caso politica, di un percorso strutturato, di un’ideologia canonizzata, di una comunità costituita, di una parola d’ordine, del contenuto di un volantino, di una prassi consolidata, magari già decisi altrove o legati a lotte di altri pezzi di mondo, facilmente solo da seguire o applicare. La sensazione di fare qualcosa non solo di giusto, ma di rilevante, “sul pezzo” della cronaca: anche se non si può cambiare niente della propria vita, almeno ci si sente parte di una comunità o di una potenza lontana che agisce. Qui sono senza dubbio confluite molte energie e intelligenze politiche mosse negli ultimi anni dalla ricerca, non senza ambivalenze o difficoltà, di protagonismo, o che hanno espresso timidi ma importanti segnali di esso. Qui, purtroppo, possono finire per ristagnare, esaurirsi o riprodurre l’esistenza di quei contenitori che, nella nostra particolare esperienza, sono risultati tuttalpiù scatoloni vuoti: collettivi o sigle a uso e consumo della politica “nazionale” o dei politicismi dei gruppi territoriali che, come a un mercato delle vacche, si contendono l’adesione di questo soggetto giovanile a colpi della miglior offerta simbolica, ideologica, organizzativa, secondo anche logiche di targetizzazione. Non di certo strumenti territorialmente e soggettivamente situati di conricerca, espressione e potenziamento delle potenzialità di protagonismo e lotta delle soggettività giovanili a partire dalla materialità situata di esse. Questa forma di militanza, oltre a essere alla lunga impoverente invece che arricchente, crediamo sia anche “rischiosa”: fiorente e apparentemente solida nelle fasi di “calma”, dove la spontaneità sociale è debole e l’autonomia arretrata, quando il rischio è quello di far coincidere la militanza all’esperienza di “marcare il cartellino”, si può dimostrare estremamente fragile invece quando investita dalla potenza di un movimento reale, spurio, di soggetti sociali in tutta la loro contraddittorietà e ambivalenza, capace di squadernare ogni certezza, identità, linguaggio, comunità precostituiti se non radicati in un autonomo punto di vista e un metodo della conricerca. Lo diciamo senza nessuna nostalgia di forme di militanza tanto intense quanto fragili, che richiedono e bruciano tutto nei tempi corti, vuoti e accelerati dell’età giovanile e universitaria, ma non reggono ai tempi dilatati, pieni e anche frustranti della maturità lavorativa, affettiva, anagrafica.

Per una lettura critica della diserzione

Non ci convince del tutto, oggi, la parola d’ordine della diserzione, evocata nelle mobilitazioni in ambito universitario. Utile come concetto suggestivo d’agitazione contro la guerra, ci pare più debole sulla linea della controsoggetivazione, come comportamento su cui fondare un processo organizzativo. Non ci convince la sua potenzialità sovversiva all’interno dell’attuale fase della congiuntura di guerra, dove non c’è ancora mobilitazione di guerra da cui disertare, ma tutta da capire la forma stessa della riorganizzazione del comando sul sociale in funzione della forma guerra che si sta dando o si darà.

Può essere la diserzione una tendenza su cui inserirsi, anticipando e radicandosi nell’ambivalenza di un comportamento sociale spontaneo poi da trasformare in rifiuto organizzato? Senza ricette, con la sola certezza che sarà la messa a verifica nella prassi militante della conricerca a dare la risposta, proviamo ad articolare alcuni punti critici utilizzando la storia, la nostra storia, la tradizione che ci siamo scelti.

La diserzione, la dimissione, il ritirarsi, nella situazione concreta di oggi, è un comportamento ambivalente o di rottura, come è stato, per fare un esempio, il rifiuto del lavoro in un’altra epoca che ci è alle spalle?

Il rifiuto del lavoro è stato espressione di una determinata composizione di classe dentro una determinata organizzazione di fabbrica. Un comportamento, in forme anche passive, di una minoranza non minoritaria di operai, di un’avanguardia però di massa, dentro e contro la fabbrica fordista degli anni Sessanta – anche contro altri pezzi di composizione! – e poi nella fabbrica sociale degli anni Settanta. Comportamento che, prima scoperto e anticipato grazie alla conricerca operaista, e poi organizzato politicamente dai militanti nella lotta dentro la produzione e diffuso conflittualmente nelle articolazioni della riproduzione sociale, ha inceppato per un decennio il profitto come variabile indipendente della riproduzione capitalistica.

Oggi, dalla nostra visuale, la diserzione è un comportamento già maggioritario e generalizzato. Non solo degli studenti medi e universitari, ma dell’individuo democratico complessivo prodotto dalla società neoliberale. La diserzione non la vediamo come il comportamento ambivalente di un’avanguardia potenzialmente conflittuale, ma la normalità della forma di vita della maggioranza, praticata però in forma individuale e individualista, ripiegata nel privato, nella ricerca edonistica del piacere, nella solitudine del lavoro.

Uno studente che “diserta la guerra”, oggi, al tempo della diserzione già sociale, cosa rischia di rompere? Rompe uno status quo, una condizione,  o la riproduce, attraverso lo stesso meccanismo con cui poer esempio l’astensionismo maggioritario oggi non è tanto espressione di una radicalizzazione politica antisistema ma più sintomo dell’assenza di una politicizzazione della società?

La diserzione è stata una scelta di campo concreta, materiale, alla base della formazione del movimento partigiano nell’autunno-inverno del ’43. Una scelta di campo imposta dall’alto, praticata con le spalle al muro, che metteva in gioco la vita: o l’arruolamento nella Guardia nazionale repubblicana di Salò, le camicie nere, o la via della clandestinità, che per un pezzo di quella generazione cresciuta nel fascismo ha significato la via dei monti, a raggiungere i primi nuclei di soldati sbandati, fuggitivi, ex detenuti, dove i quadri politico-militari dei partiti antifascisti ancora erano pochi. Fu quella scelta di diserzione di una minoranza a formare le prime bande partigiane: diciannove mesi dopo, sarebbero discese sulle città del Nord Italia in formazione disciplinata di esercito guerrigliero.

In quel momento, la politicizzazione e la militanza, prodotte nella lotta partigiana, hanno visto come passaggio preliminare obbligato una diserzione. Nelle condizioni di oggi la militanza, la controsoggettivazione in una forma di vita militante, riuscirà a costruirsi attraverso un comportamento che è già socialmente maggioritario ma senza alcun tipo di rottura con la forma di vita dominante, che è sì diserzione dal comando di guerra ma anche diserzione da forme di conflittualità, rottura, ricomposizione?

Conclusioni, malgrado il discorso sia lungo e incerto

Ecco allora una domanda a guidarci. Dentro la «fabbrica della guerra», come alimentare i segnali di protagonismo, a Modena ancora timidi e insufficienti, espressi dall’avanzare di una nuova generazione politica che abbiamo visto attraversare varie fasi di mobilitazione (dalla scuola alla Palestina), ma stenta ancora a trovare forme autonome di protagonismo? E poi: come costruire una militanza capace di cavalcare le vertigini, stare sulle ambivalenze, ribaltare le certezze per costruire radicamento, progettualità e ricomposizione?

È ancora e sempre lo stesso ordine di problemi, che come Kamo abbiamo contribuito a discutere e provato a nostro modo ad affrontare; altri, questi ultimi anni, lo hanno sicuramente sviluppato meglio con ben altri strumenti, possibilità ed esperienza. Alla nostra piccola altezza, ci sentiamo di inquadrarlo dentro le suggestioni e le piste di ricerca politiche lasciateci da Mario Tronti nel suo ultimo, postumo, scritto politico e militante. Salvare la rivoluzione dal Socialismo, salvare la libertà della Democrazia, dice Mario – e, aggiungiamo noi, salvare l’autonomia dal Movimento. Da quello che è stato il ciclo, oggi esaurito, dei centri sociali e del centrosocialismo, entro cui per tutta una fase si è espressa la militanza autonoma. Nel presente, per il domani, si tratta di salvare l’autonomia possibile di nuovi soggetti da quello che, per semplicità e in mancanza di termini migliori per capirci, prende oggi le vecchie forme del Movimento. C’è un lavoro da fare, di ricerca, di elaborazione, di immaginazione. Senza l’ambizione di sapere che quel tempo, il più inattuale, verrà. Perché il mondo e il tempo che stanno per arrivare, tutto lascia prevedere che saranno al seguito del mondo e del tempo che sono già arrivati. Facciamoci trovare pronti per domani, preparandoci oggi all’inaspettato.

Di seguito gli interventi che hanno aperto la discussione. Buona lettura.

 ***

Marina – studentessa, militante di Osa

Visto che tutto quello che abbiamo fatto nelle scuole in questi anni come studenti organizzati si è basato sull’analisi della realtà, prima di parlare di scuola due parole sul contesto generale e sul periodo storico in cui ci troviamo.

La guerra, dall’Ucraina al Mar Rosso passando per la Palestina, è diventata il fattore centrale. E l’Italia, nella guerra, assume un ruolo centrale. Segue le politiche della Nato, aumenta le spese militari al 2% del Pil, continua a inviare armi, e per farlo toglie i soldi alle scuole, all’università (la recente manovra finanziaria prevede 500 milioni di tagli al Fondo per il finanziamento ordinario delle università), alla sanità, alle spese sociali.

Come studenti organizzati è stato importante quindi individuare il nostro nemico per mobilitarci: il governo. Un governo guerrafondaio, un governo della guerra, quello delle Destre, della Meloni.

Per lavorare nelle scuole, abbiamo quindi colto la contraddizione dei soldi che invece che essere usati per la nostra formazione vengono usati dal governo nelle guerre in cui l’Italia è complice e corresponsabile: le conseguenze le vediamo quotidianamente in tutti gli istituti da Nord a Sud, dove ogni giorno cadono pezzi di soffitto sulle classi, mancano le risorse per metterli in sicurezza dopo disastri ambientali come l’alluvione in Romagna, mancano spazi o materiali per fare lezione, mancano veri sportelli d’ascolto e assistenza psicologica, manca una vera educazione alla sessualità.

Abbiamo riconosciuto il nostro nemico in una classe dirigente che utilizza la filiera della formazione per far passare l’ideologia dominante e per mantenere il consenso. Scuola e università come apparati ideologici di Stato, e manganelli e stretta repressiva per chi protesta [si veda il Decreto sicurezza ddl 1160, ndK]. Ci è stata consegnata una scuola che non ha più quel senso di emancipazione che poteva avere negli anni dello sviluppo delle lotte, ma che continua a cristallizzare le condizioni sociali di partenza degli studenti. La scuola non è più un ascensore sociale ma si è trasformata in filiera formativa, centrale per l’aumento della competitività e della produttività, e per la creazione di valore e per la crescita economica.

Questo è evidente con il Pcto (l’alternanza scuola-lavoro) che costituisce una vera e propria aziendalizzazione della scuola, in cui i percorsi di studio degli studenti verranno modificati dalle imprese presenti sul territorio per creare figure di lavoratori specializzati. Inoltre, con la nuova riforma degli istituti tecnici e professionali di Valditara, che consiste nel ridurre un anno di scuola per questi ultimi e accrescere le ore di Pcto, assistiamo anche a un aumento di differenze tra scuole di serie A (come i licei, luoghi deputati a instradare la futura classe dirigente) e scuole di serie B (istituti tecnici e professionali).

Quello che vediamo in generale è una crisi di egemonia dell’Occidente capitalistico che, nel suo contorcersi, produce barbarie. Il discorso dell’Occidente capitalistico si dice portatore di pace, di innovazione, di libertà, ma come vediamo produce guerra, sfruttamento, repressione. E le classi dominanti non hanno e non vogliono trovare soluzioni alle barbarie che producono.

