E alla fine hanno calato l’asso di denari.
Era questione di tempo, lo sapevano tutti i giocatori di briscola da bar. La compagine renziana ha apparecchiato il tavolo, ed è bastato questo perché qualcuno sfruttasse l’occasione, senza andare a scomodare inutili dietrologie. D’altronde, i giocatori erano da un po’ che si scambiavano segni, tutt’altro che inintelligibili.
La partita iniziata il 4 marzo 2018 ha preso una piega beffarda. Inaugurata come l’avvio della “Terza repubblica”, nata dalla rivoluzione nazionalpopulista di Movimento 5 Stelle e Lega, degli “esclusi”, degli “euroscettici”, del “popolo” contro le “élite”, i “competenti”, gli “eurocrati”, ha prima visto lo sbriciolamento del “Governo del cambiamento” giallo-verde tra un Papeete e un Mojito di troppo, poi la cannibalizzazione di quello giallo-bianco (altro che rosso…) da parte di un altro non meno spregiudicato Matteo, questa volta in piena crisi pandemica. Per concludersi con Mario Draghi, il simbolo, l’incarnazione, il boss-finale di tutti quei poteri sovranazionali, monetari e tecnocratici entro il cui contrasto e superamento la “rivoluzione” era stata combattuta – o, semplicemente, raccontata.
Insomma, nel giro di neanche una legislatura, siamo passati dall’Italia “laboratorio politico” di Steve Bannon all’uomo della Bce al comando. In tre anni, tutto appare finito. La “rivoluzione” è sconfitta. È il Termidoro, per usare una terminologia a noi più evocativa. Si torna da capo, alla “normalità” della crisi e della sua gestione. Si ritorna al business as usual, al pilota automatico precedente al “momento populista” che, dagli Stati Uniti all’Italia, ha increspato gli assetti politico-istituzionali dell’Occidente.
Ma è davvero, solo così?
Non un semplice Monti 2
Sono stati dieci gli anni impiegati dall’inizio della grande crisi, quella del 2008, vero epicentro di medio periodo di questi avvenimenti, per portare quella spinta al “cambiamento” che, sull’onda della Brexit e dell’elezione di Trump, a un certo punto, prima del Covid-19, è sembrata inarrestabile, dentro i famigerati palazzi del potere.
Anche noi abbiamo fatto parte di questa storia. C’è un filo che va dall’esaurimento (o sconfitta) delle piazze dell’Onda – ma anche di Occupy Wall Street, degli Indignados, con la retorica del 99% contro l’1% –, dove una generazione politica e militante si è forgiata, all’esplosione del movimento dei Forconi nel 2013 – per non parlare poi dei Gilet Jaune… – fino all’attentato suprematista del lone wolf Luca Traini durante la “turbolenta” campagna elettorale del 2018, la quale ha sancito la legittimazione democratica e l’ingresso delle forze “anti-sistema” nell’arena di governo.
Sono sempre stati dieci gli anni intercorsi dal 2011 – con la defenestrazione di Berlusconi e l’investitura di Monti – tra governo tecnico e governo tecnico, entrambi di “salvezza nazionale”, entrambi guidati da un Super Mario col compito di salvare, e liberare, l’Italia dall’Italia stessa, grazie alla propria superiore, responsabile, competenza tecnica. Prima contro la crisi del debito sovrano, poi contro la crisi del virus globale.
Per questo crediamo sia fondamentale, in questo passaggio di (tentativi di) riassestamento e ristrutturazione sistemici, tanto a livello economico quanto sociale e politico, decifrare il ruolo di Draghi e del suo governo senza sovrapporlo a quelli di Monti.
Il governo Draghi potrebbe non essere solo o semplicemente un Monti 2. Questo sembra scontato, ma bisogna averlo bene in mente. In questo momento è necessario osservare il livello delle discontinuità piuttosto che delle continuità. Quindi facciamo attenzione a ritirare fuori, come una reazione pavloviana, l’armamentario retorico e gli striscioni messi in soffitta dopo il 2011 (anche se qualcosa andrebbe rispolverato… do you remember debito?), soprattutto se a distanza di un decennio con quel ciclo di mobilitazione e soggettività ancora facciamo fatica a farci i conti.
C’è tutta una fase che è cambiata. In questi dieci anni c’è stato di mezzo un “momento populista” – senza offesa per i narodniki – che ha profondamente scavato, nelle sue convulsioni, nelle sue espressioni, nelle sue lotte intestine come nella direzione su cui infine si è assestato, nel corpo sociale, ma anche nel campo politico e istituzionale. E ha sedimentato. Non è un caso che gli analisti più lucidi – non importa se reazionari – abbiano cominciato a definire tecnopopulismo la nuova traiettoria politica che vede la cooptazione di elementi e stili dall’uno e dall’altro campo nel meccanismo del potere (un esempio può essere Macron). La frazione di classe dominante egemone, per continuare a governare attraverso i suoi ceti dirigenti, ha bisogno dell’innovazione, in questo caso di selezionare, addomesticare e fare sue le spinte contrarie provenienti dall’esterno, utilizzabili per fare un salto in avanti in termini di compatibilità e stabilità.
