Categorie
Kultur / Cultura

Silvano Cacciari – Dollari, algoritmi e trincee da Wall Street a Gaza

La tendenza alla guerra è il grande fatto del nostro tempo. Fatto centrale, direttore d’orchestra, intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano, seguendone il ritmo, suonandone lo spartito. Il carattere del nostro tempo viene definito da questo concerto in movimento, in un processo a cascata frattale che va dalle impercepibili strutture sistemiche alla percezione strutturale del quotidiano, nelle declinazioni assunte nei contesti e nelle realtà in cui siamo collocati.

Sono tempi di guerra. Come sempre, preparati dalla pace che li ha preceduti. Guerra imperialista, pace imperialista. La pace dell’Occidente, in questo caso. Uscito vittorioso dal conflitto mondiale ingaggiato con l’Unione Sovietica dopo la fine del secondo: competizione geopolitica, potenzialmente totale, raffreddata e delimitata dalla minaccia della Bomba e dalla presenza del Politico. Rapporto che ha ordinato il mondo, finché è sussistito. Al suo interno, Occidente trionfante nella guerra di civiltà che ne aveva sconvolto la catena di montaggio sociale: quella tra operai e Capitale. Guerriglia dalle linee alla società la sua forma operaia, il sabotaggio della produzione e della riproduzione della soggettività capitalistica la sua arma. Trasformata la prima in innovazione e la seconda in ristrutturazione, è emersa la nuova partitura del Capitale. La bandiera dei soviet ammainata, in silenzio, sulla Piazza rossa all’inizio degli anni Novanta ha seguito la destrutturazione della fabbrica e della classe nella metropoli lungo i Settanta.

La pax del vincitore l’abbiamo chiamata globalizzazione. Il suo imperium quello americano. Il progresso la sua religione, il suo destino manifesto la democrazia. Sbornia di modernità capitalistica, dei cui postumi abbiamo fatto postmodernità. La storia era finita, tutti a casa. Il caos che divampa sulla polveriera-mondo, oggi, racconta un’altra storia. La temperatura del sistema indica che sono finite semmai le storielle che ci raccontavano, e ci raccontavamo. Washington, minata al suo interno dalle stesse condizioni che ne avevano decretato – brevemente – l’affermazione universale, non può governare, e ordinare, il mondo con le stesse rendite e dividendi di ieri. Figurarsi quando è vecchio, malato, lacerato, depresso. In crisi.

Il mondo è in trasformazione. Krisis. La tempesta sistemica del 2008 non si è risolta. Generatasi nel vortice di contraddizioni al cuore del sistema capitalistico mondiale, gli Usa, è stata soltanto allontanata. Nello spazio e nel tempo. Nel suo percorso lungo i flussi e le correnti dell’economia globalizzata ha lasciato macerie e distruzione dove è passata – Italia 2011. Il suo accumulo di energia non si è fermato. I barometri ne hanno segnalato la permanenza, l’approfondimento, l’estensione, la possibilità di eventi estremi e improvvisi. Il surriscaldamento globale, infatti, non è un fenomeno ascrivibile solamente al clima: coinvolge pienamente anche la dimensione economica, politica, sociale. E quindi militare. Con la pandemia, inaspettata, del 2020 la tempesta ha rimbombato all’orizzonte, vicina. L’atmosfera satura di elettricità, pronta a esplodere. A seguito del 24 febbraio 2022 e del 7 ottobre 2023, la pace che abbiamo chiamato globalizzazione volge definitivamente al termine così come l’abbiamo conosciuta, mentre la partita per determinare il carattere della nuova partitura è appena cominciata.

Sono tempi di guerra. Per non esserne sopraffatti, e a essi sacrificati, occorre muovere guerra ai nostri tempi. Per fare ciò, occorrono primariamente armi e strumenti del pensiero. Punto di vista. Metodo. Rispolverare gli arsenali di un tempo ancora validi, costruirne dei nuovi per le condizioni mutate. Combinandoli, ibridandoli, per sovvertire i tempi dove meno se lo aspettano.

È con questa intenzione che abbiamo contribuito, il 25 maggio al Dopolavoro Kanalino78, a organizzare la discussione con Silvano Cacciari, della redazione di «Codice Rosso» (codice-rosso.net) e antropologo, sul suo ultimo lavoro, La finanza è guerra, la moneta è un’arma. Viaggio tra le forme del dominio (La casa Usher 2024), di cui proponiamo la trascrizione.