Sappiamo che lotte nelle scuole devono essere fatte pensando alla realtà che abbiamo davanti. E nelle scuole noi vediamo una tendenza tra gli studenti a eludere questi valori proposti dal discorso dominante, a non sentirsi rappresentati in toto da questi valori, quindi a cercare di uscirne, a scapparne, in varie forme e modi, magari cercando altri modelli. Forme e modi che però non vanno a rottura con la società così strutturata, ma che comunque non sono conformi alla narrazione che il sistema ha fatto di sé. Nelle scuole vediamo una serie di fenomeni che vanno dal ribellismo individuale e individualistico, al disagio psicologico, all’autolesionismo, al disinteresse da tutto ciò che succede, fino anche allo scimmiottamento della criminalità e di comportamenti criminali. A Modena, per esempio, quest’anno i rappresentanti d’istituto del Liceo Classico Muratori, dove passano le future classi dirigenti, hanno chiamato la polizia perché c’erano studenti del Tecnico e Professionale che venivano a rubare, a picchiare, a fare brutto agli studenti del Classico davanti alla scuola.

Nelle scuole vediamo che non c’è una spontanea prospettiva di rottura. Dobbiamo quindi essere bravi come militanti organizzati a incanalare questo disagio e questa rabbia degli studenti e portarli ad avere questa prospettiva, facendo come, per esempio, dopo l’uccisione di 3 ragazzi in Pcto da cui è nata l’ondata di occupazioni della Lupa a Roma nel 2022.

Chiaramente non è facile, perché siamo in un contesto di depoliticizzazione e de-conflittualità studentesca, in cui il nemico fa un attento lavoro di deterrenza per impedire ogni ipotesi di mobilitazione. La sfiducia nella possibilità di cambiamento e nell’utilità della lotta è veramente alta.

È stato difficile come portare nelle scuole di Modena un punto di vista e una prospettiva di rottura. Anche perché a Modena, feudo Pd, sono forti le organizzazioni studentesche che sono l’articolazione di sindacati e di partiti del centrosinistra di governo, filoistituzionali, socialdemocratici, come la rete degli Studenti, l’Udu, eccetera. Abbiamo visto che non portano effettivamente punti politici, ma riescono a sussumere tutto quello che hanno intorno, a far su quello che con difficoltà e spontaneità prova a muoversi; hanno appiattito le lotte che ci sono state, le hanno compatibilizzate, senza offrire una vera alternativa e anche per questo, a Modena e provincia, quest’anno il movimento studentesco non è stato dei migliori.

Chiaramente ora con il movimento per la Palestina si è riuscito sicuramente ad ampliare e mobilitare qualcosa, però ha avuto più successo nelle università che nella scuola, e sicuramente qua a Modena nell’università non è partito niente. Eppure, nonostante anche Forlì sia una città di provincia, lì il movimento è partito dall’università.

A Modena è stato interessante lo sciopero e la successiva mobilitazione scoppiati all’Ites Barozzi. Partito come protestaperché la scuola non faceva andare in gita le classi, non riforniva di cibo le macchinette e faceva perquisire gli zaini degli studenti all’entrata, a seguito della minaccia di sospensione della preside al rappresentante d’istituto per aver rilasciato un’intervista esprimendo i problemi di una “scuola devastata” la mobilitazione ha preso piede in difesa dello studente. La mobilitazione contro la repressione è poi rientrata senza una prospettiva di rottura, senza uscire dal proprio caso particolare, senza guardare all’esterno della propria scuola.

Ci sta, perché comunque questa “coscienza” la porti dall’esterno, non sono cose che vengono su da sole, è qui la funzione del militante; però è una piccola dimostrazione che sotto si muove qualcosa, anche in provincia gli studenti possono muoversi e cercano un cambiamento, non è detto che a Modena non debba accadere mai niente. Bisogna essere bravi a cogliere le contraddizioni quando si manifestano materialmente che poi ti portano a uno scontro diretto.

Scuola e università sono apparati ideologici di Stato, e i luoghi e i percorsi formativi sono sempre pervasi dall’ideologia del nemico, come stiamo vedendo sempre più chiaramente in questo stato di guerra. E noi come studenti dobbiamo continuare ad utilizzare questi luoghi di formazione come campo di battaglia, per portare avanti un’idea di formazione diversa, in una diversa società.

  

Elia – studente universitario, militante di Officine della formazione

Il punto di partenza della nostra inchiesta sulla composizione studentesca universitaria (in forma estesa, i risultati dell’inchiesta si trovano sulla rivista «Machina»: qui e qui) è tutto sommato semplice: la constatazione che in università c’è un vuoto politico.

Questo vuoto politico non è tanto da intendere in senso fenomenologico (“non c’è nessuno, non esiste nulla di politico”). Alcuni gruppi ci sono sempre stati, e ci saranno sempre, in forme e quantità più o meno sparute. Quello che ci interessa considerare, invece, è il loro appiglio sulla composizione studentesca, la loro capacità di muoverla e di agitarla. Insomma, ci sembrava che anche l’università di Bologna fosse pacificata quanto qualunque università anglosassone o nordeuropea.

Dire inchiesta è, però, improprio. L’idea era quella di una conricerca. Ovvero, produrre una conoscenza imperniata sul punto di vista di una soggettività, quella studentesca, al fine di poter indicare la strada, da un lato, alle nuove forme di organizzazione possibili dentro le università, assunta la crisi delle forme esistenti, e dall’altro verso i “punti deboli” del sistema, non tanto in senso oggettivo, ma soggettivo: cosa temono, desiderano e odiano gli studenti?

Quindi, produzione di conoscenza collettiva e comune che, allo stesso tempo, possa aprire uno spazio per l’autoformazione, per la formazione politica. Insomma, ditelo come volete: per dare forma a nuovi militanti.

La tesi principale che è emersa dalla conricerca è che non ci sembra possibile rintracciare un residuo autonomo (un “fuori”), cioè una ricerca di conoscenza pura e incontaminata, dalla volontà e dal desiderio degli studenti di essere formati in quanto forza-lavoro competente e, soprattutto, desiderosa di vendersi sul mercato del lavoro. Chi sceglie di studiare all’università lo fa esclusivamente per questo motivo. Per descrivere questo processo abbiamo utilizzato il concetto di “professionalizzazione”. La produzione – come processo attivo, cioè voluto dal soggetto, e allo stesso tempo passivo, cioè subito – di forza-lavoro specializzata pronta per essere inserita nel processo produttivo.

Questa questione va letta assieme alle aspettative degli studenti sul proprio futuro. La ricerca dimostra un complessivo “innalzamento” delle aspettative rispetto al titolo di studio. In altri termini, si studia poiché si ritiene possibile che il titolo renda favorevole la collocazione nel mercato del lavoro. Tutto questo sommato alle difficoltà e alle fatiche dello studio, che si accettano e subiscono senza troppi problemi – o, comunque, si cercano di superare questi problemi. La possibilità, nel futuro, “di fare quello che ti piace” ripagherà la fatica. Infatti, non è secondario rimarcare come questa predisposizione verso il futuro porti gli studenti ad accettare il sacrificio dello studio e della formazione.

Bisogna sottolineare che l’innalzamento delle aspettative legate al titolo di studio non viene interpretato dagli studenti come un processo lineare e privo di frizioni. Al contrario, è una vera e propria battaglia per il riconoscimento della competenza e della formazione, che porta tratti anche culturali e generazionali. Non mancano ostacoli e incertezze, tuttavia per quel che concerne il titolo di studio sembra esserci davvero la fiducia che l’educazione superiore sia un investimento che possa portare a una posizione favorevole nella società.

Infine, l’ultima riflessione riguarda il cosiddetto “sapere pratico”. Gli studenti intervistati, infatti, richiedono una forma di sapere pratico-teorica, in aperta contrapposizione a uno studio impoverito, standardizzato e nozionistico come quello offerto dall’università oggi.

Il primo lato della medaglia è il rifiuto di una certa verbosità, un certo vecchiume dell’università italiana. Riprendendo le parole degli studenti, il sapere pratico-teorico ti fa osservare, assieme alla professoressa, un certo fenomeno in laboratorio, al di fuori della dimensione della lezione frontale e libresca. Ma accanto a questo tipo di sapere ce n’è un altro che costituisce uno scarto: quello che dà forma a una competenza tecnico-pratica, attiva: fare le cose con le tue mani. Abbiamo chiamato questa forma di sapere semplicemente “tecnico”. È proprio questa la forma di sapere a essere reclamata dal desiderio di professionalizzazione degli studenti: il possesso di una tecnica capitalistica professionalizzante, che li formi come forza-lavoro competente e professionale.

Vi è un altro livello del discorso verso cui prestare attenzione e riflettere. Tagliando con l’accetta, possiamo dire che il sapere della didattica universitaria è così impoverito e standardizzato che l’unica strada percorribile, per gli studenti, risulta essere quella della richiesta di professionalizzazione. La ricerca di sapere e conoscenza “per sé” non si può dare nella realtà capitalistica, dunque si sceglie la via della professionalizzazione perché conviene. In altre parole, conviene perché il sapere è talmente impoverito e modularizzato che tanto vale diventare un professionista che applica quel sapere povero allo status quo capitalistico. Ma questo, banalmente, significa che lo studente finisce per contribuire attivamente e soggettivamente a divenire forza-lavoro specializzata, o forse sarebbe più corretto dire “capitale umano”, realizzando il compito storico dell’università capitalistica.

Crediamo che questo passaggio vada assunto come un dato di realtà.

Non per rassegnazione o ineluttabilità ma, al contrario, perché per rovesciare il tavolo dobbiamo sapere bene di quale materiale questo tavolo è fatto, quali sono le sue crepe, in che punto si può rompere. Questa “utentizzazione” della figura dello studente, questa riduzione alla passività, al contenitore da riempire, ci sembra che spesso si accompagni a una certa “protocollarità” nell’approcciarsi al sapere da parte degli studenti. Una faccia della professionalizzazione è proprio la protocollarità, nel senso dell’algoritmo: la richiesta di possedere una serie di passaggi definiti per risolvere un problema di cui si sa già che una soluzione esiste. I professori stessi riproducono questo meccanismo, tenendo quanto più possibile lontano gli studenti dalla possibilità di scontrarsi con problemi aperti, sia quelli radicalmente privi di soluzione, sia quelli con una soluzione che non è data a priori. Ciò che conta è superare l’esame: tutto si riduce nell’ingurgitare una serie di informazioni per poi ripeterle il più fedelmente possibile in attesa di ottenere l’agognato “pezzo di carta”.

Se questa riflessione sulla professionalizzazione è chiara per le facoltà scientifiche, ci sembra che anche i soggetti delle facoltà umanistiche, che si iscrivono perché “amano ciò che studiano”, siano inseriti in questa stessa logica. Che riguardi la volontà di diventare un ricercatore o altre innovative figure professionali che possono emergere dagli studi umanistici, la figura soggettiva, lo spirito e l’antropologia sono simili. Magari, agli studenti delle facoltà scientifiche dei “seminari autogestiti” non interessa nulla, mentre a quelli delle facoltà umanistiche interessa se riguardano l’argomento della loro tesi o la possibilità di stringere la mano al professore di turno. Ma ci teniamo a specificare: non c’è nessuna moralizzazione in questo discorso. È così e basta, e lo abbiamo imparato a nostre spese, tentando più volte di organizzare questi soggetti o di aggregarli proprio attraverso queste modalità seminariali (che non riteniamo siano sbagliate in sé, per inciso, ma che vadano assunte dentro l’orizzonte materiale di questa soggettività).

Qui dobbiamo essere chiari. Da un lato questo è un processo soggettivo di trasformazione antropologica della condizione dello studente. Quanti anni sono passati dall’ultimo, reale, movimento? Possiamo dire quasi vent’anni senza movimenti? Ecco, tutto ciò ci consegna questo soggetto qua. Però, ovviamente, questa lettura assume un senso se la si legge nella più ampia questione della crisi della militanza e della crisi delle forme della politica di quello che viene chiamato “Movimento”, appunto. Cioè, dall’università – luogo del fermento giovanile – si vede chiaramente come ad oggi non esista nessun terreno di identificazione comune e collettiva: immaginari, pratiche, possibilità di dire “io sono questa cosa qui” in senso politico, un soggetto politico riconoscibile (“siamo dei centri sociali”, “dei collettivi” eccetera).