Che questo governo “tecnico” – i governi non sono mai tecnici, ricordiamolo a scanso di equivoci: dietro il velo della neutralità, dell’oggettività, della titolarità della competenza si nascondono precisi indirizzi politici, economici, sociali – potrebbe non essere un semplice “Monti 2” lo si può intuire leggendo gli ultimi interventi dello stesso Draghi su “foglietti” come il «Financial Times»: lo Stato dovrà sostenere l’economia, la ripresa, la produzione – dalla parte delle imprese… e il consumo? – facendo e perfino cancellando debito (abbandonando, con un colpo di spugna, dogmi impressi nel sangue di intere popolazioni come quella greca); dovrà sostenere l’occupazione, le famiglie e allargare forme di welfare sotto forma di «basic income», ovvero di reddito di base (formula crediamo non usata a sproposito dallo stesso Draghi).
In questo giro di giostra, probabilmente, non ci saranno (solo) tagli. Saranno presenti risorse e spese (per chi e su quale modello?) e ovviamente “riforme” – in cambio del tesoro europeo del Recovery Fund, più di 220 miliardi di euro, di cui Draghi è stato scelto come amministratore: un bel lubrificatore economico per gli interventi sociali e politici che si stagliano all’orizzonte, oltre che la torta intorno a cui tutti i partiti si stanno sedendo per agguantarsi un pezzo per i propri padrini (paradigmatica la “trasformazione” di Salvini…).
Pescare l’asso di bastoni
C’è tutto un rapporto tra Draghi e Unione Europea, Draghi e classi dominanti italiane, Unione Europea e ceti dirigenti italiani che va sciolto senza tornare ripetere formule che non corrispondo più (almeno non tutte) alla situazione odierna… Senza neanche andare a scomodare il contesto geopolitico di decadimento europeo, stretto tra i due veri attori che si contendono l’indirizzo e l’egemonia sulla globalizzazione post-pandemia, Stati Uniti e Repubblica popolare cinese.
«Il vecchio adagio dell’abate Sieyés “fiducia dal basso, autorità dall’alto” si è rotto, trasformandosi nella ben più debole formula “sfiducia dal basso, dirigismo dall’alto” o, in termini più moderni, “populismo dal basso, tecnocrazia dall’alto”».
Populismo e tecnocrazia sono due facce dello stesso movimento storico in cui ci troviamo ad agire. Si sono alimentati a vicenda fino al cortocircuito provocato da un evento “inaspettato” come una pandemia globale. Guardando indietro, può sembrare che il «Que se vayan todos!» dei movimentidel 2010-2011 non potesse che avere come corollario il «Lasciate fare ai competenti». Siamo consapevoli però che la direzione che prende un processo sia impressa dai rapporti di forza che si è in grado di costruire, organizzare ed esercitare nella tensione tra contingenza e tendenza.
Il nodo politico da sciogliere oggi, a livello di spazio d’azione e organizzazione, crediamo sia porsi contro la tecnocrazia dei competenti senza cedere al recupero della democrazia, dei gruppi e del parlamento (la tecnologia di depoliticizzazione e inibizione democratica del conflitto, anche nelle sue versioni di sinistra e “movimentiste”), e viceversa.
Dieci anni di speranze, illusioni e delusioni verso un “cambiamento” che non c’è stato lasciano sul terreno un irrisolto: questo può trasformarsi in campo di battaglia politica, soprattutto in un passaggio di fase di approfondimento e chiarificazione della crisi scaricata sui subalterni, che vede una composizione sociale iperproletaria in cui declassamento rovinoso di alcuni segmenti di ceti medi (salariati e autonomi) si mischia a timidi comportamenti di attivazione giovanile tutti ancora da decifrare.
Come radicalizzare e organizzare il sentimento dell’odio, della sfiducia e del disprezzo verso la politica di palazzo, dei santoni e dei partiti senza andare a portare l’acqua al mulino della soluzione tecnocratica e dirigista da una parte e nella difesa della democrazia, dei politici e della rappresentanza dall’altra?
È questa una domanda da un milione di… dogecoin, che ci facciamo non come semplici spettatori della partita più importante, quella della nostra parte sociale, in attesa che essa entri in gioco con l’asso di bastoni.