Il tema è il rapporto tra capitalismo finanziario e forma della guerra. La trasformazione della guerra sul campo alla luce del più alto livello di sviluppo capitalistico, portando Sun Tzu a Wall Street. La finanza non è semplicemente mercato, ma va situata sul terreno geopolitico: è uno dei piani su cui si combatte la guerra ibrida e senza limiti – di cui Ucraina e Gaza non sono che fronti caldi – intorno cui si stanno organizzando apparati statali, economici e sociali dell’Occidente, e non solo. Dollaro, materie prime e algoritmi sono campi di battaglia non secondari tra imperialismo di Washington e potenze riformiste (o sovvertitrici) dell’ordine globale e della globalizzazione, capaci di radere al suolo economie, piegare società, disgregare Stati. Tra fondi speculativi potenti come eserciti, prodotti finanziari scambiati come colpi di artiglieria, sciami di guerriglieri che dai loro smartphone razziano valore tra bolle e criptovalute, la forma-guerra sta cambiando. Quali sono gli attori e gli strumenti del capitalismo finanziario e del cyberwarfare che imperversano nel caos bellico? In quale misura si fondono alla guerra combattuta sul campo? Quali tendenze delle nostre società portano alla luce?

Buona lettura.

 

Silvano Cacciari

Questo libro si occupa sostanzialmente di tre argomenti: il tribalismo aggressivo delle classi dominanti; l’intreccio tra guerra finanziaria e guerra sul campo, e dunque il ruolo della rivoluzione tecnologica in questo intreccio; e la rarefazione della capacità della politica di fare presa sulla società. La dimensione del politico – non solo quella più vicina alle nostre latitudini, ma anche proprio la dimensione del politico tout court – è infatti sempre più subordinata non solo all’evoluzione, ma soprattutto alle criticità del mondo finanziario. Come sosteneva Carl Schmitt, che non è esattamente un teorico dell’estrema sinistra, nel momento in cui il mondo finanziario fa presa sul pianeta, è la politica ad essere sinistrata.

E se guardiamo alle risposte che, nel corso del XX secolo, la politica (compresa quella istituzionale) ha dato alla finanza, vediamo che, per un certo periodo, furono sorprendentemente aggressive. Per quasi un secolo sono stati proposti una varietà di strumenti di regolazione che hanno, in un certo senso, rinchiuso il genio di nuovo all’interno della lampada: un esempio su tutti sono gli accordi di Bretton Woods del 1944, e a seguire l’avvicendarsi di complesse politiche di regolazione lungo tutti gli anni Cinquanta. Il nostro problema è che, a partire alla fine degli Ottanta, assistiamo a una evidente crisi di accumulazione del capitalismo (all’epoca definito “maturo”), che spinge di nuovo il demone a uscire dalla bottiglia.

Fuor di metafora, possiamo riassumere sbrigativamente la situazione descritta dicendo che negli ultimi quarant’anni il capitalismo finanziario è tornato a riprodursi sul pianeta negli stessi modi nei quali si riproduceva nell’Ottocento, ovvero fondandosi su dinamiche di predazione verso la società e di guerra interna verso i propri avversari. Dunque, la guerra finanziaria è un fenomeno già presente fino all’inizio del Novecento, e che è riemerso al tramonto del periodo fordista e della divisione del mondo in due blocchi. Rimane tuttavia da analizzare come si muove in questa congiuntura specifica e, soprattutto, individuare quale rapporto intrattiene con la guerra guerreggiata – vale da dire con una strategia di aggressione che si fa con strumenti non materialmente cruenti, ma che produce gli stessi danni di una guerra sul campo.

Vi faccio un esempio. Quando l’Italia è stata attaccata dai mercati durante la crisi dei debiti sovrani nel 2011-2012, che cosa è accaduto? È accaduto che durante quel periodo l’Italia ha perso il 15% del Pil derivato dalla produzione industriale in poche settimane. Solo con un bombardamento degno di questo nome potremmo ottenere risultati simili. Ancora prima, nel 2008, nel momento in cui la crisi del subprime si fa sentire al di fuori degli Stati Uniti, c’è un altro paese che subisce profondamente. Questo paese è l’Iran, che nel corso del primo semestre dallo scoppio della crisi perde un terzo del PIL.

Questo per dire cosa? Che la distruttività materiale della guerra finanziaria può essere pari a quella della guerra sul campo. Semplicemente si tratta di una guerra combattuta con altre armi. Ciò che, però, le ultime guerre finanziarie ci obbligano a interrogare è l’intreccio tra guerra finanziaria, guerra sul campo, politica e il ruolo assunto dalla tecnologia. Poiché è da questo quadrilatero che riusciamo a capire come si strutturano i campi di forza del mondo moderno e, dunque, è osservando questo quadrilatero che possiamo cogliere non solo l’elemento di criticità interna, ma anche i punti di rottura e, perché no, di oltrepassamento. Le cose si fanno quindi complicate ma, viste con gli occhi del politico, estremamente interessanti.