Un inciso va fatto. Lo studente della professionalizzazione è lo studente che fa l’investimento. E se questo lo leggiamo assieme ai processi selvaggi di accumulazione ed estrazione capitalistici legati alla città, basta poco per capire che nella città universitaria arriva chi se lo può permettere e, allo stesso modo, come il capitale abbia affinato una selezione molto più a valle. Insomma, arrivano studenti di ceto medio non troppo impoverito. Quindi, in qualche modo, anche il terreno classico del diritto allo studio e dell’accessibilità interessano poco questa figura studentesca. E lo si vede bene dalle piccole mobilitazioni di qualche anno fa relative al caro-affitti (le prime “tendate” per capirci), le quali alla fine vivevano più nel campo dell’opinione che in quello della materialità dei soggetti.

E ora arriviamo al sodo. Qualcosa che, invece, ha smosso, nel suo piccolo, per quanto comunque in un quadro di assenza di mobilitazioni significative, sono state le mobilitazioni in solidarietà alla Palestina. Proviamo a fare qualche ragionamento, prendendo davvero sul serio che «solo la lotta può impedire la barbarie». Ciò che segue va quindi letto come una forzatura per cercare di fare passi avanti e rilanciare il discorso, rilanciare l’intensità della lotta.

Ora, senza fare analogie macchiettistiche, senza dire «portare il Vietnam in fabbrica» o «Bring the war home», è comunque accettabile affermare che queste mobilitazioni per la Palestina siamo state una serie di rivendicazioni di solidarietà, mi si consenta di dire, di opinione: quelle che potenzialmente restano imbrigliate nel piano della moralità (e della giustizia astratta) e rischiano di avere poca attinenza con la vita che facciamo tutti i giorni e che, però, nel lungo periodo, nell’intensità e nella possibilità di rottura rischiano poi di assopirsi.

Quindi, la prima operazione di metodo mi pare questo: capire cosa porta dei soggetti concreti a mobilitarsi e, soprattutto, a farlo più di una volta (credo che la sola indignazione e la sola commozione siano necessariamente portati ad avere una breve durata). Cioè, non è tanto un ragionamento per scovare la verità oltre la menzogna, ma quanto per indagare proprio la costituzione materiale del soggetto-contro. Dunque, cosa è emerso da questo soggetto?

La mobilitazione non ha posto nessun accento oltre la questione palestinese. Senza dire sia giusto o sbagliato, in generale, strategicamente o tatticamente, lo assumiamo come dato di fatto. So che in altri contesti in Italia questo è invece successo, dunque mi riferisco a dove siamo collocati, Bologna. I termini della questione li conoscete: l’idea del boicottaggio accademico e dunque la fine degli accordi tra l’università e diverse istituzioni israeliane. Non c’erano dei ragionamenti che cercassero di ampliare il discorso o, diciamo, che per lo meno lo facessero assumendo il piano della condizione studentesca, che ne so, gli effetti degli accordi sulle lezioni, gli esami. E anche per questo motivo, crediamo, che ci sia voluto un certo tempo perché assumesse i tratti di una mobilitazione. Senza poi rimarcare che si tratti di una serie di rivendicazioni – lo dico veramente con il pudore di dire una banalità – di natura sostanzialmente sindacale. Cioè: si chiede la fine degli accordi, si può vincere o perdere.

Ora, senza ingenuità: le università piccole possono stracciarli subito quegli accordi, quella di Bologna ha grossi problemi per ovvi rapporti di forza globali e posizionamento nei circuiti del valore immateriale. Ad ogni modo, è interessante notare come la questione della materialità soggettiva della mobilitazione non sia stata posta in alcun modo, se non vagheggiando tutta la questione degli accordi come contraddizione cardine del capitalismo, insomma con un linguaggio che non affonda le radici nella materialità di quel soggetto descritto sopra, insomma discorsi vuoti. Una prima spia del fatto ci fossero altre ragioni verso la partecipazione, oltre al cuore della rivendicazione, pur comunque assolutamente fondamentale.

Ora, facciamo un salto verso le tendate. A Bologna, va detto, non bloccavano nulla. Le malelingue potrebbero dire che fossero un centro sociale a cielo aperto. Ma lì, invece come poi in altre occasioni, la partecipazione di una composizione studentesca “vera”, spontanea, si è data.

Ora, la tesi di fondo: questo “qualcosa sotto” ai soggetti che si mobilitavano, alle tendate, ci è parso di poterlo vedere nel bisogno di socializzazione e di rottura della solitudine che è tipica del percorso universitario. Il soggetto che fa l’università oggi è sostanzialmente solo come un cane. Nonostante le apparenze, anche le università sono territori in cui il legame sociale è devastato e, in qualche modo, gli studenti riconoscono questa cosa e la sentono come problema. Da un lato lo studente ha il percorso di investimento su se stesso, quello che abbiamo descritto; dall’altro ha il consumo di divertimento e di esperienza della città (che occupa un ruolo fondamentale, ovviamente) e infine ha le patologie e i sintomi (ansia, depressione, solitudine). Questo non è nulla di nuovo, sono i tratti della condizione giovanile. Certo. Però ci pare proprio che in qualche modo, nelle tende, nella mobilitazione per la Palestina si cercasse di rompere (e quindi implicitamente di politicizzare!) quella roba lì. All’indomani dello smantellamento volontario delle tendate – sostanzialmente per stanchezza e burnout, come si dice oggi (comprensibile dopo più di venti giorni!) – il sentimento comune suonava così: “Non abbiamo vinto nulla, ma almeno ci siamo divertiti e siamo stati assieme”.

Se gli ingredienti per la politica sono gente incazzata e individuazione del nemico, ci pare che questi due termini, oggi, non siano in alcun modo consegnati dalla realtà verso il soggetto studentesco. Si possono – soprattutto, si devono – operare delle forzature e verticalizzazioni, certo. Ma a ogni modo pare che questo non si dia. Abbiamo più volte riflettuto su questo rapporto tra consenso e forza dentro la mobilitazione. Ovvero c’era consenso ma mancava la forza, dove per forza intendiamo la possibilità di individuare il nemico. E mi pare di poter dire che non fosse tanto un problema di tattica e strategia, quanto un problema di maturazione della soggettività. Insomma, che i nemici fossero il rettore, un professore o un capo di dipartimento, lo erano sempre e soltanto per un momento estemporaneo, per una fase.

Qui provvisoriamente chiudo: quello che è stato, quello che è, e quello che sarà in autunno penso si possa intendere come sintomo e preludio di qualcosa che, prima o poi esploderà, e che però va proprio letto dentro questo vero e proprio massacro della composizione giovanile.

Ora, se vogliamo parlare di guerra e università dobbiamo almeno prendere in considerazione tre tipi di guerra.

La prima è quella più ovvia: il diretto ingresso della guerra dentro l’università. Stato e capitale utilizzano l’istituzione per la produzione di conoscenza in funzione e per la guerra. Quindi produzione legata alla competizione tra i diversi capitali e diversi poli in conflitto in questa fase di destrutturazione e ristrutturazione anche bellica della globalizzazione. Va tenuto presente quando si considera la ricerca direttamente e indirettamente legata alla guerra anche il cosiddetto dual use.

La seconda è quella che materialmente distrugge le università. E pone un insieme di problemi, a chi fa politica in quei contesti, del tutto differenti. Oggi Kiev, Gaza, Beirut, ma sappiamo che altre guerre sono alle porte.

La terza è l’economia politica intesa come continuazione della guerra con altri mezzi. Insomma, la guerra del capitale contro di noi, la violenza dell’accumulazione originaria che si ripete ogni giorno. E l’economia politica sussume, oggi completamente, le università. Oggi ne abbiamo discusso dal punto di vista delle trasformazioni soggettive (“utentizzazione” e trasformazione in capitale umano) ma quelle oggettive sono forse ancora più lampanti: gli studenti come esercito di forza-lavoro precaria a basso costo, l’indebitamento e la finanziarizzazione dell’istruzione superiore, l’estrazione di ricchezza attraverso i prezzi degli affitti e la privatizzazione selvaggia di tutto quello che un tempo erano servizi.

Quindi, in queste tre guerre guerreggiate, abbiamo provato a riflettere su come si porta una guerra diversa dentro le università. Una specie di gesto leninista, una “nostra guerra”, come discorso tattico, ma anche strategico – magari anche come slogan, credevamo ad un certo punto. Un gran bel ragionamento. Ma tutto sbagliato.

Il problema, alla fine, è che il soggetto studentesco non è un soggetto che vuole fare la guerra. Tutto il contrario. È un soggetto della diserzione. Senza illusione che, ad oggi, diserzione sia qualcosa di profondamente diverso dal “dimettersi in solitaria”. Bifo legge i sintomi (depressione, solitudine eccetera) come una diserzione dalla realtà capitalistica – una rinuncia. Insomma, tra prendere una parte nella guerra, parteggiare, o “darci a mucchio”, dove questo “darci a mucchio” può essere prendere le pilolle o prendere lo spritz, lo studente è comunque un soggetto che si dimette. Non prende parte.

Scontato dire che tutto questo va organizzato, con forme e linguaggi della politica nuova. Come sempre: con continuità e discontinuità assieme, le spalle al futuro, la testa nuova e il cuore antico. Come recitava un titolo della stampa di giugno, «nel 2029 la generazione Erasmus potrebbe dover marciare su Mosca»: ne vedremo delle bruttissime, ma speriamo di farci trovare pronti per organizzarla, la diserzione.

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Troppo fuorismo / Inchiesta

LA FABBRICA DELLA GUERRA. Modena nel conflitto globale

La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone lo spartito.

Una guerra che non nasce per caso o per malvage singole volontà, ma dalle condizioni strutturali della “pace” che l’ha preparata. Una pace imperialista, incrinata dalla crisi capitalistica globale, rotta dallo scontro tra potenze in declino e attori in ascesa per determinare la nuova architettura del sistema di mercato mondiale. Europa, Medio Oriente e Pacifico sono i suoi diversi fronti, dove già si combatte a diverse intensità o ci si sta preparando per farlo. E noi in mezzo.

E a Modena? Come la guerra sta già entrando nel nostro territorio e coinvolgendo le nostre vite, trasformando scuola, università e fabbrica sociale? Che tipo di figure la scuola dovrà formare alle necessità del conflitto? Quali relazioni intesse l’università con industrie militari e Stati coinvolti? Come si ristruttura il tessuto industriale emiliano a fronte della crisi globale e in funzione della guerra? Quali contraddizioni potrebbero aprirsi e quali soggetti mobilitarsi dentro e contro la «fabbrica della guerra»?

Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono armi e strumenti politici: punto di vista, metodo, inchiesta.

Un ciclo di incontri per discutere e costruire nuovi arsenali, a partire da ciò che funziona ancora di quelli vecchi, per sabotare e sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.

Al Dopolavoro di via canalino 78.

Segnatevi le date, a breve maggiori dettagli.

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Silvano Cacciari – Dollari, algoritmi e trincee da Wall Street a Gaza

La tendenza alla guerra è il grande fatto del nostro tempo. Fatto centrale, direttore d’orchestra, intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone il ritmo, suonandone lo spartito. Il carattere del nostro tempo viene definito da questo concerto in movimento, in un processo a cascata frattale che va dalle impercepibili strutture sistemiche alla percezione strutturale del quotidiano, nelle declinazioni assunte nei contesti e nelle realtà in cui siamo collocati.

Sono tempi di guerra. Come sempre, preparati dalla pace che li ha preceduti. Guerra imperialista, pace imperialista. La pace dell’Occidente, in questo caso. Uscito vittorioso dal conflitto mondiale ingaggiato con l’Unione Sovietica dopo la fine del secondo: competizione geopolitica, potenzialmente totale, raffreddata e delimitata dalla minaccia della Bomba e dalla presenza del Politico. Rapporto che ha ordinato il mondo, finché è sussistito. Al suo interno, Occidente trionfante nella guerra di civiltà che ne aveva sconvolto la catena di montaggio sociale: quella tra operai e Capitale. Guerriglia dalle linee alla società la sua forma operaia, il sabotaggio della produzione e della riproduzione della soggettività capitalistica la sua arma. Trasformata la prima in innovazione e la seconda in ristrutturazione, è emersa la nuova partitura del Capitale. La bandiera dei soviet ammainata, in silenzio, sulla Piazza rossa all’inizio degli anni Novanta ha seguito la destrutturazione della fabbrica e della classe nella metropoli lungo i Settanta.