 

Intenti teorici

Lasciatemi ora dire due o tre cosette per esporvi gli intenti teorici del mio libro. Per come l’ho concepito io, questo testo è, innanzitutto, una genealogia del potere al livello più alto di dominio, che nasce da un’esigenza teorica di fondo, ovvero la necessità di fare un salto di complessità nell’analisi del potere. Cosa intendo con salto di complessità? Quando ho iniziato a scrivere questo libro, avendo io una prospettiva essenzialmente foucaultiana, e quindi provenendo dalle analisi del potere disciplinare, ero anche parecchio stanco di leggere gli ennesimi studi, sempre uguali, sulle dinamiche di potere negli ospedali, nelle cliniche, nella prigione e via discorrendo. Cose da far slogare le mandibole per gli sbadigli. La mia ipotesi però è che Foucault consegnasse un apparato teorico sofisticato anche per andare su campi che lui stesso non aveva analizzato (è morto abbastanza precoce), cioè la tecnologia e la finanza. Ma la prima scintilla, la molla che mi spinge con urgenza a interrogarmi su un possibile uso alternativo degli strumenti foucaultiani, è l’osservazione in presa diretta della crisi del debito sovrano e di tutto quello che stava accadendo in Grecia.

Per l’inquadramento interpretativo, ho utilizzato anche altri classici, soprattutto tre: Marx, che riecheggia in molte pagine, a volte esplicitamente, a volte in maniera un po’ più caché;  Hilferding e il totem Il capitale finanziario (è anche una questione di formazione: i vecchi militanti, tutte le volte che si parlava di finanza quando ero ragazzo, sentenziavano «devi studiare Hilferding!», neanche fosse un sacrificio rituale, un battesimo del fuoco); e poi ovviamente Lenin e il suo classico L’imperialismo. Il nocciolo, però, è individuare bene sia l’importanza che le criticità che si trovano in tutti e tre gli autori.

Allora, prima di tutto parliamo di Marx, e ne parlo da marxista – per me Marx sarà superabile quando riusciremo a battere il capitalismo, figuratevi un po’ come la penso. Tuttavia dobbiamo riconoscere che l’immagine che aveva Marx del capitale finanziario conteneva un grosso errore di previsione. Quando Marx, nel Capitale, descrive la disintegrazione dei fiorenti docks di Londra per la crisi finanziaria del 1871-1882, ha in testa un’idea ben precisa: a un certo punto, il capitale produttivo, che è razionalizzatore di tendenze, comportamenti, organizzazioni del lavoro, avrebbe razionalizzato anche le banche. Questa tesi, che non sposta di un millimetro l’importanza della sua critica al capitalismo, è un errore di previsione e, forse, anche di profondità storica. In realtà, infatti, furono le banche a impossessarsi del terreno produttivo, iniettando il caos del potere finanziario dentro la dimensione produttiva. Cosa che oggi è sotto gli occhi di tutti.

Passiamo a Hilferding, un quadro socialdemocratico sicuramente da conteggiare tra i grandi classici. Leggendolo in tedesco per inserirmi meglio nei meandri del suo modo di ragionare, mi sono accorto che il problema di Hilferding (così come di Lenin) è che ritornano due importanti storture nella lettura della dinamica tra capitale finanziario e capitale produttivo. Hilferding è assolutamente bancocentrico. Per Hilferding il capitale finanziario è controllato dalle banche e anche oggi, nelle teorie del capitale monopolistico che arrivano fino a noi, c’è sempre questa visione delle banche come organismo ordinatore. Ora, se ci stiamo a recitare il rosario delle crisi bancarie degli ultimi dieci anni, finiamo a settembre. L’ordine bancario e l’ordine finanziario non sono altro che una convenzione teorica, che nella realtà non esiste.

L’ultimo classico, Lenin, scrive nel momento in cui si trova davanti al problema, teorico e politico insieme, della censura. Lenin in quel momento può studiare solo su un campione molto ristretto di fonti; guarda caso, Lenin e le sue fonti parlano solo del potere concentrazionario della Deutsche Bank all’inizio del XX secolo. In realtà, se Lenin avesse avuto l’opportunità di studiare il caos finanziario dell’Ottocento americano, che già dominava il mondo, avrebbe avuto uno sguardo molto, molto meno dipendente da Hilferding e dalle sue concezioni del potere bancario.