La pax del vincitore l’abbiamo chiamata globalizzazione. Il suo imperium quello americano. Il progresso la sua religione, il suo destino manifesto la democrazia. Sbornia di modernità capitalistica, dei cui postumi abbiamo fatto postmodernità. La storia era finita, tutti a casa. Il caos che divampa sulla polveriera-mondo, oggi, racconta un’altra storia. La temperatura del sistema indica che sono finite semmai le storielle che ci raccontavano, e ci raccontavamo. Washington, minata al suo interno dalle stesse condizioni che ne avevano decretato – brevemente – l’affermazione universale, non può governare, e ordinare, il mondo con le stesse rendite e dividendi di ieri. Figurarsi quando è vecchio, malato, lacerato, depresso. In crisi.

Il mondo è in trasformazione. Krisis. La tempesta sistemica del 2008 non si è risolta. Generatasi nel vortice di contraddizioni al cuore del sistema capitalistico mondiale, gli Usa, è stata soltanto allontanata. Nello spazio e nel tempo. Nel suo percorso lungo i flussi e le correnti dell’economia globalizzata ha lasciato macerie e distruzione dove è passata – Italia 2011. Il suo accumulo di energia non si è fermato. I barometri ne hanno segnalato la permanenza, l’approfondimento, l’estensione, la possibilità di eventi estremi e improvvisi. Il surriscaldamento globale, infatti, non è un fenomeno ascrivibile solamente al clima: coinvolge pienamente anche la dimensione economica, politica, sociale. E quindi militare. Con la pandemia, inaspettata, del 2020 la tempesta ha rimbombato all’orizzonte, vicina. L’atmosfera satura di elettricità, pronta a esplodere. A seguito del 24 febbraio 2022 e del 7 ottobre 2023, la pace che abbiamo chiamato globalizzazione volge definitivamente al termine così come l’abbiamo conosciuta, mentre la partita per determinare il carattere della nuova partitura è appena cominciata.

Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono primariamente armi e strumenti del pensiero. Punto di vista. Metodo. Rispolverare gli arsenali di un tempo ancora validi, costruirne dei nuovi per le condizioni mutate. Combinandoli, ibridandoli, per sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.

È con questa intenzione che abbiamo contribuito, il 25 maggio al Dopolavoro Kanalino78, a organizzare la discussione con Silvano Cacciari, della redazione di «Codice Rosso» (codice-rosso.net) e antropologo, sul suo ultimo lavoro, La finanza è guerra, la moneta è un’arma. Viaggio tra le forme del dominio (La casa Usher 2024), di cui proponiamo la trascrizione.

Il tema è il rapporto tra capitalismo finanziario e forma della guerra. La trasformazione della guerra sul campo alla luce del più alto livello di sviluppo capitalistico, portando Sun Tzu a Wall Street. La finanza non è semplicemente mercato, ma va situata sul terreno geopolitico: è uno dei piani su cui si combatte la guerra ibrida e senza limiti – di cui Ucraina e Gaza non sono che fronti caldi – intorno cui si stanno organizzando apparati statali, economici e sociali dell’Occidente, e non solo. Dollaro, materie prime e algoritmi sono campi di battaglia non secondari tra imperialismo di Washington e potenze riformiste (o sovvertitrici) dell’ordine globale e della globalizzazione, capaci di radere al suolo economie, piegare società, disgregare Stati. Tra fondi speculativi potenti come eserciti, prodotti finanziari scambiati come colpi di artiglieria, sciami di guerriglieri che dai loro smartphone razziano valore tra bolle e criptovalute, la forma-guerra sta cambiando. Quali sono gli attori e gli strumenti del capitalismo finanziario e del cyberwarfare che imperversano nel caos bellico? In quale misura si fondono alla guerra combattuta sul campo? Quali tendenze delle nostre società portano alla luce?

Buona lettura.

 

Silvano Cacciari

Questo libro si occupa sostanzialmente di tre argomenti: il tribalismo aggressivo delle classi dominanti; l’intreccio tra guerra finanziaria e guerra sul campo, e dunque il ruolo della rivoluzione tecnologica in questo intreccio; e la rarefazione della capacità della politica di fare presa sulla società. La dimensione del politico – non solo quella più vicina alle nostre latitudini, ma anche proprio la dimensione del politico tout court – è infatti sempre più subordinata non solo all’evoluzione, ma soprattutto alle criticità del mondo finanziario. Come sosteneva Carl Schmitt, che non è esattamente un teorico dell’estrema sinistra, nel momento in cui il mondo finanziario fa presa sul pianeta, è la politica ad essere sinistrata.

E se guardiamo alle risposte che, nel corso del XX secolo, la politica (compresa quella istituzionale) ha dato alla finanza, vediamo che, per un certo periodo, furono sorprendentemente aggressive. Per quasi un secolo sono stati proposti una varietà di strumenti di regolazione che hanno, in un certo senso, rinchiuso il genio di nuovo all’interno della lampada: un esempio su tutti sono gli accordi di Bretton Woods del 1944, e a seguire l’avvicendarsi di complesse politiche di regolazione lungo tutti gli anni Cinquanta. Il nostro problema è che, a partire alla fine degli Ottanta, assistiamo a una evidente crisi di accumulazione del capitalismo (all’epoca definito “maturo”), che spinge di nuovo il demone a uscire dalla bottiglia.

Fuor di metafora, possiamo riassumere sbrigativamente la situazione descritta dicendo che negli ultimi quarant’anni il capitalismo finanziario è tornato a riprodursi sul pianeta negli stessi modi nei quali si riproduceva nell’Ottocento, ovvero fondandosi su dinamiche di predazione verso la società e di guerra interna verso i propri avversari. Dunque, la guerra finanziaria è un fenomeno già presente fino all’inizio del Novecento, e che è riemerso al tramonto del periodo fordista e della divisione del mondo in due blocchi. Rimane tuttavia da analizzare come si muove in questa congiuntura specifica e, soprattutto, individuare quale rapporto intrattiene con la guerra guerreggiata – vale da dire con una strategia di aggressione che si fa con strumenti non materialmente cruenti, ma che produce gli stessi danni di una guerra sul campo.

Vi faccio un esempio. Quando l’Italia è stata attaccata dai mercati durante la crisi dei debiti sovrani nel 2011-2012, che cosa è accaduto? È accaduto che durante quel periodo l’Italia ha perso il 15% del Pil derivato dalla produzione industriale in poche settimane. Solo con un bombardamento degno di questo nome potremmo ottenere risultati simili. Ancora prima, nel 2008, nel momento in cui la crisi del subprime si fa sentire al di fuori degli Stati Uniti, c’è un altro paese che subisce profondamente. Questo paese è l’Iran, che nel corso del primo semestre dallo scoppio della crisi perde un terzo del PIL.

Questo per dire cosa? Che la distruttività materiale della guerra finanziaria può essere pari a quella della guerra sul campo. Semplicemente si tratta di una guerra combattuta con altre armi. Ciò che, però, le ultime guerre finanziarie ci obbligano a interrogare è l’intreccio tra guerra finanziaria, guerra sul campo, politica e il ruolo assunto dalla tecnologia. Poiché è da questo quadrilatero che riusciamo a capire come si strutturano i campi di forza del mondo moderno e, dunque, è osservando questo quadrilatero che possiamo cogliere non solo l’elemento di criticità interna, ma anche i punti di rottura e, perché no, di oltrepassamento. Le cose si fanno quindi complicate ma, viste con gli occhi del politico, estremamente interessanti.

 

Intenti teorici

Lasciatemi ora dire due o tre cosette per esporvi gli intenti teorici del mio libro. Per come l’ho concepito io, questo testo è, innanzitutto, una genealogia del potere al livello più alto di dominio, che nasce da un’esigenza teorica di fondo, ovvero la necessità di fare un salto di complessità nell’analisi del potere. Cosa intendo con salto di complessità? Quando ho iniziato a scrivere questo libro, avendo io una prospettiva essenzialmente foucaultiana, e quindi provenendo dalle analisi del potere disciplinare, ero anche parecchio stanco di leggere gli ennesimi studi, sempre uguali, sulle dinamiche di potere negli ospedali, nelle cliniche, nella prigione e via discorrendo. Cose da far slogare le mandibole per gli sbadigli. La mia ipotesi però è che Foucault consegnasse un apparato teorico sofisticato anche per andare su campi che lui stesso non aveva analizzato (è morto abbastanza precoce), cioè la tecnologia e la finanza. Ma la prima scintilla, la molla che mi spinge con urgenza a interrogarmi su un possibile uso alternativo degli strumenti foucaultiani, è l’osservazione in presa diretta della crisi del debito sovrano e di tutto quello che stava accadendo in Grecia.

Per l’inquadramento interpretativo, ho utilizzato anche altri classici, soprattutto tre: Marx, che riecheggia in molte pagine, a volte esplicitamente, a volte in maniera un po’ più caché;  Hilferding e il totem Il capitale finanziario (è anche una questione di formazione: i vecchi militanti, tutte le volte che si parlava di finanza quando ero ragazzo, sentenziavano «devi studiare Hilferding!», neanche fosse un sacrificio rituale, un battesimo del fuoco); e poi ovviamente Lenin e il suo classico L’imperialismo. Il nocciolo, però, è individuare bene sia l’importanza che le criticità che si trovano in tutti e tre gli autori.

Allora, prima di tutto parliamo di Marx, e ne parlo da marxista – per me Marx sarà superabile quando riusciremo a battere il capitalismo, figuratevi un po’ come la penso. Tuttavia dobbiamo riconoscere che l’immagine che aveva Marx del capitale finanziario conteneva un grosso errore di previsione. Quando Marx, nel Capitale, descrive la disintegrazione dei fiorenti docks di Londra per la crisi finanziaria del 1871-1882, ha in testa un’idea ben precisa: a un certo punto, il capitale produttivo, che è razionalizzatore di tendenze, comportamenti, organizzazioni del lavoro, avrebbe razionalizzato anche le banche. Questa tesi, che non sposta di un millimetro l’importanza della sua critica al capitalismo, è un errore di previsione e, forse, anche di profondità storica. In realtà, infatti, furono le banche a impossessarsi del terreno produttivo, iniettando il caos del potere finanziario dentro la dimensione produttiva. Cosa che oggi è sotto gli occhi di tutti.

Passiamo a Hilferding, un quadro socialdemocratico sicuramente da conteggiare tra i grandi classici. Leggendolo in tedesco per inserirmi meglio nei meandri del suo modo di ragionare, mi sono accorto che il problema di Hilferding (così come di Lenin) è che ritornano due importanti storture nella lettura della dinamica tra capitale finanziario e capitale produttivo. Hilferding è assolutamente bancocentrico. Per Hilferding il capitale finanziario è controllato dalle banche e anche oggi, nelle teorie del capitale monopolistico che arrivano fino a noi, c’è sempre questa visione delle banche come organismo ordinatore. Ora, se ci stiamo a recitare il rosario delle crisi bancarie degli ultimi dieci anni, finiamo a settembre. L’ordine bancario e l’ordine finanziario non sono altro che una convenzione teorica, che nella realtà non esiste.

L’ultimo classico, Lenin, scrive nel momento in cui si trova davanti al problema, teorico e politico insieme, della censura. Lenin in quel momento può studiare solo su un campione molto ristretto di fonti; guarda caso, Lenin e le sue fonti parlano solo del potere concentrazionario della Deutsche Bank all’inizio del XX secolo. In realtà, se Lenin avesse avuto l’opportunità di studiare il caos finanziario dell’Ottocento americano, che già dominava il mondo, avrebbe avuto uno sguardo molto, molto meno dipendente da Hilferding e dalle sue concezioni del potere bancario.