Questo per dire cosa? Che stando così le cose, per rimettere su binari più proficui le nostre ricerche su cos’è, oggi, la guerra finanziaria – e quindi sui suoi legami con la guerra sul campo, con lo sviluppo tecnologico e con la politica istituzionale – dobbiamo sgomberare il campo di ciò che, nei testi della nostra tradizione, agirebbero alla stregua di luoghi comuni, come convinzioni ingiustificate affermate a priori e dunque come ostacoli all’interpretazione oggettiva. Dopotutto, come diceva un mio vecchio compagno, i classici non hanno la barba del Profeta.

Ancora meno in soccorso ci viene la pubblicistica liberale e mainstream, orbitante in una maniera più o meno consapevole intorno alle teorie dell’equilibrio economico generale. Spesso infatti, anche in autori molto sofisticati, le crisi finanziarie vengono viste come crisi di efficienza, o addirittura qualcosa mosso – l’ho letto in testi di alcuni premi Nobel – da quella che viene chiamata “l’avidità umana”. Ma voi pensate veramente che una categoria così banale spieghi quello che accade in borsa? In realtà le crisi finanziarie sono determinate da una logica conflittuale che non guarda assolutamente in faccia a nessuno, e tende a produrre profitti, nuove occasioni di valore semplicemente o gonfiando all’inverosimile gli indici, oppure deprimendoli quando si fanno le scommesse a ribasso. Questa dinamica caotica ha un rapporto profondo con la guerra. Capirete che è un po’ più complesso della semplice visione primonovecentesca dell’omino con la tuba che finanzia la guerra.

 

Guerra finanziaria

Allora, noi che cosa sappiamo della guerra finanziaria? Cosa ci dice la letteratura più interessante dedicata all’antropologia di Wall Street e ai comportamenti dei gruppi sociali attivi nella borsa? È presto detto. La dimensione della borsa è una dimensione d’anarchia, di indipendenza dal potere centrale, di tribalismo legato alle aggregazioni spontanee che si formano per estrarre moneta dai conflitti finanziari. Infatti l’autore che, a mio avviso, spiega meglio questo genere di comportamenti è un anarchico, Pierre Clastres. L’idea che mi sono fatto confrontandomi con questi studi è che gli aggregati finanziari, che io definisco neotribali, si riproducono socialmente grazie al conflitto (in questo caso, il conflitto finanziario) e grazie – attenzione – a una profonda indipendenza da ogni potere centrale, ivi compreso il potere di regolazione della borsa. Questo genera una dinamica caotica all’interno dei mercati finanziari, e una dinamica parimenti caotica nei rapporti tra finanza, economia e società.

Prima di procedere, è opportuno avere ben chiaro un altro importante tassello della nostra riflessione. Innanzitutto, se osserviamo la nuova dinamica della guerra, cioè quella che si è aperta a partire dagli anni Novanta, dobbiamo riconoscere che anche la guerra è cambiata. La guerra finanziaria è tornata a esplodere, dopo l’Ottocento, con una furia sempre più sofisticata e devastante poiché gode di una potenza tecnologica imparagonabile rispetto al passato. Se la finanza, per più di un secolo, si è retta su uno strumento molto fragile (e che pure connetteva il mondo) come il telegrafo, con l’accelerazione tecnologica inaugurata dall’informatica aumentano le capacità delle guerre finanziarie di estendersi sulla società e si inaspriscono in intensità le loro capacità di devastazione. Ciononostante, l’elemento dirimente rimane l’incrocio con la guerra guerreggiata, con la guerra sul campo.

La guerra sul campo degli anni Novanta è molto diversa rispetto al modello della battaglia campale, agli scontri di milioni di persone contro milioni di persone. Yugoslavia, la prima guerra del Golfo, poi l’Afghanistan, l’Iraq di nuovo, infine la Siria… Queste vicende testimoniano con crudele inflessibilità che il conflitto sul terreno è sempre meno l’unico fattore a risolvere, stabilmente e non temporaneamente, gli esiti di una guerra. Assomigliano molto di più a quelle guerre premoderne che avevano una certa abitudine a durare: se guardiamo al conflitto tra Israele e Palestina, siamo vicino a una nuova guerra dei cent’anni. Inoltre, il terreno di scontro si estende agli ambiti, a prima vista, di pace. I più acuti osservatori di questa trasformazione della guerra, della sostituzione del momento decisivo con una conflittualità che tende a diventare permanente, sono gli ex colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui in testi di strategia militare fondamentali come Guerra senza limiti e L’arco dell’impero. Sono risorse preziosissime, a cui un militante comunista dovrebbe prestare parecchia attenzione se vuole cogliere le trasformazioni del conflitto sociale e del political warfare.

Nel momento in cui il conflitto sul campo è sempre meno decisivo per risolvere gli esiti di una guerra, allora tutti i fatti della vita umana vengono bellicizzati. Guai a sottovalutare questo punto. La guerra, dunque, è cambiata e i conflitti sul campo sono sempre meno decisivi per vincere; e però, le guerre si fanno, e le guerre si devono vincere.

Di pari passo è cambiata la guerra finanziaria. Grazie all’estensione tecnologica, ogni fatto della vita umana diviene sempre di più uno strumento di guerra. Le pensioni – delle quali in Italia abbiamo ancora un’idea meno liberista che altrove, perché non ci sono riusciti a cambiarle, ma solo a soffocarle – sono uno straordinario elemento di guerra finanziaria. Sono un esempio paradigmatico gli Stati Uniti, il Giappone e i fondi finanziari tedeschi: qui si dispiega al massimo grado la capacità di attirare capitale da chi deve costruirsi una rendita pensionistica, per poi predare valore speculando sui mercati. La pensione, che finora la riflessione accademica ha interpretato come l’istituzionalizzazione di un dispositivo biopolitico, diventa un momento della guerra finanziaria. Quindi, riassumendo, assistiamo a un’estensione della guerra finanziaria e della guerra sul campo ben oltre i terreni dai quali erano originate.

 

Guerra ibrida

A questo punto, vi anticipo due domande che sicuramente mi farete. Se questa è la guerra, come si risolve? La risposta teorica a un problema aperto dai nostri colonnelli cinesi è una risposta russa. Il concetto di guerra ibrida, che ogni tanto ritorna evocato come uno spettro, è in realtà una elaborazione teorica di alcuni generali dell’ex Armata Rossa e che si condensò in quella che passò alla storia come dottrina Gerasimov. Secondo questa prospettiva, in un contesto di guerra ibrida (o, per usare il lessico russo, di guerra non-lineare) il vantaggio sul nemico si ha qualora si riesca a sincronizzare meglio di lui tutti gli elementi, sul campo e fuori dal campo, presenti in un conflitto. Quindi, oltre alla logistica – la cui rilevanza ormai l’hanno imparata anche i bambini – diviene una questione di vita o di morte sincronizzare la guerra finanziaria, la guerra economica, la guerra commerciale, la guerra di comunicazione e propaganda, la capacità di abbattere le materie prime del nemico, di togliergli i flussi di finanziamento, e di influire anche sullo spostamento delle popolazioni.

E gli americani? Ebbene, un anno dopo la traduzione in inglese del testo canonico del 2005 sulla guerra ibrida formulata dai russi, gli americani hanno cominciato a clonare teorie e tecnologie legate a questo campo. Come sapete meglio di me, a questo punto, se guardiamo al conflitto russo-ucraino, siamo di fronte a due concezioni differenti della guerra ibrida: una basata sul proxy, cioè l’Ucraina, e quella dello Stato maggiore russo, che tende a applicare le strategie apprese sul campo poi a partire dalla Siria.

 

La tecnologia

A questo punto, diventa naturale chiedersi quale sia il ruolo della tecnologia nell’ibridazione tra guerra finanziaria e guerra sul campo. Il ruolo della tecnologia è fondamentale, poiché ha formato quello che nel testo chiamo uno “spazio non naturale”, ovvero uno spazio di coabitazione, di sinergia tra tattiche della guerra e tattiche finanziarie che diventava uno spazio di potere e di coercizione ben più ampio della dimensione stessa del politico.

Facciamo un passo indietro. Se noi recuperiamo i capisaldi del realismo politico, Weber e Schmitt, dobbiamo operare dei corposi aggiustamenti alle loro teorie – forse persino più ingenti rispetto a quelli alle tesi sull’imperialismo della tradizione marxista. Intanto, il capitalismo finanziario è qualcosa di radicalmente diverso da quello che pensava Weber, convinto com’era che l’accumulazione capitalistica fosse sostanzialmente prodotta da ceti ascetici dedicati solo ed esclusivamente alla razionalità economica dell’accumulazione del denaro: in realtà, la finanza ci mostra esattamente il contrario, per non parlare poi dei comportamenti degli attori in borsa (che non sono certo dei campioni di austerità). Passando all’altro lato della medaglia, ovvero al Politico, dobbiamo distinguere le diverse visioni della politica che ha Schmitt. Perlomeno a partire dagli anni Trenta, come è noto, Schmitt inizia a parlare della politica dei “grandi spazi”, e cerca quindi di superare una concezione della politica incentrata sullo Stato-Nazione; gli sfuggirà il fatto che le tecnologie che si svilupperanno in seguito, dopo la sua morte, sono arrivate a formare uno spazio, appunto, non naturale. Uno spazio più potente, dal punto di vista del politico, dello stesso Großraum, cioè del “grande spazio” e della politica marittima internazionale. Ed è precisamente questo il punto sul quale noi ora ci collochiamo per osservare il potere: lo spazio non naturale.