Questo per dire cosa? Che stando così le cose, per rimettere su binari più proficui le nostre ricerche su cos’è, oggi, la guerra finanziaria – e quindi sui suoi legami con la guerra sul campo, con lo sviluppo tecnologico e con la politica istituzionale – dobbiamo sgomberare il campo di ciò che, nei testi della nostra tradizione, agirebbero alla stregua di luoghi comuni, come convinzioni ingiustificate affermate a priori e dunque come ostacoli all’interpretazione oggettiva. Dopotutto, come diceva un mio vecchio compagno, i classici non hanno la barba del Profeta.

Ancora meno in soccorso ci viene la pubblicistica liberale e mainstream, orbitante in una maniera più o meno consapevole intorno alle teorie dell’equilibrio economico generale. Spesso infatti, anche in autori molto sofisticati, le crisi finanziarie vengono viste come crisi di efficienza, o addirittura qualcosa mosso – l’ho letto in testi di alcuni premi Nobel – da quella che viene chiamata “l’avidità umana”. Ma voi pensate veramente che una categoria così banale spieghi quello che accade in borsa? In realtà le crisi finanziarie sono determinate da una logica conflittuale che non guarda assolutamente in faccia a nessuno, e tende a produrre profitti, nuove occasioni di valore semplicemente o gonfiando all’inverosimile gli indici, oppure deprimendoli quando si fanno le scommesse a ribasso. Questa dinamica caotica ha un rapporto profondo con la guerra. Capirete che è un po’ più complesso della semplice visione primonovecentesca dell’omino con la tuba che finanzia la guerra.

 

Guerra finanziaria

Allora, noi che cosa sappiamo della guerra finanziaria? Cosa ci dice la letteratura più interessante dedicata all’antropologia di Wall Street e ai comportamenti dei gruppi sociali attivi nella borsa? È presto detto. La dimensione della borsa è una dimensione d’anarchia, di indipendenza dal potere centrale, di tribalismo legato alle aggregazioni spontanee che si formano per estrarre moneta dai conflitti finanziari. Infatti l’autore che, a mio avviso, spiega meglio questo genere di comportamenti è un anarchico, Pierre Clastres. L’idea che mi sono fatto confrontandomi con questi studi è che gli aggregati finanziari, che io definisco neotribali, si riproducono socialmente grazie al conflitto (in questo caso, il conflitto finanziario) e grazie – attenzione – a una profonda indipendenza da ogni potere centrale, ivi compreso il potere di regolazione della borsa. Questo genera una dinamica caotica all’interno dei mercati finanziari, e una dinamica parimenti caotica nei rapporti tra finanza, economia e società.

Prima di procedere, è opportuno avere ben chiaro un altro importante tassello della nostra riflessione. Innanzitutto, se osserviamo la nuova dinamica della guerra, cioè quella che si è aperta a partire dagli anni Novanta, dobbiamo riconoscere che anche la guerra è cambiata. La guerra finanziaria è tornata a esplodere, dopo l’Ottocento, con una furia sempre più sofisticata e devastante poiché gode di una potenza tecnologica imparagonabile rispetto al passato. Se la finanza, per più di un secolo, si è retta su uno strumento molto fragile (e che pure connetteva il mondo) come il telegrafo, con l’accelerazione tecnologica inaugurata dall’informatica aumentano le capacità delle guerre finanziarie di estendersi sulla società e si inaspriscono in intensità le loro capacità di devastazione. Ciononostante, l’elemento dirimente rimane l’incrocio con la guerra guerreggiata, con la guerra sul campo.

La guerra sul campo degli anni Novanta è molto diversa rispetto al modello della battaglia campale, agli scontri di milioni di persone contro milioni di persone. Yugoslavia, la prima guerra del Golfo, poi l’Afghanistan, l’Iraq di nuovo, infine la Siria… Queste vicende testimoniano con crudele inflessibilità che il conflitto sul terreno è sempre meno l’unico fattore a risolvere, stabilmente e non temporaneamente, gli esiti di una guerra. Assomigliano molto di più a quelle guerre premoderne che avevano una certa abitudine a durare: se guardiamo al conflitto tra Israele e Palestina, siamo vicino a una nuova guerra dei cent’anni. Inoltre, il terreno di scontro si estende agli ambiti, a prima vista, di pace. I più acuti osservatori di questa trasformazione della guerra, della sostituzione del momento decisivo con una conflittualità che tende a diventare permanente, sono gli ex colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui in testi di strategia militare fondamentali come Guerra senza limiti e L’arco dell’impero. Sono risorse preziosissime, a cui un militante comunista dovrebbe prestare parecchia attenzione se vuole cogliere le trasformazioni del conflitto sociale e del political warfare.

Nel momento in cui il conflitto sul campo è sempre meno decisivo per risolvere gli esiti di una guerra, allora tutti i fatti della vita umana vengono bellicizzati. Guai a sottovalutare questo punto. La guerra, dunque, è cambiata e i conflitti sul campo sono sempre meno decisivi per vincere; e però, le guerre si fanno, e le guerre si devono vincere.

Di pari passo è cambiata la guerra finanziaria. Grazie all’estensione tecnologica, ogni fatto della vita umana diviene sempre di più uno strumento di guerra. Le pensioni – delle quali in Italia abbiamo ancora un’idea meno liberista che altrove, perché non ci sono riusciti a cambiarle, ma solo a soffocarle – sono uno straordinario elemento di guerra finanziaria. Sono un esempio paradigmatico gli Stati Uniti, il Giappone e i fondi finanziari tedeschi: qui si dispiega al massimo grado la capacità di attirare capitale da chi deve costruirsi una rendita pensionistica, per poi predare valore speculando sui mercati. La pensione, che finora la riflessione accademica ha interpretato come l’istituzionalizzazione di un dispositivo biopolitico, diventa un momento della guerra finanziaria. Quindi, riassumendo, assistiamo a un’estensione della guerra finanziaria e della guerra sul campo ben oltre i terreni dai quali erano originate.

 

Guerra ibrida

A questo punto, vi anticipo due domande che sicuramente mi farete. Se questa è la guerra, come si risolve? La risposta teorica a un problema aperto dai nostri colonnelli cinesi è una risposta russa. Il concetto di guerra ibrida, che ogni tanto ritorna evocato come uno spettro, è in realtà una elaborazione teorica di alcuni generali dell’ex Armata Rossa e che si condensò in quella che passò alla storia come dottrina Gerasimov. Secondo questa prospettiva, in un contesto di guerra ibrida (o, per usare il lessico russo, di guerra non-lineare) il vantaggio sul nemico si ha qualora si riesca a sincronizzare meglio di lui tutti gli elementi, sul campo e fuori dal campo, presenti in un conflitto. Quindi, oltre alla logistica – la cui rilevanza ormai l’hanno imparata anche i bambini – diviene una questione di vita o di morte sincronizzare la guerra finanziaria, la guerra economica, la guerra commerciale, la guerra di comunicazione e propaganda, la capacità di abbattere le materie prime del nemico, di togliergli i flussi di finanziamento, e di influire anche sullo spostamento delle popolazioni.

E gli americani? Ebbene, un anno dopo la traduzione in inglese del testo canonico del 2005 sulla guerra ibrida formulata dai russi, gli americani hanno cominciato a clonare teorie e tecnologie legate a questo campo. Come sapete meglio di me, a questo punto, se guardiamo al conflitto russo-ucraino, siamo di fronte a due concezioni differenti della guerra ibrida: una basata sul proxy, cioè l’Ucraina, e quella dello Stato maggiore russo, che tende a applicare le strategie apprese sul campo poi a partire dalla Siria.

 

La tecnologia

A questo punto, diventa naturale chiedersi quale sia il ruolo della tecnologia nell’ibridazione tra guerra finanziaria e guerra sul campo. Il ruolo della tecnologia è fondamentale, poiché ha formato quello che nel testo chiamo uno “spazio non naturale”, ovvero uno spazio di coabitazione, di sinergia tra tattiche della guerra e tattiche finanziarie che diventava uno spazio di potere e di coercizione ben più ampio della dimensione stessa del politico.

Facciamo un passo indietro. Se noi recuperiamo i capisaldi del realismo politico, Weber e Schmitt, dobbiamo operare dei corposi aggiustamenti alle loro teorie – forse persino più ingenti rispetto a quelli alle tesi sull’imperialismo della tradizione marxista. Intanto, il capitalismo finanziario è qualcosa di radicalmente diverso da quello che pensava Weber, convinto com’era che l’accumulazione capitalistica fosse sostanzialmente prodotta da ceti ascetici dedicati solo ed esclusivamente alla razionalità economica dell’accumulazione del denaro: in realtà, la finanza ci mostra esattamente il contrario, per non parlare poi dei comportamenti degli attori in borsa (che non sono certo dei campioni di austerità). Passando all’altro lato della medaglia, ovvero al Politico, dobbiamo distinguere le diverse visioni della politica che ha Schmitt. Perlomeno a partire dagli anni Trenta, come è noto, Schmitt inizia a parlare della politica dei “grandi spazi”, e cerca quindi di superare una concezione della politica incentrata sullo Stato-Nazione; gli sfuggirà il fatto che le tecnologie che si svilupperanno in seguito, dopo la sua morte, sono arrivate a formare uno spazio, appunto, non naturale. Uno spazio più potente, dal punto di vista del politico, dello stesso Großraum, cioè del “grande spazio” e della politica marittima internazionale. Ed è precisamente questo il punto sul quale noi ora ci collochiamo per osservare il potere: lo spazio non naturale.

In un contesto così marcatamente contrassegnato dall’influenza dell’evoluzione tecnologica, è da capire che cosa sia la politica nel momento in cui si costituiscono grandi spazi tecnologici che condensano potere di forme diverse (il potere della finanza, il potere della guerra, il potere della comunicazione, eccetera).

 

La politica

Che cos’è, oggi, la politica? Von Clausewitz, senza saperlo, riprende il ruolo che nel lontanissimo passato aveva avuto Sun Tzu, cioè quello di essere al contempo un filosofo e un teorico della guerra. Nella sua trattazione sulla natura della politica, come è noto, fa questa affermazione: «La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi». Poi però dice qualcosa di più. Dice: «La guerra non è solo un atto politico, ma un vero e proprio strumento della politica». Von Clausewitz è consapevole che nell’epoca moderna il fenomeno della guerra è saldamente in mano alla politica e allo Stato sovrano. Ma noi siamo sicuri che oggi sia ancora così?

In realtà, a mio avviso, le cose sono cambiate. La politica, nel quadro che vi ho fatto, è la continuazione della guerra ibrida con altri mezzi. Il rapporto tra guerra e politica è completamente rovesciato.

Quando alla politica sfugge di mano la guerra (cosa che sia prima che durante la modernità, era probabilmente all’ordine del giorno), è la dimensione neoliberistica del caos, cioè il caos funzionale all’estrazione di profitto, che riesce a farsi presente, pressante e dominante rispetto alla forza della politica, ivi compresa la forza del Politico sovrano borghese. Ma anche le altre dimensioni coinvolte nella guerra ibrida – la gestione energetica, le materie prime, la stessa comunicazione, eccetera – tracimano continuamente dal controllo politico. Anzi, è la politica a diventare strumentale, ad essere sussunta dalle dinamiche caotiche della guerra ibrida. E sta precisamente qui questa la radice dell’importanza che ha per noi la corretta comprensione dei fenomeni finanziari.

 

La scienza

Voi mi chiederete: ma quindi, qual è la principale forza produttiva in tutto questo? Ora, converrete con me nel non concedere alcun credito, in questo genere di analisi, a dinamiche antropomorfiche. Come credo anche voi, io non penso che la guerra sia un fenomeno di “impazzimento” del potere o della società. Non ho alcuna idea meccanicistica della guerra, né penso che sia questione di odio e ideologie. Sono tutte cazzate. Ma la domanda resta valida: quali sono, in ultima istanza, gli elementi forti della produzione di guerra nel nostro mondo?