In un contesto così marcatamente contrassegnato dall’influenza dell’evoluzione tecnologica, è da capire che cosa sia la politica nel momento in cui si costituiscono grandi spazi tecnologici che condensano potere di forme diverse (il potere della finanza, il potere della guerra, il potere della comunicazione, eccetera).

 

La politica

Che cos’è, oggi, la politica? Von Clausewitz, senza saperlo, riprende il ruolo che nel lontanissimo passato aveva avuto Sun Tzu, cioè quello di essere al contempo un filosofo e un teorico della guerra. Nella sua trattazione sulla natura della politica, come è noto, fa questa affermazione: «La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi». Poi però dice qualcosa di più. Dice: «La guerra non è solo un atto politico, ma un vero e proprio strumento della politica». Von Clausewitz è consapevole che nell’epoca moderna il fenomeno della guerra è saldamente in mano alla politica e allo Stato sovrano. Ma noi siamo sicuri che oggi sia ancora così?

In realtà, a mio avviso, le cose sono cambiate. La politica, nel quadro che vi ho fatto, è la continuazione della guerra ibrida con altri mezzi. Il rapporto tra guerra e politica è completamente rovesciato.

Quando alla politica sfugge di mano la guerra (cosa che sia prima che durante la modernità, era probabilmente all’ordine del giorno), è la dimensione neoliberistica del caos, cioè il caos funzionale all’estrazione di profitto, che riesce a farsi presente, pressante e dominante rispetto alla forza della politica, ivi compresa la forza del Politico sovrano borghese. Ma anche le altre dimensioni coinvolte nella guerra ibrida – la gestione energetica, le materie prime, la stessa comunicazione, eccetera – tracimano continuamente dal controllo politico. Anzi, è la politica a diventare strumentale, ad essere sussunta dalle dinamiche caotiche della guerra ibrida. E sta precisamente qui questa la radice dell’importanza che ha per noi la corretta comprensione dei fenomeni finanziari.

 

La scienza

Voi mi chiederete: ma quindi, qual è la principale forza produttiva in tutto questo? Ora, converrete con me nel non concedere alcun credito, in questo genere di analisi, a dinamiche antropomorfiche. Come credo anche voi, io non penso che la guerra sia un fenomeno di “impazzimento” del potere o della società. Non ho alcuna idea meccanicistica della guerra, né penso che sia questione di odio e ideologie. Sono tutte cazzate. Ma la domanda resta valida: quali sono, in ultima istanza, gli elementi forti della produzione di guerra nel nostro mondo?

Per come la vedo io, se vogliamo cogliere la dinamica che spiega il continuo susseguirsi di guerre sulla superficie della nostra globalizzazione, noi dobbiamo dimenticarci il fattore umano, e andare a un nodo del potere, oltretutto innestato nella finanza, del mondo di oggi: la scienza contemporanea e le sue modalità di riproduzione. Quello che un tempo si chiamava scienza postmoderna, oggi è evoluta. Nella scienza contemporanea riscontriamo due caratteristiche che, tanto per capirsi, assomigliano molto sia ai fattori produttivi dell’economia e ai fattori distruttivi della guerra.

La prima caratteristica della scienza contemporanea è quella di riproduzioni per brainstorming, attraverso elementi di rottura e di innovazione che tendono a impattare violentemente sul campo. Ciò vale per il marketing come per la produzione di strumenti di guerra. Il secondo aspetto della scienza contemporanea è la capacità di riprodursi affermandosi sul campo a prescindere da diritto e legittimazione. Oggi le armi si fanno, il diritto viene dopo, non so se mi spiego. Per esempio, il grande problema della regolazione etica degli algoritmi bellici può sembrare un tema per nerd o periferico, ma in realtà riassume il cuore tecnologico della guerra contemporanea, trattandosi niente meno che delle esigenze di regolazione di dispositivi che finiscono puntualmente per sfuggire al regolatore. È una caratteristica tipica della scienza postmoderna, che si è riprodotta a prescindere dal diritto e che poi è finita per impattare sulla produzione e sulla guerra. L’ultima caratteristica che è tipica della scienza contemporanea è il fatto di riprodursi attraverso processi di accelerazione.