Per come la vedo io, se vogliamo cogliere la dinamica che spiega il continuo susseguirsi di guerre sulla superficie della nostra globalizzazione, noi dobbiamo dimenticarci il fattore umano, e andare a un nodo del potere, oltretutto innestato nella finanza, del mondo di oggi: la scienza contemporanea e le sue modalità di riproduzione. Quello che un tempo si chiamava scienza postmoderna, oggi è evoluta. Nella scienza contemporanea riscontriamo due caratteristiche che, tanto per capirsi, assomigliano molto sia ai fattori produttivi dell’economia e ai fattori distruttivi della guerra.

La prima caratteristica della scienza contemporanea è quella di riproduzioni per brainstorming, attraverso elementi di rottura e di innovazione che tendono a impattare violentemente sul campo. Ciò vale per il marketing come per la produzione di strumenti di guerra. Il secondo aspetto della scienza contemporanea è la capacità di riprodursi affermandosi sul campo a prescindere da diritto e legittimazione. Oggi le armi si fanno, il diritto viene dopo, non so se mi spiego. Per esempio, il grande problema della regolazione etica degli algoritmi bellici può sembrare un tema per nerd o periferico, ma in realtà riassume il cuore tecnologico della guerra contemporanea, trattandosi niente meno che delle esigenze di regolazione di dispositivi che finiscono puntualmente per sfuggire al regolatore. È una caratteristica tipica della scienza postmoderna, che si è riprodotta a prescindere dal diritto e che poi è finita per impattare sulla produzione e sulla guerra. L’ultima caratteristica che è tipica della scienza contemporanea è il fatto di riprodursi attraverso processi di accelerazione.

Tutte queste caratteristiche della scienza moderna – innovazione impietosa, autonomia da diritto e regolazione, riproduzione tramite accelerazione – le ritroviamo nell’economia e nella guerra contemporanea. Ai fattori ideologici ci pensa semmai chi ha voglia di farsi un bel dottorato in mediazione dei conflitti; chi si occupa di politica, no.

Per quanto io non nasconda il mio affetto per Toni Negri, capirete che quello di cui abbiamo parlato è una dimensione di caos e di accelerazione delle dinamiche economiche un po’ diversa dall’Impero, che invece veniva sostanzialmente concepito come un nuovo ordine in procinto di stabilirsi sul mondo.

Insomma, cosa ci serve definire le dinamiche della guerra finanziaria, tratteggiarne il rapporto che intrattiene con la tecnologia e la guerra sul campo, e infine sviscerare l’origine della subordinazione della politica in questa congiuntura? Da qui occorre partire per individuare quali possano essere le direzioni lungo le quali una politica radicale, coraggiosamente estrema (delle altre ci interessa poco), deve saper innovare per uscire da questa gabbia.

 

Ucraina e Gaza

A mio avviso riusciamo a capire la connessione tra guerra finanziaria e guerra sul campo attraverso due scenari differenti. Il primo è il terreno russo-ucraino, il secondo palestinese-israeliano.

Che rapporto c’è tra guerra finanziaria e guerra sul campo in Ucraina?

Nel 2008 esplode la crisi di Lehman Brothers, ed esplode anche l’Ucraina. Almeno metà della ricchezza viene spazzata via, e si creano dinamiche di separazione dello Stato ucraino per cui una parte degli ucraini guarda all’Est e una parte guarda all’Ovest. L’Ucraina è un epifenomeno, un effetto collaterale di Lehman Brothers. Ci sono effetti collaterali della guerra finanziaria che possono scatenarsi anche a distanza di quindici anni, che alla generazione successiva arrivano come guerra sul campo. È una dimensione storica che dobbiamo riconoscere. Poi però, quando scoppiano le guerre, i due elementi, quello della guerra finanziaria e della guerra sul campo, finiscono per toccarsi e fondersi. Noi sappiamo benissimo che questa guerra è scoppiata nel 2014. In quel momento di fatto c’è stata, da una parte, una secessione dall’Ucraina delle due repubbliche di Donetsk e Lugansk, dall’altra l’attacco alla borsa di Mosca da parte di speculatori finanziari legati allo Stato federale americano, e a seguire da uno sciame di speculatori privati che semplicemente volevano razziare come piraña attraverso questa dimensione.

Quindi c’è un processo a fisarmonica tra guerra finanziaria e guerra sul campo: i due piani tendono a unificarsi e a separarsi.

Gli effetti collaterali sono figli del caos, ed entrano in sincronia nel momento in cui le crisi si fanno sempre più devastanti. Guardiamo alle primavere arabe del 2011. Rivolte provocate anche da un effetto collaterale del quantitative easing americano, che innescò un rialzo dei costi delle materie prime alimentari che alimentò le rivolte nel Nord Africa e in Medio Oriente.

Ora, che cos’è lo Stato israeliano? Il punto è proprio questo. Lo Stato israeliano è un formidabile complesso militare-industriale che gode di un continuo processo di finanziamento da parte di entità finanziarie israelo-americane. Questo complesso militare-industriale ha nutrito una dimensione tecnologico-bellica che è di primissimo livello. A pensare in modo consapevole la guerra ibrida non sono stati solamente i russi, ma con grande intelligenza, va detto, anche gli israeliani.

Lo Stato di Israele ha portato al suo acme la guerra ibrida, sia per la capacità tecnologica (uso dell’intelligenza artificiale nelle azioni di bombardamento da parte dell’Idf), sia con l’asset della comunicazione (sappiamo benissimo che buona parte della comunicazione istituzionale occidentale è assolutamente subordinata alle esigenze di Tel Aviv) sia attraverso quell’elemento ibrido che è la politica della popolazione: sul campo, l’espulsione dei palestinesi da Gaza e dai loro territori è un elemento della guerra ibrida di grande forza. C’è uno strapotere immenso da questo punto di vista.

 

Caos e ordine

Un’idea di ordine non appartiene al complesso finanziario statunitense. Dove c’è la moneta – e in particolare il dollaro – c’è il caos. Però, qui, dobbiamo capire dove sta l’ordine e dove sta il caos. Il mondo finanziario è una dinamica di scambio di beni e di servizi, di moneta e derivati, che contiene, oltre a questa dinamica di scambio, anche la guerra finanziaria. Il problema del capitalismo finanziario è produrre valore nel momento in cui è difficile produrlo, quindi produrre valore tramite il caos rimandando sempre tuttavia a una dimensione di ordine. E qui, per intenderci, entra in gioco la dimensione della complessità.

La complessità è una dimensione intrecciata di livelli incredibili di caos e livelli rigidi di ordine. Se noi andiamo a vedere gli ultimi cinquant’anni vediamo come gli Stati Uniti per risolvere i loro problemi hanno immesso immancabilmente caos nel sistema. Questa emissione di caos nel sistema ha epicentro il 15 agosto 1971, cioè lo sganciamento del dollaro dall’oro da parte di Nixon. Gli Stati Uniti davano inizio a un ciclo di accumulazione di valore finanziario che è arrivato fino a noi. Però l’esigenza dei sistemi economici e politici non è solo quella dello scatenare il caos nei momenti in cui è necessario; c’è sempre, in un approccio complesso, anche il problema della produzione di ordine.

Cos’è che negli Stati Uniti produce ordine? La Banca centrale? Fino a un certo punto. In realtà il vero elemento di ordine americano è il dollaro: ovvero la capacità di far comprare dollari di debito americano dal resto del mondo. Quindi, se i mercati finanziari si possono permettere il caos, di accumulare ricchezza tramite il caos, è perché vi è una dimensione di ordine, che è la dimensione del dollaro. Stiamo attenti che la fine di questa dimensione non è così vicina come magari qualche compagno preconizza. La differenza degli interscambi in dollari rispetto a quelli con altre monete è la stessa che c’è tra Malta e il Canada, due dimensioni assolutamente incomparabili.

 

Complessità e rottura

Chi volesse muovere critica al dominio del presente attraverso la ricerca e la pratica di elementi di rottura, dovrebbe saper cavalcare il caos e rompere gli elementi di ordine della complessità capitalistica. Il capitalismo non è l’ordine, il capitalismo è la complessità, questo continuo intreccio di ordine e di caos con la capacità di attraversare epoche profondamente diverse. Il problema è rompere questa complessità. È evidente che una teoria di rottura radicale deve capire come appunto è cambiata la guerra e soprattutto come è cambiata la politica. Se la guerra oggi è la continuazione della guerra ibrida con altri mezzi, è evidente che si tratta di comprendere quali sono le dimensioni della guerra ibrida nel momento in cui si fa politica dal basso.

 

Appendice dell’autore

– Primo. Dobbiamo innanzitutto capire che questa è una società profondamente invecchiata. Cioè, la curva demografica non può essere ignorata. Noi non potremo avere masse di studenti, militanti, come negli anni Settanta.

– Secondo aspetto, le classi subalterne non sono lontane da processi di radicalizzazione, però sono lontane dalla lingua che fa la politica oggi. Nel mondo di oggi conta molto di più un linguaggio che ha due caratteristiche, apparentemente inconciliabili: l’emotività e l’estrema concretezza. Noi abbiamo proletari che giocano attraverso app fintech del proprio smartphone una parte dei loro redditi (in borsa, in criptovalute, in scommesse) perché hanno bisogno di reddito e quindi sono abituati a ragionare per istinto e per calcolo. Il linguaggio della politica, così come lo conosciamo, ha poco di istintivo, e il calcolo non sa nemmeno dove sta di casa, cioè ripete una serie di temi culturali. Però la politica è un’altra cosa.

– Terzo, oggi non è possibile una politica che non sia leninista, non è possibile una politica che non abbia in sé l’elemento professionale. Cioè, senza il professionismo militante della politica voi oggi la politica non la fate. Fate una stagione di movimenti, gloriosa, la piazza, insomma, tutto quello che conosciamo, però poi finisce lì, venti giorni, un mese, un anno, due anni, poi alla fine si esaurisce.

–  Quarto, una dimensione professionale che sia tecnologica. Ogni proletario ha i propri device e se non siamo in grado di comunicare con i device del proletario probabilmente è meglio darsi allo sport, che è anche un po’ più gratificante. Quindi le classi subalterne vanno sapute intercettare con una capacità, un linguaggio molto istintivo e molto compresso, che guardi più all’onirico.

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Correre per la rivoluzione. Pugni, sport e militanza nera – recensione

Due pugni neri, guantati di pelle, alzati al cielo in segno di unità, sfida e ribellione, dal primo e dal terzo gradino del podio. I piedi scalzi, a simboleggiare la schiavitù, e il capo chino durante l’inno degli Stati Uniti d’America, contro il razzismo strutturale del proprio Paese, per cui avevano vinto la medaglia d’oro (con annesso record mondiale) e quella di bronzo nei 200 metri. 

È il 16 ottobre 1968. Nella manifestazione sportiva mondiale per eccellenza, le Olimpiadi, irrompe la lotta del proletariato nero americano, infrangendo l’ipocrisia del potere della “più grande democrazia del mondo”. L’ipocrisia che li celebra come cittadini e campioni a stelle e strisce sulla pista da corsa, ma che li vuole vedere strisciare – segregati, discriminati e sfruttati – come animali nella vita di tutti i giorni, sulle strade, nelle metropoli e nei quartieri d’America. 

Nessuno, nemmeno Tommie Smith e John Carlos, protagonisti sportivi dell’Olimpiade di Città del Messico 1968, avrebbe pensato che quel gesto, maturato sulle cicatrici procurate dalla società americana, ma soprattutto sull’onda potente delle mobilitazioni nere (e non solo), avrebbe cambiato la vita dei due atleti, e il modo di vedere le cose – e conseguentemente agire – di molti in tutto il mondo. Un gesto che, immortalato in un’immagine iconica tra le più celebri e impattanti del XX secolo, rimane ancora un simbolo di forza delle lotte contro il razzismo, oggi più che mai attuale. È intorno a questo gesto che leggiamo il libro di John Carlos Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo, che inaugura la nuova collana di DeriveApprodi hic sunt leones, curata da Anna Curcio e Miguel Mellino, nella quale si mira a esplorare la genealogia e la cogente attualità del razzismo nel presente. Un testo importante ma soprattutto bello da leggere, pubblicato nel mercato anglofono nel 2011, meritoriamente portato oggi in Italia.

Se durante l’infanzia di John Carlos – nato nel Bronx e cresciuto ad Harlem – il razzismo, la discriminazione della propria famiglia e della propria gente erano solo un’indefinita sensazione, crescendo ne viene e completamente e consapevolmente investito. Le difficoltà legate alla vita quotidiana – a partire dalla rinuncia alla sua passione per il nuoto, perché le piscine per bianchi non potevano essere condivise con i “negri” – cominceranno a far crescere dentro di lui l’imperativo di lottare. Insieme ai suoi amici, per esempio, contribuisce a “redistribuire” i viveri e le derrate presenti nei vagoni merci della vicina ferrovia all’intero quartiere, sulle orme di un Robin Hood del ghetto, sperimentando l’antagonismo materialisticamente fondato contro la polizia. John comincia in questo frangente a correre, e se corre! L’incontro con Malcom X e Martin Luther King, rappresentanti e portavoce delle diverse anime delle lotte dei neri, imprimerà una svolta decisiva alla propria coscienza, momento di accelerazione e approfondimento della formazione soggettiva del militante. Ma sarà la vita, nel suo allenamento continuo, a forgiarlo e a permettergli, una volta entrato in università grazie alle sue prestazioni nella corsa, di affrontare a testa alta il razzismo di quel mondo, dove il “negro veloce” è un semplice asset su cui investire per ottenere risorse e prestigio.

L’esperienza all’università del Texas, scelta ponderata quanto dura, che lo spingerà comunque a tornare poco dopo ad Harlem, lo porterà ad appoggiare l’Olympic Project for Human Rights (OPHR), fondata dal sociologo nero Harry Edwards con l’obiettivo di boicottare le Olimpiadi del 1968 in Messico. I dubbi di molti atleti di colore, che decisero di non vanificare gli sforzi fatti per arrivare alla competizione, le forti pressioni della Federazione e soprattutto l’omicidio di Martin Luther King faranno saltare il progetto – ma non l’idea di un gesto, forte e di rottura, nel cuore della manifestazione. Nell’aria, infatti, si presentiva che qualcosa sarebbe successo: d’altronde, la potenza e la radicalità espresse dal movimento valicavano singoli iniziative o biografie individuali. Sulla scia del contrasto al boicottaggio la federazione sportiva Usa arriverà perfino a mobilitare, tentando così di smorzare qualsiasi gesto politico rivoluzionario da parte degli atleti di colore, un simbolo democratico e progressista indiscusso come Jesse Owens, l’eroe afroamericano di Berlino ‘36 che aveva sfidato Hitler. 

Ma la forza della lotta, quando veramente collettiva e sostenuta da soggettività reali, riesce a travalicare ogni tentativo di recupero in chiave riformista. E i militanti si mettono al suo servizio. Nella testa di John Carlos, infatti, il programma della celebrazione era già scritto: usare i 200 metri piani per arrivare sul podio insieme a Tommie Smith. La priorità assoluta era conquistare la posizione di maggior risalto per la causa, laddove essa potesse sprigionare tutta la propria forza simbolica, arrivare ovunque e a chiunque, fare più male. Il colore della medaglia, la prospettiva di carriera, i desideri personali passano  sullo sfondo –  o meglio,  storia individuale e collettiva diventano tutt’uno.

Come prevedibile la gara non avrebbe avuto storia, podio doveva essere e podio fu, insieme a Peter Norman medaglia d’argento, che pure sosterrà, da bianco, il significato del gesto di John e Tommie, pagandone le spese in prima persona al ritorno in Australia. Le immagini iconiche dei pugni proietteranno Carlos e Smith nella storia del Novecento e in quella più generale dello sport, rendendo senza tempo questo istante. Perché in quel gesto emerge il conflitto che muove il mondo, una dimensione della storia che prescinde da Carlos e da Smith, che si ricollega alle generazioni di insorti precedenti alla loro e che si apre alle rivolte che verranno.

Il gesto di Tommie Smith e John Carlos  non avrebbe avuto lo stesso significato e la stessa forza senza il movimento generale di rottura alla base del ciclo di lotte che lo ha espresso, di cui esso è un riflesso, espressione simbolica ma al contempo materiale della rivoluzione in atto, capace di non risparmiare anche lo sport. Siamo nel 1968, all’apice della contestazione internazionale che, in forme diverse, ha visto per un decennio (il “lungo Sessantotto”) il dispiegarsi del conflitto sociale e politico a tutti i livelli, dalle fabbriche alle università, dai ghetti alle piazze (proprio pochi giorni prima delle Olimpiadi, in piazza delle Tre Culture a Città del Messico, veniva compiuta una strage di studenti e manifestanti da parte dei militari), dalle periferie del mondo in via di decolonizzazione all’interno delle case, nelle relazioni tra uomini e donne.

Straordinarie tensioni stavano percorrendo gli stessi Stati Uniti, dove l’opposizione alla guerra in Vietnam si univa all’emergere in tutta la sua radicalità della “questione nera”, in cui razza e classe si fondevano in un’effervescenza delle lotte e dell’inventiva militante con pochi precedenti. La metropoli imperialista sperimentava la rivolta della proprio colonia interna, le potenzialità di rottura del proletariato nero di cui John Carlos fa parte catalizzavano l’intero arco dell’insubordinazione sociale. Dal Black Panther Party e dal black power alle proteste nonviolente ispirate dai precetti del reverendo King e di Marcus Garvey, ciò che questa eccezionale congiuntura – entro cui si snoda la vicenda raccontata nel libro – ci consegna è la travolgente potenza della conflittualità autonoma che vive nel processo di ricomposizione di classe, capace di scardinare e rivoluzionare ruoli, identità, forme e destini prefissati. La scelta della militanza innerva questo processo e lo sostiene. Anche nello sport: «Che si tratti di una mensa scolastica o del podio olimpico, bisogna organizzarsi dove si è situati». Le scelte che fecero John Carlos e Tommie Smith nel 1968 non sono state facili e non lo saranno mai, perché scegliere di lottare, di essere un militante, va a mettere in discussione e rompere le certezze con le quali la società ci ha formato e ci forma. Ma sono l’unica pista da percorrere per essere uomini e donne liberi.

Tuttavia, come prescrivono le leggi della termodinamica politica, a ogni azione corrisponde una reazione, soprattutto se quell’azione minaccia di conquistare profondità e consenso. Ciò che più colpisce della biografia di Carlos è la banale, squallida simmetria con cui il potere risponde all’offensiva dei subalterni. John e Tommie si vedranno espulsi dal mondo dello sport, dunque strappati da quello stesso terreno in cui avevano portato il conflitto, rompendone la neutralità e la pace sociale. Al ritorno in patria, Carlos sopravviverà tra disoccupazione e precarietà, con quotidiani pedinamenti e persecuzioni da parte dell’FBI: la forza e la scommessa di quel movimento di rottura era stata appunto eleggere a luogo dello scontro il proprio quotidiano, da sovvertire. Osservata con uno sguardo di parte, la macchina mediatica del fango che, sciorinando notizie false sul suo conto, andrà a distruggere la sua famiglia riuscì nel suo obiettivo di separare il gesto delle Olimpiadi di Città del Messico alla vicenda di un movimento e di una classe, a individualizzare e ad atomizzare la storia di due uomini che invece trae tutta la sua potenza dalla sua natura collettiva. 

Nonostante il cinico accanimento degli apparati repressivi, non sono mai venuti meno né solidarietà e riconoscimento da parte della sua comunità (un esempio tra i tanti può essere la decisione da parte degli studenti della San Jose State University di erigere una statua del podio del 1968, alla cui inaugurazione John partecipò insieme al compagno di corse Tommie Smith), né la partecipazione di Carlos ai successivi ciclo di mobilitazioni e conflitto sociale. Tornerà a sollevare il pugno ancora una volta a Zuccotti Park durante l’esplosione di Occupy Wall Street, ricordando ancora una volta che la lotta non è una questione di eroismo o di icone, ma del militante anonimo che apre a pugni il domani insieme alla sua classe: «We’re here forty-three years later because there’s a fight still to be won. This day is not for us but for our children to come» (“Siamo ancora qui quarantatré anni dopo perché rimane ancora una sfida da vincere. Questo giorno non è per noi, ma per i nostri figli che ancora non sono nati”). Inoltre, il gesto di Carlos e Smith continuerà a ispirare nello sport la scelta di atleti di colore (e non solo) di non voltarsi dall’altra parte di fronte al razzismo, come durante il ciclo di mobilitazione antirazzista più recente di Black Lives Matter ha dimostrato, a partire dalla scelta di Colin Kaepernik, giocatore di football americano, di inginocchiarsi nel 2016 durante l’inno nazionale, in aperto sostegno al movimento. Gesto che, come i suoi predecessori del 1968, pagherà a caro prezzo in termini di carriera.

A oltre cinquant’anni dal gesto di Tommie Smith e John Carlos, le linee di classe e quelle del colore continuano ad essere annodate a doppio filo non solo negli Stati Uniti, dove non è mai venuta meno – nonostante la presidenza nera di Barack Obama e la demenziale ripulitura woke del dibattito pubblico sulla questione – la centralità del razzismo nell’organizzazione capitalistica della società. Lo sappiamo bene anche noi in Italia, e nello specifico a Modena, entrambe teatro di numerose violenze poliziesche indiscriminate ai danni della popolazione immigrata e delle nuove generazioni non bianche, specialmente quando in lotta nei reparti delle fabbriche, ai cancelli dei magazzini, sulle strade in solidarietà alla Palestina. Le discriminazioni e violenze strutturali, la cui espressione più grezza sono la profilazione, gli abusi e gli omicidi compiuti dalla polizia sulla popolazione razzializzata, alimentano le cicliche insurrezioni dei ghetti e delle periferie nere americane, catalizzando – in una direzione tutta da determinare – anche la rabbia di un nuovo proletariato bianco ugualmente considerato “spazzatura” da chi comanda. 

Quella che all’epoca di John Carlos sembrava una pura e semplice particolarità nordamericana – la presenza di una “colonia interna”, un “terzo mondo” sedimentato in una società a capitalismo avanzato – oggi, nell’era del capitalismo globale, più che a un’eccezione sembra rimandare a un elemento normativo e ordinativo delle metropoli globalizzate, messo sempre più in tensione dalla tendenza accelerata alla guerra. A ben vedere, la storia dei militanti neri e in generale del movimento black più che una storia del passato da archiviare tra gli scaffali di un’ipotetica archeologia novecentesca sembra essere l’incipit di una storia del presente.

 

 

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Discorsoni / Analisi

Verso tempi di chiarificazione

0. Impercettibili sfrigolii nell’aria di elettricità statica. Vibrazioni di energia cinetica che rompono l’immobilità ristagnante. Attività elettrica che ionizza l’atmosfera, creando le condizioni per scaricarsi a terra.

Si sta muovendo qualcosa. I cani fiutano il temporale.

1. È la guerra. Non le guerre: d’Ucraina, di Palestina. La guerra, unica e indivisibile: operazione di senso non scontata. Sono i fronti di un unico conflitto, che ci vede già coinvolti, questa volta da vicino, questa volta non senza conseguenze. Non è il Kosovo, l’Afghanistan, l’Iraq: sono l’Europa, il Mediterraneo – trincee più avanzate degli Stati Uniti. L’Italia al centro di entrambi: pedina dell’impero americano, legata industrialmente alla Germania, dipendente dalle rotte medioceaniche. In un conflitto ibrido che si combatte su più livelli, la cui posta in gioco sono i nuovi equilibri del sistema-mondo.