Tutte queste caratteristiche della scienza moderna – innovazione impietosa, autonomia da diritto e regolazione, riproduzione tramite accelerazione – le ritroviamo nell’economia e nella guerra contemporanea. Ai fattori ideologici ci pensa semmai chi ha voglia di farsi un bel dottorato in mediazione dei conflitti; chi si occupa di politica, no.

Per quanto io non nasconda il mio affetto per Toni Negri, capirete che quello di cui abbiamo parlato è una dimensione di caos e di accelerazione delle dinamiche economiche un po’ diversa dall’Impero, che invece veniva sostanzialmente concepito come un nuovo ordine in procinto di stabilirsi sul mondo.

Insomma, cosa ci serve definire le dinamiche della guerra finanziaria, tratteggiarne il rapporto che intrattiene con la tecnologia e la guerra sul campo, e infine sviscerare l’origine della subordinazione della politica in questa congiuntura? Da qui occorre partire per individuare quali possano essere le direzioni lungo le quali una politica radicale, coraggiosamente estrema (delle altre ci interessa poco), deve saper innovare per uscire da questa gabbia.

 

Ucraina e Gaza

A mio avviso riusciamo a capire la connessione tra guerra finanziaria e guerra sul campo attraverso due scenari differenti. Il primo è il terreno russo-ucraino, il secondo palestinese-israeliano.

Che rapporto c’è tra guerra finanziaria e guerra sul campo in Ucraina?

Nel 2008 esplode la crisi di Lehman Brothers, ed esplode anche l’Ucraina. Almeno metà della ricchezza viene spazzata via, e si creano dinamiche di separazione dello Stato ucraino per cui una parte degli ucraini guarda all’Est e una parte guarda all’Ovest. L’Ucraina è un epifenomeno, un effetto collaterale di Lehman Brothers. Ci sono effetti collaterali della guerra finanziaria che possono scatenarsi anche a distanza di quindici anni, che alla generazione successiva arrivano come guerra sul campo. È una dimensione storica che dobbiamo riconoscere. Poi però, quando scoppiano le guerre, i due elementi, quello della guerra finanziaria e della guerra sul campo, finiscono per toccarsi e fondersi. Noi sappiamo benissimo che questa guerra è scoppiata nel 2014. In quel momento di fatto c’è stata, da una parte, una secessione dall’Ucraina delle due repubbliche di Donetsk e Lugansk, dall’altra l’attacco alla borsa di Mosca da parte di speculatori finanziari legati allo Stato federale americano, e a seguire da uno sciame di speculatori privati che semplicemente volevano razziare come piraña attraverso questa dimensione.

Quindi c’è un processo a fisarmonica tra guerra finanziaria e guerra sul campo: i due piani tendono a unificarsi e a separarsi.

Gli effetti collaterali sono figli del caos, ed entrano in sincronia nel momento in cui le crisi si fanno sempre più devastanti. Guardiamo alle primavere arabe del 2011. Rivolte provocate anche da un effetto collaterale del quantitative easing americano, che innescò un rialzo dei costi delle materie prime alimentari che alimentò le rivolte nel Nord Africa e in Medio Oriente.

Ora, che cos’è lo Stato israeliano? Il punto è proprio questo. Lo Stato israeliano è un formidabile complesso militare-industriale che gode di un continuo processo di finanziamento da parte di entità finanziarie israelo-americane. Questo complesso militare-industriale ha nutrito una dimensione tecnologico-bellica che è di primissimo livello. A pensare in modo consapevole la guerra ibrida non sono stati solamente i russi, ma con grande intelligenza, va detto, anche gli israeliani.

Lo Stato di Israele ha portato al suo acme la guerra ibrida, sia per la capacità tecnologica (uso dell’intelligenza artificiale nelle azioni di bombardamento da parte dell’Idf), sia con l’asset della comunicazione (sappiamo benissimo che buona parte della comunicazione istituzionale occidentale è assolutamente subordinata alle esigenze di Tel Aviv) sia attraverso quell’elemento ibrido che è la politica della popolazione: sul campo, l’espulsione dei palestinesi da Gaza e dai loro territori è un elemento della guerra ibrida di grande forza. C’è uno strapotere immenso da questo punto di vista.