2. Come retrovie, siamo già in guerra. Prima ce ne rendiamo conto meglio sarà. Loro, quelli che decidono e comandano, lo sanno. È la guerra dei nostri tempi, che scuote, rimescola, mobilita tutto: processi di polarizzazione sociale sono già in atto, altri di radicalizzazione politica bussano alle porte, mezze classi e ceti medi – barometri sociali che registrano il cambiamento delle correnti nell’atmosfera – entrano in agitazione: recentemente, in tutto il Vecchio Continente, col trattore in tangenziale.

3. È la guerra dei nostri tempi, non provocata e voluta da noi. Ciò che si è messo in moto sopravanza di varie misure volontà e piani dei suoi attori. Figurarsi chi da tempo è fuori dalla partita. Ma è la nostra: possiamo solo decidere cosa farci, e come starci dentro. Se da agenti militanti, o da spettatori riservisti. Sovvertendone le contraddizioni, organizzando il rifiuto a pagarne il costo, o finire a combatterla, una volta finiti i volenterosi ucraini. All’orizzonte, nessuna pace, ma il suo approfondimento e generalizzazione.

4. È comparsa una scritta davanti a una scuola di Modena. I giovani estensori, forse, volevano indicare lo spirito dei tempi: “Siamo senza futuro”. Le parole sono le stesse del punk, e ci ricordano un certo sentimento diffuso nell’Onda. Ma se allora era la rabbia a muoverle, oggi sembra un grido di disperazione. Quel “No future” era retto da un rifiuto: questo pare retto dall’accettazione. «È una questione di qualità», dice la canzone. Eppure.

5. Una nuova generazione politica si sta affacciando sul palcoscenico delle piazze e delle strade. Al momento usando organizzazioni, forme e parole ereditate da un precedente ciclo, passate non indenni attraverso un decennio di sconfitte.

Qualcosa si sta muovendo. Lo fiutiamo nell’aria, come i cani. L’abbiamo vista negli ultimi anni, prima timidamente, prendere slancio. Non sappiamo in che direzione salterà: se quella marginale dell’accettazione di un ruolo di testimonianza identitaria, o quella del rifiuto della marginalità, per una forza capace di produrre autonomamente parole, forme e organizzazione all’altezza dei tempi. È questa la posta in gioco.

6. Le manganellate della polizia: la ferocia si accanisce su chi non è forte. In questo caso, studenti minorenni, disarmati, infilitasi in un budello a Pisa. Abbiamo visto tutti il ghigno dello Stato che impagnava il manganello. Noi lo conosciamo bene. Ma conosciamo bene anche i suoi occhi, quando la paura cambia di campo. Quando si è forti: come nel luglio ’62, a Piazza Statuto; come nel marzo ’77, a Bologna; come il 14 dicembre ’10 e il 15 ottobre ’11, a Roma. Ricordiamoceli.

7. Questa generazione comincia da ora a fare esperienza del braccio armato dello Stato, e della sua natura. È un fatto positivo, che apre alla possibilità. La possibilità di scegliere: la prossima volta, restare a casa, accontentandosi di odiare gli sbirri; oppure, mettere a valore l’odio, tornando in strada più forti, incazzati e organizzati. Spesso una manganellata ben assestata è più chiarificante di 100 libri di filosofia o 10 corsi di autoformazione. Questa generazione ha la possibilità di rompere la lagna vittimistica del malessere giovanile. Ma soprattutto, di rompere con le soggettività della sconfitta, formatesi nel declino del ciclo precedente.

8. «Dal prenderle al darle. Si può fare. È stato fatto».

Tattica, strategia, abnegazione, forza – cantava in Emilia una band filosovietica.

Aggiungono i militanti: inchiesta, progetto, ricomposizione, organizzazione.

Con una buona dose di coraggio, caschi, cordoni e bastoni – concluderebbe un bandito. E la chiudiamo qui.

9. Andiamo verso tempi di chiarificazione.

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Discorsoni / Analisi

Arrivederci e buon lavoro

0. Chi in questo paese non ha desiderato l’insurrezione è un’anima morta che nulla ha vissuto delle passioni della storia – da un vecchio volantino del Settantasette.

«Davanti al gruppone c’è un quarantenne coi capelli brizzolati con gli occhialetti tondi dorati. Una faccia a metà tra il terrorista russo di fine Ottocento e il dirigente d’azienda». Eccolo.

1. Quando scoppia il Sessantotto, e poi il Sessantanove, ha 35 anni, ma già con dieci di militanza. Quaderni rossi, Classe operaia, il Potere operaio veneto-emiliano. Gli scioperi degli elettromeccanici, il Petrolchimico di Porto Marghera, le fabbriche del Brenta. Assemblee, volantini, picchetti con gli operai – senza Movimento Operaio. La conricerca a Torino, con Alquati. Le discussioni a Roma, con Tronti. L’intervento in Emilia, con Bianchini. A 35 anni, ha un prestigioso posto universitario, una moglie, due bambini. Ce n’era abbastanza da tirare i remi in barca, dedicarsi alla carriera, al focolare, alle opinioni rispettabili. Mettersi alle spalle la fatica della lotta – “il mio, l’ho già dato”. Una vita borghese già apparecchiata.

In queste condizioni, comincia un secondo decennio di militanza. Gli anni Settanta.

2. Come dice un nostro compagno, loro sono (stati) di un’altra categoria. Questo tipo d’uomo e donna gioca un altro campionato. Il compagno, che oggi ha un po’ più di 35 anni, con un po’ più di dieci di militanza, dice che non è solo questione di preparazione intellettuale, ma di capacità di decidere sulla propria forma di vita. Di sicurezza, determinazione, indipendenza dalle relazioni personali. Non sono pochi gli ingredienti giusti che fanno un rivoluzionario.

«È difficile far capire che cosa significhi non solo per operai e studenti di vent’anni, ma per uomini di trenta-trentacinque, fare una vita da militante. Non è solo un totale impegno temporale, un’avventura rischiosa ed entusiasmante: è uno sforzo di trasformazione di sé, razionale e affettivo, teorico e politico». Ce ne saranno altri, di uomini e donne così? Come, oggi, renderlo possibile: ecco la domanda.

3. Crediamo che per un determinato spazio e tempo, negli anni Settanta, lui sia stato come Lenin – o meglio, un Lenin in nuce. Ne abbia espresso la cifra, per quel movimento rivoluzionario, per quella composizione di classe. La profondità strategica, la presenza tattica. La capacità di anticipare la tendenza, vivendo la sovversione. L’attualità della rivoluzione, non tanto dove è più alto il grado di sviluppo capitalistico, ma dove è più forte la soggettività operaia. Il leninismo non è attività da santarelle e deboli di stomaco. E questi momenti non durano in eterno. La finestra si chiude. Infatti sappiamo come è andata. Parabole collettive e individuali, miserie collettive e individuali. Gli strascichi implacabili delle insurrezioni sconfitte. Nuove strade, strade diverse. Che, da dove veniamo, non abbiamo mai percorso. Siamo venuti dopo quel tramonto tinto di rosso, siamo alla ricerca del rosso di una nuova alba. Su questo, su ciò che è stato dopo, non ci dilungheremo. Occorrerebbe ritornare invece sui nodi irrisolti della sconfitta. L’operaio sociale, l’enigma non sciolto dell’organizzazione.

4. Con la furia della ricerca dell’adesso, ci dimentichiamo del tempo necessario a ruminare i vecchi libri che abbiamo letto, spesso dimenticato, ma che sono i più decisivi, ancora potenti. I libri di quando quella finestra era aperta. Ne nominiamo due.

5. Crisi dello Stato-piano. Magia nera operaista. Grimorio di lotte infernali tra scuole di negromanzia per il potere sulle anime dei comunisti. Una lingua oscura, insondabile ai mortali non iniziati al sapere arcano dei Grundrisse, che cela formule e alchimie capaci di invocare spiriti demoniaci della tendenza, dell’organizzazione, della composizione. Pochi possono vantare di aver compreso appieno le mistiche elucubrazioni di questo scritto diabolico e i poteri dimenticati che racchiude il Negrinomicon. Fuor di ironia, è in testi come questi, storicamente determinati dai processi di lotta, immersi nel proprio tempo e nei compiti che esso staglia alle soggettività politiche, che vediamo l’ombra e il metodo di Lenin. «Classe operaia in armi, comunismo in atto».

6. La fabbrica della strategia. Metodo e potenza leniniani, in 33 lezioni, che rivivono nel movimento reale. A ripercorrerne la curva, l’explicit vale ancora oggi. «Tempi terribili ci stanno davanti. L’uso terroristico della crisi da parte del capitale, il trasformarsi repressivo dello Stato, la mutazione definitiva della regola dello sviluppo, la caduta della legge del valore: tutto questo lo vediamo e lo vedremo rivolgersi sempre più pesantemente contro di noi. Dovremo resistere. Riscopriremo che tutte le armi del proletariato vanno leninisticamente utilizzate – soprattutto quelle che una tradizione di sconfitta e di tradimenti più pesantemente ci nega. Detto questo, va tuttavia aggiunto che la definizione marxiana e leninista del nostro compito di distruzione dello Stato per il comunismo non potrà darsi che dentro la consapevolezza di un progetto strategico nuovamente ricomposto – e dentro un conseguente ciclo internazionale di lotte operaie. È vostro compito, di studenti e di operai, di noi tutti che marciamo sotto le bandiere del comunismo, risolvere nella pratica sovversiva il problema dell’insurrezione e della liberazione». E boom.

7. Basta così. Consentiteci di andare chiudere questo discorso sragionato a modo nostro. Quello degli irregolari, degli ingestibili, degli irrecuperabili – a cui servono quel tipo d’uomo e donna di intellettuali e militanti, che a 35 anni cominciano un secondo decennio di militanza, con tutta la gioia della lotta e il desiderio più vero di rivoluzione, proprio perché non lo sono, intellettuali, e ci provano a esserlo, militanti, dentro i propri tempi, irriducibilmente contro di essi. Con le parole di un altro bandito, di un’altra banda, ma della stessa teppa. Sempre dagli anni Settanta.

8. «In via Disciplini c’è un bordello di gente in sbattimento – è la redazione di un giornale che deve ancora uscire – di un periodico “dentro il movimento” – tra mille voci ci hanno portato in una stanzetta piena di libri e di carte – ci hanno fatto sedere – loro sono in sei o sette… un tipo alto e secco sui quarant’anni – un po’ mistico nel suo gesticolare – ha fatto un discorso a vortice – quasi frattalico – più volte interrotto dai compagni lì presenti – e costretto a ripetere i suoi concetti espressi con crescente determinazione – alla fine si è degnato di usare frasi più abbordabili – “Cuccetta [Capanna] – anche se non ha mai brillato per intelligenza – su un punto aveva ragione – per trasformare un movimento politico di pochi soggetti in uno di massa c’è bisogno di un servizio d’ordine abile – di eccellenza – noi abbiamo gli intellettuali – siamo presenti tra gli studenti e gli operai – bisogna agire anche sull’immaginario – per creare l’organizzazione più forte di Milano – e così abbiamo pensato a voi” – quel riferimento a Cuccetta e agli statalini ci è andato di traverso – “Noooh!” gli abbiamo risposto in contemporanea – “Non siamo state le comparse di Cuccetta – non saremo gli attori di qualsivoglia regista – anche se attori protagonisti” – gli ho detto – “Non siamo mercenari di nessuno” – ha aggiunto Jack – poi siamo usciti con un bel “Aaarrivederci e buon lavoro!”»

Un ultimo punto

9. Lavorare con metodo, per andare fino al fondo delle cose. Significa anche assumere la propria storia per intero – le vittorie e le sconfitte, i limiti e le conquiste, le ricchezze e le tragedie – e farci i conti, unica via per saccheggiare gli arsenali di ieri con ancora colpi da sparare sull’oggi. Ragionando sui limiti e le sconfitte, assimilando le ricchezze e le conquiste, farne munizionamento – fino alla vittoria. E allora: arrivederci e buon lavoro della talpa, compagni.

Un’assemblea nazionale di Potere Operaio all’università di Bologna, Zamboni 38, tra la fine del Sessantanove e primi anni Settanta.