 

Caos e ordine

Un’idea di ordine non appartiene al complesso finanziario statunitense. Dove c’è la moneta – e in particolare il dollaro – c’è il caos. Però, qui, dobbiamo capire dove sta l’ordine e dove sta il caos. Il mondo finanziario è una dinamica di scambio di beni e di servizi, di moneta e derivati, che contiene, oltre a questa dinamica di scambio, anche la guerra finanziaria. Il problema del capitalismo finanziario è produrre valore nel momento in cui è difficile produrlo, quindi produrre valore tramite il caos rimandando sempre tuttavia a una dimensione di ordine. E qui, per intenderci, entra in gioco la dimensione della complessità.

La complessità è una dimensione intrecciata di livelli incredibili di caos e livelli rigidi di ordine. Se noi andiamo a vedere gli ultimi cinquant’anni vediamo come gli Stati Uniti per risolvere i loro problemi hanno immesso immancabilmente caos nel sistema. Questa emissione di caos nel sistema ha epicentro il 15 agosto 1971, cioè lo sganciamento del dollaro dall’oro da parte di Nixon. Gli Stati Uniti davano inizio a un ciclo di accumulazione di valore finanziario che è arrivato fino a noi. Però l’esigenza dei sistemi economici e politici non è solo quella dello scatenare il caos nei momenti in cui è necessario; c’è sempre, in un approccio complesso, anche il problema della produzione di ordine.

Cos’è che negli Stati Uniti produce ordine? La Banca centrale? Fino a un certo punto. In realtà il vero elemento di ordine americano è il dollaro: ovvero la capacità di far comprare dollari di debito americano dal resto del mondo. Quindi, se i mercati finanziari si possono permettere il caos, di accumulare ricchezza tramite il caos, è perché vi è una dimensione di ordine, che è la dimensione del dollaro. Stiamo attenti che la fine di questa dimensione non è così vicina come magari qualche compagno preconizza. La differenza degli interscambi in dollari rispetto a quelli con altre monete è la stessa che c’è tra Malta e il Canada, due dimensioni assolutamente incomparabili.

 

Complessità e rottura

Chi volesse muovere critica al dominio del presente attraverso la ricerca e la pratica di elementi di rottura, dovrebbe saper cavalcare il caos e rompere gli elementi di ordine della complessità capitalistica. Il capitalismo non è l’ordine, il capitalismo è la complessità, questo continuo intreccio di ordine e di caos con la capacità di attraversare epoche profondamente diverse. Il problema è rompere questa complessità. È evidente che una teoria di rottura radicale deve capire come appunto è cambiata la guerra e soprattutto come è cambiata la politica. Se la guerra oggi è la continuazione della guerra ibrida con altri mezzi, è evidente che si tratta di comprendere quali sono le dimensioni della guerra ibrida nel momento in cui si fa politica dal basso.

 

Appendice dell’autore

– Primo. Dobbiamo innanzitutto capire che questa è una società profondamente invecchiata. Cioè, la curva demografica non può essere ignorata. Noi non potremo avere masse di studenti, militanti, come negli anni Settanta.

– Secondo aspetto, le classi subalterne non sono lontane da processi di radicalizzazione, però sono lontane dalla lingua che fa la politica oggi. Nel mondo di oggi conta molto di più un linguaggio che ha due caratteristiche, apparentemente inconciliabili: l’emotività e l’estrema concretezza. Noi abbiamo proletari che giocano attraverso app fintech del proprio smartphone una parte dei loro redditi (in borsa, in criptovalute, in scommesse) perché hanno bisogno di reddito e quindi sono abituati a ragionare per istinto e per calcolo. Il linguaggio della politica, così come lo conosciamo, ha poco di istintivo, e il calcolo non sa nemmeno dove sta di casa, cioè ripete una serie di temi culturali. Però la politica è un’altra cosa.

– Terzo, oggi non è possibile una politica che non sia leninista, non è possibile una politica che non abbia in sé l’elemento professionale. Cioè, senza il professionismo militante della politica voi oggi la politica non la fate. Fate una stagione di movimenti, gloriosa, la piazza, insomma, tutto quello che conosciamo, però poi finisce lì, venti giorni, un mese, un anno, due anni, poi alla fine si esaurisce.

–  Quarto, una dimensione professionale che sia tecnologica. Ogni proletario ha i propri device e se non siamo in grado di comunicare con i device del proletario probabilmente è meglio darsi allo sport, che è anche un po’ più gratificante. Quindi le classi subalterne vanno sapute intercettare con una capacità, un linguaggio molto istintivo e molto compresso, che guardi più all’onirico.